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PARTE SECONDA Proposta di traduzione di Bad Dad e commento

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Academic year: 2021

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PARTE SECONDA

Proposta di traduzione di Bad Dad

e commento

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3. Proposta di traduzione di Bad Dad di David Walliams

UN PESSIMO PAPÀ

Esistono papà di un‟infinità di forme e dimensioni. Ci sono quelli grassi e quelli magri, quelli alti e quelli bassi. Ci sono quelli giovani e quelli vecchi, quelli intelligenti e quelli stupidi. Ci sono quelli sciocchi e quelli seri, quelli chiassosi e quelli silenziosi. E naturalmente ci sono i bravi papà e i pessimi papà.

Questa è la storia di un papà e di suo figlio.

Franco è il figlio.

Papà è il papà. Si chiama Gilberto. Questa è Rita, la mamma di Franco.

Zietta Ina è la zia di Papà. Fa la babysitter a Franco qualche volta.

Il Signor Grosso è un boss della malavita incredibilmente piccolo. A qualunque ora del giorno e della notte indossa un pigiama di seta e una vestaglia, con tanto di pantofole di velluto ricamate con le iniziali “Sig. G”.

Il Signor Grosso ha due scagnozzi, Oreste Manileste e Lucianone Pollicione. Il primo si chiama così per le sue lunghe dita sottili, perfette per il borseggio; l‟altro perché ha due enormi pollici che usa per infliggere un dolore tremendo ai nemici del Signor Grosso.

Luca e Leone sono i tremendi nipoti di Lucianone Pollicione. Chang è l‟inquietante maggiordomo del Signor Grosso.

La Reverenda Giuditta è la vicaria della chiesa. Il Sergente Zimbelloni è il poliziotto locale.

Pietro Occhiovetro è la guardia della prigione.

Il giudice Pilastro è rinomato per avere il cuore di pietra.

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CAPITOLO 1 ROAR!

ROAR! fece l‟auto di Papà mentre sfrecciava sulla pista sterrata. Il padre di Franco era un pilota. Era uno sport pericoloso. Le auto si potevano scontrare l‟una con l‟altra…

BANG! BUM! PATAPUM!

… mentre sfrecciavano tutto intorno.

Papà gareggiava con una vecchia Mini che lui stesso aveva truccato. Aveva dipinto la bandiera britannica sulla macchina e l‟aveva chiamata “Reginetta” in onore di una signora che ammirava, Sua Maestà la Regina. E l‟auto era diventata tanto famosa quanto Papà nell‟ambiente delle corse. Il motore di Reginetta emetteva un rumore inconfondibile, come il ruggito di un leone. ROAR!

Papà era il Re della Pista. Era il miglior pilota che si fosse mai visto in città. Le persone venivano da tutto il paese per vedere le sue gare. Nessuno aveva vinto più volte di lui. Settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno alzava un trofeo al cielo con la folla che lo acclamava e urlava il suo nome.

GILBERTO IL GRANDRE! GILBERTO IL GRANDE! GILBERTO IL GRANDE! GILBERTO IL GRANDE!

La vita della famiglia era stupefacente. Dato che Papà era un eroe locale, tutti volevano conoscerlo. Quando portava suo figlio fuori a mangiare pasticcio e purè, il proprietario del negozio dava loro una porzione doppia e dopo non li faceva pagare un penny. Se Franco stava camminando per la strada col padre, le persone che passavano in macchina suonavano il clacson … BIP! BIP!

… e sorridevano, e salutavano con la mano. Il ragazzo si riempiva di orgoglio quando accadeva. A Franco fu anche alzato il voto a un esame dal professore di matematica, dopo che quest‟ultimo ricevette la foto fatta con suo padre alla riunione dei genitori.

Ma non c‟era più grande fan di Papà che il suo stesso figlio. Il ragazzo adorava suo padre. Per lui era un eroe. Franco desiderava tanto diventare un grande pilota di auto da corsa come suo papà un giorno. Il suo sogno era di guidare Reginetta.

Come vi potrete immaginare, padre e figlio si assomigliavano. Erano entrambi bassi e rotondetti, con le orecchie a sventola. Sembrava che qualcuno avesse messo il papà in

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una centrifuga, dalla quale era uscito il figlio. Di tutti bambini a scuola, Franco sapeva che non sarebbe mai stato né il più alto né il più bello, né tantomeno il più forte, il più intelligente o il

più divertente. Ma aveva visto la magia e l‟ammirazione che il padre suscitava attorno a sé con la sua abilità e il suo coraggio sulla pista. E avrebbe voluto provare lo stesso anche lui.

Quanto a Papà, aveva proibito al figlio di guardarlo correre. La notte iniziava con venti macchine che andavano a tutta velocità sul circuito ovale, ma prima della fine ne rimaneva soltanto una. Spesso i piloti si ferivano gravemente negli incidenti e a volte anche gli spettatori, se le auto si schiantavano contro le tribune.

“È pericoloso, amico”, disse Papà. Gilberto chiamava sempre suo figlio “amico”. Erano padre e figlio, ma soprattutto migliori amici.

“Ma, Papà...” supplicava il ragazzo mentre suo padre gli rimboccava le coperte. “Niente „ma‟, amico. Non voglio che tu mi veda farmi del male”.

“Ma tu sei il migliore! Non ti succederà mai!”.

“Ho detto „niente ma‟. Adesso andiamo, fai il bravo. Diamoci un abbraccione

coccolone1 e dormi.”

Papà stampava sempre un bacio sulla fronte al figlio, prima di uscire per la gara. Quanto a Franco, chiudeva gli occhi e faceva finta di essersi addormentato. Eppure, appena sentiva la porta chiudersi, strisciava fuori dal letto e camminava carponi lungo il corridoio fino alla porta d‟ingresso per non mettere in stato d‟allerta sua madre. Quando il marito non era in casa, la donna si rinchiudeva sempre in camera e parlava sommessamente al telefono. Ancora in pigiama, il ragazzo correva fino alla pista.

Proprio fuori dallo stadio c‟era una torre altissima di vecchie auto arrugginite, che erano state distrutte nelle precedenti corse. Franco si arrampicava sulla cima del cumulo di macchine. Da lassù aveva la visuale migliore sulla gara. Il ragazzo si sedeva a gambe incrociate sul tetto dell‟auto più alta, e guardava le vecchie auto sfrecciate a tutta velocità. Tutte le volte che “Reginetta”, la Mini di suo padre, gli sfrecciava davanti con un ruggito, il ragazzo applaudiva.

“VAI PAPÀ, VAI!”.

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Un abbraccione coccolone era il modo che i due avevano di definire un tipo speciale di abbraccio. Era qualcosa a metà strada tra un abbraccio e una coccola, da qui il nome.

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Papà non aveva idea che suo figlio fosse lassù. L‟uomo gli aveva proibito di guardarlo correre, perché temeva potesse accadere il peggio.

Una notte accadde.

CAPITOLO 2 FUORI CONTROLLO

La notte dell‟incidente sembrava esserci qualcosa che proprio non andava nell‟auto di Papà sin dall‟inizio. Invece del tipico ruggito della Mini, quel giorno il motore faceva un forte rumore stridulo, come se stesse per esplodere.

Non appena Papà mise in moto Reginetta sulla linea di partenza, la macchina iniziò a traballare avanti e indietro, come un toro che scalcia.

Quella fatidica notte, Franco era seduto in cima al cumulo di auto proprio fuori dallo stadio, come faceva sempre. Era pieno inverno, e vento e pioggia formavano dei turbini intorno a lui. Nonostante fosse bagnato fino all‟osso, il ragazzo non avrebbe perso una gara per niente al mondo. Ma qualcosa stava andando storto quella notte. Molto storto. Non appena la bandiera sventolò per dare il via alla corsa, Papà iniziò ad avere difficoltà a controllare la sua stessa auto.

Quella notte nessun ruggito proveniva dal motore della Mini, piuttosto un rumore stridulo. Un silenzio tombale cadde sulla folla. Franco iniziò a sentire una forte nausea.

All‟improvviso ci fu un‟enorme esplosione dal tubo di scappamento di Reginetta. BANG!

“PAPÀ!” urlò il ragazzo. Da quella distanza l‟uomo non poteva sentire suo figlio, soprattutto con il fragore dei motori di tutte le altre auto. Franco voleva disperatamente rendersi utile. Fare qualcosa, insomma. Qualsiasi cosa. Ma non aveva alcun potere per fermare ciò che stava per accadere.

La Mini accelerò bruscamente, ma poi non rallentava. Era fuori controllo. VRUUM!

L‟arte di guidare auto sta nel sapere quando andare veloce, e quando rallentare. Improvvisamente Papà stava prendendo le curve davvero a velocità troppo elevata. Non era quello che un campione di corse automobilistiche avrebbe fatto. A Franco scoppiava

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il cuore in gola. I freni di Reginetta dovevano essere andati. Ma come? Papà controllava e ricontrollava la sua auto prima di ogni gara.

