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CAPITOLO I IL QUADRO NORMATIVO DEL SISTEMA DI ACCOGLIENZA DEI RICHIEDENTI E TITOLARI PROTEZIONE INTERNAZIONALE

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CAPITOLO I

IL QUADRO NORMATIVO DEL SISTEMA DI ACCOGLIENZA DEI RICHIEDENTI E TITOLARI

PROTEZIONE INTERNAZIONALE

SOMMARIO: 1. L’evoluzione della normativa interna in materia di asilo – 1.1 Le prime disposizioni in tema di accoglienza – 1.2 La tenuta del sistema di fronte alle prime emergenze – 1.3 Dal progetto Azione Comune al Programma Nazionale Asilo – 1.4 Dal Testo Unico sull’Immigrazione alla legge 30 luglio 2002, n. 189 – 2. Il ruolo dell’Unione Europea nelle politiche in materia di asilo. La realizzazione di un Sistema Europeo Comune di Asilo (CEAS) – 3. Le misure di protezione internazionale – 3.1 I permessi umanitari – 3.2 La protezione sussidiaria – 3.3 La protezione temporanea – 4. Nuove persecuzioni e nuovi strumenti di protezione

1. L’evoluzione della normativa interna in materia di asilo

Ripercorrendo l’evoluzione normativa in materia di asilo, il punto di partenza di tale analisi è da rinvenirsi nel dettato costituzionale. Infatti l’art. 10 comma 3 della Costituzione prevede che “lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’esercizio effettivo delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Quindi lo straniero al quale nel suo Paese sia effettivamente impedito l’esercizio anche di una sola delle libertà garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto all’ingresso e al soggiorno nel territorio dello Stato italiano. Pertanto l’insieme degli stranieri titolari del diritto d’asilo previsto dalla Costituzione è ben più ampio dei soli perseguitati individuali previsto dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status

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di rifugiato e in particolare comprende anche gli stranieri che fuggano dal proprio Paese per la necessità di salvare la propria vita, sicurezza o incolumità dal pericolo grave ed attuale derivante da situazioni di guerra, guerra civile, disordini gravi e generalizzati.

La portata precettiva di tale disposizione è rimasta nella pratica del diritto sulla carta fino alla fine degli anni ’90. Infatti, la mancata integrazione della riserva di legge prevista dall’ultima parte del comma 3 dell’art. 10 Cost., ha costituito un facile appiglio per un’interpretazione in senso restrittivo della portata della disposizione. Il riconoscimento del carattere precettivo di tale disposizione è stato confortato da importanti sentenze ad opera della giurisprudenza di merito1 e della Corte di Cassazione2, la quale ha indicato il Tribunale ordinario quale organo competente per decidere sulla concessione dell'asilo ai sensi della Costituzione, anche in assenza di una legge applicativa. Tuttavia, la legge di applicazione, a tutt’oggi, non è mai stata realizzata. La conseguenza di tali sentenze è stata comunque la pacifica riconduzione del diritto d’asilo nell’alveo dei diritti soggettivi e nella categoria degli status. Il diritto di asilo assurge pertanto al rango di diritto costituzionale perfetto, cui corrisponde la natura dichiarativa del riconoscimento dello stesso allo straniero cui sia effettivamente impedito l’esercizio delle libertà garantite dalla Costituzione.

L’ordinamento si è ad ogni modo dotato di altre forme di protezione, in parte conformandosi ai trattati e recependo la normativa di rango sovranazionale, in parte adottando strumenti interni di tutela

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Si veda in particolare la sentenza del 27 novembre 1964 della Corte d’appello di Milano in cui si afferma che “la passività del legislatore ordinario che sino ad oggi

ha trascurato di provvedere a disciplinare dettagliatamente nei limiti segnati dalla Costituzione il diritto d’asilo non può essere d’ostacolo alla forza cogente della norma di cui al 3° comma dell’art. 10 della Costituzione medesima”.

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Si veda la sentenza del 25 maggio 1997, n. 4674 della Corte di Cassazione Sez. Un. che ha ribadito il carattere precettivo e la conseguente immediata operatività della disposizione costituzionale.

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umanitaria, principalmente operando in via emergenziale, per rispondere alle richieste di tutela e di protezione di cittadini stranieri alla ricerca di asilo sul territorio nazionale.

Lo Stato italiano ha riconosciuto la Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 con la legge n. 22/1954. Tale documento affronta per la prima volta su scala internazionale la questione relativa ai rifugiati in seguito all’esodo di milioni di persone costrette a fuggire nell’immediato dopoguerra. Il termine rifugiato, ai sensi della Convenzione, si applica solo a chi “(…) temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal Paese di cui è cittadino e non può, o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del Paese di cui aveva la residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può e non vuole ritornarvi per il timore di cui sopra”. Due sono quindi gli ordini dei requisiti necessari per il riconoscimento dello status di rifugiato, uno soggettivo ed uno oggettivo. Soggettivo in quanto il carattere della persecuzione, in atto o temuta, deve essere individuale e diretto; oggettivo in quanto la persecuzione, per essere tale, dovrà essere determinata dagli elementi oggettivi menzionati dalla stessa Convenzione integranti la situazione concreta di persecuzione3: motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale, opinioni politiche. La Convenzione di Ginevra non reca disposizioni di ordine procedurale in merito all’ammissione del richiedente sul territorio dello Stato, né sul tema dell’accoglienza e della presentazione della domanda per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato. Contiene tuttavia una fondamentale disposizione (art. 33) che impone il divieto di “espellere o respingere – in nessun

