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Georges e i draghi

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Academic year: 2021

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Georges e i draghi

Mio padre fumava delle Saint-Michel. Dei pacchetti verdi, con un angelo vestito da cavaliere che abbatte il drago. Appena tirava fuori l’ultima sigaretta, io correvo a mettermi accanto alla sua poltrona e allungavo la mano. In quell’istante, sul mio faccione tondo esibivo il sorriso più incantevole di cui un ragazzino di dieci anni sia capace. Un ragazzino con i capelli neri, le ginocchia sbucciate e le calze tirate troppo in su. Un ragazzino con i denti grossi, un naso troppo lungo e ciglia più nere del carbone.

Il seguito della scena era immutabile. Mio padre toglieva la pellicola di plastica e depositava il pacchetto vuoto nella mia grossa mano. Io ripetevo il solito “grazie”, gli davo un bacio sulla guancia e filavo in camera. Chiudevo la porta, accendevo l’abat-jour e, acciambellato sul letto come un coniglio in fondo alla sua conigliera, passavo alla dissezione. L’alluminio, nel bidone. I rimasugli di tabacco sfuggiti dalle sigarette, nel bidone. La linguetta del servizio di tassazione, via nel bidone anche quella. A quel punto non mi restava che stendere la carta bianca, verde e dorata, farla scivolare tra due album di Spirou e attendere.

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In generale, nei dieci minuti che seguivano mia madre gridava per convocarci a tavola, sotto la lampada gialla della cucina e il suo paralume disseminato di punti neri (a quell’età credevo che fosse un motivo originale, una specie di rivestimento screziato o di pittura a pallini. Solo qualche anno dopo ho capito che si trattava semplicemente di cacche di mosca e - neanche a dirlo - da allora ero meno incline a sedermi a centro tavola e preferivo i posti alle estremità). Non era il caso a organizzare questa successione di avvenimenti, al contrario. Mio padre regolava il suo ritmo di fumatore sul conto alla rovescia della cena. Cinque minuti prima di mangiare, lui si sedeva nella sua poltrona, accanto alla finestra della sala, quella che dava sulla strada, accendeva una sigaretta e diceva: “Guardo il mare”. Questo rituale mi affascinava. Ma io potevo cercare quanto volevo di vedere il mare, là seduto sulle sue ginocchia, che tanto non vedevo nulla. Dall’altro lato del vetro non c’era neanche l’ombra di una distesa d’acqua. Tranne nei giorni di pioggia, ovvio – ed erano frequenti - ma non al punto da trasformare le facciate di fronte in una massa di acqua salata. Mi dicevo che gli adulti dovevano vedere più lontano di me, oltre le case e al di sopra dei tetti, visto che erano più furbi e più alti.

Ci ritrovavamo tutti e tre a tavola, ciascuno inghiottiva le sue costine d’agnello e le sue polpette al sugo, e ci dicevamo che eravamo felici. Dopo mangiato, mio padre ritornava alla sua poltrona, si accendeva una Saint-Michel e annunciava: “Tra poco il sole tramonterà sul mare”.

Se avessi avuto dei fratelli o delle sorelle, allora avrei fatto loro delle domande, e insieme avremmo cercato delle risposte, per capire le strane frasi

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che mio padre pronunciava ogni giorno verso ora di cena. Ma ero figlio unico. Del resto, a quell’età pensavo che fosse così in ogni casa. In Belgio di parenti non ne avevamo e non potevo certo mettermi a interrogare gli amici che vedevamo il sabato al campo da calcio e la domenica al bar, per sapere se da loro era diverso. Ero solo, e mi piaceva starmene da solo.

Così, una volta alla settimana - per lo più il mercoledì pomeriggio, quando non c’era la scuola - correvo a buttarmi sul letto. Sollevavo gli album di Spirou e prendevo i miei pacchetti di Saint-Michel belli piatti. Ce n’erano tra sette e quindici, a seconda del nervosismo di mio padre nella settimana precedente. Su ogni pacchetto due cavalieri e due draghi. Prendevo le forbici e la colla e per ore e ore non c’ero più per nessuno. Ritagliavo gli angeli, ritagliavo i draghi e preparavo il mio affresco.

