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CAPITOLO 3 Sviluppo sostenibile

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CAPITOLO 3

Sviluppo sostenibile

1. L’importanza della tutela dell’ambiente 2. Definizione di sviluppo sostenibile 3. Altre definizioni di sviluppo sostenibile 4. Sostenibilità ambientale e sostenibilità sociale 5. Come misurare lo sviluppo sostenibile

6. Sviluppo sostenibile e Paesi in via di sviluppo 7. Evoluzione storica

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1. L’importanza della tutela dell’ambiente

La società moderna, soprattutto negli ultimi anni, ha acquisito una maggiore consapevolezza dell’importanza della tutela dell’ambiente come elemento dal quale dipende la qualità della vita. Argomenti quali la conservazione delle risorse naturali o il controllo delle sostanze inquinanti, sono questioni che per la loro importanza vengono trattate quotidianamente a livello nazionale e internazionale da governi, economisti e dai gruppi di pressione ambientalisti, che incontrano il sostegno di una sempre più ampia fascia di popolazione. Il carattere trascendete da un punto di vista geografico della questione ambientale ha portato ad una forte espansione del diritto ambientale internazionale1. La protezione dell’ambiente, pur essendo un tema molto attuale, affonda le sue origini nel passato; infatti i primi trattati concernenti detta tematica risalgono agli inizi del XX secolo, ma è solo con la fine della Seconda Guerra Mondiale che la loro portata crebbe considerevolmente. Tra questi trattati si annoverano:

- Convenzione internazionale per la prevenzione dell’inquinamento marino da petrolio (1954);

- Convenzione di Parigi sulla responsabilità di terzi nel campo dell’energia nucleare (1960);

- Convenzione Ramsar sulle zone umide di importanza internazionale (1971); - …

Nonostante queste prime collaborazioni a livello internazionale, il problema ambientale non fu risolto.

Solo a seguito del movimento ambientalista degli anni ’60, annunciato dal libro “Silent Spring” di Rachel Carson del 1962 e avvalorato dal rapporto “Limits to

Growth”2 pubblicato dal Club di Roma nel 1972, ci fu una presa di coscienza che

1

Branca del diritto costituita da una serie di convenzioni e trattati sottoscritti da un numero variabile di Paesi.

2 Il rapporto sui “Limiti dello sviluppo” fu commissionato dal Club di Roma ad alcuni studiosi del Massachussets Institute of Technology. Il rapporto riportava l’esito di una simulazione al computer delle interazioni fra popolazione mondiale, industrializzazione, inquinamento, produzione alimentare e consumo di risorse nell’ipotesi che dette variabili crescessero esponenzialmente con il tempo. La simulazione evidenziò che la crescita produttiva illimitata avrebbe portato al consumo delle risorse energetiche ed ambientali; sostenne inoltre che fosse possibile realizzare uno sviluppo che non avrebbe portato all’esaurimento delle risorse naturali.

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l’utilizzo umano delle risorse naturali stava raggiungendo livelli allarmanti, tali da minacciare il superamento della capacità di carico del sistema terrestre.

La Conferenza internazionale sull’Ambiente Umano tenutasi a Stoccolma nel 1972 fu la prima importante conferenza indetta dall’ONU riguardante la questione ambientale e segnò l’inizio della cooperazione internazionale in politiche e strategie per lo sviluppo ambientale. A seguito di questa conferenza, la necessità di adottare uno sviluppo compatibile con l’ambiente assurse a dibattito internazionale.

La forte scossa che l’economia mondiale subì a seguito della crisi petrolifera del 19733 rappresentò per l’Occidente un’occasione di riflessione sull’uso delle fonti rinnovabili che, per la prima volta, furono prese in considerazione come alternativa all’uso dei combustibili fossili. La crisi portò quindi il mondo occidentale ad interrogarsi sui fondamenti della civiltà industriale e sulla problematicità del suo rapporto con le risorse limitate del pianeta.

Alla fine del 1983 l’ONU istituì la Commissione Mondiale su Ambiente e Sviluppo, presieduta dall’allora primo ministro norvegese Gro Harlem Brundtland. Detta commissione aveva il compito di ricercare una possibile soluzione al problema del soddisfacimento dei bisogni primari, per una popolazione mondiale in continua crescita. Si giunse così alla pubblicazione nel 1987 del rapporto “Our common future”, più comunemente noto come rapporto Brundtland, in cui fu coniato il concetto di sviluppo sostenibile, che riveste un ruolo centrale nell’attuale dibattito sul progresso economico futuro.

2. Definizione di Sviluppo Sostenibile

Lo sviluppo sostenibile è un concetto difficile da comprendere, perché non tutti lo interpretano allo stesso modo. In linea generale, l’espressione “sviluppo sostenibile” viene utilizzata per indicare un modello di sviluppo in cui la crescita

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Nella guerra tra Israele e Paesi Arabi, quest’ultimi, per indurre gli USA e l’Europa a sostenere la causa palestinese, decisero di ridurre le esportazioni di petrolio verso l’Occidente. Il conseguente aumento del prezzo del petrolio causò un aumento dei costi dell’energia e dell’inflazione. Per contrastare la grave crisi finanziaria che si era venuta a creare, molti Paesi adottarono politiche di austerità volte a ridurre il consumo di energia.

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economica e sociale viene perseguita entro i limiti delle possibilità ecologiche del pianeta, senza compromettere l’integrità degli ecosistemi e la loro capacità di soddisfare i bisogni delle generazioni future. Già da questa prima definizione è possibile evincere l’esistenza di uno stretto legame tra tre variabili:

⇒ l’ambiente;

⇒ l’economia;

⇒ la società.

Partendo da un’interpretazione strettamente letterale dell’espressione “sviluppo

sostenibile”, emerge una sorta di conflitto tra i due termini impiegati:

- lo sviluppo implica una situazione di instabilità, di trasformazione. Più precisamente tale termine indica un cambiamento verso una situazione preferibile a quella presente, che porti delle modifiche (quali-quantitative) positive a coloro che la vivono.

- la sostenibilità rinvia all’idea di mantenimento/conservazione nel tempo delle condizioni esistenti e di capacità di garantire un supporto, un sostentamento, senza produrre degrado.

L’accostamento di questi due termini, apparentemente in conflitto tra loro, vuole evocare un’idea di miglioramento/modifica, mantenendo però nel lungo periodo le condizioni che consentono tale miglioramento. Da qui si desume che il significato di sviluppo sostenibile dovrebbe essere quello di migliorare la qualità della vita in modo durevole nel tempo.

