• Non ci sono risultati.

3. FIGURE DELL’AMBIGUITÀ

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "3. FIGURE DELL’AMBIGUITÀ"

Copied!
20
0
0

Testo completo

(1)

93

3. FIGURE DELL’AMBIGUITÀ

3.1. RIOBALDO: DA UOMO PROVVISORIO A INDIVIDUO

DEFINITIVO

Finora abbiamo analizzato la rappresentazione del sertão presente all’interno del romanzo. Ci siamo focalizzati sulla caratterizzazione del luogo, andando a ricercarvi gli elementi che nella parte teorica abbiamo individuato come propri della semiperiferia: difficoltà definitorie, compresenza di temporalità distinte, debolezza del potere centrale, confini sfumati tra pubblico e privato, legalità e illegalità. Abbiamo, inoltre, messo a verifica il modo in cui gli avvenimenti narrati nel libro riflettono la fase storica in cui esso è ambientato. Ma il sertão non è presente nel romanzo solo in quanto vi è raffigurato il suo spazio e raccontata la sua storia; esso vi è presente anche perché i suoi personaggi principali sono essi stessi, su un piano figurale, delle traduzioni delle caratteristiche del sertão, vale a dire delle traduzioni di quella che abbiamo definito come l’identità paradossale della semiperiferia. In questa parte del lavoro analizzeremo in sequenza Riobaldo, il diavolo e Diadorim, cercando di capire in che misura essi si possano definire delle “figure”1

dell’ambiguità.

Partiamo da Riobaldo. Diviso tra i ruoli di narratore e protagonista, questi è già nella struttura del romanzo un personaggio doppio. Doppio prima di tutto in quanto sdoppiato nelle due temporalità dell’encunciazione e dell’enunciato, cui corrispondono, su un piano contenustico, due fasi ben distinte della vita del personaggio: quella da jagunço e quella da fazendeiro. Ma a questa prima grande divaricazione – su cui avremo modo di tornare – si devono aggiungere tutta una serie di altri sdoppiamenti che fanno di Riobaldo una vera e propria raffigurazione simbolica del concetto di ‘frontiera’.

1 Utilizziamo un po’ impropriamente il termine auerbachiano ‘figura’, che ci pare più adegauto di

altri semanticamente affini (simbolo, metafora), per fare riferimento a significanti costituiti da personaggi singolari e ben caratterizzati (non a entità generiche), che rimandano a significati situati su sfere superiori di significazione. Sfere superiori che, però, in questo caso, non attengono all’ambito religioso, ma a quello della costruzione dell’identità nazionale.

(2)

94

Nella sezione più teorica di questo lavoro, in cui abbiamo introdotto e analizzato il termine ‘semiperiferia’, abbiamo fatto riferimento all’ipotesi di Boaventura Sousa Santos secondo cui la cultura portoghese sarebbe una cultura costitutivamente ‘di frontiera’; laddove con tale espressione si intende una cultura che «Non ha contenuto. Ha soprattutto forma, e questa forma è la frontiera, la zona di frontiera»2. Abbiamo visto come ciò si traduca nel sogno (che è del Portogallo colonialista prima e del Brasile poi) dell’essere tutto a partire dal non essere niente. Di questo sogno, che poi non è altro che la valorizzazione dell’identità paradossale della semiperiferia, Riobaldo è una rappresentazione perfetta. Personaggio dai molti nomi, che dice di se stesso : «Em mim, apelido quase que não pegava. Será: eu nunca esbarro pelo quieto, num feitio?»3, Riobaldo/Tatarana/Urutu Branco è l’uomo delle contraddizioni e delle identità mescolate.

Per cominciare, egli è il figlio illegittimo di un fazendeiro-mor (Selorico Mendes) e di una tale Bigri, il cui nome, dal suono decisamente più africano che portoghese, sembra tradire un’orgine schiavile. È un essere, dunque, posizionato fin dalla nascita sulla frontiera tra due mondi: quello della casa grande e quello della senzala. Sull’identità razziale di Bigri (come su quella di Riobaldo) il testo non ci fornisce alcuna informazione; abbastanza chiara è però la sua classe sociale, a giudicare dalla misera eredità lasciata al figlio. Di seguito riportiamo il brano in cui Riobaldo racconta della morte della madre, con cui aveva vissuto fino alla prima adolescenza:

Minha mãe morreu – apenas a Bigri, era como ela se chamava. Morreu, num dezembro chovedor, aí foi grande a minha tristeza. Mas uma tristeza que todos sabiam, uma tristeza do meu direito. De desde, até hoje em dia, a lembrança de minha mãe às vezes me exporta. Ela morreu, como a minha vida mudou para uma segunda parte. Amanheci mais. De herdado, fiquei com aquelas miserinhas – miséria quase inocente – que não podia fazer questão: lá larguei a outros o pote, a bacia, as esteiras, panela, chocolateira, uma caçarola bicuda e um alguidar;

2 Cfr. cap. 1.1, nota 14. 3 Grande sertão, cit., p. 223.

(3)

95

somente peguei minha rede, uma imagem de santo de pau, um caneco-de-asa pintado de flores, uma fivela grande com ornados, um cobertor de baeta e minha muda de roupa. Puseram para mim tudo em trouxa, como coube na metade dum saco. Até que um vizinho caridoso cumpriu de me levar, por causa das chuvas numa viagem durada de seis dias, para a Fazenda São Gregório, de meu padrinho Selorico Mendes, na beira da estrada boiadeira, entre o rumo do Curralinho e o do Bagre, onde as serras vão descendo4.

