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L'AZIONE PENALE IN ITALIA E LA SUA EVOLUZIONESTORICA

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Capitolo II

L'AZIONE PENALE IN ITALIA E LA SUA EVOLUZIONE

STORICA

1 Premessa

Nel primo capitolo abbiamo evidenziato come la funzione maggiormente caratterizzante svolta dal Pubblico Ministero sia l'esercizio dell'azione penale. Questa si configura come una funzione fondamentale dell'intero sistema poiché ha il ruolo di impulso del processo penale. Nel nostro paese, come si è detto, essa è materia di competenza esclusiva del Pubblico Ministero, ed è intimamente connessa alla sua indipendenza funzionale. Ora esamineremo la natura dell'azione penale, procedendo con l'analisi degli aspetti che presenta nel nostro ordinamento, si farà quindi riferimento sia al dettato costituzionale sia al Codice di Procedura Penale, prestando particolare attenzione a quello che maggiormente la caratterizza, ossia l'obbligatorietà. Verranno anche affrontati i principi ad esso opposti e presenti in altri ordinamenti, ovvero la discrezionalità e l'opportunità, facendo riflessioni che sfrutteranno anche nozioni mutuate dal diritto amministrativo e dalla dottrina tedesca. Si cercherà anche di esaminare il rapporto tra il modello processuale e l'azione penale, prestando particolare attenzione alla verifica della compatibilità del principio di obbligatorietà con il processo accusatorio. Seguirà un'analisi dell'evoluzione storica dell'esercizio dell'azione penale a partire dal regime fascista, passando poi al dibattito sviluppatosi in seno all'Assemblea Costituente, un dibattito fondamentale per poter infine passare alla descrizione dell'attuale configurazione dell'articolo 112 della Costituzione. Esaminata la disposizione costituzionale si passerà poi a

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affrontare il limite posto ad essa dall'archiviazione e i controlli giurisdizionali a cui la medesima è sottoposta, garantendo che non venga usata per aggirare l'obbligatorietà dell'azione penale. Si passerà poi a considerare la natura strumentale del principio in esame rispetto ai valori dell'uguaglianza e della legalità, alla tutela dei quali è preposto. Il capitolo proseguirà con una lettura sistematica, che prenderà in considerazione il quadro in cui è collocato l'articolo 112, allo scopo di evidenziare le connessioni con altre parti del dettato costituzionale in modo da delineare in maniera completa il sistema che emerge dalla connessione di tutti questi aspetti. Concluderemo con l'esame delle proposte di riforma del principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, sia tramite un intervento diretto sull'articolo 112, sia tramite la revisione dei rapporti tra Pubblico Ministero e Polizia Giudiziaria, cercando anche di capire le ragioni alla base di questi tentativi.

2 L'azione penale

2.1 L'azione penale in generale

Nell'approcciarci al tema dell'azione possiamo constatare che, almeno inizialmente, il maggior interesse per questa tematica, in dottrina, è stato manifestato nell'ambito processualcivilista. In tale settore infatti gli studi cominciano già sul finire dell'800 sopratutto in Germania e in Italia. Non essendo lo scopo della tesi ricostruire tutto il dibattito che storicamente si è sviluppato attorno al concetto di azione, le considerazioni partiranno dalle definizioni che iniziarono ad affermarsi nel 900. Risultano molto utili le elaborazioni della dottrina processualcivilista, in particolare Giuseppe Chiovenda nel 1904 ha definito l'azione come il potere giuridico di porre in essere la condizione per l'attuazione della volontà della legge.1 Il dibattito ha visto confrontarsi numerose posizioni ed in particolare, rimanendo ancora in

1 G. Chiovenda, L'azione nel sistema dei diritti, in Id. Saggi di diritto processuale civile, Bologna, 1904, pp 1 sgg.

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ambito processualcivilista, e prendendo in considerazione la più recente dottrina, Elio Fazzalari ha individuato l'azione come la serie di norme, di atti, di posizioni giuridiche soggettive, che fa capo alla parte di un processo giurisdizionale, basando così la legittimazione di questo concetto non sulla

res in iudicium deducta ma sul provvedimento giurisdizionale di cui è

richiesta l'emanazione.2 Ai nostri fini è particolarmente rilevante la definizione di Chiovenda in quanto si tentò di utilizzarla anche nel processo penale definendo l'azione che svolge la funzione di input come il diritto potestativo pubblico di attivare il processo penale per l'attuazione della legge.3 Gli studi sul tema dell'azione penale tuttavia si svilupparono ritagliandosi una progressiva autonomizzazione rispetto alle teorie processualciviliste. Infatti è agevole evidenziare che esistono profonde differenze tra i due tipi di azione, sia perché nell'ambito penale non sono presenti i concetti di legittimazione e di interesse a agire sia perché le finalità perseguite sono molto divergenti, come nota autorevole dottrina “se l’azione civile è ius persequendi in iudicio

e quindi è predisposta in funzione di una domanda, di un diritto che viene fatto valere, sia pure per tenersene distaccata sotto il profilo ontologico, l’azione penale prescinde da una domanda a contenuto di merito e si esaurisce in una richiesta di decisione”.4 Per sintetizzare la differenza di

obiettivi possiamo affermare che, mentre l'azione civile è esercitata con lo scopo di ottenere una pronuncia per tutelare un determinato bene vita e, di conseguenza, il giudice deve attenersi al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, al contrario, con l'azione penale, si chiede al giudice di pronunciarsi su un'ipotesi di reato. Tuttavia nel nuovo codice è chiaramente specificato che l'imputazione viene formulata alla fine delle indagini preliminari, quindi non è corretto considerare l'esercizio dell'azione penale semplicemente come la richiesta di una decisione ma, piuttosto, va intesa come la richiesta di esercitare la facultas puniendi. In linea generale

2 E. Fazzalari, voce Azione civile (teoria generale e diritto processuale), in Dig. Disc.

Priv. IV, ed II, Torino 1988, p. 31.

3 E. Massari, Il processo penale nella nuova legislazione italiana, 1934, pp. 13-14. 4 G. Leone, voce Azione penale in Enciclopedia del diritto IV, 1959, pp. 851-852.

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possiamo definire l'azione penale, presente nel nostro ordinamento, come la prerogativa del Pubblico Ministero volta a richiedere l'emissione di un provvedimento di natura decisoria a definizione del procedimento penale, essa quindi è il preludio di un'attività processuale posta a garanzia dei diritti fondamentali dell'individuo. L'esercizio dell'azione penale ha inizio quando viene formulata l'imputazione la quale consiste nell'addebitare ad una determinata persona un fatto di reato (nel procedimento ordinario questa è contenuta nella richiesta di rinvio a giudizio).5 A questo punto il cpp fissa il discrimine tra l'attività preprocessuale e quella processuale, da qui possiamo constatare che l'esercizio dell'azione penale produce due effetti: quello di obbligare il giudice a decidere su un determinato fatto storico e quello di fissare in modo tendenzialmente immutabile l'oggetto del processo.6 Dal codice emergono quattro caratteristiche dell'azione penale: l'obbligatorietà, il monopolio, l'irretrattabilità e la procedibilità d'ufficio. Obbligatorietà e monopolio sono già stati affrontati nel precedente capitolo e la prima verrà meglio analizzata anche in seguito, per quanto riguarda invece gli altri due elementi, ricavabili dal secondo e terzo comma dell'articolo 50 cpp, vale la pena fare una breve presentazione.

La procedibilità d'ufficio permette al Pubblico Ministero di non essere vincolato nella sua azione all'iniziativa si soggetti terzi, affinché egli possa esercitare l'azione penale è infatti sufficiente che rilevi un fatto storico previsto come reato. Perché si verifichi un'eccezione a tale regola occorre che in relazione a un determinato reato la legge ponga una condizione di procedibilità (querela, istanza, richiesta di procedimento e autorizzazione a procedere).

Per quanto riguarda invece l'irretrattabilità dell'azione penale, il codice pone una regola secondo la quale, dopo l'iniziale esercizio dell'azione penale, nessuno può interrompere il processo fino alla sentenza a meno che la legge non disponga diversamente. A tale regola il cpp stesso pone un'eccezione

5 Per quanto riguarda i riti speciali l'imputazione è ricompresa nell'atto che instaura il singolo provvedimento.

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all'articolo 71, imponendo la sospensione del procedimento nel caso in cui lo stato mentale dell'imputato impedisca la cosciente partecipazione (ogni sei mesi il giudice fa svolgere accertamenti sullo stato mentale dell'imputato), tale previsione non ha effetto nel caso debba essere pronunciata una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere.