L’affresco in questione erano due manifesti di Nana Mouskouri che avevo incollato l’uno contro l’altro, naso contro naso, occhiali contro occhiali, capelli lucenti contro fiume di peli neri, per ottenere il più bel poster bianco e rigido che avessi mai posseduto dal mio arrivo sulla terra.

- Dal tuo arrivo in Belgio, Georges, avrebbe rettificato mio padre. Era una mania per lui, ricordare sempre che ero nato in Grecia, su un’isola vicina alla Turchia, e che ero arrivato in Belgio con lui e mia madre, all’età di due anni. Tanto vale dire che non mi ricordavo di niente, se non delle storie di mio padre, quelle che mi raccontava tra una sigaretta e l’altra, quando passava il tempo a descrivermi il villaggio,

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le olive, il pane nel forno a legna e le barche da pesca.

Sulla carta bianca, stavo preparando un’icona gigantesca. Mica una piccola, con giusto la Madonna e due apostoli in tunica, no, un affresco magnifico: gli angeli che combattono contro centinaia di draghi. Da una parte incollavo i cavalieri, con le loro lance, le ali e le armature; dall’altra i draghi, ammassati in un grosso mucchio brulicante, ben più minacciosi di un solo lucertolone sputafuoco. A lavoro finito, avrei sistemato l’icona sopra il letto, perché mi proteggesse da tutto. Dall’influenza e dalle interrogazioni a sorpresa, dalle ragazze e dai chewing-gum nei capelli, dal fumo di sigaretta e dai giorni di pioggia in cui uno si annoia, tutto solo nel salone.

Qualche anno più tardi l’icona era sempre lì, attaccata sopra il cuscino. Il verde e il bianco tendevano ormai al giallo pallido, il dorato si era annerito. La colla attirava la polvere e, malgrado le mie ripetute preghiere, non ero stato risparmiato né dal fumo né dai giorni di pioggia, e ancora meno dall’influenza e dalle interrogazioni a sorpresa. In compenso, funzionava niente male con i chewing-gum e, sfortunatamente, con le ragazze. Bisogna dire che il naso mi era lievitato ancora, i capelli erano assortiti di una peluria che sfiorava il labbro superiore e la gente aveva sempre riso di me fin dall’ingresso alle medie, tanto per le mie origini (“ehi Georges, perché non te ne torni in Grecia dai tuoi pastori?”) quanto per il nome fuori moda.

A quell’epoca, la maggior parte dei misteri della mia infanzia aveva trovato una spiegazione.

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Mio padre dalla sua poltrona non vedeva veramente il mare. Aveva giusto conservato una vecchia abitudine risalente all’epoca in cui abitava a Chio, quando, in attesa della cena, si sedeva davanti a casa con gli uomini del quartiere e, una sigaretta in bocca, guardava il mare vibrare sotto il sole. Il mare non c’era più, gli amici neanche, ma il rituale era rimasto immutato. E se aveva optato per le Saint-Michel - invece delle Belga o delle Boules d’Or che i suoi colleghi in fabbrica compravano una o due volte al giorno - è perché, arrivando in Belgio senza saper leggere il francese, è san Giorgio che gli era sembrato di riconoscere sul pacchetto di sigarette. E san Giorgio per lui era già un assaggio di Grecia.

Mi ricordo perfettamente il giorno in cui mi ha raccontato per la prima volta la vita di san Giorgio. Mi aveva detto di ascoltare attentamente, che era molto importante, e che io portavo uno dei nomi più belli al mondo, quello di un cavaliere che aveva combattuto contro un drago per salvare un’intera città.

- Non è coraggioso?

- Sì, ma quando dico che mi chiamo Georges, gli altri ridono e mi danno del nonnetto.

- Non devi preoccuparti di quelli che ti ridono alle spalle. Devi lasciarli lì dietro di te e non girarti. Hai un nome greco, e la Grecia è il paese più bello del mondo. Sono gelosi, ecco tutto. Perché il loro “san Michele” può essere un angelo quanto vuole, ma sono sicuro che non regge al confronto. Sarei curioso di far combattere i loro draghi per vedere chi dei due era più valoroso.