Come si vede, Bigri è a pieno titolo un’esponente di quel sertão ‘di carne e sangue e mille e tante miserie’ che Riobaldo imparerà a conoscere molto da vicino, ma solo per allontanarsene del tutto, alla fine. Proprio nel brano citato (il primo nel romanzo in cui è riportato il nome della madre) possiamo individuare l’inizio di quel percorso di ascesa, che porterà il protagonista a staccarsi sempre di più dal mondo di lei, per avvicinarsi a quello del padre, in cui entrerà a pieno titolo dopo la morte di Selorico Mendes. Dell’importanza di questo primo momento di passaggio, il narratore è ben consapevole, quando ammette «Ela morreu, como a minha vida mudou para uma segunda parte. Amanheci mais». È l’inzio di una crescita («amanheci mais»), intesa come aumento di età, ma anche come miglioramento progressivo delle proprie condizioni di vita; nel verbo amanhecer (letteralmente ‘albeggiare’) c’è, infatti, sia il senso del progredire del tempo che dell’aumentare della luce.

Primo passo verso il “mondo del padre” è il trasferimento (dopo la morte di Bigri) nella fazenda di lui, ma ancora più importante è l’avviamento agli studi, che Riobaldo compie in un luogo che – come abbiamo visto – ha tutte le caratteristiche dello spazio di frontiera: Curralinho. In questo contesto multiculturale e diversificato, il protagonista acquista le basi culturali che ne faranno, una volta entrato nel banditismo, un jagunço sì, ma un jagunço letrado5, condizione che gli permetterà di elevarsi al di sopra dei compagni e gli assicurerà una posizione privilegiata durante il comando di Zé Bebelo. Entrato fin da

4 Ivi, pp. 149-150.

5 L’espressione è introdotta nella critica rosiana da Walnice Nogueira Galvão (As formas do falso,

(4)

96

giovane nelle grazie di quest’ultimo in quanto suo “professore” e “segretario”, sarà proprio grazie alla sua istruzione che il Tatarana si troverà nelle condizioni di assistere al tentato tradimento della banda da parte di Zé Bebelo; ciò lo porrà in una posizione di potere che lo condurrà piuttosto naturalmente all’assunzione del comando. Su questo episodio torneremo più diffusamente.

La condizione di letrado eleva socialmente Riobaldo al di sopra della massa dei rasos jagunços (quella a cui il siô Abano guarda come a una grande riserva di braccia da lavoro) e fa di lui un personaggio dotato degli strumenti necessari a entrare in comunicazione col mondo dei valori urbani, rappresentato dal suo interlocutore. Il discorso del narratore all’uomo di città (che costituisce la struttura portante del romanzo) è costellato di professioni di modestia e di ossequi alla cultura “superiore” di quest’ultimo. Di seguito si citano alcuni esempi:

O que eu invejo é sua instrução do senhor...6

Invejo é a instrução que o senhor tem. Eu queria decifrar as coisas que são importantes7.

Ah, o que eu prezava de ter era essa instrução do senhor, que dá rumo para se estudar dessas matérias...8

Se vê que o senhor sabe muito, em idéia firme, além de ter carta de doutor. Lhe agradeço, por tanto. Sua companhia me dá altos prazeres9.

Sou só um sertanejo, nessas altas idéias navego mal. Sou muito pobre coitado. Inveja minha pura é de uns conforme o senhor, com toda leitura e suma douturação10.

Ma è lo stesso Riobaldo che, poco dopo essersi definito «só um sertanejo», «pobre coitado», che naviga male in «altas idéias», tiene a sottolineare:

6 Grande sertão, cit., p.77. 7 Ivi, p. 144.

8 Ivi, p. 323. 9 Ivi, p. 27. 10 Ivi, p. 12.

(5)

97

Não é que eu esteja analfabeto. Soletrei, anos e meio, meante cartilha, memória e palmatória. Tive mestre, Mestre Lucas, no Curralinho, decorei gramática, as operações, regra-de-três, até geografia e estudo pátrio. Em folhas grandes de papel, com capricho tracei bonitos mapas. Ah, não é por falar: mas, desde o começo, me achavam sofismado de ladino. E que eu merecia de ir para cursar latim, em Aula Régia – que também diziam. Tempo saudoso! Inda hoje, apreceio um bom livro, despaçado. Na fazenda O Limãozinho, de um meu amigo Vito Soziano, se assina desse almanaque grosso, de logogrifos e charadas e outras divididas matérias, todo ano vem. Em tanto, ponho primazia é na leitura proveitosa, vida de santo, virtudes e exemplos – missionário esperto engambelando os índios, ou São Francisco de Assis, Santo Antônio, São Geraldo... Eu gosto muito de moral. Raciocinar, exortar os outros para o bom caminho, aconselhar a justo11.

È un uomo con una certa istruzione, che apprezza un «bom livro», soprattutto se tratta di argomenti edificanti («vida de santo, virtudes e exemplos – missionário esperto engambelando os índios, ou São Francisco de Assis, Santo Antônio, São Geraldo»), appassionato di «moral» e a cui piace particolarmente «Raciocinar, exortar os outros para o bom caminho, aconselhar a justo». Insomma, è ben lontano dall’occuparsi solo del ‘triviale’ della vita.

“Baldo, você carecia mesmo de estudar e tirar carta-de-doutor, porque para cuidar do trivial você jeito não tem. Você não é habilidoso”12.

Queste le parole del maestro Lucas su di lui. E infatti Riobaldo, una volta divenuto jagunço, manterrà sempre uno statuto particolare all’interno del gruppo, in bilico tra il dentro e il fuori, come se fosse finito lì dentro per caso, sapendo fin dall’inizio che la sua esperienza nel mondo del sertão di carne e sangue sarà solo una tappa passeggiera in un percorso di vita che lo porterà a elevarsi sempre di più rispetto alla gente della sua terra (il mondo della madre), fino a entrare a pieno titolo nell’universo a sé stante delle classi dominanti. Si vedano i brani seguenti:

achava que não tinha nascido para aquilo, de ser sempre jagunço não gostava. Como é, então, que um se repinta e se sarrafa? Tudo sobrevém13.