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Codini E., D’Odorico M., Gioiosa M., Per una vita diversa. La nuova disciplina

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modo – un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate” (obbligo di non-refoulement). Tale principio è applicabile a coloro che, pur non avendo fatto formalmente ingresso nel territorio di un altro Stato, si trovino comunque al di fuori del proprio Paese d’origine4

; per questo viene ribadita la titolarità di un diritto soggettivo perfetto all’ingresso sul territorio dello Stato di accoglienza in capo al richiedente lo status di rifugiato, quantomeno al fine di fare esaminare ed accertare la sua situazione personale dalla competente autorità5. L’Italia aderì all’opzione più restrittiva prevista dalla Convenzione di Ginevra. Adottò infatti la “riserva geografica”, in virtù della quale il riconoscimento dello status di rifugiato avrebbe potuto essere riconosciuto ai soli individui di provenienza europea; e la “riserva temporale”, relativa agli avvenimenti in forza dei quali sarebbe stato possibile avanzare la propria richiesta, cioè quelli verificatisi prima del 1° gennaio 1951. Quest’ultima limitazione fu eliminata con la ratifica del Protocollo di New York del 31 gennaio 1967, avvenuta con la legge 14 febbraio 1970, n. 95. La riserva geografica verrà superata solo con il decreto legge n. 416/1989, convertito nella Legge Martelli (legge n. 39/1990).

Le scelte di ordine politico riguardanti l’adesione alle riserve approntate all’applicazione della Convenzione di Ginevra, insieme alla mancata adozione di una normativa che regolamentasse in modo compiuto il diritto di asilo, portarono al delinearsi di due categorie di rifugiati: i rifugiati de iure, riconosciuti in base alla Convenzione di Ginevra, ed i rifugiati de facto, gruppo eterogeneo accomunato dalla provenienza extra-europea dei soggetti ad esso appartenenti, sotto mandato dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati

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UNHCR, Parere consultivo sull’applicazione extraterritoriale degli obblighi di

non-refoulement derivanti dalla Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e

dal suo Protocollo del 1967.

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ASGI, Lo status di rifugiato. Scheda pratica a cura di N. Morandi e P. Bonetti, Febbraio 2013, pag. 4.

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(UNHCR). A seconda dell’inquadramento nell’una o nell’altra categoria, le procedure per l’ottenimento del titolo, così come gli aspetti di ordine assistenziale e sociale, si profilavano in modo difforme. I richiedenti asilo europei, in attesa del vaglio da parte della Commissione paritetica di eleggibilità (CPE), ricevevano un permesso di soggiorno provvisorio, cui avrebbe fatto seguito, in caso di esito positivo della domanda, un altro permesso rinnovabile ogni quattro mesi. Il riconoscimento dello status di rifugiato permetteva agli stessi di fruire del diritto di soggiorno e di lavoro, in condizioni di parità con i cittadini italiani da un punto di vista assistenziale. Il trattamento giuridico dei rifugiati sotto mandato dell’UNHCR assumeva una veste meno garantista: il permesso di soggiorno concesso a seguito del riconoscimento della qualifica ad opera della Delegazione italiana dell’Alto Commissariato altro non era che “un particolare permesso concesso al richiedente sotto la condizione risolutiva dell’emigrazione verso un Paese terzo disponibile alla concessione dell’asilo a titolo

definitivo”6. L’UNHCR riconosceva al rifugiato un’assistenza

materiale di urgenza, sul fronte sanitario ed economico, per un periodo non superiore a sei mesi, senza tuttavia il diritto al lavoro e all’assistenza pubblica, in attesa del re-insediamento in altri Stati. Sul fronte dell’accoglienza, i richiedenti asilo, europei ed extra-europei, venivano accolti nei centri di assistenza profughi stranieri (CAPS) siti in Padriciano, vicino alla frontiera con la Jugoslavia, di Capua e di Latina. L’onere dell’accoglienza era in carico in un primo momento al UNRRA (United Nations Relief and Rehabilisation Administration) e successivamente all’IRO (International Refugee Organisation). Con la cessazione delle proprie attività da parte dell’IRO, il testimone venne passato direttamente al Governo Italiano, che nel 1977 incaricò la Direzione generale dei servizi civili – Divisione assistenza profughi.

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Il sistema così delineato ha resistito nei suoi primi quarant’anni, grazie al contenuto flusso di migrazioni forzate che vedeva l’Italia come un Paese di transito. Sul finire degli anni Ottanta, però, tale sistema ha iniziato a manifestare gravi segni di cedimento. Proprio in quel periodo infatti l’Italia ha dovuto assumersi le responsabilità conseguenti alla sua trasformazione in “Paese d’asilo”, rappresentando agli occhi dei richiedenti un luogo dove poter gettare le basi di un insediamento a lungo termine. È diventato così necessario tracciare una disciplina che garantisse la predisposizione di un sistema di accoglienza che potesse rispondere al massiccio afflusso di soggetti in fuga dai propri Paesi d’origine, legittimati a permanere sul territorio nazionale in virtù della totalità del diritto a vedere esaminata e, se fondata, accolta, la propria domanda di asilo.