Di colpo Reginetta sterzò bruscamente per evitare uno scontro frontale con una Ford Capri. Ma la Mini stava andando davvero troppo veloce, e non appena svoltò, cappottò una prima volta, una seconda e una terza. BUM! BUM! BUM!

La macchina di Papà adesso era sottosopra nel mezzo alla pista. La Jaguar dietro andò a sbattere contro la Mini, lanciando la macchina in aria. Poi sbatté a terra di nuovo …

BAMM!

… e si frantumò in mille pezzi.

“NO, PAPÀ, NO!” gridò Franco dalla sommità della torre di macchine.

Là sul circuito ci fu un brutto tamponamento poiché le auto non poterono fermarsi in tempo.

SMASH! BANG! CRASH!

Si sentivano lamiere accartocciarsi insieme con altre lamiere e vetri frantumarsi. BOOOOOM!

Una delle macchine esplose in una palla infuocata! “NOOOO!” strillò Franco.

Il ragazzo si precipitò giù dalla torre di macchine, e corse attraverso la folla verso l‟auto di suo papà. Un‟aeroambulanza volteggiò in alto prima di atterrare sulla pista. Franco teneva la mano di suo padre attraverso i rottami, mentre i pompieri cercavano di liberarlo.

“Cosa ci fai qua, amico?” sussurrò Papà. “Dovresti essere a letto a casa.” “Mi dispiace, Papà”, rispose Franco.

“Avrò bisogno del più grande abbraccione coccolone di sempre quando sarò fuori di qui.”

“Andrà tutto bene, Papà. È una promessa.”.

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CAPITOLO 3

SCHIACCIATA NELLO SCHIANTO

NEE NAW! NEE NAW!

Franco teneva la mano del padre mentre l‟ambulanza correva verso l‟ospedale. La gamba destra dell‟uomo era stata completamente schiacciata nello schianto, e stava perdendo molto sangue.

“Signor Bontà,” iniziò il dottore non appena Papà fu portato d‟urgenza al pronto soccorso dell‟ospedale. “Ho cattive notizie per lei. Dobbiamo amputare la sua gamba”.

“Quale?” replicò Papà, senza perdere il suo senso dell‟umorismo in un momento così buio.

“La destra. Se non operiamo immediatamente c‟è una possibilità molto alta che lei possa morire”.

“Non voglio che tu muoia, Papà!” disse Franco. “È tutto apposto, amico. Sono bravo a zoppicare”.

Papà fu portato in sala operatoria all‟istante e Franco provò e riprovò a chiamare la madre, ma la linea era sempre occupata. L‟operazione durò tutta la notte. Franco camminava su e giù per la sala d‟aspetto, non riuscendo a dormire. La mattina, quando suo padre si riprese dall‟anestesia, il figlio fu la prima persona che vide non appena aprì gli occhi.

“Amico, sei il migliore,” sussurrò Papà. Era evidente che stesse soffrendo molto. “Sono così contento che tu ce l‟abbia fatta, Papà”, replicò Franco.

“Per forza. Come potevo non vederti diventare grande. Dov‟è tua madre?”

“Non lo so, Papà. L‟ho chiamata e richiamata la scorsa notte, ma era irraggiungibile”.

“Verrà”.

Passarono un paio d‟ore prima che si presentasse. “Oh, Gilberto!” disse nel vederlo, e scoppiò in lacrime.

Ma la riunione di famiglia fu breve, visto che la madre non si fermò per poi così tanto. Gilberto rimase in ospedale per mesi, ma le visite della moglie al suo capezzale divennero sempre meno frequenti, e sempre più brevi. Comunque, le infermiere

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allestirono una piccola brandina per Franco, e il ragazzo dormì a fianco del padre tutte, ma proprio tutte, le notti.

Un giorno i dottori arrivarono con una gamba di legno per Gilberto. Si adattava alla perfezione. Entro pochi giorni imparò a camminare di nuovo, e insistette nel tornare a piedi dall‟ospedale fino al loro condominio.

“Posso ancora fare tutto!” disse Papà con orgoglio.

Zoppicò per tutto il percorso, ma alla fine arrivarono a casa.

Quando rientrarono nell‟appartamento, la Mamma non c‟era. Aveva lasciato un biglietto sul tavolo della cucina. C‟era scritto:

„ Per Franco e Gilberto, mi dispiace. Rita‟

CAPITOLO 4 TIZI SENZA SCRUPOLI

“Cosa vuol dire, Papà?” chiese Franco. “Per cosa è dispiaciuta?”. “Perché se n‟è andata”.

“E non torna?”. “No”.

“Perché?”.

“Tua madre è andata a vivere in una grande casa con un piccolo uomo”. “Ma...!”.

“Scusa, Franco. Ho fatto del mio meglio per lei. Ma il mio meglio non è bastato”. “Mi dispiace, Papà”.

“Ho bisogno di un abbraccione coccolone”. “Anch‟io”.

Padre e figlio si strinsero forte, e piansero tanto, tantissimo finché non ebbero più lacrime.

Papà non parlò mai male della sua ex moglie, ma Franco si sentì profondamente ferito dal fatto che sua madre se ne era andata senza neppure dirgli addio.

Nonostante vivesse in una casa grandissima, la Mamma non invitò mai suo figlio ad andarci. Neppure una volta. Da quando si scordò del suo compleanno per il secondo anno di seguito, Franco non ebbe più nessuna voglia di vederla di nuovo. Settimane e

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mesi passarono senza nessun contatto tra i due, e divenne impensabile chiamarla. Così non la chiamò più. Ma non smise mai di pensare a lei. Era confuso perché, per quanto lo avesse ferito, le voleva ancora bene.

Papà perse tantissimo dopo lo schianto. Non soltanto la gamba, ma anche la moglie. E presto avrebbe perso qualcos‟altro che gli stava molto a cuore.

Il lavoro.

Gilberto amava essere un pilota. Era tutto ciò che aveva sempre sognato, da quando era un ragazzino. Nonostante le sue suppliche, il proprietario del circuito gli proibì di correre per sempre. Lo incolpavano per l‟incidente, e non volevano più vederlo sulla pista. Per di più, gli dissero che per lui non era sicuro guidare auto da corsa con una sola gamba.

Papà tentò e ritentò di trovare un altro lavoro, un qualsiasi lavoro. Ma un lavoro in città era praticamente introvabile, e il curriculum di un uomo con una gamba di legno veniva sempre messo in fondo alla pila degli altri curriculum.

Papà passò in men che non si dica dalle stelle alle stalle.

Due freddi Natali arrivarono e se ne andarono. E mentre il tempo passava, Franco era sempre più preoccupato per suo padre. Qualche volta trovava l‟uomo seduto sulla poltrona, da solo, a fissare il vuoto. Spesso Papà non lasciava l‟appartamento in cui vivevano per giorni.

Nessuno gli suonava più il clacson mentre camminavano per strada, e ora non si potevano permettere di andare da “Pasticci e Purè”, tanto meno di avere doppie porzioni.

Per l‟undicesimo compleanno di Franco, Papà gli comprò un‟enorme pista elettrica con le macchinine da corsa.

Il ragazzo la adorava.

Era il miglior giocattolo di sempre. Papà dipinse persino una delle Mini in miniatura con la bandiera britannica per farla assomigliare a Reginetta. Ci giocavano insieme fino a notte fonda, mettendo in scena le famose vittorie di Papà sul circuito.

Nonostante la adorasse, Franco era preoccupato di dove suo padre, che adesso era disoccupato da un paio di anni, avesse preso i soldi per comprarla. Sapeva che pochissimi bambini hanno dei giocattoli come quello. Una pista del genere costa centinaia di sterline.

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Infatti, poco dopo il compleanno di Franco, dei tizi senza scrupoli andavano a bussare con forza alla loro porta.

TOC! TOC! TOC!

Sventolavano dei pezzi di carta e sbraitavano riguardo a dei “debiti non pagati”. Poi spingevano Franco e si facevano strada con la forza. Una volta dentro, gli uomini prendevano tutto quello che pensavano potesse valere qualcosa, e uscivano a passo di marcia con questi oggetti. La prima volta toccò alla televisione, poi al divano e infine al letto a castello del ragazzo.

Una volta Franco non andò ad aprire la porta e loro la scardinarono. Quel giorno portarono via la pista giocattolo con le macchinine da corsa.

Dopo queste visite, Papà era sempre più afflitto. Uno sguardo di disperazione gli offuscava il volto, e se ne stava seduto in silenzio. Franco faceva del suo meglio per tirare su di morale il suo triste papà.

“Non abbatterti, Papà” lo rincuorava il ragazzo. “Riprenderò tutta la nostra roba un giorno. Te lo prometto. Quando sarò grande, diventerò un pilota di auto da corsa proprio come te”.

“Vieni qua, figliolo. E diamoci un abbraccione coccolone”.