11 Ivi, p. 13. 12 Ivi, p. 153.

(6)

98

Tudo, naquele tempo, e de cada banda que eu fosse, eram pessoas matando e morrendo, vivendo numa fúria firme, numa certeza, e eu não pertencia a razão nenhuma, não guardava fé e nem fazia parte14.

carece de se escolher: ou a gente se tece de viver no safado comum, ou cuida só de religião só. Eu podia ser: padre sacerdote, se não chefe de jagunços; para outras coisas não fui parido15.

Quest’ultimo brano risulta particolarmente significativo in quanto illustra la concezione di Riobaldo del jaguncismo come immersione nel mondo reale (concezione opposta a quella del padre), per lui che sarebbe potuto essere un individuo “astratto” (un sacerdote). È chiaro che qui il termine religião non fa riferimento al mondo più che concreto delle credenze e dei rituali della gente del luogo, ma alle speculazioni filosofiche e morali di matrice occidentale, di cui padri cristiani (i gesuiti in particolar modo) sono stati tra i prinicipali diffusori in Brasile.

Emblematico è, inoltre, il desiderio di città (intese come luoghi “civili”, di ordine e pulizia, dimore della vita tranquilla e ragionevole, del «pessoal sensato» e dei suoi «pagáveis trabalhos», nonché centri della modernizzazione) che si va formando in Riobaldo quanto più si inoltra nel mondo “selvaggio” del sertão, conferendogli l’impressione di trovarsi fuori posto nel luogo stesso da cui proviene:

E, desde, naquela hora, a minha idéia se avançou por lá, na grande cidade de Januária, onde eu queria comparecer, mas sem glórias de guerra nenhuma, nem acompanhamentos. Alembrado de que no hotel e nas casas de família, na Januária, se usa toalha pequena de se enxugar os pés; e se conversa bem. Desejei foi conhecer o pessoal sensato, eu no meio, uns em seus pagáveis trabalhos, outros em descanso comedido, o povo morador. A passeata das bonitas moças morenas, tão socialmente, alguma delas com os cabelos mais pretos rebrilhados, cheirando a óleo de umbuzeiro, uma flor airada enfeitando o espírito daqueles cabelos certos. À

13 Ivi, p. 86. 14 Ivi, p. 194. 15 Ivi, p. 14.

(7)

99

Januária eu ia, mais Diadorim, ver o vapor chegar com apito, a gente esperando toda no porto. Ali, o tempo, a rapaziada suava, cuidando nos alambiques, como perfeito se faz. Assim essas cachaças – a vinte-e-seis cheirosa – tomando gosto e cor queimada, nas grandes dornas de umburana16.

Esquipando, eu queria que a gente entrasse, daquele jeito, era em alguma grande verdadeira cidade17.

Também eu queria que tudo tivesse logo um razoável fim, em tanto para eu então largar a jagunçagem. Minha Otacília, horas dessas, graças a Deus havia de parar longe dali, resguardada protegida. O tudo conseguisse fim, eu batia para lá, topava com ela, conduzia. Aí eu aí desprezava o ofício de jagunço, impostura de chefe. Sei quem é chefe? Só o gatilho de arma-de-fogo e os ponteiros do relógio. Sensato somente eu saísse do meio do sertão, ia morar residido, em fazenda perto da cidade18.

E così il sertanejo Tatarana arriverà a dire: «A minha terra era longe dali, no restante do mundo. O sertão é sem lugar»19.

L’esperienza del jaguncismo è, infatti, per Riobaldo un’esperienza ambivalente: da una parte è un rituffarsi a pieno nel sertão ‘di carne e sangue mille e tante miserie’ (il mondo della madre), dall’altra è il mezzo attraverso cui può entrare definitivamente nel mondo del padre (quello degli ‘uomini definitivi’, che – come il siô Abano – non sembrano neanche più sertanejos). Attraverso le imprese compiute come capo jagunço, infatti, egli si conquisterà la stima di Selorico Mendes e, di conseguenza la sua eredità.

Sospeso tra il mondo del padre e quello della madre, tra l’universo brutalmente concreto del jaguncismo e quello astratto delle “altas idéias”, tra il sertão e la città, Riobaldo è – come abbiamo detto – una vera e propria personificazione dell’idea di “frontiera”. È un ibrido a tutti gli effetti (probabilmente anche dal

16 Ivi, pp. 477-478. 17 Ivi, p. 642. 18 Ivi, pp. 824-825. 19 Ivi, p. 500.

(8)

100

punto di vista razziale) e in questo rappresenta molto bene la natura contradditoria e plurale dello spazio semiperiferico (del sertão e del Brasile stesso).

Compadre meu Quelemém diz: que eu sou muito do sertão? Sertão: é dentro da gente20.

Ma egli assomiglia allo spazio semiperiferico soprattutto in quanto è un personaggio sem nenhum caráter.

De seguir assim, sem a dura decisão, feito cachorro magre que espera viajantes em ponto de rancho, o senhor quem sabe vá achar que eu seja homem sem caráter. Eu mesmo pensei. Conheci que estava chocho, dado no mundo, vazio de um meu dever honesto21.