2.2 Obbligatorietà, discrezionalità, opportunità

Illustrato il concetto di azione penale e accennato agli aspetti che la caratterizzano nel nostro ordinamento è opportuno analizzare il concetto di obbligatorietà adottato all'articolo 112 della nostra Costituzione. Si tratta di un elemento non banale, infatti Leone, ancora nel 1947, sosteneva l'idea che per i cultori del diritto penale il principio di obbligatorietà dell’azione penale non fosse un concetto ben definito.7 Quando parliamo di questo principio ci

troviamo di fronte al dovere di procedere per ogni reato conosciuto, negando ai soggetti a cui viene posto in capo la titolarità dell'azione penale la possibilità di fare scelte in merito al suo esercizio (salvo l'eventuale richiesta di archiviazione). L'obbligatorietà può poi, nei vari ordinamenti, conoscere eccezioni sulla base dell'importanza e dell'offensività dei singoli reati; inoltre possono essere presenti altri limiti all'obbligatorietà, ad esempio, per motivi di economia processuale, non è immaginabile che si proceda di fronte ad ogni

notitia criminis, quindi si dovranno individuare meccanismi di archiviazione

nei casi in cui questa sia infondata. Quando un ordinamento opta per l'adozione del principio di obbligatorietà si pone lo scopo di sottrarre alle scelte di politica criminale la decisione sull'esercizio dell'azione penale, tali scelte tendenzialmente verranno fatte tramite la selezione dei fatti da qualificare come reato e dei crimini sui quali impegnare l'attività di prevenzione. Al concetto di obbligatorietà si contrappone tradizionalmente quello della discrezionalità, anche in questo caso non pare superfluo inquadrare in cosa esso consista quando viene riferito all'esercizio

7 G. Leone nell'intervento in Assemblea Costituente durante la seduta del 27 Novembre 1947.

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dell'azione penale. In questo ambito non è possibile ricorrere ad un concetto ampio di discrezionalità, infatti, se si utilizza la definizione atecnica secondo la quale essa sarebbe il margine di scelta tra opzioni diverse, non si arriva ad una nozione particolarmente utile e si rischia di confondere i piani, arrivando a individuare l'esercizio della discrezionalità ogni volta che si sussume un determinato fatto in una fattispecie normativa o quando si valuta l'idoneità degli elementi raccolti per sostenere l'accusa.

Un'utile definizione di discrezionalità si può ottenere sfruttando concetti mutuati dal diritto amministrativo: siamo di fronte a una scelta fra più opzioni possibili volta a individuare la soluzione più opportuna per il caso concreto e quindi la discrezionalità dovrebbe consistere nella ponderazione comparatistica di più interessi secondari in ordine ad un interesse primario,8 dove quest'ultimo sarebbe quello pubblico, che un'autorità ha in attribuzione o in competenza, e quelli secondari, che sono invece gli altri interessi rimanenti per quella stessa autorità aventi natura pubblica, collettiva o privata. Si tratta quindi di scegliere tra più soluzioni quella più adatta al caso concreto.9

Da simili considerazioni emerge che in questa accezione la discrezionalità non è un'attività libera ma è delimitata positivamente. Parlando di discrezionalità dobbiamo poi distinguere tra la discrezionalità amministrativa e la discrezionalità tecnica, che si riferisce all'esame di fatti e situazioni da fare tramite conoscenze di arti e scienze. Già da queste osservazioni si possono individuare alcuni margini non cancellabili di discrezionalità in merito all'esercizio dell'azione penale, è infatti impensabile che in tale ambito non si facciano ponderazioni di interessi contrapposti. In merito alla divisione tra obbligatorietà e discrezionalità si può proporre anche un'interpretazione quantitativa derivante dal pensiero di Hans Kelsen, ma per cominciare questa analisi dobbiamo ricordare che la sua teoria si basa su un sistema in cui la norma di grado superiore regola quella di grado inferiore senza però

8 Cfr. M. S. Giannini, Diritto amministrativo II, 1993. 9 M. S. Giannini, Diritto amministrativo op,cit., p.77.

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determinarla in modo completo,10 e nel quale la discrezionalità è il passaggio necessario da un grado all'altro. Dal punto di vista qualitativo non vi è quindi differenza tra la discrezionalità del legislatore, quella dell'amministratore e quella del giudice, ma semplicemente si tratta di una scala decrescente dal punto di vista quantitativo. In tale sistema, costruito per gradi, ogni atto giuridico volto ad applicare una norma è caratterizzato da un certo grado di indeterminatezza e qui entra in gioco l'interpretazione, ossia l'accertamento del significato della norma da seguire; si tratta di un'attività non puramente intellettiva bensì volitiva e dà luogo a diverse soluzioni, in questa prospettiva – di conseguenza – si confondono interpretazione e discrezionalità.

Per concludere il quadro si è anche sostenuto che, in realtà, non esista alcuna contrapposizione tra obbligatorietà e discrezionalità nell'esercizio dell'azione penale, in quanto il suo presupposto è l'accertamento di fatti utili per verificare la fondatezza della notitia criminis. Secondo questa impostazione, sostenuta in particolare dalla dottrina tedesca, il vero contraltare dell'obbligatorietà va piuttosto ricercato nel principio di opportunità. Per chiarire può essere utile prendere ad esempio il caso tedesco in cui per determinati reati (articolo 153 e ss del StPO) il principio dell'obbligatorietà, che è la regola, viene attenuato in favore del principio di opportunità (opportunitat) che si contrappone sia a quello di legalità che di discrezionalità (ermessen).11 Per spiegare il concetto, vale la pena sottolineare la differenza tra un'archiviazione che si basi su presupposti del tutto indeterminati (come poteva essere l'art 254 cpp del 1930 che faceva riferimento alle qualità morali e sociali della persona) ed una basata su precisi indici di riferimento.

Per concludere dobbiamo notare che la scelta tra le due impostazioni dell'esercizio dell'azione penale non è neutro ma sottintende determinate concezioni politico-giuridiche. In particolare, da una parte, gli ordinamenti che optano per l'obbligatorietà tendono a privilegiare l'importanza della legalità e della certezza giuridica, concependo l'accusa in funzione quasi

10 H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Torino, 1966, pp. 251 sgg.

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giurisdizionale e attribuendo alla pena una funzione retributiva; dall'altra, quelli che optano per la discrezionalità scelgono di privilegiare i valori di rappresentatività nell'applicazione della legge, la legittimità democratica e la responsabilità politica, di considerare l'organo inquirente come una parte processuale e di concepire la pena in modo utilitaristico privilegiando la funzione dissuasiva, sul piano individuale, e preventiva, sul piano collettivo.

2.3 L'azione penale e il modello del processo penale

Nell'ottica processuale, l'azione penale svolge un ruolo fondamentale in quanto si tratta dell'input da cui parte il procedimento penale, e - per meglio comprendere tale istituto - vale la pena svolgere qualche considerazione in merito alla funzione che esso svolge ed agli obiettivi che vuole perseguire. Tali aspetti infatti non possono non avere riflessi sull'azione penale.

La dottrina ha più volte affrontato questo tema, si è ad esempio affermato che lo scopo del processo penale è semplicemente il giudizio stesso e che non esiste un fine esterno (come potrebbero essere l'attuazione della legge, la difesa del diritto soggettivo, la punizione del reo o la scoperta della verità). Chi ha scelto questa impostazione parla di “mistero del processo” in quanto esso, poiché altro non è che giudizio e formazione di giudizio, ha in se stesso il proprio scopo, quindi equivale a dire che il processo non ha scopo.12 Altri hanno invece individuato un nesso tra la concezione dello stato, della giustizia e la struttura del potere giudiziario con i sistemi processuali.13 In realtà l'idea di un'affinità tra il processo e le tendenze politiche dominanti era già stata sviluppata da Max Weber,14 il quale aveva creato uno schema basato su tipi ideali di potere. Secondo la sua teoria la differenza tra questi poteva spiegare le divergenze tra gli ordinamenti giuridici comprese quelle inerenti l'amministrazione della giustizia. Tale ultima concezione appare

12 Cfr S. Satta, Il mistero del processo (1949), ora ripubblicato da Adelphi, 2014, p. 24. 13 Così M. R. Damaska, I volti della giustizia e del potere. Analisi comparatistica del

processo, Il Mulino, 1991, passim.