I due si abbracciavano e tutto tornava di nuovo a posto. Saranno anche stati poveri, ma Franco non si era mai sentito povero in cuor suo. Al ragazzo non interessava che i suoi maglioni avessero così tanti buchi, da essere diventati un buco piuttosto che un maglione. Non si preoccupava mai di dover portare i libri a scuola in un sacchetto di plastica, che si rompeva sempre. Presto divenne normale che nel loro appartamento avessero una sola lampadina funzionante e dovessero spostarla da una stanza all‟altra la sera.

Questo perché il ragazzo aveva il miglior papà del mondo. O almeno così pensava.

CAPITOLO 5 TOP SECRET

Una sera durante una cena a base di fagioli in scatola freddi, consumata nel loro freddo appartamento, Papà fece un annuncio.

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Uno sguardo turbato si posò sulla faccia di Franco. Anche se non avevano niente, il ragazzo amava la sua vita così come era. Papà poggiò la mano sulla spalla del figlio.

“Non c‟è niente di cui preoccuparsi, amico. Tutto cambierà in meglio”. “Ma come?”.

“La nostra vita sta per cambiare. Ho un lavoro”. “Fantastico, Papà! Sono così contento per te!”.

“Sono contento anch‟io,” replicò l‟uomo, anche se, per un motivo o per l‟altro, non lo dava a vedere.

“Che lavoro è?” “Pilota”.

“Di auto da corsa?” chiese Franco carico di entusiasmo.

“No,” disse Papà. Ordinò i pensieri. “Ma guiderò veloce. Velocissimo”. “Wow!” gli occhi del ragazzino si accesero come i fari di un‟automobile.

“Sì! Wow! E guadagnerò dei soldi. Un mucchio di soldi. Potremmo riavere la televisione”.

“La TV è noiosa. A me piace ascoltare le storie delle tue gare”. “Va bene, amico, allora il divano”.

Il ragazzo ci pensò per un attimo. Non era comodo cenare seduti su una cassetta di legno. “Non mi danno fastidio le schegge nel sedere!”

“Davvero?” chiese Papà con una risatina. Rideva, dondolandosi avanti e indietro sulla cassetta. “Ahi! Ne ho presa un‟altra!”.

“Uh! Uh!”.

“Bene, bene. Lo so io cosa vuoi veramente riavere”. “Cosa?”.

“La tua pista elettrica con le macchinine da corsa”.

Il ragazzo si azzittì. Quel giocattolo gli mancava davvero tanto. “Sì, Papà”. “Mi dispiace così tanto che te l‟abbiano portata via, amico”.

“Non preoccuparti, Papà”.

Franco si era accorto che qualcosa non andava in suo padre, soltanto non sapeva cosa. Qual era questo misterioso lavoro?

“Quindi cosa guiderai, Papà? Auto da corsa?”.

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“Ambulanze?”. “No”.

“Camion dei pompieri?”. “No”.

Spalancò gli occhi. “Non per la polizia, vero?”.

Papà riuscì ad annuire e scrollare il capo contemporaneamente. “Una cosa del genere, sì”.

Il ragazzo rallentò un attimo. “Papà cosa intendi per „una cosa del genere‟?”. “Beh, è TOP SECRET”.

“Dimmelo!” insistette il ragazzo.

“Non sarebbe TOP SECRET se te lo dicessi”. “Beh, sarebbe un pochino meno TOP SECRET”.

“Non posso, amico. Scusa. Ma sarò pagato. Tanti soldi. Davvero tanti. E avremo delle cose. Tante, tantissime cose. Nuove scarpe da ginnastica, nuovi giocattoli e giochini per il computer, qualunque cosa tu desideri, insomma”.

Franco guardava il padre preoccupato, mentre i suoi occhi si spalancavano. Sembrava tutto troppo bello per essere vero.

“Ma non mi serve troppa roba. Tutto quello di cui ho bisogno sei tu”.

Al Papà caddero le braccia. “ Sì, sì. Non ti preoccupare. Sono qui. Non andrò da nessuna parte”.

“Promesso?”.

“Sì, sì, amico. Promesso”.

“E non ti farai del male, vero?” chiese il ragazzo. L‟ultima cosa che voleva era che suo padre perdesse la gamba sinistra.

“Promesso!” disse Papà. E alzò la mano destra, tenendo indice, anulare e medio tesi e uniti, con il palmo rivolto in avanti. “Parola di scout! Oh! Oh!”.

“Non sei mai stato uno scout!”.

“E chi se ne frega! Adesso finisci quei fagioli. Ho bisogno che tu vada a letto”. Come tutti i bambini del mondo, Franco sapeva esattamente quando era ora di andare a dormire e non era di certo arrivato quel momento. “Ma non è ora di andare a letto ancora!” protestò.

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Quella logica era profondamente seccante, anche se abbastanza giusta. “Non è giusto! Perché devo andare a letto adesso?”.

“Zietta Ina sarà qui da un momento all‟altro per occuparsi di te.” “Oh no,” replicò Franco.

“Non fare così! È l‟unica famiglia che abbiamo. E soprattutto è sempre disponibile a fare la tata”.

“Ma io non sono un moccioso”. “Lo so, amico”.

“E allora perché la chiami „tata‟? Solo i mocciosi hanno bisogno della „tata‟!”. “Ah! Ah!” rise Papà. “E che ne so!”.

“Comunque, dove stai andando?”. “Devo solo fare un salto al pub”. “Posso venire, Papà?”.

“NO!”.

“PER FAVORE?” lo supplicò il ragazzino.

“No, questa è roba da grandi. E poi i ragazzini non sono ammessi giù al pub”. “Ma io voglio venire”.

“Amico scusa, ma non puoi. Dai su, adesso dammi un abbraccione coccolone”. Stasera l‟abbraccione coccolone era più forte del solito. Papà di solito stringeva un po‟ più forte quando era preoccupato per qualcosa. E Franco non era stupido. Sapeva che c‟era qualcosa. Ma non sapeva che cosa. Non ancora.

CAPITOLO 6

L’ODORE DEI VECCHI LIBRI

Zietta Ina non era la zia di Franco. Era la zia di suo Papà. “Ina” stava per Lina Noiosina, e pensare che si vantava di discendere dal ramo aristocratico della famiglia, anche se non ce n‟era uno. La donna aveva l‟odore di vecchi libri addosso. Forse perché era una bibliotecaria. Indossava degli occhiali con lenti spesse come fondi di bottiglia. La sua idea di divertimento serale era di portare un mucchio dei suoi inediti libri di poesia e leggerli ad alta voce al ragazzo.

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ODI A UNA POZZANGHERA PAROLE AL VENTO

RIME SULLA CREMA PER LE MANI FOGLIE, FOGLIE E ANCORA FOGLIE L‟UNCINETTO!

CENTO E UNO POESIE SUI DITALI LAVANDA: UN OMAGGIO IN VERSI LA GIOIA DELLE TORTE SALATE CANZONI ALLE ESCURSIONI MENTINE

VERSI SUI VASI

SCARPE COMODE E ALTRE POESIE SULLE CALZATURE PRATICHE LA POESIA DELLE CAMPANE

CIAF! CIAF! CIAF! BAGNETTO O SCHERZETTO? MILLE POESIE SU FIORI DI CAMPO ED ERBACCE POESIE PER LA VECCHIA SIGNORA

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Franco odiava la poesia. Ina gli leggeva le sue poesie sulle nuvole e l‟uva, e sui giorni di pioggia, e sul canto degli uccelli, e sul talco in polvere. Per Franco era una tortura ascoltarle.

Quella notte era particolarmente seccato di essere stato lasciato a casa con lei, mentre il papà era uscito per il suo SUPER-ECCITANTE, SUPER- TOP- SECRET incontro, dal quale Franco si sentiva un SUPER - ESCLUSO. Fece ciò che gli era stato detto, si mise il pigiama, e poi sbucò con la testa dalla porta del salotto.

“Buonanotte Zietta!” disse velocemente, prima di girarsi per andarsene. “No, non ancora” cinguettò la donna.

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“Come regalo davvero unico, ometto, hai il permesso di stare sveglio fino a tardi.” “FOOORTE!” esclamò il ragazzo.

“Sì, puoi stare sveglio fino a tardi così ti posso leggere qualche poesia”. Questo non era per niente forte.

“So quanto ti piace,” disse la zietta.

“Sono davvero stanco,” mentì Franco, facendo finta di sbagliare, e, per sicurezza, stirò anche le braccia all‟indietro.

“Tra un attimo non lo sarai, ometto, perché io ho una sorpresa per te! Ti piacciono le sorprese?”.

“Dipende! Che cosa è?”.

“Se te lo dicessi non sarebbe una sorpresa” ribatté Zietta Ina.

Il ragazzo ci pensò per un momento. “Ha per caso a che fare con la poesia?” “Sì! Come fai a saperlo?”.

“È stata solo un‟ipotesi azzardata,” sospirò Franco.

La donna aprì con un clic la sua borsetta, e tirò fuori il suo block-notes rilegato in pelle. Lo teneva in mano come se fosse una reliquia sacra. Voltò la prima pagina con cura.

“Stasera la prima è una poesia che ho scritto su di te, Franco”.