Il rapporto Brundtland del 1987 definì lo sviluppo sostenibile come «quello sviluppo capace di soddisfare i bisogni della attuale generazione, senza compromettere la capacità delle future generazioni di soddisfare i propri». Da una attenta analisi, si evincono quali sono i tratti caratteristici dello sviluppo sostenibile:

• un approccio olistico allo sviluppo ⇒ lo sviluppo, che sappiamo essere reale solo se migliora la qualità della vita in modo duraturo, affinché sia anche sostenibile è necessario coniugarne le tre dimensioni fondamentali: ambientale, economica e sociale.

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Le tre dimensioni non sono tra loro avulse, ma presentano molteplici connessioni: l’ambiente, con le sue risorse e le sue bellezze, fa da cornice alla nascita della società; solo in presenza di una società può, inoltre, svilupparsi l’economia.

Il concetto di sviluppo sostenibile si identifica in un principio etico e politico, in base al quale le dinamiche economiche e sociali delle economie moderne sono compatibili con il miglioramento delle condizioni di vita e la capacità delle risorse naturali di riprodursi in maniera indefinita. A tal fine, risulta importante garantire uno sviluppo economico compatibile con l’equità sociale e gli ecosistemi (si parla della cosiddetta “regola dell’equilibrio delle tre E”: ecologia, equità, economia).

Il perseguimento dello sviluppo sostenibile dipende, quindi, dalla capacità della governance di garantire una interconnessione completa tra economia, società e ambiente.

economica

sociale

ambientale

Sostenibilità economica = capacità di generare reddito e lavoro per il sostentamento della popolazione.

Sostenibilità sociale = capacità di garantire condizioni di benessere umano (sicurezza, salute, istruzione) equamente distribuite per classi e per genere.

Sostenibilità ambientale = capacità di preservare nel tempo le tre funzioni dell’ambiente: fornitore di risorse; ricettore di rifiuti; fonte diretta di utilità.

società

economia

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Partendo da questo assunto, lo sviluppo sostenibile può essere rappresentato come l’intersezione dei tre insiemi dello sviluppo economico, sociale ed ambientale.

Tale grafico evidenzia come laddove vengano privilegiate, ad esempio, solo due delle sue dimensioni non si verifica uno sviluppo sostenibile, ma uno sviluppo in un’ottica:

a) conservazionista; b) socio-economica; c) ecologica.

Per poter realizzare lo sviluppo sostenibile è necessario, quindi, ricercare l’equilibrio tra le tre dimensioni. Questo equilibrio è un equilibrio dinamico, in quanto viene continuamente rimesso in discussione dalle pressioni, dovute al cambiamento, esercitate da diversi soggetti (pubblici, privati, sociali) che rimettono così in discussione le priorità tra i tre obiettivi fondamentali.

L’ottica dello sviluppo sostenibile richiede quindi un approccio globale alla pianificazione ed alla valutazione.

• visione di lungo periodo ⇒ il rimando alle generazioni future contenuto nel rapporto Brundtland ha avviato un dibattito in ordine a quale dovesse essere l’orizzonte temporale da considerare: la prossima generazione oppure generazioni più remote? Alcuni studiosi risolvono il problema in questione

Sviluppo economico Sviluppo ambientale Sviluppo sociale Sviluppo sostenibile ecologia conservazionismo sviluppo socio-economico

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prendendo come riferimento la generazione successiva. Essi, infatti, ritengono che il modello di sviluppo adottato deve essere equo nei confronti della generazione seguente, in maniera tale da non impoverire la ricchezza che questa avrà in dotazione. In questo modo, ogni generazione si prende cura della generazione successiva.

• equità inter ed intra-generazionale ⇒ all’interno della definizione di sviluppo sostenibile sono contenute due tipologie di equità: l’equità

inter-generazionale, esplicitamente dichiarata nella definizione, sottintende pari

opportunità (cioè stessi diritti) fra successive generazioni; l’equità

intra-generazionale, detta anche giustizia, implica che all’interno della stessa

generazione, persone appartenenti a diverse realtà politiche, economiche, sociali e geografiche hanno gli stessi diritti; quindi deve essere garantita loro la parità di accesso alle risorse (ambientali, economiche e sociali/culturali), senza alcuna distinzione. Questo aspetto è poco presente nella realtà. Il predominio dei Paesi occidentali dovuto alla superiorità economica, accompagnato da episodi di sfruttamento, determina un aumento della dipendenza dei Paesi meno avanzati. Gli stessi aiuti verso i Paesi in via di sviluppo dovrebbero essere più attenti e rispettosi delle culture e dei valori dei popoli a cui sono rivolti, in modo da evitare l’instaurazione di un dannoso processo di omologazione culturale.

• partecipazione ⇒ il concetto di sviluppo sostenibile integra e bilancia la dimensione sociale, economica ed ambientale, che si identificano nei tre obiettivi di: utilità, equità, integrità ecologica. I molteplici soggetti coinvolti nel processo di sviluppo sostenibile possono trovarsi in conflitto tra loro, in quanto non è possibile massimizzare contemporaneamente le tre dimensioni; infatti se si massimizza un obiettivo, si avranno necessariamente delle riduzioni nel perseguimento degli altri. Per questo motivo, risulta necessario incentivare la cooperazione - partecipazione tra i vari attori coinvolti al fine di raggiungere un condiviso equilibrio tra la pluralità di obiettivi in gioco. • efficienza nell’uso delle risorse ⇒ il livello di benessere raggiunto dalla

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disposizione. Partendo da questo assunto è possibile comprendere la nocività di un impiego inefficiente delle risorse nel processo produttivo. Un uso eccessivo delle risorse ha un duplice effetto:

- da una parte permette uno sviluppo nell’immediato futuro;

- dall’altra però causa un significativo impoverimento delle generazioni future.

Per questo motivo, al fine di garantire effettivamente alle generazioni future la possibilità di soddisfare i propri bisogni, risulta fondamentale adottare un’oculata gestione delle risorse volta a conservare il capitale naturale ad oggi a disposizione. A tal fine è necessario:

- rispettare la capacità di carico dei sistemi ambientali; - introdurre dei vincoli alle trasformazioni.

3. Altre definizioni di sviluppo sostenibile

Come già detto, la World Commission on Environment and Development nel rapporto Brundtland del 1987 definì lo sviluppo sostenibile4 come “quello

sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere l’abilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Ad oggi questa rappresenta la

definizione più caldamente condivisa.

Attorno al concetto innovativo di sviluppo sostenibile si sono aperti numerosi dibattiti; uno tra i quali vede il contrapporsi di due interpretazioni di detto concetto. La visione più ristretta ritiene che lo sviluppo sostenibile si riferisca esclusivamente agli aspetti di gestione ambientale e alle risorse, delle quali si teme l’esaurimento nel tempo.