Era diventato uno dei miei giochi preferiti, lo scontro tra i draghi. Avevo due cavalieri di plastica e due dinosauri in caucciù a cui avevo incollato in bocca delle fiamme di carta perché avessero

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un’aria più minacciosa, e così passavo ore e ore organizzando giostre. Quello che amavo nella storia del mio santo patrono era il suo coraggio, e il fatto che fosse arrivato dal nulla per salvare una città. Forse arrivava proprio dalla Grecia, a ben pensarci. O forse da un altro pianeta. Forse la Grecia stessa era un altro pianeta, visto che lì il cielo era blu e c’era il mare ovunque. Insomma, queste erano le storie che mi passavano per la testa, e così sognavo di uccidere un drago per sposare una principessa e diventare famoso. E poi mi dicevo che se un giorno mi fossi ritrovato davanti a una di quelle bestie mostruose, allora l’avrei sconfitta senza problemi, tanto avuto sognato di combattere e avevo ripetuto i gesti nella mia mente. Ero in grado di schivare lo sputo infuocato, troncare le ali membranose del mostro per impedirgli di volare via e maneggiare lo scudo in modo da parare i colpi degli artigli e i morsi bavosi. Sapevo che bisognava mirare al cuore sotto la corazza, o afferrare la coda biforcuta e poi troncare la gola.

Questi erano i miei sogni di ragazzino. Questi sogni, che facevo da sveglio, sulla strada di scuola, fendendo l’aria con la mia asta di plastica, o nel sonno, la testa sotto l’affresco sbiadito, insomma, questi sogni erano i miei amici d’infanzia, i compagni di giochi che andavo a trovare non appena la noia veniva a trascinare i suoi pesanti piedoni grigi intorno a me. Non ero sicuro del mio futuro di cavaliere, ma ero convinto che un giorno o l’altro avrei ucciso un drago. Quel drago che mi stava aspettando chissà dove, nei recessi di una qualche foresta. Posso datare con assoluta precisione il giorno in cui tutti questi sogni hanno perduto la loro magia.

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Ero in terza media. Per il corso di religione, avevamo come professore un vecchio gesuita di ritorno dall’altro capo del mondo. Aveva deciso di insegnarci la vita dei santi e le loro leggende. Non avrebbe potuto trovare un programma migliore. Il principio era semplicissimo. Prendevamo i santi uno a uno, cercavamo di conoscere la loro storia e poi vedevamo quale culto è votato oggi a ciascuno di questi coraggiosi eroi – fin qui, tutto mi sembrava molto divertente – poi padre François ci avrebbe spiegato da dove venivano queste leggende, chi le aveva fondate e perché. Ecco che iniziavo a non vederci più chiaro. Finché si era accontentato di spiegarci san Cristoforo e le macchine, san Martino con il suo mantello e il cavallo, il martirio di san Lorenzo sulla graticola o san Nicola che salva i bambini messi sotto sale, fino a lì era stato parecchio divertente. Anche perché la maggior parte di questi personaggi io neanche li conoscevo, così le loro avventure erano una vera e propria scoperta e tutto questo lo trovavo molto carino. E poi mi divertivo a vedere come la leggenda si era trasformata nel corso dei secoli. Ma quando è arrivato il momento di san Giorgio, allora no, non ero più d’accordo. Secondo lui il vero Giorgio – cristiano, neanche a dirlo - era nato in Cappadocia e dopo la morte del padre era tornato in Palestina con la madre e lì aveva servito nei gradi dell’esercito romano. All’inizio del IV secolo (potete immaginare dove ci portano queste storie), l’imperatore Diocleziano decide di perseguitare i cristiani (questo è un classico, compariva in tutte le vite dei santi), ma Giorgio, che di peli sulla lingua non ne ha, non intende farsi mettere i piedi in testa. Lascia l’esercito e scrive all’Imperatore per lamentarsi. L’Imperatore riceve la lettera, la legge, e sbatte Giorgio in prigione. Allora i Romani vengono a sapere che avrebbe anche distrutto gli editti dell’Imperatore.

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Così lo tirano fuori dalla cella, lo portano in giro per la città e gli tagliano la testa. Commossa per il coraggio di cui ha fatto prova, la moglie decide di convertirsi al cristianesimo. Dopo qualche tempo, è messa a morte anche lei. Fine della vera storia di san Giorgio. Nulla a che vedere con le avventure che mi avevano fatto sognare.