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interessante al fine di determinare quale sia lo scopo del processo. Richiamandoci al pensiero di Mirjan R. Damaska possiamo notare come negli stati dove ci si ispira al laissez-faire il processo tenderà a porsi l'obiettivo di risolvere velocemente le controversie (unico fine che si vuole realizzare), mentre negli stati che si pongono lo scopo di modificare la realtà per conformarla ai propri valori supremi (lo scopo della giustizia quindi è l'attuazione degli orientamenti politici dello stato nei casi portati davanti al giudice), la scelta tra i due modelli porterà, tendenzialmente, nel primo caso allo svilupparsi di un sistema accusatorio15 e nel secondo ad un sistema inquisitorio. Tuttavia lo stesso autore, dopo aver individuato come scopi del processo rispettivamente la risoluzione dei conflitti e l'attuazione delle politiche statali, chiarisce il significato di tali linee di sviluppo dei sistemi processuali in relazione alle finalità statali (se si escludono i casi estremi)16 sostenendo l'idea che esse non sono affatto scontate e possono convivere con altri aspetti di sistemi diversi.

Non necessariamente a certe finalità dello stato deve corrispondere una data struttura organizzativa: per ricordare qualche esempio tra gli stati dirigisti, l'Iran sciita è governato “da dilettanti decentrati” e la Jugoslavia socialista univa forti programmi sociali a ideali di decentramento, mentre tra gli stati ispirati al laissez-faire non è raro individuare una forte burocrazia centralizzata come negli stati europei del XIX secolo.

Il processo non è escluso da queste valutazioni e le varie forme di giustizia possono combinarsi in maniera più o meno armonica. L'azione penale svolgendo - come già detto - la funzione di impulso per tutto il sistema, non può non interagire con la concezione del processo e con le finalità che esso si pone. Con il cpp del 1988 il nostro ordinamento ha scelto in modo chiaro di optare per un passaggio dal sistema misto ad un sistema accusatorio (quindi

15 In realtà M. R. Damaska, op.cit. parla di sistemi “adversarial” e non di processo accusatorio.

16 In particolare M. R. Damaska op.cit., p. 45 cita il caso delle dichiarazioni di Lenin circa la necessaria applicazione uniforme dei programmi dell'apparato di governo da “Kaluga a Kazan” ma nota che già in un sistema similare come la Cina maoista sono presenti sensibili differenze.

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caratterizzato dalla netta separazione tra accusa e giudice, dall'esclusione di quest'ultimo dalla raccolta delle prove, da un dibattimento orale e pubblico e dalla sostanziale parità di diritti e poteri delle parti) le cui caratteristiche vengono anche riprese nel principio del giusto processo espresso nell'articolo 111 Cost. Si realizza così un profondo intreccio tra processo accusatorio e giusto processo. Bisogna ora accertare la compatibilità tra il nuovo modello processuale ed il carattere obbligatorio dell'azione penale. Infatti, appena il nuovo cpp entrò in vigore, parte della dottrina17 chiese l'abbandono del principio di obbligatorietà in considerazione del fatto che questo provoca un forte aumento della durata dei processi, mentre un sistema improntato alla giustizia negoziata, di derivazione anglosassone, porterebbe ad un processo centrato sulle parti e non più sul giudice, arrivando così ad un sistema che si adatta molto meglio al modello accusatorio. In tale sistema l'azione del giudice sarebbe delimitata dall'iniziativa delle parti e il fine sarebbe spostato verso la mera risoluzione dei conflitti abbandonando lo scopo della ricerca della verità. In questo impianto la parità delle parti non si spinge fino a permettere loro di disporre interamente della causa, in quanto, al contrario del processo civile, qui sono presenti interessi pubblici da tutelare. La giurisprudenza costituzionale proprio partendo da questa considerazione ha, di fatto, messo in discussione il modello accusatorio, colpendone alcuni aspetti basilari, proprio per riaffermare il fine della scoperta della verità. Possiamo quindi concludere sostenendo che il principio della discrezionalità non è necessariamente connesso al modello del processo accusatorio, ma può trovare spazi di applicazione in presenza di particolari interessi pubblici la cui specifica rilevanza sia riconosciuta dalla legge, proprio perché, in ogni caso, questo deve rimanere orientato alla scoperta della verità. Escluso che esista un rapporto peculiare tra discrezionalità e sistema accusatorio, possiamo arrivare a sostenere non solo la compatibilità di questo modello processuale con il principio di obbligatorietà ma anche che, in un processo accusatorio

17 E. Amodio, Introduzione in AA.vv., Il processo penale negli Stati Uniti d'America, Giuffrè, 1988, p. 42.

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moderno basato sull'accusa pubblica, l'obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale risulta preferibile in quanto connesso con il principio

nullum iudicio sine accusatione. La discrezionalità dell'azione penale

potrebbe invece essere da considerare connessa all'antico processo accusatorio dove l'accusa era sostenuta dal privato e nei casi in cui tale impostazione sopravvive è spesso fonte di arbitri.18 Possiamo quindi concludere constatando che non esiste nessun nesso logico o funzionale tra la discrezionalità e il modello teorico accusatorio almeno a partire dall'età dell'Illuminismo.

3 L'azione penale nel periodo fascista

Se prendiamo in considerazione il nostro ordinamento giuridico possiamo dire che esso ha sin da subito optato per il principio di obbligatorietà che, come visto nel primo capitolo, è stato presente già nel periodo monarchico-liberale, sebbene questo abbia ricevuto la sua consacrazione definitiva solo con la Costituzione repubblicana. Anche per questo aspetto il regime fascista decise di attuare una politica di continuità e la crisi dello stato liberale non intaccò tale principio. Il Codice Rocco infatti all'articolo 1 stabiliva che l'azione penale doveva essere esercitata per ogni reato e all'articolo 74 si prevedeva che il Pubblico Ministero inizia ed esercita l'azione penale con le forme stabilite dalla legge. Tale impostazione fu ribadita dall'Ordinamento Giudiziario del 1941 dove, pur subordinando l'esercizio delle funzioni del Pubblico Ministero alla direzione del Ministro di Grazia e Giustizia, confermava la competenza magistratura requirente sull'azione penale. Dal dettato normativo emerge quindi un'azione penale che manifestava le caratteristiche,19 oltre a quella di obbligatorietà, di pubblicità (in quanto era volta alla tutela dell'attuazione della legge penale e trascendeva dalla persona offesa da reato), di ufficialità (poiché era esercitata da un organo

18 L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Edizioni Laterza, Bari, 2000, pp. 579-581.

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pubblico) e di irretrattabilità (l'esercizio dell'azione poteva essere sospeso o interrotto solo nei casi previsti dalla legge e il PM poteva solo rinunciare alle impugnazioni da lui proposte). Nell'esercizio dell'azione penale non era possibile fare valutazioni di opportunità o convenienza ma gli unici motivi che potevano impedire al Pubblico Ministero di procedere penalmente erano quelli inerenti alle condizioni di procedibilità e alla mancanza degli elementi costitutivi del reato, si poteva quindi riscontrare l'elemento dell'indiscrezionalità ossia un aspetto fondante dell'obbligatorietà.20 Pare quindi corretto parlare di vigenza del principio di obbligatorietà anche sotto il regime fascista,21 tanto più che Vincenzo Manzini affermò persino che nel codice del 1930 (il quale fu steso su incarico di Mussolini e Rocco) tale principio veniva sottolineato, e - in tale situazione - autorevole dottrina affermò che l'articolo 112 Cost. altro non era che la programmatica riaffermazione di quanto già stabilito nell'art 74 del Codice Rocco.22 Tuttavia non si può non constatare che durante il regime due elementi vanificavano di fatto il suddetto principio: ossia la totale dipendenza della magistratura requirente dal potere esecutivo e la mancanza di controlli giurisdizionali sull'archiviazione (sebbene questa teoricamente dovesse essere limitata ai casi di manifesta infondatezza) la quale veniva sottoposta esclusivamente a quelli gerarchici, ritenuti sufficienti a garantire che si procedesse ogni volta che era necessario. In particolare il Ministro aveva il potere di esercitare il proprio potere direttivo sull'azione penale anche in relazione a singoli casi concreti,23 ciò si concretizzava nella possibilità di obbligare il PM a promuovere l'azione, e in quella la possibilità di ordinare di non procedere in presenza di gravi motivi di ordine politico. Per concludere possiamo perciò

20 Gu. Sabatini, Principi di diritto processuale penale italiano, Città di Castello 1931, pp. 55 sgg.

21 G. Leone su questa base sostenne la sopravvivenza di una coscienza liberale nella nostra cultura processualpenalistica durante il fascismo.