Secondo la visione più ampia invece, lo sviluppo sostenibile comprende non solo lo sviluppo economico ed ecologico, ma anche lo sviluppo sociale. Questo punto

4

“Sustainable development is development that meets the needs of the present without compromising the ability of future generations to meet their own needs.

...sustainable development is not a fixed state of harmony, but rather a process of change in which the exploitation of resources, the orientation of the technological development, and institutional change are made consistent with future as well as present needs.”

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di vista è quello effettivamente sposato dalla Commissione Mondiale su Ambiente e Sviluppo.

Sin da quando il termine sviluppo sostenibile è apparso, non è sembrato semplice trovarne una definizione che potesse realmente mettere d’accordo tutti e permettesse di tradurne i principi in realtà. Molteplici sono state le definizioni adottate nelle varie esperienze politiche, di studio o di pianificazione:

- David Pearce, nel “Blueprint for a green economy” del 1989, individuò quattro forme di sostenibilità:

⇒ Sostenibilità debole: il capitale totale, composto da capitale naturale e capitale materiale, deve essere mantenuto costante per le generazioni future. È ammessa ampia sostituibilità tra i due capitali.

⇒ Sostenibilità sensibile: per gli stock naturali più critici non sono consentiti ulteriori cali; mentre per gli altri la sostituzione tra capitale naturale ed artificiale è consentita.

⇒ Forte sostenibilità: lo stock complessivo di capitale naturale non dovrebbe essere ridotto.

⇒ Sostenibilità assurdamente forte: nessuna sostituzione è consentita tra i vari tipi di stock di capitale naturale; ogni stock deve essere mantenuto almeno al livello attuale.

- nel 1991 la World Conservation Union, in collaborazione con l’UNEP e il WWF, identificò lo sviluppo sostenibile come “un miglioramento della

qualità della vita, senza eccedere la capacità di carico degli ecosistemi a supporto della vita stessa”. Partendo da questa definizione, l’economista

Herman Daly segnalò quali fossero le condizioni generali in ordine all’uso delle risorse naturali che l’uomo avrebbe dovuto rispettare:

• la velocità di prelievo delle risorse “rinnovabili” avrebbe dovuto essere uguale alla capacità di rigenerazione;

• il prelievo di risorse “non rinnovabili” avrebbe dovuto essere compensato dalla produzione di una pari quantità di risorse rinnovabili in grado di sostituirle;

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• la velocità di produzione dei rifiuti avrebbe dovuto essere uguale alla capacità di assorbimento da parte degli ecosistemi nei quali i rifiuti vengono immessi;

• il peso dell’impatto antropico sui sistemi naturali non avrebbe dovuto superare la capacità di carico della natura.

- L’articolo 2 del Tratto di Maastricht del 1992 definisce lo sviluppo sostenibile come “uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche, una crescita sostenibile e non inflazionistica che rispetta l’ambiente”.

- Nell’European community fifth enviromental action programme del 1993 è possibile leggere che “lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo economico e sociale continuo, che non danneggia le risorse naturali da cui dipendono le attività umane ed ogni futuro sviluppo”.

- L’International Council for Local Enviromental Initiatives nel 1994, per porre l’accento sulla necessità che ogni intervento di programmazione tenesse conto delle reciproche interrelazioni esistenti tra le tre dimensioni di sviluppo, definì lo sviluppo sostenibile come “sviluppo che offre servizi ambientali,

sociali ed economici di base a tutti i membri di una comunità senza minacciare la vitalità dei sistemi naturali, costruiti e sociali sui quali si basa la fornitura di questi servizi”.

- Nel 2001 l’UNESCO, all’interno della dichiarazione universale sulla diversità culturale, ha ampliato il concetto di sviluppo sostenibile indicando che “la

diversità culturale è necessaria per l’umanità quanto la biodiverisità per la natura. La diversità culturale è una delle radici dello sviluppo inteso non solo come crescita economica, ma anche come un mezzo per condurre un’esistenza più soddisfacente sul piano intellettuale, emozionale, morale e spirituale”. L’UNESCO ritiene quindi che la diversità culturale debba essere

interpretata come il quarto pilastro dello sviluppo sostenibile.

La pluralità e differenza fra le varie espressioni adottate è legata al carattere ideologico dello sviluppo sostenibile; cioè allo stretto legame esistente fra significato attribuito all’espressione sviluppo sostenibile e giudizi etici e di valore propri degli attori dello sviluppo.

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Ancora oggi questo dibattito non è concluso. Il teologo e filosofo Leonardo Boff, nel libro “Sustentabilidade: o que è e o que não” del 2012, partendo dalle critiche mosse alla definizione di sviluppo sostenibile data dal Rapporto Brundtland, secondo cui il rapporto prende in considerazione solo l’essere umano e non anche le altre specie viventi che popolano la Terra, ha cercato di fornire una definizione olistica di sostenibilità.

Per Boff la sostenibilità è “qualsiasi azione destinata a preservare le condizioni

necessarie alla sopravvivenza di tutti gli esseri; in particolare volte a sostenere la Terra viva, la comunità di vita e la vita umana, tenendo presenti la loro continuità e anche la soddisfazione dei bisogni della presente generazione e di quelle future, in modo tale che il capitale naturale sia mantenuto e arricchito nella sua capacità di rigenerazione, riproduzione e coevoluzione”.

Detto filosofo ritiene che l’uomo, proprio per la sua coscienza, sensibilità ed intelligenza, ha l’obbligo morale di adottare un comportamento sostenibile volto in prima battuta a proteggere la Terra viva; in quanto essa stessa è viva, si autoregola, si rigenera ed evolve. Se non viene garantita, prima di tutto, la sostenibilità del nostro pianeta, non sarà possibile implementare alcun altra forma di sostenibilità.

4. Sostenibilità ambientale e sostenibilità sociale

Come è stato evidenziato in diverse occasioni, la realizzazione dello sviluppo sostenibile deve essere guidata da un criterio di equità nella distribuzione tra generazioni e all’interno di ogni generazione del reddito, della ricchezza e delle risorse. Si possono individuare, così, due condizioni necessarie per la realizzazione di uno sviluppo che sia al contempo sostenibile:

• condizione inter-generazionale di sostenibilità; • condizione intra-generazionale di sostenibilità.