Questa, aveva continuato il vecchio padre François, è la verità storica. Saranno i Greci a venerare san Giorgio come santo patrono della guerra, a causa del suo ruolo nell’esercito romano. È all’epoca delle crociate, quando i cristiani dell’Europa occidentale incontrano quelli della Grecia e di Bisanzio, che Giorgio passa all’Ovest. Si racconta che il santo è apparso in cielo subito prima di una battaglia vinta dai crociati. È quanto basta. Senza sapere nulla della sua vera storia, i trovatori e i chierici si appropriano del santo e raccontano la sua vita appassionante. Per renderla più esotica, la situano in Siria o in Libia, secondo i gusti, in quelle regioni lontane da dove abbiamo riportato mascelle di coccodrillo e chissà cos’altro. Ed ecco che ai persecutori romani si sostituisce un drago affamato che reclama sempre più da mangiare. Tutte queste storie, come è ovvio, non sono altro che delle sciocchezze per gli ingenui del Medioevo e gli scultori di statue.

Questa versione non mi piaceva per niente. La detestavo.

L’avevo detto a mio padre. Era triste quanto me all’idea che questa storia fosse così importante. Mi aveva detto che non dovevo preoccuparmi, che avrebbe trovato un modo per rimediare. Così qualche mese più tardi mi aveva portato in macchina ad assistere alla Ducasse di Mons, una cosa tra uomini, aveva detto. Non sapevo che cosa fosse,

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ma quando me l’ha spiegato ho capito che mi sarebbe piaciuto da morire.

Non sapevo che quella era l’ultima volta che facevamo un viaggio insieme, prima che il cancro ai polmoni si portasse via mio padre per sempre. Lui lo sapeva già che era condannato, ma io ne ero all’oscuro. Mi aveva offerto una birra, dicendomi:

- Stai per diventare un uomo, e in questo paese gli uomini quando escono bevono la birra.

Era la prima volta che assaggiavo il luppolo, e quel sapore per me resta associato alle grida sulla Grand-Place e all’arrivo del Doudou. Mi basta bere una birra bionda perché senta di nuovo il sole sui miei capelli neri e il cuore che batte più forte dei tamburi della fanfara. Volevo toccare il drago, me lo ricordo chiaramente, ero convinto che se gli avessi strappato un pelo mi avrebbe portato fortuna. Mio padre mi ha preso sulle spalle, e io urlavo per attirare l’attenzione della bestia, mentre lui non smetteva un secondo di tossire. Non ricordo se mi avesse riposato a terra quando la coda del drago aveva sorvolato le nostre teste o se, più semplicemente, non fossimo abbastanza vicini. Fatto sta che non ho avuto diritto alla mia toccata portafortuna. Ci siamo rifatti sulla testa della scimmia, l’ho sfregata e risfregata pensando a tutti quelli che amavo, e non è servito a nulla. Qualche giorno prima della festa nazionale, san Michele si è portato via mio padre al paradiso dei fumatori incalliti. Ho pianto molto, forte e a lungo, e ho continuato a vivere.

Mi interessavo più che mai alle avventure di san Giorgio e del suo drago. Ma ogni volta che

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ho cercato di saperne di più sulla sua storia, ho dovuto ammettere che il professore di religione non aveva torto. Una realtà storica insulsa seguita da un mito bello, sì, ma senza alcun fondamento. Esattamente come Babbo Natale o le campane di Pasqua. Ma avevo finito comunque per scoprire qualcosa, e cioè che si festeggia san Giorgio a Barcellona, che la sua festa era diventata la Giornata mondiale del Libro e che era più popolare che mai in Grecia e in Gran Bretagna. A Zacinto e a Liegi ho visto degli spettacoli di marionette che rappresentavano lo scontro con il drago, ho letto libri illustrati per bambini e visto cartoni animati, ma tutti, è triste dirlo, riprendevano lo stesso canovaccio arrangiato da tre monaci a metà del XIV secolo.

Quanto avrei dato per ritrovare una vera leggenda, un briciolo di sogno, una storia che mi facesse sognare. Sono cresciuto, mi sono sposato e ho evitato di fumare sigarette, ma non sono mai riuscito a ritrovare la magia di san Giorgio e dei miei combattimenti immaginari, quando, una pentola in testa e un coperchio a mo’ di scudo, davo l’assalto alle poltrone della sala.