22 Cfr A. De Marsico, Lezioni di diritto processuale penale, Napoli, 1952.

23 Contra A. De Marsico, Lezioni di diritto processuale penale op.cit., pp. 117 sgg. L'autore sostiene che le istruzioni del Ministro potevano essere richieste dal PM in merito a circostanze di chiara valenza politica e dovevano contenere elementi politici obiettivi in grado di condurre alla valutazione dell'infondatezza della notitia criminis, inoltre l'ordine di archiviazione rimane di competenza del Pubblico Ministero.

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dire che, in questo settore, il sistema non fu profondamente rivoluzionato tramite interventi legislativi, ma piuttosto il regime scelse di subordinare di fatto l'azione penale alle proprie direttive politiche e di ricondurla all'ambito della politica penale per renderla strumentale a logiche di controllo sociale. In questa ottica risulta evidente che anche questo strumento fu funzionale a stravolgere nel concreto i principi statutari derivati dal Risorgimento, come quello delle libertà di riunione, di associazione, di pensiero e di stampa.

4 L'obbligatorietà dell'azione penale nella Costituzione

Partendo da queste premesse sono facilmente intuibili i motivi per cui, con la fine del ventennio fascista, i costituenti decisero di porsi in forte discontinuità rispetto al regime e di impedire che si ripetessero gli abusi da questo perpetrati. Per quanto riguarda l'azione penale fu quasi naturale confermare il principio dell'obbligatorietà, tuttavia evidentemente era fondamentale intenderla in modo diverso e calarla in un contesto fortemente mutato in quanto come abbiamo già visto essa di per sé non garantisce necessariamente una rottura con le storture del precedente stato totalitario. In questo paragrafo si affronterà il tema della genesi e delle caratteristiche del sistema delineato dall'articolo 112 della Costituzione per il nostro ordinamento.

4.1 L'articolo 112 della Costituzione

Per ricostruire la nascita dell'articolo 112 è necessario partire dal suo antecedente ossia l'articolo 101 del Progetto di Costituzione della Repubblica Italiana. Questo al primo comma prevedeva letteralmente che: “L'azione

penale è pubblica. Il Pubblico Ministero ha l'obbligo di esercitarla e non la può mai sospendere o ritardare”. Si sviluppò sul tema un interessante

dibattito in sede di Assemblea Costituente ma riguardò quasi esclusivamente l'aspetto dell'esclusività della natura pubblica dell'azione (Leone) e

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l'impossibilità di sospendere o ritardarne l'esercizio (Colitto e Bettiol), invece sulla scelta dell'obbligatorietà possiamo sin da subito registrare un consenso praticamente unanime24 in quanto considerato il “principio che si adegua ad

un ordine democratico nell'ambito di uno stato di diritto”.25 Il nodo della

discussione al riguardo verteva piuttosto sul tema della conciliabilità di tale principio con la scelta dei rapporti tra Pubblico Ministero e potere esecutivo, che non era ancora stato sciolto. In particolare alla tesi propugnata da Calamandrei, il quale sosteneva l'indispensabile coesistenza dell'obbligatorietà dell'azione penale con la previsione di un Pubblico Ministero indipendente e inamovibile, si contrapponevano Uberti e Leone, i quali al contrario sostenevano la conciliabilità del principio in esame con una magistratura requirente configurata come organo dell'esecutivo. Al termine della discussione in aula, Leone nella veste di relatore propose la formula attuale, secondo la quale il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione, che riscosse consistenti consensi, sopratutto perché eliminava l'impossibilità per il legislatore di prevedere un'azione di carattere sussidiario a quella pubblica. La giurisprudenza costituzionale intervenne più volte in tema di azione penale, per i nostri fini risulta particolarmente interessante la sentenza n. 88 del 1991. Con questa pronuncia la Corte Costituzionale afferma che “il principio di obbligatorietà dell'azione penale esige che nulla

venga sottratto al controllo di legalità del giudice: ed in esso è insito, perciò quello che in dottrina viene definito favor actionis. Ciò comporta non solo il rigetto del contrapposto principio di opportunità... ma comporta altresì che, nei casi dubbi, l'azione vada esercitata e non omessa”, in questo

pronunciamento la Corte Costituzionale fissa due elementi fondamentali per una corretta analisi dell'obbligatorietà dell'azione penale prevista nella nostra carta fondamentale ossia il fatto che in caso di dubbio circa la sussistenza di motivi che giustifichino l'archiviazione si deve comunque procedere in

24 Si può segnalare solo l'emendamento soppressivo proposto da Targetti in sede di Commissione dei 75 che venne però poi respinto.

25 Onorevole Giuseppe Bettiol durante i lavori dell'Assemblea Costituente durante la seduta antimeridiana del 27 novembre 1947.

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ossequio al favor actionis e la fissazione del divieto per il legislatore di prevedere fattispecie processuali improntate al principio di opportunità. La sentenza appena citata ci aiuta anche a capire quale sia il momento in cui inizia l'esercizio dell'azione penale e quindi quale sia il momento in cui possa cominciare ad operare l'obbligatorietà, il dato normativo contenuto nel cpp non ci dice molto, poiché l'articolo 50 parla di esercizio e non di inizio, e l'articolo 405 si limita ad elencare gli strumenti tipizzati tramite i quali esercita l'azione, da ciò parte della dottrina esclude che le indagini preliminari siano soggette all'obbligatorietà.26 Tuttavia, la sentenza costituzionale 88/1991 fissa il principio di completezza delle i.p. sostenendo, grazie al combinato disposto degli artt 335, 326 e 358 cpp, che l'azione comincia con la ricezione della

notitia criminis e quindi precludendo ogni margine di discrezionalità al

Pubblico Ministero anche in questa fase: “il principio di «completezza»…

delle indagini preliminari, che nella struttura del nuovo processo assolve una duplice, fondamentale funzione. La completa individuazione dei mezzi di prova è, invero, necessaria, da un lato, per consentire al pubblico ministero di esercitare le varie opzioni possibili (tra cui la richiesta di giudizio immediato, «saltando» l'udienza preliminare) e per indurre l'imputato ad accettare i riti alternativi”. In questa divergenza tra la giurisprudenza

costituzionale e la dottrina, una buona lettura potrebbe essere riconoscere allo stesso tempo che l'azione penale cominci con gli atti tipizzati dall'art 405 cpp ossia al termine delle indagini preliminari ma che, nonostante questo, il principio di completezza sia comunque valido in quanto costituisce la necessaria premessa senza la quale l'obbligatorietà dell'azione penale sarebbe facilmente aggirabile. In sostanza durante le indagini preliminari si potrebbe ipotizzare che viga solo la cosiddetta discrezionalità psicologica la quale consiste nel naturale sistema di convinzioni e idee del singolo Pubblico Ministero, i quali influenzano il suo agire.27

26 Cfr. I. Frioni, Le diverse forme della discrezionalità nell'esercizio dell'azione penale in

Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2002, pp. 543-546; cfr. O. Dominioni,

voce Azione penale, in Digesto delle discipline penalistiche, vol.I, Utet, Torino, 1987, pp. 409 sgg.

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Per concludere possiamo dire che sarebbe ingenuo pensare che il principio di obbligatorietà possa permeare interamente l'azione penale e possiamo constatare che esistono alcuni margini di discrezionalità ad esempio facendo riferimento al quadro probatorio possiamo osservare che l'articolo 125 disp. att. indica come condizione per individuare l'infondatezza del reato l'inidoneità degli elementi acquisiti a sostenere l'accusa e che le valutazioni in merito sono rimesse al giudizio soggettivo del Pubblico Ministero, nonostante sia previsto un controllo giurisdizionale di cui parleremo successivamente.