Entrando più nello specifico, il primo requisito sopra individuato, più comunemente denominato “sostenibilità ambientale”, persegue l’obiettivo di assicurare che la libertà di scelta delle generazioni future, la quale dipende in

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modo cruciale dall’integrità dell’ambiente naturale ricevuto in eredità, non risulti compromessa dalla miopia decisionale delle generazioni precedenti. Questo tipo di sostenibilità è messa a repentaglio da due fattori: l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse naturali non rinnovabili.

Per quanto riguarda l’inquinamento, l’osservazione di un andamento da prima crescente e poi decrescente di alcuni indici specifici ha portato all’elaborazione di un’ipotesi ottimistica, denominata “curva di Kuznets ambientale”, secondo cui:

a) nella prima fase dell’industrializzazione, il degrado ambientale tende ad aumentare fino ad un certo livello a causa del passaggio da un’economia agricola ad un’economia basata sull’industria pesante (acciaio, chimica,..) che è più inquinante;

b) nella seconda fase dell’industrializzazione si registra invece una progressiva riduzione del degrado ambientale, giustificata dal passaggio dall’industria pesante a quella leggera e ai servizi che sono meno inquinanti e consumano meno energia. In questa seconda fase, inoltre i beni ambientali vengono considerati sempre più come beni cruciali per migliorare la qualità della vita; ciò spinge da una parte i consumatori ad esercitare una pressione crescente sui produttori di beni e servizi affinché migliorino la qualità ambientale dei loro processi produttivi e dei prodotti offerti sul mercato; dall’altra parte gli elettori a chiedere un rafforzamento delle politiche ambientali da parte dei governi.

Anche se in un primo momento questa ipotesi può sembrare ragionevole; successivi studi ne hanno messo in discussione la validità. Queste ricerche hanno riscontrato, infatti, un risultato positivo solo in riferimento ad alcuni indici relativi a problemi con effetti locali che ricadono, quindi, direttamente sui responsabili del degrado ambientale (es: accesso all’acqua potabile;..); lo stesso non si può invece dire per quegli indici relativi a problematiche ambientali con effetti globali o trasferibili altrove (es: emissione di anidride carbonica nell’atmosfera; trattamento dei rifiuti urbani;..). Inoltre anche nei casi in cui i dati sono risultati compatibili con questa tesi ottimistica sorgono dei dubbi, in quanto

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non è chiaro se nei Paesi in via di sviluppo questa inversione di tendenza tanto auspicata possa realizzarsi prima che venga raggiunta la soglia oltre la quale la capacità di carico dell’ecosistema viene messa a repentaglio.

Di recente, è stato provato che la crescita economica sostenibile può concretamente realizzarsi solo se l’intensità del degrado ambientale5 diminuisce a un tasso superiore al tasso di crescita della popolazione. A tale scopo è necessario accelerare, con opportune misure di politica ambientale, il congiunto operare di due fattori da tempo all’opera: il progresso tecnologico (con il quale si intende accrescere la compatibilità ambientale dei processi produttivi e dei prodotti realizzati); le preferenze dei consumatori (sempre più orientate verso prodotti e servizi eco-compatibili).

Per quanto concerne il tema della scarsità delle risorse naturali non rinnovabili, l’aspetto più preoccupante sul piano economico è rappresentato dall’esaurimento delle riserve di combustibili fossili che, ad oggi, soddisfano l’85% dei consumi energetici mondiali; più in specifico:

• il 38% dell’energia prodotta deriva dal petrolio; • il 26% deriva dal carbone;

• il 21% deriva dal gas naturale.

Questo aspetto congiuntamente alla concentrazione territoriale e proprietaria6 di dette riserve energetiche (situate prevalentemente nel Medio Oriente, e controllate da otto colossali multinazionali dell’energia) rende vulnerabile il

5 Il degrado ambientale è un male molto pericoloso da un punto di vista prettamente economico, perché non solo riduce la produttività dei lavoratori a causa dell’incremento dei problemi di salute, ma riduce anche la produttività della terra e delle altre risorse naturali, spesso unica fonte di sostentamento delle popolazioni più povere. Questo deterioramento ambientale si traduce quindi in un peggioramento delle condizioni di vita dei poveri; i quali, per poter sopravvivere, saranno portati a sfruttare maggiormente le risorse naturali e così via. Si innesca così un circolo vizioso che prende il nome di “ trappola della

povertà”.

6 Nel ventennio tra gli anni ’50 e ’70, il mercato del petrolio era controllato dalle cosiddette sette sorelle: l’inglese British Petroleum (BP); il gruppo anglo-olandese della Royal Dutch Shell (Shell); le statunitensi Standard Oil of New Jersey (Esso), Standard Oil of California (Chevron), Standard Oil of New York (Mobil Oil), Gulf Oil e Texas Oil Company (Texaco). Queste multinazionali controllavano, all’epoca, quasi la totalità delle riserve (80%), della produzione e della capacità di raffinazione di petrolio esistente nel mondo al di fuori degli Stati Uniti, del Canada e dei paesi allora sotto l’ombrello sovietico. Oggi la situazione è cambiata. Dalla classifica delle 50 compagnie petrolifere più grandi al mondo, stilata nel 2014 dalla Petroleum Intelligence Weekly, troviamo ai primi posti: la saudita Saudi AramCo; l’iraniana NIOC; la cinese CNPC; le statunitensi ExxonMobil e Chevron; la venezuelana PDVSA; l’olandese Shell; l’inglese BP e la russaGazprom.

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modello energetico attuale, fortemente soggetto a rischi geo-politici (gli shock petroliferi degli anni ’70 misero a dura prova l’economia mondiale, colpita contemporaneamente da forte inflazione e disoccupazione). Alla luce di quanto detto sopra, è ormai comune la consapevolezza che presto (c’è chi dice nel 2050) si dovrà implementare un nuovo modello energetico incentrato sulle fonti di energia rinnovabile (energia eolica; fotovoltaica; idrogeno; energia nucleare); ciò che ancora non è chiaro sono le modalità e i tempi con cui questo passaggio dovrà avvenire. Per poter agevolare e velocizzare questa transizione sarebbe forse utile, come alcuni ritengono, abolire gli ingenti sussidi che gli Stati concedono alla produzione e distribuzione dell’energia da combustibili fossili e convogliarli verso il settore delle energie rinnovabili.

Il secondo requisito, conosciuto come “sostenibilità sociale”, invece ha come obiettivo quello di garantire pari opportunità a tutti i partecipanti alla competizione del mercato. Parità che si realizza concretamente solo se viene assicurato a tutti loro una sostanziale uguaglianza nell’accesso alle opportunità economiche; questo però non implica una assoluta uguaglianza distributiva né tanto meno la rinuncia a ragionevoli criteri distributivi meritocratici basati sui risultati dell’impegno di ciascuno. Questa forma di sostenibilità dello sviluppo dipende dalla qualità dei rapporti sociali che caratterizzano una certa economia. A tal proposito è utile soffermarsi sull’analisi di due elementi: la povertà e la disuguaglianza distributiva dei redditi.