Per qualche motivo, il pensiero di una poesia su di lui fece agitare Franco. Una sensazione di disagio simile l‟aveva provata quella volta in cui mangiò delle salsicce che non erano state cotte bene alla mensa della scuola, e dovette correre al bagno poiché sentiva che il suo didietro stava per esplodere.

Zietta Ina iniziò a fare dei suoni strani con la bocca. Era come se un cavallo stesse nitrendo.

“IIIH! IIIH!”

Dopo cominciò a emettere dei mormorii strani con un tono di voce così stridulo da far male alle orecchie. Era come se qualcuno stesse facendo scorrere le dita sul bordo di un bicchiere di vetro.

“GRIIIIII, GRIIIII, GRIIII …”

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Franco si tappò le orecchie. “Sarebbe questa la poesia?” strillò per sovrastare il baccano.

Ina lo guardò come se fosse matto da legare.

“No! Mi sto solo scaldando la voce! Bene. Sono pronta. Questa s‟intitola semplicemente „Franco‟, ed è di mia produzione.”

“Mio amato Franchino

Dedico questo poemetto A te che sei un ometto

Il super-figlio che mio nipote Ha ricevuto in dote.

Sei proprio un angioletto Che diffonde tanto affetto,

Come una farfalla che danza nella brezza, O un colibrì che con il suo canto ci accarezza, O un delfino che saltella in mare,

O due api intente a ronzare. Il cuore mi riempi di felicità,

Come quando mangio pizza a volontà Con sopra un mucchio di mozzarella, Molto meglio che mangiare una caramella. So che è strano parlare della caramella, Ma è l’unica cosa che rima con mozzarella. Ti prego, Franco, non invecchiare,

E la tua zietta non abbandonare! Il mio poemetto è finito, non a caso

Ma, per piacere, non ficcarti le dita nel naso.”

Le lacrime le brillavano negli occhi per la pura e semplice bellezza della sua poesia. “Allora?” chiese la Zietta, mentre tirava su col naso. I suoi occhi cercavano quelli di Franco in segno di approvazione.

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“Beh, cosa ne pensi della poesia che ho scritto apposta per te?”. “Mmm. Penso che questa poesia sia molto …”

“Molto…?”.

Franco era grande abbastanza da sapere che a volte è necessario dire una piccola bugia per non ferire i sentimenti altrui.

“Poetica! È una poesia molto poetica”.

La donna era felicissima. “Grazie tante! Questo è un grande elogio. Tutti i poeti vogliono che le proprie poesie siano poetiche. Quindi una è andata, ne restano novantanove”.

“Devo proprio andare a letto!”. “Sei sicuro?”.

“Assolutamente. Devo andare a letto, subito!”. “Che ne dici se ti leggessi „Un amore di Lillà?”. “Mi piacerebbe sentirla, ma …”

“Oppure „Alcuni versi sul puzzo dei miei piedi‟?”. “Io davvero vorrei …”

“Tu adoreresti „Ode a una pozza‟! Plin, plin, plin la pioggia fa plin …” “NO! Cioè … no”.

La donna sembrò ferita. “Che significa „no‟?”

“Vuol dire grazie, ma no. È solo che mi sento così emotivo dopo aver ascoltato quel capolavoro che hai scritto su di me”.

Zietta Ina fece cenno di sì con la testa. “Certo! Certo. Mi ero dimenticata della potenza pura dei miei versi. Ti auguro una buonanotte”. La donna spalancò le braccia per abbracciare il ragazzino. Lui si mosse verso di lei controvoglia. Lo strizzava sempre troppo forte.

“UH!” disse Franco, che sentiva l‟aria che veniva schiacciata fuori dal suo corpo. “Scusami,” disse la Zietta. “Non sono brava con gli abbracci”.

La donna non era mai stata sposata, né aveva avuto una storia d‟amore, per quanto ne sapesse Franco. Pensò che magari non doveva aver dato molti abbracci in vita sua.

“Buonanotte”, disse il ragazzo. “Adesso me ne vado a dormire”. Quella era un‟altra bugia.

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CAPITOLO 7 MORTE PER POESIA

Scappare dall‟appartamento era una cosa che Franco aveva già fatto molte volte prima. Anni fa, Franco sgattaiolava sotto gli occhi della madre ogni sabato sera, per vedere le corse del padre.

A quei tempi era facile. Franco sistemava i cuscini sul suo letto, sotto il piumone. In quel modo, se la Mamma si fosse presa il disturbo di mettere giù il telefono e curiosare dalla porta, avrebbe creduto che il figlio fosse a letto a dormire profondamente. Adesso non c‟erano cuscini, non c‟era un piumone e, in verità, neppure un letto. Da quando erano venuti i tizi senza scrupoli, il ragazzo aveva dormito su un vecchio materassino gonfiabile che durante la notte si sgonfiava sempre, a poco a poco come un palloncino.

PFFFFFFFFFFFFFFFFFFFFFFFFFFT!

Franco doveva escogitare un nuovo piano, e velocemente. Se fosse stato costretto ad ascoltare un‟altra delle poesie della Zietta Ina, ci sarebbe stato il reale pericolo di autocombustione.

Il ragazzo face un manichino a grandezza naturale di se stesso ficcando della carta di giornale appallottolata in un vecchio pigiama. Poi mise il manichino sul materassino.

A questo punto, doveva solo cogliere l‟attimo giusto per fuggire dalla porta principale. Dalla sua camera poteva sentire che – sorpresa, sorpresa – Zietta Ina stava componendo un'altra poesia in salotto. La recitava a voce alta mentre la scriveva:

“ O grande albero orgoglioso

E molto cespuglioso Io mi rivedo in te. Anche se foglie non avrò E neppure rami, oibò! Di legno non sono fatta, Altrimenti sarei adatta! Oh sì, e non ho la corteccia...

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Oh grande albero orgoglioso …”.

Il salotto era alla fine del corridoio, e perciò c‟erano molte possibilità che Zietta Ina avrebbe visto Franco se avesse provato a fare uno scatto verso la porta d‟ingresso. Dopo poco, la sentì trascinarsi a fatica lungo il corridoio. Era la sua occasione! Franco aprì un pochino la porta della sua camera e spiò dalla fessura. Zietta Ina stava chiudendo la porta del bagno dietro di sé.

CLIC!

“Oh no! Gli esattori di crediti hanno preso anche la tavoletta del gabinetto” la sentì esclamare Franco. “Dovrò farla in piedi”.

Non c‟era nessun modo per capire se era una numero uno o una numero due. Come poteva capirlo Franco? Una cosa del genere era una questione personale tra Zietta Ina e il sedere di Zietta Ina.

Una numero due avrebbe richiesto molto tempo (per alcune persone ore, persino giorni2), mentre una numero uno sarebbe finita in qualche secondo. Così Franco si mosse più rapidamente che poteva sul pavimento di legno (i tizi senza scrupoli avevano portato via anche il tappeto), verso la porta principale. Aveva pianificato di aspettare là il rumore dello scarico, per nascondere la sua fuga.

DISASTRO!

La porta del bagno si aprì di nuovo. CLIC!

“Non ci credo! Niente carta igienica!” borbottò tra sé e sé Zietta Ina.

Franco era tutto rannicchiato in corridoio, ma se la squagliò in camera sua appena in tempo. Con i mutandoni ancora alle caviglie, Zietta Ina sgambettò di lato, come un granchio, fino al salotto.

“Allora, quale poesia posso sacrificare?” si chiese. “Sono tutti capolavori. Fammi vedere. Oh, sì, „Ode a un uovo sodo‟ può andare!”.

Il ragazzo poi sentì il rumore di una pagina che veniva strappata da un libro. RIP!

Poi Ina si affrettò di nuovo verso il bagno e chiuse la porta.

2

Si riporta che la più lunga numero due impiegò quattro interi giorni a essere espulsa. Fu opera del tenore di 315 kg Antonio Lasagnotti. Era della lunghezza di un campo da calcio.

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CLIC!

Franco strisciò un‟altra volta verso la porta principale e aspettò il suono dello sciacquone.

TUM!

Ina tirò la catenella. Ma non successe niente. TUM!

Ancora niente. TUM! TUM! TUM!

“Santo cielo! La catenella si è spezzata!” esclamò.

Il ragazzo, quindi, sentì un rumore di sforzi venire da dietro la porta del bagno. “ Devo soltanto agganciare i miei mutandoni alla leva”.

SCROSH! Fatto!

Franco aprì la porta, e se la chiuse dietro più piano che potesse. CLIC!

L‟ascensore era sempre rotto nel loro condominio, ed era una sofferenza se abitavi al novantanovesimo piano. Fortunatamente, Franco aveva escogitato un modo figo per scendere quella apparentemente infinita scala. Aveva trovato un vecchio cesto della biancheria, e con i pennarelli lo aveva dipinto con i colori di Reginetta, bianco, rosso e blu. Tutto quello che doveva fare era sedersi in cima alle scale, e lasciare che la gravità facesse il proprio corso.

UOOSH!