Riobaldo è un esserre «dado no mundo», senza una sua direzione precisa, senza un suo peculiare assetto di convinzioni di qualsiasi tipo, politiche, religiose etc.:

Eu cá, não perco ocasião de religião. Aproveito de todas. Bebo água de todo rio... Uma só, para mim é pouca, talvez não me chegue. Rezo cristão, católico, embrenho a certo; e aceito as preces de compadre meu Quelemém, doutrina dele, de Cardéque. Mas, quando posso, vou no Mindubim, onde um Matias é crente, metodista: a gente se acusa de pecador, lê alto a Bíblia, e ora, cantando hinos belos deles. Tudo me quieta, me suspende. Qualquer sombrinha me refresca. Mas é só muito provisório. Eu queria rezar – o tempo todo. Muita gente não me aprova, acham que lei de Deus é privilégios, invariável. E eu! Bofe! Detesto! O que sou? – o que faço, que quero, muito curial. E em cara de todos faço, executado. Eu não tresmalho!22

Questo «pobre menino do destino»23, nella cui vita «as coisas importantes, todas, em caso curto de acaso foi que se conseguiram – pelo pulo fino de sem ver se dar – a sorte momenteira, por cabelo por um fio, um clim de clina de cavalo»24

, non è 20 Ivi, p. 435. 21 Ivi, pp. 193-194. 22 Ivi, p. 15. 23 Ivi, p. 17. 24 Ivi, p. 171.

(9)

101

niente (di definito) e proprio per questo – secondo la formula che abbiamo individuato per la realtà della semiperiferia – potrà essere tutto (raso jagunço, chefe, fazendeiro, letrado etc...). In questo egli è davvero ‘molto del sertão’, in quanto assomiglia a questo spazio paradossale, peculiare nella sua mancanza di un identità chiara (esprimibile in confini certi, in uno spazio cartografabile). Ma più in generale potremo dire che egli è ‘molto del Brasile’, per come lo abbiamo descritto nella sezione più teorica di questo lavoro.

Ma col Brasile Riobaldo condivide anche e soprattutto un conflitto tra temporalità disgiunte: quelle che abbiamo descritto nel capitolo 2.2 come proprie del sertão e del Brasile ufficiale. La vita di Riobaldo è infatti contrassegnata da un’ascesa sociale sintetizzabile nei termini di un passaggio dal mondo degli ‘uomini provvisori’ a quello degli ‘individui definitivi’, vale a dire dal tempo ciclico, ricorsivo, senza direzione del mondo del sertão al tempo lineare, progressivo, teleologico del mondo del Brasile ufficiale, cioè del Potere. Egli, infatti, per quanto sia un personaggio ‘senza carattere’, che si muove spinto più dal caso che da una direzione precisa, contraddittorio e indefinibile, è allo stesso tempo – paradossalmente – un personaggio attraversato da una forte ansia definitoria, da un forte desiderio di stabilità e di normazione:

Sempre sei, realmente. Só o que eu quis, todo o tempo, o que eu pelejei para achar, era uma só coisa – a inteira – cujo significado e vislumbrado dela eu vejo que sempre tive. A que era: que existe uma receita, a norma dum caminho certo, estreito, de cada uma pessoa viver – e essa pauta cada um tem – mas a gente mesmo, no comum, não sabe encontrar; como é que, sozinho, por si, alguém ia poder encontrar e saber? Mas, esse norteado, tem. Tem que ter. Se não, a vida de todos ficava sendo sempre o confuso dessa doideira que é25.

Riobaldo sa bene che la vita è una «doideira», eppure combatte per normarla, per ridurre la sua ambiguità soverchiante a una dimensione di rassicurante certezza. Questa istanza di ricerca dell’ordine, attraverso l’eliminazione di tutto ciò che di eccedente c’è nel reale, è perfettamente incarnata nella figura del compare

(10)

102

Quelemém, sorta di coscienza razionalizzante (ma anche banalizzante) di Riobaldo e da lui continuamenete nominato come esempio di saggezza e avvedutezza. Per il compare Quelemém, il mondo è retto dalla ferrea necessità e dall’assoluta certezza: responsabili degli influssi negativi sono «os baixos espíritos descarnados, de terceira»26, se dei bambini innocenti soffrono mali terribili «por certo, noutra vida revirada, os meninos também tinham sido os mais malvados»27, per stare tranquilli riguardo alla propria salvezza basta poter disporre delle preghiere altrui e perciò è inutile farsi scrupoli di coscienza28. Il compare Quelemém consola Riobaldo («Compadre meu Quelemém é quem muito me consola»29), gli dà consigli per vivere una vita quieta («Compadre meu Quelemém me dá conselhos, de tranqüilidade»30), silenzia le sue incertezze («Compadre meu Quelemém reprovou minhas incertezas»31).

Il percorso biografico di Riobaldo è, in certa misura, interpretabile come un itinerario verso la stabilità e la normatività. Paradossalmente, il punto di snodo fondamentale di questo itinerario è proprio quel patto col diavolo che costituisce la principale ossessione del narratore, continuamente in cerca di argomenti “sensati” tramite cui negarne la realtà. Il ruolo del diavolo all’interno del romanzo sarà materia del prossimo capitolo. Ora ci preme mettere in luce i passaggi significativi di questo itenerario di Riobaldo.

Abbiamo visto come per lui la scelta del jaguncismo sia avvenuta quasi per caso; abbiamo visto, inoltre, come la vita all’interno della banda sia una vita senza scopi, ricorsiva, che si consuma in uno stare insieme fine a se stesso, che rende impossibile ai jagunços immaginarsi come degli ‘individui’ dotati di un’esistenza 26 Ivi, p. 6. 27 Ivi, p 10. 28

«Minha mulher, que o senhor sabe, zela por mim: muito reza. Ela é uma abençoável. Compadre meu Quelemém sempre diz que eu posso aquietar meu temer de consciência, que sendo bem-assistido, terríveis bons-espíritos me protegem» (ivi, p. 13)

29 Ivi, p. 6. 30 Ivi, p. 692. 31 Ivi, p. 10.

(11)

103

pensabile al di fuori del proprio circuito di relazioni. Abbiamo anche visto, però, che Riobaldo ha da sempre mantenuto una posizione particolare all’interno del gruppo: in bilico tra il dentro e il fuori, tra il sentirsi parte della banda e il sentirsi incamminato verso un altro destino. Vedremo ora che mano a mano che il protagonista proseguirà nel suo percorso lineare di ricerca di certezze e stabilità, egli non solo ascenderà socialmente, ma inizierà sempre più a pensarsi come un individuo isolato. Abbandonerà, insomma, del tutto il relazionalismo dell’homem cordial, abbracciando in pieno la filosofia individualista propria delle democrazie liberali occidentali.