1.1 Le prime disposizioni in tema di accoglienza

Il diritto di asilo è indissolubilmente connesso con il contesto geopolitico globale. Il mutamento degli equilibri della politica a livello sovranazionale o interno ad uno stesso Paese, l’esplodere dei conflitti, l’emergere di forme di persecuzione, determina quale inevitabile conseguenza lo spostamento di masse di individui, in fuga dai Paesi d’origine, nei quali non possono trovare protezione. Il fenomeno è strutturale, ma l’approccio adottato è sempre stato ordinariamente gestito in forma emergenziale, con misure ad hoc, temporanee, volte alla ricerca di una soluzione episodica e parziale.

La legge Martelli (legge del 28 febbraio 1990, n. 39) costituì il primo intervento normativo in cui venne affrontato il tema del diritto di asilo. Il contesto nel quale venne discussa l’approvazione di tale legge era significativo sia sul fronte interno, sia sul fronte sovranazionale. Era necessario introdurre una disciplina che regolamentasse gli ingressi e

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della condizione giuridica del cittadino straniero. L’Italia da Paese di emigrazione stava diventando infatti Paese di immigrazione. Sul piano globale, con il riassetto degli equilibri a seguito del crollo del muro di Berlino, erano diminuiti i flussi di rifugiati europei provenienti dal blocco ex-sovietico, che furono presto sostituiti da migrazioni forzate dovute ai nuovi conflitti determinati dagli squilibri economico-sociali conseguenti al nuovo assetto geopolitico.

L’art. 1, comma 1, della legge Martelli, dedicato ai rifugiati, in riferimento alla Convenzione di Ginevra, dichiarava cessati “gli effetti della dichiarazione di limitazione geografica e delle riserve (…) poste dall’Italia all’atto di sottoscrizione della Convenzione stessa”. Sebbene quindi fosse stata prevista l’abolizione della c.d. “riserva geografica”, consentendo quindi anche ai richiedenti asilo extraeuropei di chiedere protezione al Governo italiano, non veniva contemplata, per tutti coloro che avessero avanzato tale richiesta, una tutela diversa da quella prevista dalla Convenzione di Ginevra7. L’art. 1, inoltre, autorizzava il Governo a riordinare la procedura d’asilo e il sistema di assistenza materiale in favore dei richiedenti asilo attraverso decreti da emanare entro sessanta giorni dalla sua entrata in vigore. L’intento era quindi quello di riservare la regolamentazione della materia a un futuro testo normativo di impronta sistematica, limitandosi per il momento a dettare una disciplina transitoria. In realtà il legislatore ha sempre dato vita ad interventi settoriali. La norma, inoltre, fa riferimento solo alla categoria dei rifugiati, non prendendo in considerazione la più lata

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Secondo un calcolo approssimativo, dal 1952 a tutto il 1989, gli stranieri richiedenti asilo in Italia sono stati 122.362. Questa cifra, riguardante principalmente persone di origine europea, comprende tuttavia anche alcune migliaia di extraeuropei riconosciuti rifugiati in eccezione alla limitazione geografica. Al 31 dicembre 1989, i rifugiati in Italia erano circa 11.500 di cui 7.500 riconosciuti dal Governo italiano e 4.000 sotto mandato dell’UNHCR.

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8 portata dell’asilo costituzionale8

, di nuovo rimasto senza regolamentazione.

Pochi mesi dopo la promulgazione della legge, furono adottati i decreti volti a dare attuazione alle deleghe contenute nella legge n. 39/1990: il DPR n. 136/1990 volto a disciplinare gli aspetti procedimentali relativi alle richieste di riconoscimento dello status di rifugiato, e il DM n. 237/1990, in tema di accoglienza, che specificava la misura e le modalità di erogazione del contributo previsto dall’art. 1, comma 7. della legge Martelli. Il Regolamento fissava nella misura di “lire venticinquemila” il contributo giornaliero di prima assistenza, da erogarsi al richiedente in stato di indigenza, privo di mezzi di sussistenza o di ospitalità, che avesse formalmente presentato domanda ad un ufficio di polizia situato nel Comune nel quale avesse eletto domicilio. Requisito negativo per la riscossione del contributo era la presenza del richiedente presso uno dei centri di accoglienza.

1.2 La tenuta del sistema di fronte alle prime emergenze

Con la legge Martelli l’Italia dava atto di essere divenuta un Paese di immigrazione. Veniva sancito il superamento della discriminazione previgente a danno dei rifugiati non europei, che aveva provocato gravi conseguenze, tali da imporre in alcuni casi una deroga alla riserva geografica9. L’impianto creato dalla normativa, però, manifestò presto le sue carenze e mostrò la necessità di implementazione di un sistema di accoglienza strutturato di fronte all’afflusso crescente di migranti alla ricerca di protezione sul territorio italiano. L’ospitalità presso centri governativi per richiedenti asilo e la corresponsione di un

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Restano esclusi dalla nozione di rifugiati coloro che, non essendo individualmente perseguitati, siano fuggiti dal proprio Paese a causa di altre situazioni, pur egualmente lesive in concreto dei diritti fondamentali della persona.