CAPITOLO 8

UNA VICARIA VOLANTE

In un batter d‟occhio, Franco stava andando a tutta velocità giù per le scale, fingendosi un vero e proprio pilota da corsa.

TUM! TUM! TUM!

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Quando colpiva ogni scalino, il cesto della biancheria sussultava violentemente. Franco doveva reggersi forte altrimenti sarebbe stato catapultato fuori.

UOOSH!

Proprio come in una corsa automobilistica, c‟erano un sacco di cose che avrebbe potuto colpire. Era difficile guidare un cesto della biancheria, ma fece del suo meglio per piegarsi a destra e a sinistra, mancando per un pelo:

una lavatrice guasta …

un carrello del supermercato capovolto … uno stormo di piccioni …

una TV che era stata buttata giù …

un fattorino che portava una pila di pizze … una cassetta di bottiglie vuote …

e un‟anziana signora piccina piccina che veniva trascinata su per le scale da tre canini.

Una persona non fu così fortunata. Si trattava della vicaria del posto, la Reverenda Giuditta. Sfortunatamente per lei, Franco prese una curva decisamente troppo veloce, e la colpì con forza.

PATAPUM!

“AHI!” esclamò mentre veniva lanciata in aria. Guarda! Una vicaria volante!

Fece una capriola (per la prima volta in vita sua) e atterrò sul sedere. CIAC!

Fortunatamente per Franco, la Reverenda Giuditta era di una tale bontà che fu lei a scusarsi.

“Scusa, ero nel mezzo” gridò.

“Mi scusi tanto, Reverenda!” gridò in risposta il ragazzo mentre continuava ad andare a tutta velocità giù per le scale.

“Spero di vederti in chiesa domenica!” aggiunse la donna fiduciosa, massaggiandosi il livido dietro la schiena.

La vicaria andava sempre al blocco di appartamenti per invitare i residenti nella sua chiesa sempre vuota, anche se poi non si presentava mai nessuno. Franco era dispiaciuto per lei, ma non abbastanza per alzarsi dal letto la domenica mattina e andare.

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UOOSH!

Il cesto della biancheria sbatté contro gli ultimi scalini e derapò sul cemento. WHIZZ!

Finalmente si fermò. Il ragazzo nascose il cesto dietro alcuni bidoni, e subito andò di volata verso il pub della città, l‟Ascia del Boia.

Mentre sbirciava dentro attraverso una finestra sporca, Franco vide che il pub era pieno zeppo. Questo era il mondo dei grandi in tutto il suo splendore. Gli uomini discutevano, le donne litigavano e tutti bevevano. Era così chiassoso, che non sembrava per niente il luogo più sensato per un incontro TOP SECRET. Per quanto ci provasse, il ragazzo non riusciva a vedere il padre da nessun parte.

Proprio quando stava per arrendersi e tornare verso casa, Franco sentì delle voci indistinte venire dal parcheggio. Il ragazzo si voltò e vide alcuni uomini seduti a parlare in una Rolls-Royce bianca. Saltava agli occhi non solo per le dimensioni, ma anche perché era il genere di macchina costosa che non avresti mai visto in una zona del genere.

Il ragazzo non riusciva a vedere gli uomini troppo chiaramente, poiché l‟auto era piena di fumo di sigaro. Si mosse adagio tra le altre auto parcheggiate per avvicinarsi un pochino. Poteva soltanto vedere la sagoma di suo padre, seduto al posto del guidatore. Ma chi erano gli altri uomini? E cosa stavano facendo in quella costosissima macchina?

Per provare a sentire cosa dicevano, Franco si arrampicò sul tetto del furgone dell‟idraulico che era parcheggiato accanto alla Rolls-Royce. Ma tutto ciò che poteva sentire era qualche sporadica parola. Sembrava che stessero parlando a voce bassa per non essere ascoltati.

Il ragazzo aveva fatto così tanto. Non aveva intenzione di rinunciare adesso. Così, il più delicatamente possibile, si spostò dal tetto del furgone a quello della Rolls-Royce. Si sdraiò sulla sommità dell‟auto così da poter ascoltare.

Aveva appena commesso un pericoloso sbaglio.

CAPITOLO 9 UN COLPO SOLO

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Beccano a fare cosa? Pensò Franco, sdraiato sul tetto della Rolls-Royce.

“Se guidi abbastanza velocemente, nessuno verrà beccato,” replicò l‟uomo. “Ho fatto tutte le ricerche. Ho la planimetria dell‟interno. Sarete dentro e fuori in due minuti”.

“So un tubo. È una cosa molto più grande di quello che mi avevate detto. Lasci che le ridia il denaro che mi ha prestato. Per favore?” disse Papà.

“Questa frase l‟ho già sentita un milione di volte da te”. “Troverò un lavoro”.

“Non c‟è lavoro in questa città, specialmente per uno che zoppica per andare in giro”.

Il leggero mormorio di una risata beffarda provenne dai due uomini sui sedili posteriori. “Ah! Ah! Ah!”.

“Vuoi bene a tuo figlio, giusto?” disse l‟uomo. Franco restò senza fiato. Stava parlando di lui.

“Certo, certo che gli voglio bene. Lo amo più di ogni altra cosa al mondo. Cosa c‟entra lui con tutto questo?”.

“Non vorrei proprio che gli succedesse qualcosa”. “Lasci il mio ragazzo fuori da questa storia!”. “Allora fa‟ quello che ti dico”.

“Se fa del male a mio figlio, giuro che …”.

“Che fai?” ringhiò l‟uomo sul sedile del passeggero. “Ti togli la tua gamba finta e mi prendi a calci con quella?”.

I due uomini sui sedili posteriori risero di nuovo. “Ah!Ah!Ah!”.

“Ok, va bene,” disse Papà. “Farò quello che dice. Ma soltanto per questa volta. Un colpo solo, poi ho chiuso”.

“Non è stato poi così difficile per adesso, o no?” esclamò soddisfatto l‟uomo seduto sul sedile anteriore. “Gilberto, voglio che tu mi dimostri che sai sempre guidare, come ai vecchi tempi”.

“So ancora guidare bene, con o senza la gamba”. “Allora mostramelo”.

“Siete pronti?”. “Sì”.

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“Reggetevi forte,” ribatté Papà.

L‟enorme motore della Rolls-Royce andò su di giri. BRUM BRUUMM BRUUMMM!

Poi le ruote posteriori iniziarono a girare furiosamente e l‟aria si riempì di nuvoloni di fumo. Franco non poté fare altro che tossire per il puzzo di gomma bruciata. Il ragazzo si sforzò di alzarsi in piedi per saltare di nuovo sul furgone parcheggiato accanto alla macchina. Ma Papà fu davvero troppo veloce per lui. La Rolls-Royce sfrecciò via nella notte, con Franco in piedi sul tetto!

CAPITOLO 10

NEMMENO IL TEMPO DI RESPIRARE

Franco si gettò giù sul tettuccio della macchina e ci si aggrappò con tutta la forza che aveva. La Rolls-Royce uscì dal parcheggio del pub con un testa-coda, e, in men che non si dica, si stava dirigendo sulla strada a 150 chilometri orari. I suoi occhi stavano lacrimando e i capelli si erano rizzati tutti. Era come essere sulla giostra del luna park più pericolosa di sempre.

Naturalmente Papà non aveva idea che suo figlio fosse aggrappato al tetto della Rolls-Royce. Se lo avesse saputo, mai:

sarebbe passato col semaforo rosso … WHIZZ!

avrebbe sterzato bruscamente per sorpassare un autobus … SCREECH!

o si sarebbe schiantato contro una staccionata BUM!

prima di entrare a tutta velocità nel parco. BRUMM!

La Rolls-Royce ballonzolava su e giù sull‟erba. BOING! BOING! BOING!

Franco fu spedito in aria, e il suo corpo saltellava su e giù sul tetto. TUM! TUM! TUM!

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Non appena osò aprire di nuovo gli occhi, vide che si stavano dirigendo verso un'altra staccionata dall‟altra parte del parco.

PATAPUM!

Le assi di legno saltarono in aria. Un pezzo grande sfiorò la testa di Franco. Tutto stava accadendo così veloce che non c‟era nemmeno il tempo di respirare. Si stavano dirigendo verso un vicolo, che era molto più stretto dell‟auto. Sembrava proprio che se Papà non avesse frenato all‟istante, la Rolls-Royce si sarebbe fracassata contro il muro.

“FERMO!” gridò l‟uomo sul sedile del passeggero. “AAAH!” urlarono i due sui sedili posteriori. Ma il motore dell‟auto andò su di giri e accelerò. “NOOO!” provenivano le grida dall‟interno.

Franco non ce la faceva più. Dovette chiudere gli occhi.

CAPITOLO 11

SU DUE RUOTE È MEGLIO CHE SU QUATTRO!

Da un lato del vicolo c‟era una catasta di tavole di legno. La Rolls-Royce girò bruscamente e le ruote dalla parte di sinistra salirono sulle tavole, e l‟auto rimase su due ruote!