Con riguardo alla povertà, da un recente rapporto della Banca Mondiale è emerso che, ancora oggi, vi sono circa 1 miliardo e 200 milioni di persone che vivono con meno di 1$ al giorno e quasi 3 miliardi con meno di 2$ al giorno. La povertà, in particolare attraverso la denutrizione che provoca una consistente riduzione psicofisica dei soggetti che ne sono vittima, riduce significativamente l’accesso alle opportunità economiche da parte dei soggetti meno abbienti. Riduzione che è ulteriormente accentuata dallo smantellamento dello Stato sociale, dalla privatizzazione dell’istruzione e della sanità, nonché dalla maggior flessibilità del mercato del lavoro.

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Infine per quanto riguarda il secondo elemento sopra indicato, è utile notare come elevati livelli di disuguaglianza siano fonte di tensioni sociali e politiche che, minacciando i diritti di proprietà e creando incertezza, vanno a scoraggiare gli investimenti produttivi. È stata osservata una correlazione di lungo periodo tra il grado di sviluppo raggiunto da un certo Paese e il suo grado di disuguaglianza nei redditi sia tra Paesi che all’interno di ciascuno di essi. In particolare è stato notato che:

• la disuguaglianza tra Paesi è tendenzialmente aumentata negli ultimi due secoli, eccetto nel periodo compreso tra le due guerre mondiali (periodo caratterizzato da un processo di de-globalizzazione e dalla crisi economica mondiale).

• la disuguaglianza interna ai Paesi è invece aumentata per tutto il XIX secolo; mentre nel XX secolo ha registrato prima una riduzione provocata dallo scoppio dei due conflitti mondiali e dall’attuazione in molti Paesi industrializzati di politiche redistributive del Welfare State; poi, a partire dagli anni ’80, una crescita conseguente al processo di smantellamento dello Stato sociale e al processo di deregolamentazione e privatizzazione dei mercati. sostenibilità ambientale sostenibilità sociale Sviluppo Sostenibile

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5. Come misurare lo sviluppo sostenibile

Una delle più gravi debolezze attuali dello sviluppo sostenibile si identifica nell’impossibilità di misurare il livello di sostenibilità raggiunto da: un’impresa, un governo,… Questa debolezza trae origine dal carattere multi-dimensionale della sostenibilità. Per poter realizzare uno sviluppo sostenibile è, infatti, necessario perseguire un equilibrio tra obiettivi economici, sociali ed ambientali. Partendo da questa considerazione, emerge l’importanza di utilizzare quale strumento di misurazione un appropriato set di indicatori (alcuni economici, altri non monetari) integrati tra loro. Si rende quindi necessario ricorre ad un’analisi multicriteriale che consenta di affrontare un problema valutando singolarmente, ma in modo integrato, tutte le variabili in gioco attribuendo a ciascuna di esse la propria importanza relativa.

Punto di partenza per la valutazione del livello di sostenibilità raggiunto è rappresentato, quindi, dalla scelta di un adeguato set di indicatori ambientali (es: tonnellate di rifiuti solidi prodotti; quantità di materiale riciclato pro-capite rispetto alla quantità totale di rifiuti prodotti;…) e di indicatori economici (es: tasso di disoccupazione; numero e variabilità dimensionale delle imprese;…). A questo punto le possibili strade da seguire sono due:

a) si procedere all’aggregazione delle due tipologie di indici in un indice di performance ambientale e in un indice di performance socio-economico. Sulla base di questi indici si prosegue alla classificazione dell’unità di studio (es: aree geografiche; attività imprenditoriali;…). Incrociando i risultati ottenuti sul piano socio-economico ed ambientale si ottiene la classificazione in funzione del livello di sostenibilità conseguito.

b) la classificazione delle unità di studio in funzione del livello di sostenibilità conseguito avviene in base ad un indice aggregato di sostenibilità, ottenuto dall’aggregazione di tutti gli indicatori precedentemente individuati, sia ambientali che socio-economici (strada seguita dal modello Dashboard of sustainability7).

7 Modello nato all’interno della Commissione sullo Sviluppo Sostenibile (UNCSD) istituita dall’ONU. Detto modello è stato in seguito migliorato da un piccolo gruppo di ricercatori guidati dall’International

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Prima di concludere dicendo quale delle due strade è più corretto seguire, è utile fare una breve deviazione.

Come sappiamo, il livello di benessere raggiunto dalla società dipende dallo stock di risorse che essa ha a disposizione. Questo stock (detto anche capitale totale “KT”) è costituito da capitale prodotto dall’uomo “KM” e da capitale naturale “KN”, entrambi indispensabili per lo sviluppo economico di un Paese. Herman Daly, il padre della teoria economica dello sviluppo sostenibile, sostiene esistano due modi per mantenere costante il capitale totale (KT = KM + KN):  sostenibilità debole;

 sostenibilità forte.

La sostenibilità debole si basa sull’assunto secondo il quale, il capitale materiale e il capitale naturale sono sostituibili tra loro. Questo significa che, dovendo trasmettere alle generazioni future un capitale totale costante, l’impoverimento di uno dei due fattori è trascurabile se compensato dalla crescita dell’altro. Secondo questa ipotesi quindi, si avrebbe sviluppo sostenibile anche in presenza di ingenti distruzioni di capitale naturale, purché compensate dall’aumento di capitale materiale.

Con riferimento a questa prima ipotesi per mantenere costante il capitale totale possono essere mosse varie critiche. Innanzitutto la tesi su cui poggia non sempre si verifica. La sostituzione del capitale naturale con capitale materiale è possibile solo in misura limitata; esistono infatti in natura determinati beni che non sono sostituibili (es: strato di ozono; ruolo svolto nel delicato equilibrio dell’ecosistema da una specie animale o vegetale ormai estinta;…). Per questo motivo l’uomo, prima di procedere, deve essere consapevole delle conseguenze che il suo agire avrà sull’ambiente e valutare se, allo stato attuale della scienza e della tecnologia, esistono dei prodotti umani in grado di sostituire la risorsa naturale a rischio.