Primo passo in questo percorso è, a nostro pararere l’episodio della battaglia nella Fazenda dos Tucanos, che merita un’analisi a parte. Si tratta di una delle battaglie che occupano più spazio all’interno del romanzo e che sono descritte nel modo più dettagliato. A fronteggiarsi sono la banda di Zé Bebelo (di cui fa parte Riobaldo) e quella di Hermógenes e Ricardão. I nostri, dopo un pellegrinare infruttuoso il cui senso sembra essere chiaro solo alla mente macchinosa del loro capo, giungono in una fazenda disabitata (Os Tucanos) e lì sostano per alcuni giorni, fino a essere sorpresi dai nemici, che procedono a un vero e proprio assedio della tenuta. Durante questo assedio Riobaldo, in ragione della sua mira eccellente, si vedrà assegnata una posizione di combattimento privilegiata (e isolata). Mentre i suoi compagni saranno esposti ai maggiori rischi nelle zone più basse della casa, il protagonista si troverà a sparare sui nemici, dall’alto, attraverso una finestra, in una zona in cui la visuale sugli avversari è massima, e minima è la possibilità di essere colpito. Questa posizione sopraelevata di Riobaldo – rispetto ai nemici ma soprattuto ai compagni – prefigura l’analoga posizione che il protagonista occuperà nella battaglia finale del romanzo: quella del Paredão (anche lì davanti a una finestra isolata, al piano superiore di un’abitazione). In quest’ultima occasione sarà esplicitato ciò che nella battaglia dos Tucanos rimane abbastanza sotteso: la valenza simbolica di questa posizione sopraelevata, cui corrisponde il ruolo altrettanto sopraelevato di Riobaldo rispetto agli altri membri della sua banda. Nei Tucanos, infatti, il Tatarana inizia una presa di coscienza che lo condurrà all’assunzione progressiva del potere, e, contemporaneamente, a un

(12)

104

distanziamento dai compagni e a una concentrazione sempre più esclusiva su se stesso e sulla propria autoaffermazione. Tale presa di coscienza passerà attraverso la perdita di fiducia di Riobaldo nei confronti del suo capo e la percezione sempre più netta di dovere essere proprio lui ad assumersi il compito di condurre i jagunços fuori da un vagare senza meta, verso l’obiettivo finale dell’annientamento dei giuda (così sono più volte definiti Hermógenes e Ricardão). Tutto ha inizio con Zé Bebelo che si reca da Riobaldo per comunicargli che ha un compito per lui:

Ah! E então, aí, no súbito aparecer, Zé Bebelo chegou, se encostou quase em mim. – “Riobaldo, Tatarana, vem cá...” – ele falou, mais baixo, meio grosso – com o que era uma voz de combinação, não era a voz de autoridade. A de ver, o que ele quisesse de mim? Para eu passar avante na posição, me transpor para um lugar onde se matar e morrer sem beiras, de maior marca? Andei e segui, presente que, com Zé Bebelo, tudo carecia mais era de ser depressa. Mesmo me levou. Mas me levou foi para um outro cômodo. Ali era um quarto, pequeno, sem cama nenhuma, o que se via era uma mesa. Mesa de madeira vermelha, respeitável, cheirosa. Desentendi. Dentro daquele quarto, como que não entrava a guerra. Mas o pensar de Zé Bebelo – ansiado eu sabia – era coisa que estralejava, inventaste e forte. – “Mais antes larga o rifle aí, deposita...” – ele falou. O depor meu rifle? Pois botei, em cima da mesa, esquinado de través, botei com o todo cuidado. Ali se tinha lápis e papel. – “Senta, mano...” – ele, pois ele. Ofereceu a cadeira, cadeira alta, de pau, com recosto. Se era para sentar, assentei, em beira de mesa. Zé Bebelo de revólver pronto na mão, mas que não contra mim – o revólver era o comando, o constante revirar e remexer da guerra. E ele nem me olhou, e me disse: – “Escreve...”32

L’episodio ha tutta la sollennità del rito, con Riobaldo che si spoglia delle sue vesti di guerriero (posa la carabina) e si prepara a vestire quelle del bacherel (carta e penna); con il revolver di Zé Bebelo che in quel momento «era o comando». E infatti quella che si consuma nella stanzetta in cui «como que não entrava a guerra» è una vera e propria investitura. Riobaldo è messo a sedere su una specie di trono («a cadeira, cadeira alta, de pau, com recosto»), davanti a una

(13)

105

«Mesa de madeira vermelha, respeitável, cheirosa» e da lì è incaricato di far valere la facoltà che – come si diceva – l’ha sempre distinto dai rasos jagunços: il suo essere un letrado. Il suo compito è infatti quello di scrivere; e scrivere ai potenti, vale a dire ai rappresentanti del Brasile ufficiale nella zona («missiva para o senhor oficial comandante das forças militares, outro para o excelentíssimo juiz da comarca de São Francisco, outro para o presidente da câmara de Vila Risonha, outro para o promotor»)33. A sancire l’ufficialità dell’atto che si sta compiendo, la lettera è terminata con la chiusa formale «Ordem e Progresso, viva a Paz e a Constituição da Lei!»34 e firmata «José Rebelo Adro Antunes, cidadão e candidato»35. Zé Bebelo, in pratica, si sta appellando al suo amato o Brasil, cui offre ora la possibilità di prendere in un solo colpo «toda a jagunçada maior reinante no vezvez desses gerais sertões»36.