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Negli anni ’70 viene riconosciuto lo status di rifugiato a cittadini iraniani in fuga dal regimi di Khomeini nell’ambito di misure straordinarie.

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sussidio di prima necessità, non si dimostrarono adeguati. Il problema, attuale anche oggi, discendeva dalla durata della procedura d’asilo, ossia il periodo compreso tra l’ingresso del richiedente e il provvedimento finale della Commissione. Infatti, nonostante la Questura fosse tenuta ad inoltrare entro sette giorni la documentazione istruttoria alla Commissione centrale, la quale a sua volta avrebbe dovuto adottare la decisione entro quindici giorni dal suo ricevimento, nella pratica le tempistiche venivano regolarmente disattese10. Anche ipotizzando un coordinamento tra tali tempistiche, il sussidio pubblico sarebbe cessato una volta ottenuta la decisione da parte della Commissione, non essendo previste altre forme di sostegno per i titolari dello status di rifugiato. L’Italia, pur dimostrando di aver compiuto qualche passo avanti, continuò a “considerare la questione dei rifugiati un aspetto marginale, non investendo nella professionalizzazione specifica dell’amministrazione pubblica e

ancora meno nell’accoglienza e nell’assistenza all’integrazione”11

. Rimaneva infatti irrisolto il passo successivo, cioè l’emanazione di una legge sull’accoglienza dei rifugiati12

che dettasse discipline medio tempore, in attesa di una nuova disciplina dell’assistenza in materia di rifugiati.

Le criticità si manifestarono subito nel decennio degli anni Novanta del secolo scorso, quando la crisi albanese del 1991 costrinse migliaia di persone a lasciare il proprio territorio. Gli albanesi comparvero all’interno dello scenario nazionale e internazionale con quello che fu denominato l’“esodo biblico”. In quell’anno giunsero sulle coste pugliesi circa 48.000 persone. Fu chiaro fin da subito che si trattava di un popolo che fuggiva non tanto da persecuzioni individuali, quanto

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Nei periodi di massicci afflussi a causa delle emergenze umanitarie verificatesi negli anni Novanta, i tempi raggiunsero anche i ventiquattro mesi.

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Hein C. (a cura di), Rifugiati. Vent’anni di storia del diritto di asilo in Italia, Roma, Donzelli Editore, 2010, cit. pag. 47.

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Così era stato disciplinato dalla legge Martelli all’art. 1 comma 7 e dal DPR n. 237/1990.

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dagli stenti e dalla fame causati dalla crisi che aveva colpito l’Albania a seguito della fine del regime comunista e del conseguente caos politico - istituzionale. La Puglia non disponeva di centri di accoglienza, che furono pertanto realizzati attraverso le reti del volontariato e delle parrocchie. Delle 18.000 persone che presentarono domande d’asilo, molte vennero rimpatriati, la maggioranza si disperse sul territorio senza essere registrata e solo 600 vennero ammesse alla procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato13. Le difficoltà incontrate nel gestire una situazione che da un lato permetteva lo spirito di solidarietà del Paese di esprimersi, ma dall’altro contrastava con le disposizioni normative allora in vigore, condusse il Governo a temporeggiare a lungo, portando avanti anche prassi di dubbia legittimità, quali il blocco delle imbarcazioni. Negli stessi anni, la sfida più impegnativa per il sistema italiano di asilo e di accoglienza provenne dalla ex Jugoslavia, con un massiccio arrivo di sfollati, circa 80.000, in fuga dalla guerra14. La difficoltà sul piano giuridico era data dalla mancata previsione di uno status cui potessero essere ricondotti i migranti. Infatti, nonostante la legge Martelli vietasse esplicitamente il respingimento o l’espulsione dello straniero verso uno Stato nel quale potesse essere oggetto di persecuzioni per motivi di razza, sesso, opinioni politiche, condizioni personali o sociali, nulla veniva disposto circa lo status dello straniero che non avesse i requisiti per essere

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ANCI, Caritas Italiana, Cittalia, Fondazione Migrantes, SPRAR, in collaborazione con UNHCR, Rapporto sulla protezione internazionale in Italia 2014, www.serviziocentrale.it.

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Prendendo in esame solo l’anno 1994, la Germania registrava 350.000 rifugiati in fuga dal conflitto, l’Austria 24.000 (sebbene dal 1° aprile 1992 circa 72.000 bosniaci avessero beneficiato di una forma di protezione temporanea), la Francia 16.000. In Germania, così come in Svizzera e in Austria, ai bosniaci fu concessa la protezione temporanea, ma generalmente questo non è stato sufficiente per avviare le pratiche individuali per ottenere anche lo status di rifugiato. Se si considera il periodo 1990-2004, i Paesi industrializzati hanno registrato circa 1,3 milioni di persone provenienti dalla ex Jugoslavia in cerca d’asilo. La Germania ha accolto il maggior numero di richiedenti asilo provenienti dai Balcani (579.000), seguita da Svezia (173.000), Svizzera (148.000), Olanda (71.000) e Austria (54.000). Il maggior numero di accessi dalla ex Jugoslavia è stato in ogni caso registrato nel 1992, quando circa 240.000 persone hanno chiesto asilo.