Franco aprì di nuovo gli occhi poiché si sentiva scivolare su un fianco del tettuccio. Tirò fuori gli artigli per avere più presa.

Ancora su due ruote, l‟auto ce la fece per un pelo a passare dallo stretto vicolo. WHIZZ!

“Mi stai spiaccicando!” venne un grido dall‟interno dell‟auto.

Nell‟uscire dall‟altro capo del vicolo, Papà girò il volante d‟un colpo solo e la macchina balzò di nuovo su quattro ruote.

BOING!

Proprio mentre Franco emise un sospiro di sollievo, una sirena risuonò. NEE-NAW!

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Delle luci blu lampeggiavano sugli edifici intorno a loro. Il ragazzo si guardò alle spalle. Un‟automobile della polizia li stava inseguendo.

Papà spinse il piede sull‟acceleratore, e la Rolls-Royce schizzò via lungo la strada principale, contromano. Franco non poteva credere ai suoi occhi. La macchina stava ondeggiando a zig-zag per evitare il traffico che andava dritto verso di loro! I camion e le auto sterzavano mentre Papà riuscì a far ruotare l‟auto appena in tempo. Fu elettrizzante e terrificante allo stesso tempo. Più avanti, un muro di luci blu si stava rapidamente dirigendo verso di loro. Per un momento, Franco si dovette sforzare per capire cosa fosse. Strizzò gli occhi. Era la POLIZIA! Una fila di auto della polizia si stava dirigendo verso di loro a tutta velocità. Stavano guidando in schieramento, bloccando l‟intera strada.

Non c‟era nessun varco intorno a loro. Nessun varco sotto.

Nessun varco in mezzo. Erano in trappola.

Papà era un super pilota di auto da corsa, ma sicuramente neppure lui avrebbe potuto scamparla stavolta.

Franco tirò un sospiro di sollievo. Questa spaventosa prova era finita. Dopo tutto avrebbe assistito al proprio dodicesimo compleanno.

Tuttavia, invece di rallentare Papà accelerò. Tra la Rolls-Royce e il muro di auto della polizia c‟era un camion grandissimo. Il rimorchio del camion era uno di quelli che trasportano le automobili, anche se in quel momento era vuoto. Il camionista deve essere andato nel panico vedendo una macchina che gli andava diritta incontro a tutta velocità, tanto che il veicolo fece un impressionante testa-coda in mezzo alla strada …

SCREECH! … e si fermò.

Papà colse l‟opportunità, e si diresse a tutta velocità verso il retro del camion. La rampa per le auto era abbassata e la Rolls-Royce si diresse a tutta velocità verso questa.

BRUM!

Prese la rampa e la salì. Quando raggiunse la sommità, la Rolls-Royce decollò e si librò nell‟aria.

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Il ragazzo riusciva a sentire il cuore battergli nel petto. TU-TUM! TU-TUM! TU-TUM!

Batteva così forte che sembrava quasi che gli stesse per fuoriuscire dal petto. Di colpo, il tempo sembrò rallentare e accelerare insieme. Franco stava volando. Voleva che tutto finisse all‟istante. E non voleva che finisse mai.

La Rolls-Royce svettò sopra lo schieramento di auto della polizia, sfiorando nell‟atterrare soltanto un po‟ il tetto di una con la parte posteriore del pneumatico …

… prima di fare un atterraggio di fortuna sull‟asfalto con un grandissimo PATAPUM!

Franco pensò di essere sul punto di venire scaraventato per aria mentre l‟auto rimbalzava sull‟asfalto come un pallone da calcio.

BUM! CRASH! CRUNCH!

Riuscì appena in tempo ad aggrapparsi forte al tetto della Rolls-Royce. In men che non si dica, l‟auto si raddrizzò e si allontanò a tutta velocità.

Gli agenti di polizia tentarono disperatamente di girare le proprie auto, ma, poiché si erano schierati in una formazione compatta, erano bloccati. Le auto si urtarono le une con le altre nel tentativo di inseguirli.

BUM! BUM! PATAPUM!

Anche se avevano quasi rischiato di morire un centinaio di volte, il ragazzo non poté fare a meno di sorridere. Quell‟eroe era nientepopodimeno che suo papà e ce l‟aveva fatta di nuovo.

CAPITOLO 12 CATAPULTATO!

Con Franco ancora aggrappato sul tetto, la Rolls-Royce si precipitò verso parcheggio del pub. Papà doveva essere di umore trionfante dopo quell‟audace salto sopra le auto della polizia, dato che fece un testa coda e parcheggiò la macchina in retromarcia nel posteggio di prima, mancando i veicoli vicini di un centimetro.

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La Rolls-Royce si fermò in modo così brusco che Franco non ce la fece più a reggersi. La forza della frenata fece sì che il ragazzo fosse catapultato all‟istante dal tetto della macchina.

UOOSH!

Si alzò in volo come se fosse stato sparato da un cannone, e atterrò su un cespuglio. “AHI!”.

Si sentì un fruscio.

Per fortuna, il cespuglio attutì la caduta e non si ruppe punte ossa. Anche se era intontito, Franco si alzò immediatamente e se ne andò in tutta fretta per trovare un posto sicuro dove nascondersi. Non voleva che suo padre scoprisse che era stato fuori fino a tardi, in pigiama, a spiarlo. Sarebbe stato GROSSI guai.

“COS‟È STATO?” gridò l‟uomo sul sedile del passeggero. “Cos‟è stato?” ripeté uno degli uomini sui sedili posteriori.

“DEVE ESSERERCI STATO QUALCUNO SUL TETTO DELLA MIA MACCHINA! PRENDETELO!” urlò il primo uomo.

I due uomini sui sedili posteriori piombarono fuori dall‟auto. Uno era alto e smilzo, l‟altro era basso e cicciottello.

Franco assisteva alla scena dal suo nascondiglio, dietro a un bidone nel parcheggio del pub. I due si dovevano sentire uno straccio dopo tutte quelle peripezie: infatti barcollavano entrambi. Le loro facce erano diventate verdi, ed erano piegati in avanti per fare dei respiri profondi.

“HO DETTO „PRENDETELO‟! Cosa aspetti, Oreste?”.

“Non ce la faccio, capo. Sto per vomitare,” disse quello alto e magro. “Allora tu, Lucianone!”.

Quello cicciottello aveva le lacrime agli occhi. “Me la sono fatta sotto, capo,” borbottò. “Non posso correre con le mutande bagnate”.

“PERCHÉ NO?”.

“Mammina dice che mi viene uno sfogo”.

“VOI DUE, CRETINI CHE NON SIETE ALTRO!” gridò. “GILBERTO! PRENDILO!”.

Papà si arrampicò fuori dalla macchina. Da quando aveva perso la gamba, zoppicava. La gamba di legno se la trascinava sempre dietro.

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“Scusi, Signor Grosso. È tardi. Ho la babysitter a casa. Me ne vado”.

Il piccolo uomo strizzò gli occhi, e le sue parole colpirono come proiettili. BUM! BUM! BUM!

“Non mi stai ascoltando. C‟era qualcuno sul tetto del mio gioiellino. Voi tre, trovatelo. MUOVETEVI!”.

Il Signor Grosso, non sarà stato grosso, ma quando li rimbrottò fu come essere faccia a faccia con un coccodrillo. Senza indugiare, Papà, Oreste e Lucianone fecero ciò che gli era stato detto. Lucianone camminava goffamente come una papera, cosa che si addice a chi si è bagnato le mutande. Lo smilzo Oreste colpì Papà da dietro, spingendolo davanti per affrontare chiunque di pericoloso fosse in agguato nell‟oscurità. Nascosto dietro il bidone, Franco non poteva correre da nessuna parte. Si sporse all‟indietro, dov‟era buio, pregando di non essere visto. I tre uomini gli passarono molto vicino. Oreste rovistò nei cespugli, ramo per ramo, con le sue lunghe dita sottili. Nel frattempo, Luciano Pollicione sbuffava incavolato, mentre si piegava sulle ginocchia per guardare sotto tutte le auto.

“Qua niente, capo” gridò a gran voce.

“Nemmeno qua, capo,” aggiunse Oreste Manileste.

Adesso Papà era così vicino a Franco che il ragazzo poteva sentirlo respirare. L‟uomo sbirciò dietro il bidone. C‟era proprio suo figlio, accovacciato, con un‟aria da colpevole, spaventato e scosso dopo quella corsa.

“C‟È NESSUNO LÀ?” gridò il Sig. Grosso.

“No. Nessuno,” replicò Papà, guardando il figlio fisso negli occhi. “Proprio nessuno”.

Papà scosse leggermente la testa. Il ragazzo lo prese come un segnale a stare immobile e zitto. Se avesse mosso un solo muscolo sarebbero stati entrambi in GROSSI GUAI.

“Deve essere stato un uccello, Signor Grosso,” disse Papà.

“Un uccello maledettamente grande,” borbottò il piccolo uomo. “Ora, andiamocene da qua prima che gli sbirri inizino a ficcare il naso in giro. Oreste, rivernicia la Rolls e cambia la targa”.