Ora, non sappiamo con certezza – come non lo sa Riobaldo, al cui punto di vista restiamo vincolati – se quello di Zé Bebelo sia effettivamente un tentato tradimento o piuttosto una geniale strategia per creare una confusione generale e approfittarne per sfuggire a una situazione altrimenti senza vie d’uscita (cosa che effettivamente i nostri faranno). Quello che sappiamo è che da quel momento in poi i rapporti di forza tra il protagonista e Zé Bebelo sono destinati a mutare completamente:

Mas, então, eu carecia de encostar Zé Bebelo, o espremer na franca fala. A que ele soubesse de minha lei: a que ele sem um aviso não se desgraçasse. Mesmo por causa da gente – porque Zé Bebelo era a perdição, mas também só ele podia ser a salvação nossa. Então, com ele eu ia falar, o quieto desafio. Adiantava? Aí não adiantasse. Mas, então, eu carecia de armar um poder, carecia de subir para cima daquele homem. Eu tinha de encher de medo as algibeiras de Zé Bebelo. Só isso era o que valia37.

33 Ivi, p. 464. 34 Ivi, p. 465. 35 Ibidem. 36 Ibidem. 37 Ivi, p. 492.

(14)

106

Il lessico usato nel brano appena citato è piuttosto esplicito: lei, poder, subir para cima, medo. Quella a cui assistiamo è una lotta per il Potere, che Riobaldo ben presto vincerà.

È interessante notare che questo momento di presa di coscienza del Tatarana (nonché di inizio della sua ascesa) coincide con il momento di maggiore orgoglio jagunço di Riobaldo, quello in cui il protagonista si sente più intimamente investito del ruolo di rappresentate del sertão ‘di carne e sangue’, nella lotta contro l’oppressione del potere ufficiale. Si veda questa conversazione tra i due personaggi:

“O senhor, chefe, o senhor é amigo dos soldados do Governo...” E eu ri, ah, riso de escárnio, direitinho; ri, para me constar, assim, que de homem ou de chefe nenhum eu não tinha medo. E ele se sustou, fez espantos. Ele disse: – “Tenho amigo nenhum, e soldado não tem amigo...” Eu disse: – “Estou ouvindo.” Ele disse: – “Eu tenho é a Lei. E soldado tem é a lei...” Eu disse: – “Então, estão juntos.” Ele disse: – “Mas agora minha lei e a deles são às diversas: uma contra a outra...” Eu disse: – “Pois nós, a gente, pobres jagunços, não temos nada disso, a coisa nenhuma...” Ele disse: – “Minha lei, sabe qual é que é, Tatarana? É a sorte dos homens valentes que estou comandando...” Eu disse: – “É. Mas se o senhor se reengraçar com os soldados, o Governo lhe repraz e lhe premeia. O senhor é da política. Pois não é? Õ gente – deputado...”38

Qui Riobaldo – come Joca Ramiro durante l’episodio del processo – rivendica per sé il ruolo di rappresentante del sertão contro o Brasil, della legge contro la Legge. Di fronte a Zé Bebelo che dice «Eu tenho é a Lei. E soldado tem é a lei...», il Tatarana rivendica per se stesso il ruolo di legittimo interprete di quella povera gente cui la Legge (ma neanche la legge) non offre nessuna garanzia. Quel Riobaldo che aveva rifiutato il comando alla morte di Medeiro Vaz, sostenendo di se stesso: «Sou de ser e executar, não me ajusto de produzir ordens...»39, ora è pronto a sfidare apertamente e da solo il suo stesso capo. Quello stesso Riobaldo che si è sempre sentito un fuori-posto all’interno di tutte le bande di cui ha fatto

38 Ivi, pp. 472-473. 39 Ivi, p. 106.

(15)

107

parte, ora pensa, con disprezzo, di Zé Bebelo che «não estava do lado de ninguém. Zé Bebelo – cortador de caminhos»40. Ed è proprio in questo frangente che quest’ultimo chiama per la prima volta Riobaldo col nome di Urutu Branco, che sarà il suo nome da capo:

“Ah: o Urutu Branco: assim é que você devia se chamar... E amigos somos. A ver, um dia, a gente vai entrar, juntos, no triunfal, na forte cidade de Januária...”41

Ma il momento di massima identificazione con il mondo jagunço è – come si accennava – anche il primo inesorabile passo verso il distacco definitivo dai compagni, che andrà di pari passo con la sua ascesa al comando. E infatti, poche pagine più tardi, Riobaldo rifletterà:

Seja ou não se aquele negócio entendessem, os companheiros aprovavam. Até Diadorim. Seja Zé Bebelo levantava a idéia maior, os prezados ditos, uma idéia tão comprida. O teatral do mundo: um de estadela, os outros ensinados calados. Sempre sendo, em todo o caso, que Zé Bebelo me semiolhava espreitado avulso, sob receios e respeito. Só eu, afora ele, ali, misturava as matérias. Só eu era que guardava minha exata esperaçao, o que me engraçava42.

Egli si assume il compito di sorvegliare Zé Bebelo da solo, senza confidarsi con nessuno (neppure con Diadorim). I membri della sua banda per lui non sono già più compagni, sono povere creature ignare che all’arrivo della soldatesca esultano come bambini43 e che

«

Todos seguiam caminho de seus costumes; no novo não conseguiam de se nortear»44.