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considerato un rifugiato, né circa gli aspetti assistenziali della sua permanenza sul territorio. Per molti di coloro che erano arrivati nel nostro Paese mancava, secondo la Commissione centrale, l’elemento della persecuzione individuale, trattandosi di situazioni di conflitto o di instabilità diffusa, condivisi da una comunità di persone. Il Governo italiano, invece che rispondere alla questione in modo organico, cioè affrontando il problema della mancanza di un vero e proprio sistema di accoglienza, ricorse all’emanazione di leggi e decreti ministeriali ad hoc. Riconobbe infatti uno status umanitario di carattere temporaneo, seguendo quindi una logica emergenziale. Per risolvere la situazione di limbo giuridico in cui si trovavano i cittadini somali, ad esempio, il Governo decise di accordare loro il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi di studio e lavoro della durata di un anno, rinnovabile alla scadenza nel caso in cui fossero perdurate le condizioni di impedimento al rimpatrio15. Lo stesso iter venne seguito per gli sfollati ex jugoslavi. Infatti, con una circolare del Ministero dell’Interno del 28 novembre 1991, venne accordato il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, di durata inizialmente di sessanta giorni. La materia venne regolamentata con la legge n. 390/1992, concernente “Interventi straordinari di carattere umanitario a favore degli sfollati delle Repubbliche sorte nei territori della ex Jugoslavia”: in base alla nuova normativa venne estesa ad un anno la validità del permesso, che consentiva di accedere al lavoro o allo studio. Si trattava tuttavia di pratiche di asilo “provvisorio”, estremamente precarie dal punto di vista giuridico, che, configurando una nuova figura “temporanea” di rifugiato, auspicavano il ritorno al Paese di origine come la soluzione più conveniente16. L’adozione di uno strumento di carattere “eccezionale” e umanitario si rivelò utile anche in occasione delle ostilità tra l’esercito serbo e l’esercito di

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Si veda il decreto del Ministero degli Affari Esteri del 9 settembre 1992.

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Lo stesso UNHCR nel 1994 introdusse nel panorama internazionale una definizione di protezione temporanea, che avrebbe dovuto supplire al vuoto normativo lasciato dalla Convenzione di Ginevra.

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liberazione del Kosovo (UCK) nel 1998, quando, in seguito all’avvio dei bombardamenti da parte della NATO nella Regione, il Governo italiano, dopo aver decretato con ordinanza lo stato d’emergenza il 26 marzo 1999, si rese disponibile ad accogliere i profughi del Kosovo. Sul piano dell’accoglienza, la legge n. 390/1992 prevedeva all’art. 1, rubricato “Interventi straordinari”, il finanziamento di interventi volti a fronteggiare le esigenze degli sfollati, “connesse alla ricezione, al trasporto, all’alloggio, al vitto, al vestiario, all’assistenza igienico-sanitaria, all’assistenza socio-economica”, con un’attenzione particolare ai minori non accompagnati, individuando strutture pubbliche dove realizzare gli interventi, d’intesa con le amministrazioni competenti. Il sistema, tuttavia, faticava a funzionare. Infatti solo poche migliaia di persone vennero accolte in strutture di accoglienza predisposte dal Ministero dell’Interno. La maggioranza non beneficiò di alcuna forma di accoglienza17. Le carenze del sistema di accoglienza governativo vennero colmate, ancora una volta, a livello locale, non solo attraverso le reti informali, ma anche attraverso la realizzazione spontanea di micro sistemi di accoglienza supportati da enti locali, che contenevano le basi dell’attuale sistema di accoglienza. Come dimostra la storia fino ai giorni nostri, se vogliamo continuare a utilizzare il termine “emergenza”, dobbiamo svuotarne il significato e riferirsi ad una “emergenza continua”.

Vale la pena ricordare che da questo momento in avanti, nel nostro Paese, la materia immigrazione verrà trattata come una “calamità” e, pertanto, disciplinata con ordinanze di protezione civile grazie a ripetute e prorogate dichiarazioni di stato di emergenza. Infatti, dal 2002, secondo una prassi che non ha conosciuto interruzioni, il Governo ha fatto ripetutamente ricorso alla dichiarazione di stato d’emergenza ai sensi dell’art. 5 della legge n. 225/1992, applicabile nei

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Petrović N., Rifugiati, profughi, sfollati. Breve storia del diritto d’asilo in Italia, Milano, FrancoAngeli, 2013, pag. 45.

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casi di calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari. In particolare, la necessità posta alla base di questi decreti di dichiarazione dello stato di emergenza sul territorio nazionale è stata quella di procedere alle attività di contrasto all’eccezionale flusso di immigrati nel territorio italiano.