4.2 Una lettura sistematica dell'articolo 112 nel quadro costituzionale sulla magistratura in funzione dell'indipendenza del Pubblico Ministero

Abbiamo già analizzato il legame tra l'articolo 112 della Costituzione e l'indipendenza funzionale del Pubblico Ministero, a questo punto pare utile analizzare come questa sia garantita su un piano sistematico che connette il suddetto articolo alle altre previsioni inerenti alla magistratura. Infatti a conferma di quanto emerge dall'analisi dell'articolo 112 si possono citare almeno altre tre previsioni le quali vanno nello stesso senso. La prima previsione è l'articolo 108 Cost., il quale riconosce l'indipendenza ai Pubblici Ministeri delle giurisdizioni speciali, da ciò si può concludere che sarebbe privo di logica non estendere tale previsione anche alla giurisdizione ordinaria. Vi è poi l'articolo 109 Cost., il quale mette la polizia giudiziaria a disposizione della magistratura, in modo tale che questa possa procedere senza attendere gli esiti investigativi di indagini svolte da una forza subordinata all'esecutivo. Tale previsione non avrebbe senso in un sistema dove la magistratura requirente è priva dell'indipendenza. Infine l'articolo 110 Cost. (insieme all'articolo 107 comma 2) limita le competenze del Ministro della Giustizia alla promozione dell'azione disciplinare e all'organizzazione e al funzionamento dei servizi, lasciando ferme le competenze del Consiglio Superiore della Magistratura. Se i costituenti avessero voluto consentire di porre il PM alle dipendenze dell'esecutivo avrebbe dovuto attribuire ulteriori

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poteri al ministro.28

Tutte queste previsioni sono utili a rafforzare quanto detto circa l'articolo 112 in un'interpretazione sistematica; tuttavia, se le esaminiamo singolarmente da esse, non sembrano emergere elementi decisivi per confermare l'indipendenza del Pubblico Ministero. Infatti, l'articolo 108 non nomina espressamente il Pubblico Ministero presso la giurisdizione ordinaria e, rimanendo ancorati al dato letterale, dall'articolo 109 possiamo dedurre solo che si è voluto assicurare alla magistratura requirente adeguati mezzi per accertare le notizie di reato e individuare i responsabili (dal dibattito in Assemblea Costituente emerge anzi l'impossibilità di separare completamente la PG dall'esecutivo). L'importanza di questo articolo, in merito alle garanzie di indipendenza del PM, può essere facilmente dedotto se lo si affronta congiuntamente all'articolo 112, risulta infatti essenziale per garantire l'effettività di tale previsione costituzionale. Nel concreto infatti la previsione dell'articolo 330 cpp, che permette alla magistratura requirente di cerca autonomamente le notitiae criminis, da sola non sarebbe sufficiente ad assicurare la corretta realizzazione dell'obbligatorietà dell'azione penale. Per quanto riguarda l'articolo 110 si potrebbe sostenere che non disciplini completamente tutte le funzioni del dicastero e che esso riguardi piuttosto i rapporti tra CSM e Ministro della Giustizia, quindi sarebbe inidoneo ad impedire di assegnare all'esecutivo competenze ulteriori rispetto a quelle costituzionalmente previste. Ultima previsione che merita di essere menzionata in questa analisi sistematica è l'articolo 101; il testo iniziale avrebbe dovuto avere un campo di applicazione riferito a tutti i magistrati, ma la formulazione definitiva lasciò fuori i Pubblici Ministeri, la soggezione alla sola legge venne quindi limitato ai soli giudici. Appare chiaro che questo articolo risulta completamente inutile ai fini di individuare le radici dell'indipendenza del Pubblico Ministero, e che quindi le garanzie al riguardo

28 A sostegno di questa visione restrittiva dell'articolo 110 Cost. si può citare la sentenza n 7 del 18 gennaio 1996 con cui la Corte Costituzionale ha affermato circa la funzione di questa previsione che essa “è di delimitare il campo di intervento del Ministro rispetto a quello riservato al Consiglio Superiore della Magistratura”.

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di quest'ultima andranno cercate nel solo articolo 112.

4.3 L'archiviazione

L'obbligatorietà dell'azione penale non è priva di limiti infatti sarebbe irrazionale imporre un automatismo tra la notizia di reato e attivazione del processo, in questo l'articolo 50 cpp interviene per evitare un simile meccanismo rispondendo ad evidenti necessità di economia processuale e di razionalità dei meccanismi normativi processuali.29 L'istituto contenuto nell'articolo citato è quello dell'archiviazione e si realizza ad opera del Pubblico Ministero che ne fa richiesta quando si convince che non ci siano i presupposti per esercitare l'azione penale. Tale istituto ha subito una notevole evoluzione storica, per rispondere all'esigenza che in alcuni casi il Pubblico Ministero non avviasse l'azione penale, si affermò, sin dal Codice di Procedura Penale del 1865,30 una prassi (recepita nel progetto di riforma del 1905) per la quale si è previsto che, se la notitia criminis risultava priva di serietà, il pubblico ministero aveva la possibilità di trasmettere gli atti all'archivio, altrimenti, se il fatto non costituiva reato, o l'azione penale risultava estinta, o non poteva essere promossa, il procuratore del re doveva chiedere che fosse pronunziata la sentenza di archiviazione.31 In seguito, nel 1911, si inserì nel codice un meccanismo in base al quale la valutazione del Pubblico Ministero veniva assoggettata ad un controllo giurisdizionale da parte del giudice istruttore volto ad accertare i presupposti per l'archiviazione. Nel 1930 con il passaggio al Codice Rocco il controllo giurisdizionale sull'archiviazione fu sostituito da quello gerarchico che permetteva al procuratore del re e al pretore di trasmettere gli atti all'archivio informando rispettivamente il procuratore generale e il procuratore del re che possono

29 Cfr M. Romano, voce Azione penale in Enciclopedia Treccani.

30 Per una ricostruzione storica più accurata dell'evoluzione dell'istituto dell'archiviazione cfr. E. Gandossi, voce Archiviazione in Digesto delle discipline penalistiche, vol.I, Utet, Torino, 1987.

31 La relazione ministeriale al progetto del 1905 esplicitava che il Pubblico Ministero non poteva troncare il procedimento senza un'ordinanza del giudice.

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richiedere gli atti e disporre che si proceda. I casi in cui poteva essere fatto valere erano l'inesistenza della norma penale che si supponeva esistente, insussistenza del fatto materiale cui si riferisce la notitia criminis, la certezza che colui a cui è stato attribuito il fatto non lo ha commesso, l'impossibilità di individuare l'autore del fatto, la non imputabilità dell'autore o la sua incapacità penale o l'esenzione della giurisdizione, l'accertata non punibilità del fatto perché il fatto non costituisce reato e l'impossibilità di esercitare l'azione penale.

Nell'attuale sistema l'archiviazione viene sottoposta a controllo del Giudice per la Indagini Preliminari ed esso consiste in un provvedimento emesso allo stato degli atti e sulla base di un giudizio prognostico sulla superfluità del processo.32 Questo meccanismo permette da un lato al Pubblico Ministero di effettuare un primo filtro dei provvedimenti e dall'altro permette un controllo giudiziale finalizzato ad impedire l'aggiramento dell'obbligatorietà dell'azione penale. Inoltre, alla persona offesa dal reato è concesso il diritto di far controllare dal giudice le ragioni dell'eventuale inerzia del Pubblico Ministero. Sulla richiesta decide quindi il GIP, che pronuncia il provvedimento di archiviazione sulla base della presenza di presupposti di fatto o di presupposti di diritto. Perché si verifichino i primi occorre che la notizia di reato sia infondata (articolo 408 cpp), ossia il giudice ritiene che gli elementi raccolti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l'accusa in giudizio e che, anche le prove raccolte in un eventuale dibattimento, non siano in grado di cambiare tale situazione. Per quanto riguarda i presupposti di diritto (articolo 411 cpp) essi possono verificarsi in quattro casi ossia la mancanza di una condizione di procedibilità, l'estinzione del reato, la non previsione del fatto come reato e, infine, nel caso in cui gli autori del reato siano rimasti ignoti.