40 Ivi, p. 477. 41 Ivi, p. 477. 42 Ivi, p. 517.

43 «Com a chegada da soldadesca, o que parecia moagem era para eles era festa. Assim uns

gritaram feito araras machas. Gente! Feito meninos» (ivi, p. 506).

44 Ivi, p. 520. «pobres infâncias na relega» è – come abbiamo visto – il modo in cui Riobaldo

definisce i compagni anche nel sogno di traversata del sertão con Zé Bebelo «canoneiro mestre». Cfr. cap. 2.2.

(16)

108

Un altro momento di passaggio importantissimo nell’ascesa di Riobaldo al potere è l’incontro con uno degli ‘individui definitivi’ del romanzo: il siô Abano. Ci siamo già soffermati sull’episodio. Abbiamo già sottolineato come Riobaldo si elevi, anche in quel contesto, al di sopra di tutti i compagni, stavolta non in quanto difensore degli interessi del mondo jagunço, ma in quanto figlio di Selorico Mendes, un altro ‘individuo definitivo’. E sarà proprio nella notte immediatamente successiva all’incontro con Abano che il Tatarana si recherà nelle Veredas-mortas, in una encruzilhada, a incontrare il demonio e a stipulare con lui il famoso patto. Prendiamo ora in analisi l’episodio del patto, uno degli episodi chiave dell’intero romanzo.

Il patto con il diavolo è l’ultimo atto del percorso attraverso il quale Riobaldo passa dalla condizione di raso jagunço a quella di chefe. Non sappiamo con certezza se tale patto sia avvenuto davvero o se sia solo un’autosuggestione del protagonista, ma la questione in sé è poco importante. Quello che importa è che si tratta del gesto di più ferma decisione che vediamo compiere al personaggio dall’inizio alla fine del romanzo; ferma decisione che è il frutto di un sforzo volontaristico del Tatarana per uscire dal tempo ciclico e ricorsivo del vagabondare jagunço (ma, più in generale, della vita sertaneja) ed entrare nel “regno dei fini”, vale a dire in una prospettiva di vita lineare e progressiva. Nell’incontro col siô Abano, Riobaldo ha compreso la precarietà del suo vivere (di essere ‘un uomo molto provvisorio’) e ha deciso di ribellarsi a questa precarietà costruendosi un obiettivo:

Ao que não vinha – a lufa de um vendaval grande, com Ele em trono, contravisto, sentado de estadela bem no centro. O que eu agora queria! Ah, acho que o que era meu, mas que o desconhecido era, duvidável. Eu queria ser mais do que eu. Ah, eu queria, eu podia. Carecia. “Deus ou o demo?” – sofri um velho pensar. Mas, como era que eu queria, de que jeito, que? Feito o arfo de meu ar, feito tudo: que eu então havia de achar melhor morrer duma vez, caso que aquilo agora para mim não fosse constituído. E em troca eu cedia às arras, tudo meu, tudo o mais – alma e palma, e desalma... Deus e o Demo! – “Acabar com o Hermógenes! Reduzir aquele homem!...” –; e isso figurei mais por precisar de firmar o espírito em formalidade

(17)

109

de alguma razão. Do Hermógenes, mesmo, existido, eu mero me lembrava – feito ele fosse para mim uma criancinha moliçosa e mijona, em seus despropósitos, a formiguinha passeando por diante da gente – entre o pé e o pisado45.

Hermógenes è un pretesto, qualcosa che serve per «firmar o espírito em formalidade de alguma razão». Quello che preme davvero a Riobaldo non è uccidere quest’uomo, né vendicare Joca Ramiro; quello che gli preme è avere una direzione, un progetto nella realizzazione del quale investire finalmente tutte le sue facoltà. Il perseguimento esclusivo dell’autoaffermazione («Eu queria ser mais do que eu») rafforzerà l’individualità di Riobaldo, a scapito delle sue relazioni. È il passaggio dall’homem cordial (che si definisce nelle proprie relazioni) all’individuo borghese occidentale, che è tanto più se stesso quanto più è distinito dal resto del mondo. Il brano seguente è emblematico:

Conforme eu pensava: tanta coisa já passada; e, que é que eu era? Um raso jagunço atirador, cachorrando por este sertão. O mais que eu podia ter sido capaz de pelejar certo, de ser e de fazer; e no real eu não conseguia. Só a continuação de airagem, trastejo, trançar o vazio. Mas, por quê? – eu pensava. Ah, então, sempre achei: por causa de minha costumação, e por causa dos outros. Os outros, os companheiros, que viviam à-toa, desestribados; e viviam perto da gente demais, desgovernavam toda a hora a atenção, a certeza de se ser, a segurança destemida, e o alto destino possível da gente. De que é que adiantava, se não, estatuto de jagunço? Ah, era. Por isso, eu tinha grande desprezo de mim, e tinha cisma de todo o mundo. Apartado. De Zé Bebelo, mais do que de todos46.

Riobaldo per la prima volta vede se stesso con gli occhi “finalizzanti” del siô Abano: occhi abituati a vedere in ogni cosa un mezzo per conseguire un fine che sta al di fuori di essa (negli uomini un mezzo per fare denaro). E quello che vede con questi nuovi occhi è un raso jagunço, un individuo senza scopo alcuno («Só a continuação de airagem, trastejo, trançar o vazio»). Si chiede allora che cosa lo renda così e la sua risposta è emblematica: la sua abitudine, ma soprattutto «Os outros, os companheiros, que viviam à-toa, desestribados; e viviam perto da gente

45 Ivi, pp. 599-600. 46 Ivi, pp. 574-575.

(18)

110

demais, desgovernavam toda a hora a atenção, a certeza de se ser, a segurança destemida, e o alto destino possível da gente».