1.3 Dal progetto Azione Comune al Programma Nazionale Asilo

L’esperienza delle comunità virtuose che avevano spontaneamente predisposto forme di accoglienza integrata a favore dei soggetti rimasti esclusi dalle maglie del circuito di accoglienza governativo, assunse una dimensione strutturata grazie all’approvazione del progetto Azione Comune, avviato con il sostegno dell’Unione Europea e del Ministero dell’Interno in favore degli esuli kosovari. Il progetto venne affidato al Consiglio Italiano per i Rifugiati, che lo realizzò in partenariato con altre associazioni ed enti di tutela attivi sul fronte dell’accoglienza. Il progetto Azione Comune “ha rappresentato la sperimentazione di una metodologia in base alla quale si sono successivamente costituiti sistemi di accoglienza istituzionalizzati e più strutturati: il Programma nazionale asilo (PNA), poi evolutosi in Sistema di protezione per

richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR)”18.

Il sistema venne implementato sulla base di un principio che tutt’ora regge l’attuale sistema di protezione, ovvero quello dell’accoglienza integrata e decentrata. Questo comprendeva una serie di servizi (non solo vitto e alloggio, ma anche scuole per l’apprendimento della lingua italiana, l’assistenza legale, l’orientamento al lavoro, l’assistenza sanitaria e psicologica) realizzati non in grandi centri, ma in strutture di piccole e medie dimensioni, dislocate sul territorio nazionale.

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Hein C. (a cura di), Rifugiati. Vent’anni di storia del diritto d’asilo in Italia, Roma, Donzelli Editori, cit. pag. 45.

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L’obiettivo era quello di promuovere un modello di accoglienza il più possibile rispondente alle esigenze di categorie diverse di beneficiari. I minori non accompagnati, per esempio, venivano accolti in apposite strutture, idonee a ricevere tale categoria di soggetti ed a rispondere ai relativi bisogni. Per la prima volta inoltre veniva volto lo sguardo al post-accoglienza e non solo alle politiche di stampo puramente assistenzialistico di breve termine. Gli interventi erano scanditi temporalmente, cioè andavano a ridursi gradualmente nell’ottica del raggiungimento di una situazione di autonomia. Per la prima volta venne fatto il tentativo di superare il modello emergenziale. Infatti gli enti locali assunsero un ruolo di primo piano: vennero coinvolti nel progetto 31 Comuni, distribuiti in 10 Regioni19.

Un limite importante era rappresentato dall’assenza di una rete di coordinamento tra i vari soggetti coinvolti nel progetto. Il progetto Nausicaa, promosso nel 2000 dal Consorzio Italiano di Solidarietà, in collaborazione con il Censis e l’UNHCR, nacque proprio in risposta alla disorganicità dei progetti territoriali. Esso aveva come obiettivo quello di costituire reti stabili, in grado di collegare attori pubblici e privati impegnati nel settore dell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, realizzando una prima mappatura completa dei servizi esistenti. Dalla ricerca emersero le lacune del sistema di accoglienza, il cui onere ricadeva in primis sulle associazioni che gestivano più della metà dei centri di accoglienza nelle Regioni meridionali20.

Il Programma Nazionale Asilo si collocava nel contesto di implementazione delle politiche comunitarie in materia di asilo, a seguito della decisione del Consiglio dell’Unione Europea n. 596/2000 con la quale venne istituito il Fondo Europeo per i Rifugiati (FER) volto a sostenere le azioni degli Stati membri nell’accoglienza,

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I dati sono contenuti in Cespi, Dal Programma Nazionale Asilo al Sistema di

Protezione per Richiedenti asilo e Rifugiati 2001-2004. Bilancio di una esperienza di governo territoriale dei flussi migratori, Ottobre 2004.

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integrazione e rimpatrio assistito di richiedenti asilo e rifugiati21. Il programma prese avvio nel mese di ottobre del 2000 sulla base del Protocollo d’intesa siglato da ANCI22

, UNHCR e Ministero degli Interni. La sua realizzazione previde il coinvolgimento di tre livelli di governo (nazionale, internazionale e locale) cui vennero assegnate rispettivamente funzioni di coordinamento, di indirizzo e operative. I singoli Comuni vennero invitati a proporre progetti territoriali che furono valutati ai fini dell’ammissibilità: la base di partecipazione era volontaria. Vennero presentati 137 progetti, di cui ne furono finanziati 5323. Il modello di governance proposto dal Programma Nazionale Asilo era innovativo rispetto agli interventi precedenti: affinché fosse evitata una concentrazione maggiore dei richiedenti asilo e rifugiati nelle tradizionali zone di arrivo o di permanenza (le aree metropolitane), obiettivo primario di tale Piano era infatti la realizzazione di una rete territoriale omogenea a livello nazionale, coinvolgendo attivamente il maggior numero di Comuni dislocati sul territorio dove poter porre in essere attività di integrazione socio-economica per i beneficiari attraverso progetti di minori entità, quindi più efficienti. I servizi che gli enti gestori del progetto erano tenuti a garantire non erano solo di stampo assistenzialistico. Infatti, oltre al vitto e all’alloggio, i progetti garantivano assistenza sul piano delle procedure amministrative concernenti la richiesta di asilo, sostenevano ed orientavano nell’accesso ai servizi pubblici di base, ai corsi di alfabetizzazione di lingua italiana e ai corsi di formazione e orientamento al lavoro24. Il Programma Nazionale Asilo aprì una breccia nella logica di tipo emergenziale che caratterizzava il sistema di accoglienza disciplinato dalle prime disposizioni normative in

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Art. 4 comma 1, 2000/596/CE: Decisione del Consiglio, del 28 settembre 2000, che istituisce un Fondo europeo per i rifugiati.