“Sì, capo”.

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“Grazie, capo,” replicò quello cicciottello.

“Voglio arrivare a casa tutto intero. Adesso saltate su, tutti e tre”.

Papà tornò verso l‟auto con la testa abbassata, indubbiamente nervoso di poter rivelare qualcosa.

“Cosa c‟è che non va?” borbottò il Signor Grosso. Il boss criminale era furbo come una volpe, niente gli sfuggiva.

“Niente”.

“Posso fidarmi di te, vero?”. “Sì, signore. Assolutamente”.

“Bene. Non vorrei mai che al tuo ragazzo succedesse qualcosa. Salta su adesso”. Dal suo nascondiglio, Franco sentì sbattere le portiere della Rolls-Royce.

SBAM!

La macchina sfrecciò via nella notte.

Un sentimento di profondo disagio pervase il ragazzo. Suo padre si era immischiato con delle persone davvero cattive.

CAPITOLO 13 PAF! PAF! PAF!

Franco corse per tutta la strada verso casa. Si accucciò alla porta d‟ingresso e guardò dalla buca delle lettere. Era buio, ma riusciva a sentire la Zietta Ina “Zzzzz…zzzz…zzzz…zzzz…”

ronfare.

E così, aprì velocemente la porta e schizzò attraverso il corridoio in camera sua. In fretta e furia si tuffò sul materassino e questo esplose.

BUM! DISASTRO!

Il rumore svegliò la Zietta Ina, che si precipitò alla porta. “VA TUTTO BENE?” strillò. “HO SENTITO UN BUM!”. Franco faceva finta di dormire.

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Ciò non scoraggiò Zietta Ina. La donna urlò di nuovo, questa volta proprio all‟orecchio di Franco.

“FRANCHINO?”.

Il ragazzo continuava a tenere gli occhi chiusi.

Subito iniziò a dargli dei buffetti sulle guance, un po‟ troppo forti perché Franco continuasse a fingere di essere addormentato.

BUF! BUF! BUF!

Poi i buffetti divennero schiaffi. PAF! PAF! PAF!

Proprio in quel momento, Papà entrò dalla porta principale e disse a gran voce: “Scusa Zietta Ina, sono così in ritardo!”.

“Tranquillo,” la sentì dire il ragazzo. “Franco ha dormito come un bambino tutta la notte”.

“Ma davvero?”, si percepiva una certa sorpresa nella voce di Papà. “Certo. Non mi ha dato assolutamente alcun problema”.

“Grazie. E, per favore, avrei bisogno che lo badassi domenica”. “È un piacere per me, Gilberto. Allora a domenica”.

“Grazie Zietta. Buonanotte!”.

Franco sentì la porta chiudersi, ma continuò a fingere di dormire. Papà non era mica stupido. Un attimo prima, aveva visto il figlio nascosto dietro a un bidone. Ora dovevano fare un bel discorsetto.

CAPITOLO 14 UNA PROMESSA

“Che diavolo pensavi di fare?” chiese Papà, inginocchiandosi sul pavimento della camera del figlio.

“Che diavolo pensi di fare tu?” replicò Franco.

Papà non sembrava contento che alla sua domanda fosse stato risposto con un‟altra domanda, e rimase saldo.

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“Io ho fatto la domanda per primo,” disse.

Il ragazzo trattenne il fiato. Tratteneva sempre il fiato quando stava per dire una bugia. “Non riuscivo a dormire quindi ho fatto un salto fuori per prendere una boccata d‟aria fresca”.

Papà scrollò la testa. “Bel tentativo, amico”. Franco era stato beccato. Doveva confessare.

“Va bene, Papà, è vero, ti ho seguito. Ma solo perché ero preoccupato per te”.

“Preoccupato per me? Io ero preoccupato per te. Aggrappato al tetto di un‟auto che andava a tutta birra. Ti sei bevuto il cervello?”.

“Non si stava muovendo quando ci sono salito io,” argomentò il ragazzo.

Questo non fece altro che far arrabbiare Papà ancora di più. “Ti saresti potuto ammazzare”.

Ci volle un attimo prima che il messaggio fosse recepito. Franco sospirò, e poi replicò: “Lo so, Papà. È stato stupido da parte mia. Ma, a quanto pare, stai per fare qualcosa di stupido anche tu”.

L‟uomo si soffermò un attimo. Non poteva avere la certezza di ciò che il figlio aveva sentito. “Non è come pensi”.

“Penso che sia qualcosa di sbagliato”. “Devo soltanto guidare”.

“Non può essere soltanto questo. Quelle sono persone cattive. Per favore, Papà, non farlo”.

Adesso l‟uomo aveva le lacrime agli occhi. “Ci sto provando, amico, ok? Ci provo. Provo a fare del mio meglio per te”.

Il ragazzo scosse la testa. “Papà, di qualunque cosa si tratti, non voglio che tu la faccia”.

“Ma si tratta di un colpo solo. Tutto qui. Un colpo solo. Poi ripagherò i miei debiti e rimarranno anche un po‟ di soldi per noi due”.

“Ma, Papà …”.

“Dai, amico, so quello che sto facendo. Hai visto come ho guidato stanotte”. “Ho avuto gli occhi chiusi per la maggior parte del tempo”.

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“Lo so. Ma qualunque cosa vogliano che tu faccia, per favore non farla. Non voglio che tu vada in prigione o venga ucciso. L‟incidente è stato già brutto abbastanza. Ho paura, Papà. Tanta paura”.

Franco gettò le braccia al collo del padre, e schiacciò la testa contro il suo petto. Non poté fare a meno di singhiozzare. In un batter d‟occhio, i lamenti passarono di figlio in padre. Le lacrime solcavano la faccia dell‟uomo. Era in una situazione orribile. Il Signor Grosso e la sua banda avevano minacciato la persona che amava più di tutti al mondo: suo figlio. Se Papà non avesse fatto ciò che volevano, Dio solo sa cosa avrebbero fatto a Franco.

“Dai, su, amico, non piangere,” disse Papà, accarezzando i capelli del figlio come aveva sempre fatto da quando Franco era piccolo.

“Sei sempre stato il mio eroe, Papà. Per favore, ti prego, ti prego. Non farlo”. Sollevò il mento e guardo suo padre diritto negli occhi.

L‟uomo non poteva sopportare di vedere così il figlio. “Beh, se questo è ciò che vuoi, allora non lo farò”. “Davvero?” chiese Franco.

“Davvero,” rispose Papà.

Un sorriso si insinuò sul volto del ragazzo. “Promesso?”.

“Promesso,” replicò Papà. “Troverò un altro modo per restituire il denaro”.

“Puoi sempre vendere il mio materassino”, questa fu l‟offerta del ragazzino. “Non mi interessa se devo dormire sul pavimento”.

Per qualche motivo, questo rattristì Papà ancora di più.

“Sei così dolce,” rispose l‟uomo con gli occhi che gli brillavano per le lacrime. “Adesso diamoci un abbraccione coccolone e vai a dormire”.

Avvolsero le braccia l‟uno intorno all‟altro. “Ok Papà, vado,” disse il ragazzino.

“Che bravo giovanotto”.

Con questo, Papà si alzò e si voltò per andarsene. Suo figlio lo richiamò. “Papà?”.

“Eh?”.

“Qualunque cosa accada, sarai sempre il mio eroe”.

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CAPITOLO 15 SALMI E PING-PONG

DRIIIIIN! fece il campanello.

Era il mattino seguente, di buon‟ora, e Franco barcollava lungo il corridoio ancora mezzo addormentato. Attraverso il vetro smerigliato della porta, il ragazzo poté distinguere la chiazza bianca del collarino ecclesiastico e quella ancora più grande dei denti. Era la Reverenda Giuditta. Una parola che si poteva usare per descriverla era: “dentona”.

Il trucco con la vicaria della città era di non farla entrare in casa tua. Se l‟avessi fatta entrare, per quanto gentile, non saresti più stato capace di liberartene. Il più delle volte la trovavi a bussare alle porte di tutti gli appartamenti, munita di cartelloni per le vendite di beneficenza, le mattinate dei dolci e il catechismo della domenica, che voleva che fossero appesi alle tue finestre. Qualche volta faceva tintinnare un barattolo per raccogliere monete per un nuovo tetto in chiesa, perché quello vecchio aveva un estremo bisogno di essere riparato. Ogni giorno, poi, riempiva la cassetta della posta con un nuovo volantino. Escogitava modi sempre più e più bizzarri per incoraggiare le persone ad andare in chiesa.