Per meglio comprendere il rapporto di questo istituto con il principio di obbligatorietà dell'azione penale è utile questo estratto della già citata sentenza della Corte Costituzionale n. 88 del 1991: “Azione penale

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obbligatoria non significa però consequenzialità automatica tra notizia di reato e processo per qualsiasi notitia criminis. Limite implicito alla stessa obbligatorietà, razionalmente intesa, è che il processo non debba essere instaurato quando risulti oggettivamente superfluo: regola questa tanto più vera nel nuovo sistema, che pone le indagini preliminari fuori dall'ambito del processo, stabilendo che, al loro esito, l'obbligo di esercitare l'azione penale sorge solo se sia stata verificata la mancanza dei presupposti che rendono doverosa l'archiviazione”. Alla luce di questa pronuncia possiamo quindi

affermare che l'archiviazione agisce come un limite implicito rispetto all'obbligatorietà dell'azione penale laddove essa è razionalmente intesa, quando il processo risulti oggettivamente superfluo. In sostanza il principio stesso si autodelimita apparendo privo di senso quando l'infondatezza della notizia o la carenza strutturale di prove del fatto storico rendono l'esito prevedibile. Va inoltre sottolineato il riferimento al sistema delineato dal Codice di Procedura Penale in vigore, il quale si caratterizza per indagini preliminari che possono durare fino a due anni e collocando l'azione penale come il momento in cui la materia passa nelle mani del giudice del processo. A questa classica archiviazione per inidoneità probatoria bisogna ora aggiungere quella per particolare tenuità del fatto.33 Di recentemente è stato infatti approvato il decreto legislativo che la introdurrà nel nostro ordinamento, si tratta di nuova causa di non punibilità per i reati sanzionati fino a cinque anni di reclusione e per quelli puniti con pena pecuniaria. La nuova previsione opera quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, l’offesa è di particolare leggerezza e il comportamento non è abituale. Sarà competenza del giudice valutare senza automatismi se sussistono i requisiti per questo tipo di archiviazione, in particolare l'offesa non è lieve se l'autore ha agito per motivi abietti o futili, con crudeltà o sevizie o, ancora, approfittando delle condizioni della vittima nell’impossibilità o incapacità a difendersi. Sotto il profilo soggettivo sono poi

33 Per un commento pubblicato immediatamente dopo l'approvazione definitiva da parte del Cdm G. Negri http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2015-03-12/decreto-tenuita-fatto-oggi-cdm-voto-definitivo-103742.shtml?uuid=ABA1o47C

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esclusi i delinquenti abituali, professionali o per tendenza, chi ha commesso più reati della stessa indole e chi commette un reati in condotte plurime, abituali e reiterate (stalking, maltrattamenti in famiglia). La persona offesa e l'indagato potranno opporsi alla richiesta di archiviazione avanzata dal Pubblico Ministero. Naturalmente appare evidente che questa novità potrebbe rappresentare nei fatti una forte attenuazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.

4.4 I controlli sull'inattività del Pubblico Ministero

L'archiviazione, come detto, non è esente da controlli, infatti, quando il GIP non accoglie la richiesta del Pubblico Ministero procede a fissare un'udienza in camera di consiglio. Bisogna notare che prima di procedere esiste un controllo di natura - per così dire – gerarchica, in quanto viene comunicata la situazione al Procuratore Generale presso la Corte d'Appello, in modo tale che possa procedere con l'avocazione del procedimento per mancato esercizio dell'azione penale in base all'articolo 412 cpp. Tuttavia, l'accento va posto piuttosto sui controlli giurisdizionali volti ad impedire l'inattività del Pubblico Ministero, l'articolo 409 cpp prevede per il GIP varie possibilità al riguardo. Nell'udienza ci sono due provvedimenti alternativi a quello di archiviazione. Si prevede prima di tutto la possibilità di ordinare ulteriori indagini (articolo 409 comma 4), quando il GIP le ritenga necessarie, fissando il termine per il loro compimento. In questo caso il Pubblico Ministero è tenuto al compimento delle indagini, ma può stabilire le loro modalità di svolgimento, e una volta compiute è libero di decidere se formulare l'imputazione o se chiedere di nuovo l'archiviazione, depositando i verbali delle indagini svolte. In alternativa il GIP ha facoltà di imporre, con ordinanza al Pubblico Ministero la formulazione dell'imputazione, si tratta infatti della cosiddetta imputazione coatta. Il giudice incontra però un limite dovuto alla separazione delle funzioni in quanto non ha la possibilità di imporre una determinata imputazione, ma rimane il PM a decidere, entro

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dieci giorni, quale sia quella che a suo parere sia conforme alla legge. Questi poteri di controllo riconosciuti al GIP sono stati oggetto di numerose questioni di legittimità costituzionale ed hanno suscitato perplessità in dottrina. La Corte Costituzionale ha sempre affermato la legittimità costituzionale del dettato dell’art. 409 c.p.p. e pronunciato l’infondatezza delle questioni sottoposte, in particolare i commi quarto e quinto dell’art. 409 c.p.p. traggono la propria legittimazione dall'obbligatorietà dell’azione penale dettato dall’art. 112 Cost., ma il controllo di legalità «non potrà che riguardare la integralità

dei risultati dell'indagine, restando dunque esclusa qualsiasi possibilità di ritenere che un simile apprezzamento debba invece circoscriversi all'interno dei soli confini tracciati dalla notitia criminis delibata dal pubblico ministero».34

Per concludere il quadro della giurisprudenza costituzionale, dobbiamo anche segnalare la scelta della Corte di escludere l'illegittimità costituzionale dell'imputazione coatta in riferimento all'articolo 101 Cost., sostenendo che l'indipendenza funzionale non è compromessa, in quanto le funzioni dei due organi rimangono separate. Di conseguenza, non si creerà un rapporto gerarchico, poiché il concreto promuovimento dell’azione che si esplica nella formulazione dell’imputazione, resta di competenza del pubblico ministero.35

Le Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 4319 del 28 novembre 2013 partendo da queste decisioni della Corte Costituzionale hanno chiarito che non c'è contrasto tra il controllo giurisdizionale del GIP con l'impianto accusatorio proprio sulla base della sua, già ricordata, natura di atto di impulso che non si estende alla formulazione dell'imputazione. In questo pronunciamento la Cassazione stabilisce anche il dovere di considerare abnorme il provvedimento con cui il GIP ordini, nei confronti di persona già iscritta nel registro delle notizie di reato, di formulare l’imputazione per reati diversi da quelli per i quali era stata richiesta l’archiviazione. Infatti il Pubblico Ministero si troverebbe nell'impossibilità di adottare autonome determinazioni alla luce delle ulteriori indagini, qualora ritenga opportuno svolgerle a seguito del rilevamento da parte del giudice di ulteriori ipotesi di reato. Secondo la

34 Così la Corte Costituzionale con la sentenza 88/1991. 35 Così la Corte Costituzionale con la sentenza 263/1991.

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Cassazione l'abnormità, la quale porta il GIP ad esorbitare il suo potere, scatta con l’ordine di imputazione, in assenza di previa iscrizione delle persona indagata o parimenti del fatto di reato, il giudice nei fatti adempierebbe all’obbligo di esercitare l’azione penale spettante al Pubblico Ministero.

5 Le Funzioni dell'articolo 112 della Costituzione

Al principio di obbligatorietà dell'azione penale contenuto nell'articolo 112 Cost., la giurisprudenza costituzionale negli anni ha conferito una rilevantissima funzione di garanzia. Infatti, oltre al legame che unisce l'obbligatorietà dell'azione penale all'indipendenza del Pubblico Ministero (di cui abbiamo già parlato nei capitoli precedenti), è necessario sottolineare che l'articolo 112 provvede a garantire anche altri principi di primo piano nel nostro ordinamento costituzionale. In particolare si può individuare questo ruolo nei confronti dell'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e del principio di legalità. Possiamo quindi dire che il principio di obbligatorietà dell'azione penale risulta essere un punto di convergenza di principi costituzionali e quindi, se venisse meno, l'assetto complessivo risulterebbe alterato. In questo paragrafo verrà quindi analizzata la natura strumentale dell'articolo 112 rispetto ai due menzionati principi di uguaglianza (sentenza 84/1979) e legalità (sentenza 88/1991). Concluderemo illustrando le critiche che vengono più frequentemente mosse al principio di obbligatorietà.