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Associazione Nazionale Comuni Italiani.

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I dati sono contenuti in Cespi, Dal Programma Nazionale Asilo al Sistema di

Protezione per Richiedenti asilo e Rifugiati 2001-2004. Bilancio di una esperienza di governo territoriale dei flussi migratori, Ottobre 2004.

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materia. Le novità qui contenute informarono il successivo intervento legislativo, che diede una veste formale al sistema decentrato di interventi implementati a livello locale. La logica di stampo assistenzialistica ed emergenziale, però, non venne abbandonata, anzi, continuò ad essere ciclicamente evocata di fronte alle mancanze strutturali del sistema di asilo.

1.4 Dal Testo Unico sull’Immigrazione alla legge 30 luglio 2002, n. 189

Il decreto legislativo n. 286/1998, meglio noto come Testo Unico sull’Immigrazione ha dotato l’ordinamento di un corpus normativo organico attinente alla condizione giuridica dello straniero e la sua disciplina del suo ingresso e soggiorno. Non si occupa però né di diritto di asilo né di status di rifugiato. Questo ha alimentato il disorientamento e la asistematicità della materia. La norma abroga gran parte delle disposizioni della legge Martelli ad eccezione dell’art. 1 concernente proprio i rifugiati e rinvia la disciplina del diritto d’asilo a futuri interventi legislativi di impronta organica, mai adottati, limitandosi a dettare sporadiche disposizioni sul tema. Tra le più rilevanti possiamo richiamare l’art. 19 che stabilisce che “in nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”; e l’art. 10, comma 4, che determina l’inapplicabilità delle norme sul respingimento nei confronti di stranieri che abbiano presentato domanda di protezione internazionale, o che abbiano

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ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato o altra forma di protezione temporanea per motivi umanitari25.

Il nuovo quadro normativo contiene inoltre importanti disposizioni in tema di protezione umanitaria e temporanea. L’art. 5, comma 6, del Testo Unico sull’Immigrazione prevede la possibilità di rilasciare allo straniero un permesso di soggiorno per motivi umanitari qualora ricorrano “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”. Il riferimento agli “obblighi costituzionali” potrebbe essere interpretato in combinato disposto con l’art. 10, comma 3, della Costituzione, dando così voce all’asilo costituzionale, rimasto nella pratica del diritto sulla carta. Indicativa della lacunosità del sistema è la previsione di chiusura contenuta nell’art. 20 del Testo Unico sull’Immigrazione che consente al Presidente del Consiglio dei Ministri di stanziare fondi al fine di fronteggiare misure straordinarie di accoglienza “per rilevanti esigenze umanitarie, in occasioni di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità”.

Decaduto l’unico tentativo concreto di definizione organica della materia, nel 2002 viene approvato un importante intervento legislativo di modifica della normativa vigente in materia di immigrazione, contenente al suo interno disposizioni concernenti il diritto di asilo. La legge n. 189/2002, meglio nota come legge Bossi-Fini, ha rappresentato sotto diversi fronti un inasprimento della condizione giuridica dello straniero in Italia26. Il tema dell’asilo è stato affrontato

25

Tra le altre disposizioni del Testo Unico sull’Immigrazione che trattano del tema si rinvia anche all’art. 2, comma 7, recante il divieto per le autorità italiane di informare le autorità consolari del Paese di provenienza del richiedente asilo e del titolare di status di rifugiato o di protezione umanitaria; l’art. 29 comma 1 che riconosce il diritto all’unità familiare al rifugiato, esonerato dall’obbligo di dimostrazione di reddito e alloggio adeguato; l’art. 34 comma 1 lett. b) in materia di iscrizione obbligatoria al Sistema Sanitario Nazionale.

26

La legge n. 189/2002 abroga l’istituto dello “Sponsor” che permetteva allo straniero di fare ingresso nel territorio nazionale per cercare un lavoro; inserisce il

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in via diretta, anche se non in modo organico, e reca, accanto a disposizioni di carattere restrittivo, altre più garantiste, dettando un ordine nella procedura di riconoscimento dello status e gettando le basi per la realizzazione di un sistema di accoglienza a livello nazionale.