„La notte dei salmi e del ping-pong

Vieni in chiesa e gioca a ping-pong mentre leggi il tuo salmo preferito. Aperto a tutti. Tutti i venerdì!‟

„ROCK’n’ROLL con Nostro Signore

Lasciati andare alle ultime novità rock mentre stai pregando! Tutti i martedì dalle 11 alle 12 nella sala della chiesa.‟

„LA NOTTE DEL RAP

Ogni martedì dalle ore 19 serata d‟improvvisazione per tutte le stelle nascenti del rap. Prendete il microfono e rappate su tutto ciò che volete, a patto che riguardi in qualche modo il Nostro Signore e Salvatore.‟

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„Degustazione del vino dell’Eucarestia Tutti i mercoledì dalle ore19.‟

„Discoteca di Natale in maschera su due rotelle

Indossa i tuoi pattini e il tuo costume di Natale e celebra la nascita del bambin Gesù mentre fai a gara nella sala della chiesa. Prenota per la vigilia, il giorno di natale o per Santo Stefano.‟

„Competizione di street-dance. Giovedì Sera

Qualunque sia la tua età, vieni e mostra al Nostro Signore e padre dell‟umanità cosa sa fare la tua crew. Freestyle.‟

„Pazzesca gara di golf e canti sacri

Manda la palla in buca mentre canti. Tutti i martedì mattina. Il vincitore riceve un libro di canti sacri gratuitamente.‟

„I GRAFFITI SONO FIGHI!

Tutti i sabati sera vieni a fare i graffiti sui muri della chiesa3!‟

APPICCICA LA VICARIA

Tutti i sabati pomeriggio mi trovate nella piazza della città intrappolata in un ceppo in stile medievale. Siete tutti invitati a venire e a tirarmi qualsiasi tipo di roba appiccicosa, a patto che giuriate sulla vostra nonna di venire in chiesa la domenica.‟

„Pomeriggio Drum and bass e formaggio

Balla i tuoi pezzi di drum and bass preferiti mentre mangi formaggio e impari qualcosa sul sentiero verso la rettitudine.‟

“È bello vederti di nuovo, giovanotto” disse la Reverenda Giuditta con il suo sorriso a trentadue dentoni, mentre Franco apriva la porta d‟ingresso.

“Mi scusi se le sono venuto addosso!” replicò il ragazzo.

3

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“Sono io che mi dovrei scusare. Io ti sono venuta addosso.” “Scusi”.

“Scusa”. “Scusi”.

“Scusa. Posso entrare?” chiese la Vicaria. La sua faccia era in modalità cane che supplica per avere l‟osso.

“Dentro?” chiese il ragazzino. “Sì, dentro”.

“Nel senso … qua dentro”. “Sì, nel senso … là dentro”. “Nel senso dentro casa?”. “Sì”.

“Ora?”.

“Se per te va bene”.

Papà gridò dalla sua camera: “Chi ha suonato il campanello?”. “La vicaria” gridò Franco in risposta.

“Oh no!” replicò Papà. “Fai cosa ti pare, ma non far entrare quella maledetta donna!”.

La faccia della Reverenda Giuditta si rattristì. Adesso somigliava a un cane che era stato abbandonato sul ciglione della strada.

Franco tentò di sfoggiare un sorriso di comprensione. “Papà, è qui davanti alla porta”.

“Eh, fai cosa ti pare, ma non aprirla!”. “È già aperta”.

Per un momento, calò un silenzio imbarazzante. “Ha sentito tutto ciò che ho appena detto?”.

Franco guardò la Reverenda per ricevere conferma. La donna annuì.

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CAPITOLO 16

TUTTA BUSTINA E NIENTE TÈ

Papà zoppicò lungo il corridoio in mutande e canottiera, e mentre camminava cercava di riattaccarsi la gamba di legno.

“Reverenda Giuditta” annunciò allegramente. “Che bellissima sorpresa. È fantastico vederla! Perché sta lì davanti alla porta? Entri, entri!”.

“Grazie, grazie. Mi fa davvero piacere fare visita a tutti i miei parrocchiani,” disse la Reverenda mentre seguiva i due in cucina.

“Una tazza di tè, Vicaria?” chiese Papà.

“Sì, grazie. Molto gentile. Con latte e due di zucchero”. “Ti dispiace fare alla nostra ospite una tazza di tè, amico?”. “No, Papà” rispose Franco.

Preparare una tazza di tè non era un compito facile in quella casa. Il bollitore era stato portato via dai tizi senza scrupoli, ed erano troppo poveri per potersi permettere il tè o il latte.

“Mi dica, Vicaria, cosa possiamo fare per lei in questa splendida mattinata?” domandò Papà.

“Beh, sono sicura che lei sappia che domenica è la festa del papà, e sto organizzando qualcosa di piuttosto speciale in chiesa …”.

Una bustina di tè usata era stata lasciata al lato del lavello per essere utilizzata ancora e ancora e ancora. Adesso era abbastanza pallida, visto che era praticamente tutta bustina e niente tè.

“… e mi chiedevo se a lei e suo figlio potrebbe piacere venire in chiesa ed esibirvi in qualcosa per la congregazione”.

Franco stava ascoltando tutto mentre metteva la bustina dall‟aria triste in una tazza sbeccata e senza manico, e la riempiva con l‟acqua calda del rubinetto.

“Cosa intende per „esibirsi‟?” chiese Papà, con una nota di panico nella sua voce. Non era più stato in chiesa da quando era un bambino, e il solo pensiero lo riempì di terrore.

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“Può essere davvero qualsiasi cosa. Leggere un brano della Bibbia, suonare l‟organo della chiesa, cantare in un duetto, ballare un pezzo di danza moderna, recitare una poesia”.

Franco si voltò a guardare il papà, che adesso era diventato tanto pallido quanto la bustina di tè.

“Non sono un gran che come poeta,” replicò Papà. “La mia Zietta Ina è la poetessa della famiglia”.

“Splendido!” esclamò la vicaria. “Può leggere una delle sue poesie”.

“Cosa?”. In qualche modo Papà aveva acconsentito a qualcosa a cui non aveva affatto acconsentito.

Nel frattempo, Franco aveva aggiunto dello yogurt secco che era schizzato sul muro molti anni prima nella tazzina per il latte. Quanto allo zucchero, era stato costretto a improvvisare con una caramella mou mezza masticata che era appiccicata al pavimento da un po‟ di tempo. La buttò nella tazza con un PLOP, sperando che l‟acqua tiepida la sciogliesse.

Non accadde.

Un po‟ trepidante, Franco porse la tazza di tè (se davvero si poteva chiamare così) alla vicaria.

Lei sbirciò dentro l‟orrore che il ragazzo aveva creato. Sembrava l‟acqua sporca lasciata da un orco. Ne prese un sorso. Le sue narici si allargarono, gli occhi le iniziarono a lacrimare e la faccia si colorò di una spaventosa tonalità di verde. In qualche modo riuscì a mandare giù una sorsata di quel liquido schifoso.

Franco sorrise dentro di sé. Tutto ciò lo divertiva abbastanza. “Altro tè, vicaria?”. “Che noia, è già così tardi?” annunciò la Reverenda Giuditta, facendo finta di controllare il suo orologio, anche se non ne indossava uno.

“Devo proprio andare, quindi non potrò finire questo delizioso tè. Non vedo l‟ora di vedervi tutti e due domenica mattina di buon‟ora in chiesa con la vostra poesia”.

Papà annuì e cercò di forzare un sorriso che proprio non gli uscì.

Quando la porta si chiuse, Papà osservò la peggior tazza di tè che era mai stata fatta nella storia del mondo.

“Ben fatto, amico. Questa tazza di tè di è sbarazzata di lei”. “E cosa facciamo per domenica mattina?” chiese Franco.

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“In che senso?”.

“Le hai detto che saresti andato in chiesa a leggere una poesia”. “No, non l‟ho detto”.

“Beh, non le hai mai detto che non saresti andato in chiesa a leggere una poesia”. “Sì, è vero, ma …”.

“Niente „ma‟. Non puoi deludere la vicaria”. “Perché no?”.

“Perché … perché … perché … è una signora gentile”.

“Se è così gentile, perché mai avresti tentato di avvelenarla con quel tè?” disse per scherzo Papà.

Franco era infastidito da suo padre, e non avrebbe voluto ridere. Ma non riuscì a trattenersi.

“Ah! Ah!”.

Nel vedere il figlio che scoppiava a ridere, Papà gridò: “Beccato!”.

“Pensavo che quelle mutande tutte sudice sarebbero bastate a mandarla via per lo spavento!” disse Franco.

L‟uomo non sembrava contento che le sue mutande, che erano state lavate soltanto il mese prima, erano state descritte in quel modo. Si alzò per ispezionarle.

“E questa mutande sarebbero sud? Oh, povero me”.

“Su, Papà. Andiamo in chiesa domenica mattina. Solo per questa volta. Dopo tutto, è la festa del papà. Non devi fare niente, giusto?”.

“Domenica mattina. No, no, no. Niente impegni”.

“Allora faremo meglio a chiamare Zietta Ina, così può iniziare a lavorare su una poesia apposta per la festa del Papà”.

“Sì, non possiamo aspettare un secondo in più,” replicò Papà in un tono che suggeriva che sarebbe stato più che contento di aspettare per tutta l‟eternità.

CAPITOLO 17 SPLASH!

Il telefono non c‟era nel loro appartamento. La linea telefonica era stata staccata anni addietro perché non erano state pagate le bollette. Papà era troppo povero per avere un

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