5.1 Garanzia dell'uguaglianza tra i cittadini

Definire il concetto di uguaglianza è un'impresa ardua, essa è stata vista come un obiettivo dal pensiero filosofico e politico sin dall'antichità. In particolare dal 700 essa ebbe un rilievo centrale: la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo 1979 affermava che gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti, le dottrine socialiste teorizzarono l'abolizione della proprietà

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privata e la collettivizzazione dei mezzi di produzione con l'obiettivo dell'eguaglianza economica e il pensiero liberale inquadrò in un progetto di uguaglianza misure come il suffragio universale, l'accesso generalizzato all'istruzione e la legislazione previdenziale. Tale tendenza fu soppressa dal totalitarismo nazista e da quello fascista, che anzi si basavano sui concetti di diversità e di ineguaglianza, per poi riaffermarsi nel dopoguerra come valore fondamentale degli stati democratici.36 Si deve necessariamente partire dalla constatazione che tutti gli individui sono uguali per alcuni aspetti e diseguali per altri, quindi il concetto di uguaglianza dipenderà dalla prospettiva di chi osserva e giudica. Il cuore del problema sarà allora individuare gli elementi rilevanti per giustificare un diverso trattamento, infatti Norberto Nobbio sosteneva che: “tra bianchi e negri, tra uomini e donne vi sono certo

differenze obiettive, ma non è detto che siano anche rilevanti. La rilevanza o l'irrilevanza è stabilita in base a scelte di valore e quindi in quanto tale è storicamente condizionata”.37 La nostra Costituzione fissa all'articolo 3 il

principio di uguaglianza sia dal punto di vista formale che da quello sostanziale. La seconda accezione è per certi versi la più interessante in quanto ci dice molto del modello di società, sia dal punto di vista socio-economico che da quello socio-istituzionale a cui si ispirarono i costituenti, rifiutando il modello della democrazia formale in favore per quello della democrazia reale in cui la sovranità appartiene al popolo;38 tuttavia ai nostri fini è maggiormente rilevante l'uguaglianza formale. Per quanto riguarda questo principio, contenuto nel primo comma dell'articolo 3, il quale maggiormente ci interessa in questa sede, in esso si stabilisce che tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge e va inteso come un canone generale al quale ogni atto subordinato deve rispettare. Al riguardo la Corte Costituzionale ha affermato che “l'eguaglianza è un principio generale che

36 C. Ponterio, Uguaglianza in L. Pepino (a cura di) Giustizia, Edizioni Laterza, 2010, pp. 205-206.

37 N. Bobbio, Eguaglianza in Enciclopedia del Novecento vol II, Roma, Istituto dell'Enciclopeia italiana, 1977, p. 362.

38 Cfr. U. Romagnoli, Il principio d'uguaglianza sostanziale in G. Branca-A. Pizzorusso (a cura di), Commentario della Costituzione, Bollogna, Zanichelli, 1975, p. 162.

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condiziona tutto l'ordinamento nella sua obiettiva struttura: esso vieta,cioè, che la legge ponga in essere una disciplina che direttamente o indirettamente dia vita ad una non giustificata disparità di trattamento delle situazioni giuridiche, indipendentemente dalla natura e della qualificazione dei soggetti ai quali queste vengano imputate”.39

L'eguaglianza davanti alla legge vale quindi anche per chi detiene il potere e si concretizza chiedendo al giudice di prendere decisioni imparziali e prescrivendo al legislatore di fare leggi generali e astratte (quindi le leggi di cui sono destinatari solo alcune categorie e le cosiddette leggi ad personam si pongono in tensione con il principio di uguaglianza instillano il sospetto di essere decisioni arbitrarie). Venendo ora ad analizzare il rapporto tra l'articolo 112 e l'articolo 3 primo comma, la Corte Costituzionale si è espressa su questo tema nella sentenza 84/1979, sancendo esplicitamente che l'obbligatorietà dell'azione penale è elemento che concorre a garantire contemporaneamente l'indipendenza del Pubblico Ministero nell'esercizio della sua funzione e l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale. La garanzia di applicazione della medesima è da considerarsi allo stesso modo per tutti i cittadini, e alla magistratura requirente non sono concessi spazi per valutazioni di opportunità. Appare evidente quindi che il principio di obbligatorietà garantisce, a livello teorico, un eguale trattamento di fronte alla legge penale, mentre la discrezionalità affidata all'organo d'accusa consentirebbe a questo la possibilità di tenere comportamenti diversi di fronte ad una medesima fattispecie di reato, arrivando così al risultato di discriminare tra soggetti che si trovano in situazioni identiche. Tuttavia è bene ricordare che il principio di uguaglianza postula anche che soggetti posti in situazioni differenti non possano essere trattati allo stesso modo, quindi si è sostenuto che un margine di discrezionalità nell'esercizio dell'azione penale potrebbe permettere di orientarsi verso un sistema di

individualized justice, il quale è già riscontrabile nei paesi di common law,

ovvero si tratta della giustizia nel caso concreto.40 Chi sostiene queste

39 Così la Corte Costituzionale con la sentenza 25/1966.

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posizioni parte dal concetto di imparzialità, inteso come una proiezione di quello di uguaglianza visto sotto l'angolazione dei destinatari della funzione amministrativa,41 il quale a seconda degli autori può trarre origine dalla discrezionalità oppure agire come un limite a questa, senza bisogno di previsioni come l'articolo 112 (infatti in quest'ottica basta estendere l'articolo 97 della Costituzione al Pubblico Ministero, visto come dipendente dal Ministero della Giustizia, limitandone la discrezionalità come avviene in ogni ambito dell'amministrazione) ma in realtà queste considerazioni sono in parte smentite dall'esperienza empirica, in quanto negli ordinamenti che hanno scelto la discrezionalità si verificano sovente veri e propri episodi di discriminazione. In materia di eguaglianza di fronte alla legge penale tale rigore è fondamentale in quanto ogni discriminazione può portare alla messa in discussione di diritti fondamentali; al riguardo può essere utile richiamare la giurisprudenza costituzionale in tema di stranieri che permette di rilevare nei confronti di questi soggetti una differenziazione di trattamento a seconda che siano in gioco diritti inviolabili,42 per i quali l'articolo 3 è pienamente esteso anche ai non-cittadini, o quelli non inviolabili, per i quali l'applicazione del principio di uguaglianza è meno rigoroso.43 Tale giurisprudenza, nonostante sia criticabile sotto molti aspetti,44 mostra come anche per la suprema corte si applichi, sul principio in esame, un sindacato di ragionevolezza più stretto quando entrano in gioco i diritti di cui all'articolo 2 della Costituzione. Si può convenire quindi che in ambito penale entrando ovviamente in gioco i diritti fondamentali dell'individuo, è quindi necessario un rigoroso rispetto del principio di eguaglianza, e il grado di garanzia che può offrire al riguardo il principio di imparzialità offerto dall'articolo 97, pare del tutto insufficiente. Allo scopo può risultare molto più efficace la previsione dell'obbligatorietà dell'azione penale consentendo al Pubblico Ministero qualche margine solo nella formulazione della richiesta di condanna nella