Poi, due mesi fa, è morta anche mia madre. Sono andato a svuotare la casa. L’odore della mia infanzia aleggiava sugli oggetti: i mobili, la tappezzeria, le icone. L’affresco era ancora lì, sopra il mio letto. Stavo svuotando il cassetto di mio padre, quando mi sono imbattuto in un quaderno di tela grigia, coperto di scarabocchi in greco. Mi sono seduto sul davanzale della finestra e nel silenzio di questa casa vuota ho girato le pagine, una dopo l’altra. C’era tutta la vita dei miei genitori: il prezzo del viaggio in nave quando avevano lasciato Chio, il budget delle loro vacanze, anno per anno, il prezzo di tutte le loro auto a partire dal 1973, appunti sugli ospiti che erano stati a casa nostra.

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Ma c’erano soprattutto, sperdute in mezzo a questo ammasso di cifre e appunti, alcune pagine scritte in greco, che potremmo tradurre così:

San Giorgio e il drago

C’era una volta, in un paese molto caldo, una città dal nome impronunciabile che si ergeva nel bel mezzo del deserto. La città era cinta da muraglie bianche che riflettevano il sole. Un’oasi permetteva al popolo di coltivare la terra e il palmeto era il più grande del paese. La città viveva felice da secoli, quando un giorno un drago venne a stabilirsi ai piedi delle palme. Era un drago orribile, crudele e affamato. Appena arrivato, divorò i cammelli che si dissetavano all’ombra. Per cacciare la bestia la città mandò degli uomini armati: li ritrovarono sulla sabbia, la testa strappata, le membra disarticolate. Allora il drago se la prese con le mandrie di montoni e di capre. Di nuovo, la città tentò di fermarlo, ma i duecento uomini armati che si gettarono sul drago furono a loro volta digeriti. Dopo qualche settimana, non solo non restava più un solo animale in vita, ma non c’era più nessuno che osasse varcare le porte della città, tanta era la paura di farsi divorare. Allora il drago dettò le sue condizioni: se non volevano che facesse fuori tutta la popolazione d’un colpo solo, dovevano consegnargli ogni settimana una vergine da mangiare a suo piacimento. La popolazione scoppiò in lacrime e mandò il sultano per negoziare, ma il drago era irremovibile. Così accettarono lo scambio e si rassegnarono, e ogni settimana una giovane vergine era mandata a morte. Furono quasi un centinaio a lasciarci la vita,

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permettendo agli altri abitanti della città di continuare a coltivare la terra e dare da mangiare ai bambini. Finché un giorno la sola vergine rimasta da sacrificare era la figlia del sultano. Con la sua pelle olivastra e i capelli più neri delle penne del corvo, era la ragazza più bella che il paese avesse mai visto nascere. Era così dolce che l’intera città si rifiutò di mandarla a morte. Ma la figlia del sultano, che era non meno coraggiosa che bella, insisté per essere mandata a morte come le altre. La città intera si vestì a lutto e la popolazione si ammassò sulle mura per rendere omaggio al coraggio della giovane. La videro avanzare verso l’oasi, sulla strada di sabbia dorata, e la sua sagoma era già quella di un fantasma.

Un profondo silenzio aleggiava sul deserto.

Nel momento in cui scomparve tra le palme, si sarebbe potuta sentire trottare una formica.

Lo sapevano tutti che nel giro di qualche secondo il drago avrebbe lanciato il solito ululato e si sarebbe avventato sulla sua vittima innocente. Si sarebbe detto che la città intera stesse trattenendo il fiato. Ma ecco che dall’orizzonte, avvolto nella nube di sabbia sollevata dal galoppo del suo cavallo, arriva un giovane e nobile cavaliere. Che cosa faccia a un’ora tale nel bel mezzo del deserto, nessuno lo sa. Si chiama Georges, ed è appena arrivato da un paese lontanissimo, un paese di mare e di roccia, dove ci sono ancora più isole che serpenti nel deserto. Nel momento in cui il cavaliere arriva alle porte della città, un urlo rauco e gelido fende l’aria da parte a parte. È il macabro canto di vittoriadel drago che sta per divorare la sua preda, il suo benedicite subito prima di mettersi a tavola. A Georges gli si rizzano i capelli in testa, il cervello si surriscalda, le tempie iniziano a pulsare.