Il passaggio è già compiuto e non c’è bisogno di nessun patto col diavolo: Riobaldo è già un potente, un ‘individuo definitivo’ che pensa con la sua testa e vede negli altri, nella migliore delle ipotesi, solo un elemento di distrazione, nella peggiore, uno strumento da utilizzare per la realizzazione dei propri progetti. Li vede, insomma, già come dei sottoposti: i suoi guerrieri prima, i suoi vassalli poi (quando andrà a vivere nella fazenda del padre, circondato dagli ex compagni come da un esercito privato). Ma perché questo percorso sia definitvo manca ancora un passaggio: la battaglia finale.

In questa battaglia Riobaldo avrà un ruolo abbastanza marginale: inizierà quando lui è lontano dagli altri, a farsi un bagno in un lago, e finirà con lui solo, in cima a una casa padronale («a residência alta do Paredão, soberana das outras»)47, che guarda impotente i compagni che si affrontano ad armi bianche coi nemici; sintomo del fatto l’Urutu Branco ha ormai portato drammaticamente a temine il percorso di innalzamento sugli altri iniziato nei Tucanos. Quando inizia sentire i rumori che denunciano lo scoppio dello scontro finale, il capo non si precipita a combattere, ma ha più di un momento di titubanza, in cui gli pare di udire una voce sussurrargli all’orechhio:

Tu não vai lá, tu é doido? Não adianta... Não vai, e deixa que eles mesmos uns e outros resolvam, porque agora eles começaram tudo errado e diferente, sem perfeição nenhuma, e tu não tem mais nada com isso, por causa que eles estragaram a guerra...48

Il desiderio di ordine del protagonista è ormai giunto alle sue estreme conseguenze; egli non è più capace di mescolarsi con il caos dell’esistenza ma solo di guardarlo a distanza, dall’alto:

47 Ivi, p. 837. 48 Ivi, p. 833.

(19)

111

Para uma janela me cheguei. E endureci no rifle. Em volta relanceei. Eu – o bedegas! Saiba o senhor: eu estava ali, assim em padastro de todos, de do ar, de rechego, feito que em jirau-de-espera, para castigar onça assassinã. Vi ou não vi? Só espreitei. Dono do que lucrei, de espreitar49.

Riobaldo si trova lontano dall’infuriare della battaglia e da quegli uomini di carne e sangue che erano stati i suoi compagni: Diadorim in primis. Ma da questa visuale privilegiata l’unica cosa che potrà fare sarà stare a guardare mentre i compagni rischiano e muoiono:

Ai, eles se vinham, cometer. Os trezentos passos. Como eu estava depravado a vivo, quedando. Eles todos, na fúria, tão animosamente. Menos eu! Arrepele que não prestava para tramandar uma ordem, gritar um conselho. Nem cochichar comigo pude50.

Fino a che sverrà: una prima volta durante il combattimento, risvegliandosi in mezzo ai compagni che gli riferiscono la vittoria, ma al prezzo terribile della morte di Diadorim. Qui avrà anche l’altrettanto terribile rivelazione del vero sesso di Diadorim e, dunque, della propria insensata rinuncia all’amore della sua vita. Su questo torneremo. Ma sverrà anche una seconda volta, durante un ultimo viaggio alle Veredas-mortas, tentativo estremo e inutile di tornare indietro nel tempo, prima del suo definitivo distacco dal mondo dei compagni e da Diadorim. Ma stavolta si risveglierà in tutt’altro luogo: a casa del siô Ornelas, dove – come abbiamo visto – riceverà la visita della futura moglie e la notizia dell’eredità ricevuta. Riobaldo è ormai un ‘individuo definitivo’, rappresentante perfetto di quel Brasile (quello ufficiale) che ha soppresso in sé le sue caratteristiche più ambigue e indefinibili e ha scelto per sé la rassicurante formula dell’Ordem e Progresso. Ma come per il Brasile, vedremo che anche in lui l’ambiguità che ha tentato in tutti i modi di cancellare dalla sua vita non se andrà mai del tutto, riaffiorerà continuamente nelle pieghe del suo discorso, distruggendone la linearità. Prima di analizzare nello specifico la costruzione del discorso di

49 Ivi, 843. 50 Ivi, p. 854.

(20)

112

Riobaldo, occorre guardare un po’ più da vicino quelle che sono le due maggiori figure di quest’ambiguità di fondo che persiguita il protagonista e che fa sì che questi non possa mai del tutto entrare negli schemi mentali positivisti dell’uomo di città: il diavolo e Diadorim.

Riferimenti

Documenti correlati

Con questa notazione otteniamo il grande vantaggio di poter considerare l’estrazione di radice (l’operazione sottintesa dalla definizione di radice) come caso

sulle Linee-guida per il diritto allo studio delle alunne e degli alunni fuori dalla famiglia

Pertanto, si è ritenuto necessario individuare un percorso formativo aggregante focalizzandolo in primo luogo nella conoscenza degli spazi di gioco presenti nel

Raffrescamento, riscaldamento, deumidificazione e ventilazione Funzione Auto: modula i parametri di funzionamento in relazione alla temperatura dell’ambiente. Funzione Sleep:

Aceto Sirk Josko Sirk– che è pure proprietario, con la sua famiglia, del ristorante la Subida – ha saputo imprimere una profonda innovazione alla produzione dell’aceto di

Dopo la chiusura del bando di appalto, Caritas auspica che nella fase di realizzazione e gestione della nuova struttura carceraria vengano prese in considerazioni le

Di modo che, possiamo aggiungere, se da un lato si dischiudono sempre maggiori possibilità di risposta, le risposte si fanno sempre più numerose e articolate-

Seguendo il ragionamento, coinvolgere le gio- vani generazioni sui temi inerenti la sostenibi- lità significa riflettere anche attorno al loro spa- zio vissuto (Iori 1996). Che è