Institute for Sustainable Development; successivamente è stato reso pubblico nel 2002, in occasione del World Summit di Johannesburg. Il Dashboard of sustainability si propone di integrare in un unico indice di sostenibilità (il cosiddetto Environmental Sustainability Index) la sfera economica, sociale ed ambientale, al fine di fornire un quadro sul livello della sostenibilità dello sviluppo di una nazione, regione, provincia, comune,…

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Un’altra critica mossa ritiene che a differenza del capitale materiale che è generalmente riproducibile, fatta eccezione del patrimonio artistico – culturale (es: l’uomo non è in grado di ricostruire un monumento storico andato distrutto in un terremoto), il capitale naturale nella maggioranza dei casi, in presenza di un’azione distruttiva, non è riproducibile (come nel caso di specie estinte) oppure lo è ma in tempi molto lunghi (es: riforestazione).

Alla luce di queste considerazioni viene quindi avvalorata la seconda ipotesi, quella della sostenibilità forte. Essa ritiene necessario mantenere a un valore costante entrambi i capitali, perché la produttività dell’uno dipende dalla disponibilità dell’altro. Secondo quest’ultima ipotesi quindi, la generazione futura deve ereditare un capitale naturale non inferiore a quello posseduto dalla generazione precedente. In questo modo, può essere effettivamente garantita la tutela delle risorse naturali, che sono costantemente minacciate dal progresso economico.

Alla luce di queste considerazioni, è possibile osservare come la seconda strada segnalata per valutare il livello di sostenibilità raggiunto sia in linea con la logica della sostenibilità debole; infatti la costruzione di un indice aggregato di sostenibilità genera una compensazione tra aspetti socio-economici e aspetti ambientali. Una così spinta aggregazione provoca una perdita di informazioni necessarie alla comprensione del risultato ottenuto in termini di sostenibilità. Lo stesso Dashboard of sustainability fu definito una scatola nera a causa della difficoltà di interpretazione e comprensione dei risultati ottenuti.

Si ritiene quindi opportuno percorrere la prima strada (creazione di indici di performance ambientale ed indici di performance socio-economica e successiva analisi integrata); la quale, essendo conforme alla tesi della sostenibilità forte (da molti ritenuta la vera sostenibilità), prevede che gli aspetti sociali, economici ed ambientali debbano mantenere una propria autonomia.

Si viene quindi a costruire una matrice8 che mette in relazione le modalità assunte dall’indice aggregato ambientale e da quello socio-economico,

8 questo strumento è stato impiegato in un’indagine del 2007 volta a valutare la sostenibilità dei comuni della Regione Umbria.

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rispettivamente riportati sull’asse verticale e sull’asse orizzontale della matrice stessa.

Ipotizzando che ciascun indice possa assumere solo tre parametri, si avrà una matrice composta da nove quadranti. L’unità oggetto di studio sarà collocata nel quadrante che avrà come coordinate il valore assunto dai due indici considerati.

indice aggregato socio-economico

ind ic e a ggr eg at o amb ient al e 1 2 3 3 2 1

Il concetto di sostenibilità forte rappresenta la chiave di lettura della matrice: il capitale materiale e il capitale naturale non sono sostituibili, per cui non si percorre la direzione della sostenibilità se, ad esempio, dal punto di vista socio-economico si ottengono risultati eccellenti mentre da quello ambientale i risultati sono carenti.

L’analisi della sostenibilità si delinea come un’analisi dell’equilibrio esistente fra le diverse dimensioni che compongono la sostenibilità. All’interno della matrice è possibile individuare il percorso della sostenibilità (diagonale colorata), composto da quelle celle che hanno come coordinate uno stesso livello di classe sia ambientale che socio-economica. Se l’unità oggetto di analisi presenta degli squilibri tra i due risultati, sicuramente è distante dall’implementazione di un modello di sviluppo sostenibile. L’essere collocato in una delle celle della diagonale non significa essere sostenibile (nemmeno se ci si trova nella cella più alta), ma aver intrapreso il giusto percorso e trovarsi più o meno avanti rispetto agli altri. Il percorso verso il divenire sostenibile è lungo, e richiede un costante impegno da parte di tutti.

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6. Sviluppo sostenibile e Paesi in via di sviluppo

Tra le principali sfide che l’umanità si trova a dover affrontare si annovera l’effettiva implementazione di uno sviluppo sostenibile. Come precedentemente visto, questa forma di sviluppo richiede l’integrazione tra obiettivi di natura diversa:

- da un punto di vista sociale ⇒ deve essere garantita un’uguaglianza di opportunità tra i sessi e il rispetto dei diritti dell’uomo e dei minori;

- da un punto di vista politico ⇒ gli uomini hanno diritto a una società democratica, libera, solidale ed equa;

- da un punto di vista economico ⇒ si deve lottare contro la fame e la povertà, assicurare l’autonomia di vita dei popoli e realizzare un nuovo modello di sviluppo industriale e urbano;

- da un punto di vista ambientale ⇒ si deve porre rimedio a problemi quali: il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, lo sperpero di risorse,…

Nei Paesi in via di sviluppo la problematica della sostenibilità è particolarmente urgente. Qui infatti, soprattutto nelle aree rurali, le condizioni di vita e sopravvivenza della popolazione sono strettamente legate alla possibilità di accedere direttamente alle risorse naturali (es: impiego della vegetazione per il

Obiettivi sociali Obiettivi politici Obiettivi ambientali Obiettivi economici

Sviluppo

sostenibile

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sostentamento del bestiame;..). La forte crescita demografica che interessa questi Paesi va ad aggravare ulteriormente la situazione perché, se non è sorretta da efficienti politiche di sviluppo che contrastano l’impoverimento delle risorse naturali, può pregiudicare la vitalità degli ecosistemi9.

Frequentemente accade che una nazione ricca (es: USA; Giappone;..), per poter implementare un modello di sviluppo che sia sostenibile e che quindi non leda il proprio patrimonio naturale, decida di importare le materie prime di cui necessita da altri paesi (es: legname duro proveniente da paesi tropicali). Saranno quindi questi Paesi esportatori a subire un grave impoverimento delle loro risorse naturali.

Attraverso l’esportazione di materie prime, di cui dispongono in grossi quantitativi, i Paesi in via di sviluppo si procacciano valute più forti utilizzabili sul mercato. Questo denaro però, anziché essere utilizzato per investimenti produttivi di capitale, viene impiegato in consumi di vario genere che non contribuiscono alla crescita del Paese.

A seguito di questa breve disamina sulle condizioni dei “paesi poveri” si evince che:

1. le nazioni più ricche, attraverso l’implementazione di progetti destinati alla salvaguardia dell’ambiente e delle risorse naturali, potrebbero compensare e prevenire i danni che le nazioni più povere subiscono a seguito della loro dipendenza dalle esportazioni;

2. condizioni di vita precarie e disinformazione dovuta ad un basso livello di scolarizzazione, tipiche dei Paesi in via di sviluppo, ostacolano il diffondersi di una coscienza attenta ai problemi ambientali. Ciò espone, maggiormente, le fasce più povere della popolazione a rischi legati ad una scarsa qualità ambientale (es: impiego di acqua inquinata per uso domestico;…).