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Chiede alla popolazione cos’è questo grido orribile. Gli rispondono in coro:

- Non andate là, cavaliere, c’è un drago orribile che si appresta a divorare la figlia del nostro sultano.

Georges si raddrizza sulla sella, la sua armatura scintilla sotto il sole di mezzogiorno e la lancia assomiglia al lampo di un fulmine.

- Vi chiedo il diritto di affrontare da solo questo drago, grida il cavaliere.

- E cosa ti fa credere che il tuo braccio sarà più forte di questa bestia infernale, lei che ha sconfitto tutti i guerrieri che hanno provato a combatterla?

- Sarò il più forte perché mi chiamo Georges, e tutti i Georges che nasceranno dopo di me potranno essere fieri del mio coraggio. Non affronterò il drago da solo, sarà la forza riunita di tutti i Georges a sollevare la mia lancia e stringere il mio scudo. È con la loro forza che riuscirò a trionfare su questa creatura infernale.

Il sultano non sa cosa rispondere, e Georges si dirige al gran galoppo verso l’oasi. Ecco che, allertato dal martellamento del cavallo bianco, il drago spunta tra le palme. È verde come il fango, con ali nere e membranose e un fiato scuro. Ha denti e artigli grandi e affilati come le spade più pesanti. L’occhio, rosso e rotondo, è vivo, le orecchie tese.

Georges scende da cavallo e si inginocchia a terra. Appoggiato sullo scudo, si direbbe che stia pregando il dio dei cristiani di venirgli in aiuto, ma no, è all’aiuto dell’umanità intera che fa appello per questo combattimento d’eccezione. Poi, convinto che la fiducia di tutto l’Occidente ha infuso una gran furia

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in quella sua gracile carcassa terrestre, rimonta sul suo cavallo bianco e come un razzo si fionda sulla bestia.

Nube di fumo. Grugniti, raschiamenti d’ali, artigli che si conficcano nei fianchi del cavallo, poi lancia nella panza, lancia nella gola, spada nel fegato, sperone nell’ombelico e coda tranciata con un colpo di scudo.

Ululato del drago. Rantolo, agonia.

Silenzio del deserto, poi tripudio dell’intera città.

Georges ha sconfitto il drago! La folla si riversa fuori dalle mura della città e solleva il cavaliere vittorioso come il mare porta via una candela galleggiante. Stanno portando il vincitore dal sultano, ma al momento di varcare le porte della città il corteo è bloccato da una fanciulla di bianco vestita. Si erge tutta sola di fronte alla folla, immacolata come il latte, con le mani giunte e delle lacrime appena appena asciutte all’angolo degli occhi.

- Voglio che questo straniero sia mio marito, dice lei con una voce dolce. Lui mi ha salvato la vita, e io gli darò in cambio amore e fedeltà e, se questo può assicurargli la mia protezione, farò mia la sua religione.

- Urrà! Urrà! grida la folla.

- Un momento, interrompe Georges. Io sono solo un cavaliere errante, non cerco legami. Sono un tipo solitario, autonomo, indipendente. Organizzo il mio tempo come mi va. Veglie d'armi, sedute di equitazione, salvataggio di principesse in pericolo, questo è il mio lavoro. Ho ancora molti anni davanti, e non mi fermerò certo per un semplice drago che mi attraversa la strada e viene a infilzarsi sulla mia spada. Addio, gente!

E su queste ultime parole, Georges effettua un mirabolante salto in aria,

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sopra le teste dei cittadini che lo portano in trionfo, e atterra sul suo cavallo che sta ancora riprendendo fiato. Da un astuccio in oro massiccio tira fuori una Saint-Michel, l’accende, aspira una lunga boccata, dà due colpi di sperone e sparisce in lontananza.

A partire da quel giorno, più nessuno sentì mai più parlare del vero Georges.

Ho tirato giù l’affresco dal muro della mia camera e l’ho portato via insieme al quaderno. Se mio padre è lassù, in cielo, seduto tra san Giorgio e san Michele, deve sapere che questa storia non l’avrà scritta invano. Forse un giorno avrò dei figli a cui raccontarla.

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