41 Cfr V. Caianiello, La cd imparzialità del pm in Rass. Magistr., 1977, p. 456. 42 Ad esempio nella sentenza 62/1994.

43 Ad esempio nella sentenza 244/1975.

44 Cfr M. Cuniberti, Espulsione dello straniero e libertà costituzionali in Dir. Pubbl. 2000.

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quale dovrà tenere conto della gravità del reato e della personalità del reo in ossequio al principio di ragionevolezza. Per concludere possiamo dire che il principio di eguaglianza davanti alla legge e quello di obbligatorietà dell'azione penale, sono volte ad un'applicazione uniforme del diritto penale, ma che ciò viene messo in discussione da un il sistema di repressione che tende ad introdurre un codice binario, nemico/cittadino, che riproduce e trasforma, ribadisce e revoca ad un tempo, il codice politico dell’amico/nemico.45 In questa accezione il concetto di criminale incorpora e neutralizza la figura del nemico all’interno del sistema penale ma conserva paradossalmente l’origine e ne sancisce la differenza. Il risultato di questa tendenza è il “Feindstrafrecht” che consiste nella “terza velocità”46 che attualmente caratterizza taluni settori dei sistemi penali europei e nordamericani, è presente ad esempio in settori come la legislazione antiterroristica, il contrasto alla criminalità organizzata, la disciplina dell'immigrazione e la repressione della delinquenza sessuale. In questa teoria il diritto penale si dividerebbe in tre velocità, la prima include i reati classici con pene privative della libertà, prevede il rispetto di tutti i requisiti di imputazione e di tutte le garanzie processuali sono previste in uno stato di diritto democratico, e una seconda velocità, include i reati sono stati introdotti in seguito al processo di modernizzazione e costituiscono la risposta al sorgere di nuovi rischi per la società globalizzata, e dovrebbero prevedere sanzioni restrittive dell’attività, è consentita una elasticizzazione delle regole di imputazione e delle garanzie. La terza velocità si caratterizza per una tutela fortemente anticipata e per una concezione ontologista del bene giuridico di riferimento, infatti vi è la netta prevalenza del paradigma del reato di pericolo indiretto e di quello di pericolo presunto, a cui si aggiunge una forte attenuazione delle garanzie individuale e una individuazione del disvalore nella proiezione finalistica dell'agente; si tratta insomma di una

45 F. Resta, Nemici e criminali le logiche del controllo in L'indice penale, 2006, n 1, p. 181.

46 La metafora del diritto penale ‘a tre velocità`’ si deve a J. M. Silva Sànchez, La

expansiòn del derecho penal. Aspectos de la polìtica criminal en las sociedades postindustriales, Madrid, 2001, pp. 163 e sgg.

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sorta di diritto di guerra che sarebbe presente nel diritto penale del nemico. In tale contesto sarà in futuro fondamentale valutare la compatibilità di questa tendenza con il principio di uguaglianza espresso dall'articoli 3 della Costituzione e l'idoneità dell'articolo 112 a garantirlo adeguatamente.

5.2 Tutela del principio di legalità

La Giurisprudenza Costituzionale ha individuato nell'obbligatorietà dell'azione penale un ruolo di garanzia anche nei confronti del principio di legalità. Per definire tale principio in via generale si può sostenere che consiste nella soggezione dei pubblici poteri alla legge alla quale devono conformare tutti i loro atti, da esso possiamo far discendere tre regole distinte che possono essere connesse pragmaticamente ma devono essere tenute distinte dal punto di vista logico:47 l'invalidità degli atti dei pubblici poteri in contrasto con la legge (si tratta del principio di preferenza della legge o di sovraordinazione gerarchica della legge rispetto agli atti del potere amministrativo e del potere giurisdizionale), l'invalidità degli atti dei pubblici poteri non espressamente autorizzati dalla legge (è il principio di legalità in senso formale) e l'invalidità di ogni legge che conferisca un potere senza disciplinarlo compiutamente (parliamo in questo caso di legalità in senso sostanziale). Tale principio non è estraneo al potere giurisdizionale, infatti se guardiamo alla magistratura giudicante possiamo convenire che questa è soggetta alla sola legge, affermazione che dà luogo a diverse conseguenze. Per prima cosa possiamo constatare che ogni decisione del potere giudiziario deve essere fondata su una specifica norma di legge e che i provvedimenti devono essere conformi alle leggi. Inoltre i giudici devono limitarsi all'applicazione delle leggi senza poterne creare di nuove e hanno il dovere di conoscere le leggi, non possono disapplicarle. Per concludere i giudici non sono autorizzati a disapplicare le leggi e non sono soggetti a direttive o ordini da parte di nessuno.

47 R. Guastini, voce Legalità (principio di), in Digesto delle discipline pubblicistiche, vol. IX, Torino 1994, p. 86.

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Questo è il quadro del rapporto in generale tra principio di legalità e giurisdizione. Se volgiamo lo sguardo al settore penale possiamo rilevare che esso è riscontrabile nell'articolo 25 comma 2, al quale fanno da corollario tre principi ossia quello di riserva di legge che assegna la competenza a disciplinare questo settore alle fonti di rango legislativo, il principio di determinatezza e tassatività che stabilisce che la previsione incriminatrice e la sanzione correlata devono avere contenuto definito e infine il principio di irretroattività che stabilisce che la norma incriminatrice non si applica ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore. In sostanza si impone il principio di legalità in senso sostanziale obbligando il legislatore di legiferare prevedendo fattispecie di reato in termini precisi e in tutti i suoi elementi costitutivi tendendo ad arginare la discrezionalità che inerisce l'interpretazione. Il significato funzionale del principio è quindi quello di garantire la libertà delle persone coinvolte nell'applicazione di una norme penale e ciò spiega perché tale principio è stato eliminato negli ordinamenti degli stati totalitari, ne sono un esempio la Germania nazista dove si introdusse l'estensione analogica delle norme incriminatrici sulla base del sano sentimento del popolo tedesco e l'Italia fascista dove nel Codice Rocco venne mantenuto il principio ma venne ridotto ad una semplice garanzia di una norma scritta in funzione di certezza. Dobbiamo stabilire quindi il legame che intercorre tra gli articoli 112 e 25 della Costituzione. Anche in questo caso possiamo partire dalla giurisprudenza costituzionale, infatti con la sentenza 88/1991 sancisce il principio di legalità rendendo doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, ma affinché ciò si realizzi, è necessaria la presenza effettiva della legalità nel procedere, in un sistema come il nostro improntato sull'eguaglianza di fronte alla legge è richiesto il principio di obbligatorietà dell'azione penale, specialmente se consideriamo che la realizzazione della legalità nell'uguaglianza, richiede la presenza di una magistratura requirente indipendente, pertanto abbiamo già sottolineato il ruolo giocato dall'articolo 112 nell'assicurarla.48 Si potrebbe

48 Contra G. Di Federico, Divisione delle carriere: può essere efficace senza

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sostenere che permettere al Pubblico Ministero di non agire sulla base di valutazioni di natura politica - in presenza di un fatto che il legislatore qualifica come reato - porterebbe ad aggirare l'articolo 25 della Costituzione, infatti il principio di legalità implica che solo il potere legislativo abbia la facoltà di scegliere quali siano i beni da tutelare collegando alla loro lesione l'applicazione di una pena preventivamente determinata; escludere l'obbligatorietà comporterebbe l'ammissione che un fatto previsto dalla legge come reato possa non essere punito. In realtà questa lettura presenta elementi di forzatura, l'articolo 25 ha infatti una natura garantista in quanto consiste nel riconoscimento del principio nullum crimen, nulla pena e richiede che, per applicare una sanzione penale, è necessaria la presenza di una legge. Quest'ultima infatti dà maggiori garanzie all'individuo rispetto all'attività dell'esecutivo, bisogna però constatare che, in realtà, essa non postula la considerazione del fatto che, a tutto ciò che viene qualificato dalla legge come reato, debba conseguire una sanzione penale.49 Come già detto il principio di legalità in materia penale presuppone la determinatezza e certezza delle fattispecie, tuttavia non è sufficiente l'opera del legislatore per assicurarle, e a questo fine gioca un ruolo fondamentale la giurisprudenza, interpretando in maniera uniforme i margini di indeterminatezza della legge. Tuttavia la redazione degli atti normativi deve tendere a limitare questa discrezionalità interpretativa, e ciò oltre che per il giudice, deve valere ancora maggiormente per un soggetto come il Pubblico Ministero, il quale può influire sulla funzione giurisdizionale con attività non di natura meramente interpretativa, ledendo la certezza del diritto e la libertà d'azione dell'individuo che chiede di essere tutelato. Per quanto riguarda la connessione tra l'obbligatorietà dell'azione penale e il principio di legalità, viene spesso richiamato anche l'articolo 101 Cost., in quanto l'agire discrezionale del Pubblico Ministero impedirebbe al giudice di verificare se sussistono le

p. 4. L'autore sostiene che considerare l'obbligatorietà dell'azione penale come fondamentale per assicurare la legalità sarebbe come affermare che in tutti i paesi di consolidata che hanno optato per il principio di discrezionalità essa non è garantita. 49 G. Monaco, Pubblico ministero ed obbligatorietà dell'azione penale, Milano, Giuffré,

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