9 In uno studio di Daly e Cobb in ordine al rapporto esistente tra l’ecosistema terrestre e quello umano è stato messo in luce come la crescita sconsiderata della specie umana possa ingenerare il rischio di perdita di diversità biologica. H.E.DALY, J.B.COBB, For the common good, Beacon Press, Boston, 1989.

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Una maggiore coscienza di sé, dell’importanza dell’ambiente e della salute renderebbe possibile una pronta reazione di fronte a minacce alla qualità della vita.

Seguendo questa linea di pensiero, a partire da un’iniziativa promossa durante il Vertice Mondiale dello Sviluppo Sostenibile tenutosi a Johannesburg nel 2002, le Nazioni Unite hanno proclamato il periodo 2005-2014 “Decennio dell’Educazione per lo Sviluppo Sostenibile”, attribuendo all’UNESCO il compito di coordinarne e promuoverne le attività. Il compito del DESS è quello di sensibilizzare i governi e le società civili di tutto il mondo circa la necessità di un futuro più equo ed armonioso, rispettoso del prossimo e delle risorse del pianeta. Affinché sia possibile la creazione e diffusione di una cultura della sostenibilità è necessario valorizzare il vitale ruolo dell’educazione, intesa in termini di: istruzione, formazione, informazione e sensibilizzazione.

7. Evoluzione storica

L’inizio del percorso culturale e politico finalizzato all’implementazione di uno sviluppo compatibile con l’ambiente risale alla Conferenza sull’ambiente umano tenutasi a Stoccolma nel 1972; ma è solo con il rapporto Brundtland del 1987 che si può effettivamente parlare di sviluppo sostenibile.

Nel 1992, si tenne a Rio de Janeiro la Conferenza mondiale su ambiente e sviluppo; la quale rappresenta, ancora oggi, uno dei maggiori e più celebrati eventi internazionali organizzati dall’ONU. In tale occasione si registrò un alto tasso di partecipazione, mai raggiunto prima: ben 178 Paesi, 120 capi di Stato, 8000 giornalisti e più di 30.000 persone parteciparono all’Earth Summit e al parallelo Forum globale delle organizzazioni non governative. Lo scopo perseguito dalla conferenza consistette nell’individuazione di strategie praticabili ed efficaci che conciliassero le esigenze dei Paesi poveri con quelle dei Paesi industrializzati. Durante la Conferenza mondiale su ambiente e sviluppo furono

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emessi cinque documenti ufficiali che costituiscono, ancora oggi, il quadro di riferimento principale dello sviluppo sostenibile a livello internazionale:

• Dichiarazione di Rio ⇒ comprende 27 principi, distinti in principi espliciti (es: integrazione tra ambiente e sviluppo; riduzione della povertà; equità inter-generazionale;…) e principi corollari (es: prevenzione; cooperazione; responsabilità comune, ma differenziata in virtù dei danni provocati e delle possibilità economiche;…), che regolano i diritti, le responsabilità e le relazioni dei Paesi nel perseguimento di uno sviluppo sostenibile tramite un nuovo ed equo sodalizio globale.

• Agenda 21 ⇒ è il documento internazionale di riferimento per capire quali iniziative è necessario intraprendere per attuare, nel XXI° secolo, uno sviluppo sostenibile. Più precisamente, questo programma d’azione, piuttosto voluminoso (composto da circa 800 pagine), individua le aree programmatiche di intervento, gli obiettivi, gli strumenti e le azioni necessarie per realizzare uno sviluppo sostenibile. Detto manuale si articola in quattro sezioni:

1. dimensioni sociali ed economiche;

2. conservazione e gestione delle risorse per lo sviluppo; 3. rafforzamento del ruolo dei principali gruppi sociali; 4. mezzi per la realizzazione.

Agenda 21 ritiene che un’efficace politica di sostenibilità debba promuovere la partecipazione attiva del pubblico al processo decisionale (molti problemi e soluzioni individuate da Agenda 21 affondano le loro radici nelle attività locali; per questo motivo il programma ritiene opportuna la partecipazione e la cooperazione delle autorità locali). A tal riguardo, identifica nove gruppi sociali la cui partecipazione è vitale per realizzare lo sviluppo sostenibile:

◊ donne;

◊ bambini e giovani; ◊ popolazioni indigene;

◊ organizzazioni non governative; ◊ autorità locali;

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◊ lavoratori e sindacati; ◊ imprese;

◊ comunità scientifica e tecnologica; ◊ agricoltori.

Nel 1992, nell’ambito del Consiglio Economico e Sociale dell’ONU, fu istituita la Commissione sullo sviluppo sostenibile. Tra le varie funzioni che le furono assegnate, vi rientrò anche il compito di registrare i progressi degli Stati nell’assolvere gli impegni dell’Agenda 21.

• Principi sulle foreste ⇒ questi principi, pur non essendo vincolanti per gli stati firmatari, rappresentarono il primo sforzo per una gestione, conservazione e sviluppo sostenibile di tutti i tipi di foreste.

• Convenzione sulla biodiversità ⇒ tale convenzione: riconosce l’importanza della biodiversità per la conservazione e il funzionamento degli ecosistemi; sollecita lo sviluppo di strategie, a livello nazionale ed internazionale, a protezione della biodiversità; richiede l’identificazione e il monitoraggio delle componenti della biodiversità e delle attività che hanno maggiore impatto su di essa; promuove un uso razionale delle componenti delle diversità; incentiva la ricerca e la formazione in materia.

• Convenzione sui cambiamenti climatici ⇒ questa convenzione fu sottoscritta a New York il 9 maggio 1992, ed entrò in vigore nel 1994 divenendo così una legge quadro internazionale che impegna giuridicamente i Paesi che hanno provveduto a ratificarla. Lo strumento attuativo della Convezione sui cambiamenti climatici è rappresentato dal Protocollo di Kyoto, sottoscritto nel 1997. Attraverso questa convenzione fu riconosciuto, a livello mondiale, il problema del cambiamento climatico. Gli stati firmatari si posero come obiettivo quello di stabilizzare le concentrazioni in atmosfera dei gas serra prodotti dalle attività umane, in modo da ridurre pericolose interferenze sul sistema climatico. La convenzione previde che il raggiungimento di questi livelli di concentrazione dei gas serra ritenuti accettabili, definiti in altra sede, dovevano essere raggiunti in un arco temporale sufficientemente ampio da permettere agli ecosistemi di adattarsi

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naturalmente al cambiamento climatico, senza ostacolare la realizzazione di uno sviluppo economico sostenibile.

Dal 1995 al 1997 ci furono diversi incontri tra gli Stati firmatari della convenzione volti a definire, in termini quantitativi, i livelli di emissione dei gas serra ritenuti accettabili; ma è solo con il Protocollo di Kyoto che si giunse ad un accordo. Questi incontri si caratterizzarono per un acceso dibattito circa il come calcolare le quote di riduzione delle emissioni spettanti a ciascun paese. Si delinearono due correnti di pensiero:

 i Paesi in via di sviluppo sostenevano che gli impegni da assumere dovessero essere differenziati in base alla storia industriale del Paese. Essi infatti ritenevano che fossero i Paesi industrializzati ad essere responsabili delle emissioni ad effetto serra; per questo richiedevano l’imposizione di limiti più restrittivi nei loro confronti.

 i Paesi industrializzati ritenevano, invece, che questi impegni dovessero essere indifferenziati rispetto alle precedenti responsabilità dell’inquinamento attuale.

L’applicazione di questi accordi presentò notevoli difficoltà. Gli impegni assunti non avevano valenza giuridica e la Corte di giustizia internazionale poteva intervenire per dirimere gli eventuali conflitti insorti tra i vari Paesi solo in limitati casi10. Inoltre i Paesi industrializzati non furono in grado di accordarsi in ordine all’individuazione delle risorse necessarie a dare avvio al processo di sviluppo sostenibile; ciò andò ad inficiare, ulteriormente, l’operatività dei documenti emanati.

Nel dicembre del 1993, in attuazione dell’Agenda 21, l’Italia emanò il Piano

nazionale per lo sviluppo sostenibile che costituì un esame dello stato di

attuazione delle politiche ambientali.

Nel 1994 ad Ålborg, in Danimarca, si tenne la prima Conferenza europea sulle città sostenibili che rappresentò il primo passo dell’attuazione dell’Agenda 21

10 All’interno dei nuovi trattati, per evitare gli errori del passato, sono stati inseriti dei paragrafi che regolamentano e coordinano la creazione di appositi apparati istituzionali (es: segreterie, commissioni,..), ai quali è demandato il compito di coordinare l’applicazione dei trattati e appianare gli eventuali contrasti insorti tra più Paesi.

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locale. Questa conferenza portò all’approvazione della Carta di Ålborg, contenente l’impegno delle città e delle regioni europee ad attuare l’Agenda 21 a livello locale e ad elaborare piani d’azione a lungo termine per uno sviluppo durevole e sostenibile. A questa conferenza ne seguirono altre due, tenutesi nel 1996 a Lisbona e nel 2000 ad Hannover.

L’11 dicembre del 1997 fu sottoscritto il Protocollo di Kyoto, entrato in vigore il 16 febbraio 2005. Mentre a Rio de Janeiro furono fissati soltanto dei criteri generali non vincolanti, a cui le singole nazioni si sarebbero potute adeguare; a Kyoto venne redatto un protocollo contenente una serie di obiettivi precisi e vincolanti. Questo nuovo approccio discese da un’effettiva presa di coscienza della necessità di attuare un modello di sviluppo sostenibile.

Il protocollo di Kyoto impegnò i Paesi industrializzati e i Paesi ad economia in transizione a ridurre complessivamente, nel periodo 2008-2012, le emissioni di gas serra (es: anidride carbonica CO2, metano CH4, protossido di azoto N2O,..) del 5% rispetto ai valori del 1990, al fine di porre rimedio ai cambiamenti climatici in corso. A tal fine le azioni avrebbero dovuto essere finalizzate a:

- sostituire le fonti energetiche non rinnovabili con fonti energetiche rinnovabili;

- ridurre l’uso di combustibili fossili; - accrescere l’efficienza energetica; - diminuire i consumi energetici; - ridurre la deforestazione.

È importante osservare che il Protocollo di Kyoto previde che la riduzione complessiva del 5% dei gas serra fosse suddivisa in modo differenziato tra le varie nazioni:

• all’UE fu imposta una riduzione globale dell’8%;

• nei confronti degli USA fu prevista una riduzione del 7%; • per il Giappone la riduzione imposta fu del 6%;

• a paesi quali Federazione Russa, Nuova Zelanda ed Ucraina venne imposto, semplicemente, di stabilizzare le emissioni prodotte;

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• con riguardo a Norvegia, Australia e Islanda il protocollo riconobbe loro la possibilità di aumentare le emissioni di gas serra, rispettivamente dell’1%, dell’8% e del 10%.

Nessun tipo di limitazione alle emissioni di gas ad effetto serra fu, invece, imposta ai Paesi in via di sviluppo. Questa decisione discese da una presa di coscienza delle differenze esistenti tra i Paesi in via di sviluppo e i Paesi sviluppati. Il protocollo volle con ciò evitare un eventuale rallentamento al cammino intrapreso da detti Paesi verso lo sviluppo socio-economico.

Questa decisione portò però con sé il rischio che l’impegno di riduzione delle emissioni da parte dei Paesi industrializzati e di quelli emergenti potesse essere vanificato dall’apporto di gas serra dei Paesi in via di sviluppo.

Nel 2002 a Johannesburg, in Sudafrica, si tenne il Vertice Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile il cui ordine del giorno prevedeva il trattamento di nove tematiche:

1. povertà;

2. acqua e sistemi igienico sanitari; 3. energia;

4. salute; 5. agricoltura;

6. biodiversità e sistemi naturali; 7. globalizzazione;

8. modelli di produzione e consumo; 9. l’Africa.

Durante il vertice si sottolineò l’importanza di perseguire anzitutto lo sviluppo, concetto che non doveva essere confuso con la crescita economica (lo sviluppo infatti dipende dall’integrazione di tre dimensioni: economica, ambientale e sociale). Si sottolineò, inoltre, l’importanza di effettuare un’attenta analisi costi-benefici prima di procedere con l’attuazione delle politiche prescelte.

Il vertice fu considerato un fallimento in quanto, nonostante avesse portato all’individuazione di obiettivi precisi con scadenze temporali da rispettare, non

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venne specificato con quali risorse e in che modo gli obiettivi dovessero essere perseguiti.

La strada per l’attuazione concreta dello sviluppo sostenibile si presenta lunga e tortuosa, ma si auspica un impegno continuo e crescente da parte di ogni nazione.

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