Il Capo II della legge n. 189/2002 è dedicato alla materia dell’asilo ed in particolare l’art. 32 contiene importanti disposizioni in tema di procedura e di accoglienza. Sulla base dell’impronta restrittiva di tale intervento normativo, vengono per la prima volta introdotte disposizioni in tema di trattenimento del richiedente asilo in appositi centri di identificazione (CID). Il trattenimento era facoltativo nel caso in cui fosse emersa la necessità di identificare la nazionalità o l’identità della persona, per verificare gli elementi su cui si basa la domanda d’asilo o il diritto del richiedente ad essere ammesso nello Stato; obbligatorio qualora il richiedente avesse presentato la domanda in condizioni di soggiorno irregolare o fosse stato destinatario di provvedimenti di espulsione o respingimento. In quest’ultimo caso il trattenimento avrebbe dovuto attuarsi nei centri di permanenza temporanea (CPT), in seguito sostituito dagli attuali centri di identificazione ed espulsione (CIE). Sono stati espressi molti dubbi di costituzionalità della norma, in particolare non essendo il trattenimento nei centri di identificazione sottoposto a convalida da parte del giudice. La disposizione maggiormente significativa attiene all’ambito dell’accoglienza. Contestualmente all’istituzione dei centri di identificazione, l’art. 32 della stessa legge n. 189/2002 istituisce un sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) a livello nazionale, improntato sulle buone prassi messe in atto negli anni precedenti dagli enti locali più virtuosi nell’ambito del Programma Nazionale Asilo. Viene quindi sancito un passaggio importante in tema

“Contratto di soggiorno”, vincolando il permesso alla titolarità di un lavoro; inserisce “Disposizioni contro le immigrazioni clandestine” inasprendo le sanzioni in materia di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare e aumenta il termine massimo relativo al periodo di permanenza presso i Centri di Permanenza Temporanea.

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di accoglienza. Il sistema di protezione è rivolto ai richiedenti asilo, rifugiati e stranieri destinatari di altre forme di protezione umanitaria. Il sistema si pone in continuità con le esperienze precedentemente sperimentate di accoglienza locale e decentrata, mirando alla costituzione di una rete capillare di progetti gestiti a livello locale volti alla realizzazione di interventi non solo di prima accoglienza, ma anche all’inserimento socio-economico del richiedente e del titolare di protezione. Al fine di dare attuazione allo SPRAR viene istituito un Fondo presso il Ministero dell’Interno volto al finanziamento delle politiche e dei servizi di asilo e un servizio centrale di informazione, promozione, consulenza, monitoraggio e supporto tecnico agli enti locali, incaricato di una serie di compiti volti alla razionalizzazione e ottimizzazione del sistema di protezione. Il servizio sarà affidato all’ANCI.

2. Il ruolo dell’Unione Europea nelle politiche in materia di asilo. La realizzazione di un Sistema Europeo Comune di Asilo (CEAS)

L’analisi del quadro normativo interno in materia di asilo non può esimersi da una riflessione sul contesto sovranazionale, in particolare europeo. Il periodo successivo alla crisi petrolifera del 1973 rappresenta un punto di svolta fondamentale per la politica migratoria europea, in ragione dello svilupparsi di tendenze restrittive comuni a quasi tutti i Paesi ad elevata immigrazione. Negli anni precedenti, molti Paesi europei, tra i quali la Svezia, l’Austria e la Germania, avevano concluso accordi per il reclutamento di manodopera straniera27 che avevano interessato Turchia, Spagna, Portogallo,

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La Germania, per esempio, concluse il primo accordo di reclutamento di manodopera con la Turchia nel 1961. Successivamente, nel 1964, la Turchia concluse accordi bilaterali di reclutamento della manodopera con Austria, Belgio e Paesi Bassi, e infine con Svezia e Australia nel 1967, mentre i cittadini turchi potevano raggiungere liberamente il Regno Unito, la Danimarca e la Svezia per poter

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20 Grecia, ma anche l’Italia28

. Il nostro Paese, a partire dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso, partecipò ai primi trattati infraeuropei incidenti anche sulla materia della protezione politica-umanitaria aderendo sia all’Accordo di Schengen del 1985, sia alla Convenzione di Dublino del 1990. L’Accordo di Schengen, muovendo dal concetto di libertà di movimento delle persone dell’Unione, portò all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni. Venne infatti sancita l’abolizione delle frontiere interne agli Stati firmatari, creando un’unica frontiera esterna dove i controlli delle migrazioni sarebbero avvenuti sulla base di regole comuni riguardanti il tema dei visti d’ingresso, soggiorni brevi, controlli alle frontiere e richieste d’asilo. Quanto a quest’ultimo aspetto, l’Accordo gettava le basi per la determinazione dello Stato competente ad esaminare la domanda di asilo presentata all’interno dell’area Schengen. La questione sarà affrontata specificamente nella Convenzione di Dublino siglata il 15 giugno 1990 ed entrata in vigore nel 1997 per gli Stati firmatari29. Tale Convenzione si propone di dare risposta a due fenomeni, conseguenza indiretta del sistema Schengen. Il primo, noto come asylum shopping, consiste nella tendenza dei richiedenti asilo a ricercare lo Stato membro che offre condizioni più permissive per il conferimento dello status. Il secondo è volto a risolvere il fenomeno dei “rifugiati in orbita”, imponendo che sussista in capo a un determinato Stato membro l’obbligo di esaminare una domanda di asilo, evitando che la competenza venga rimbalzata di Stato in Stato, senza alcuna presa di responsabilità. La Convenzione di Schengen e quella di Dublino rappresentano i primi passi compiuti nella direzione di un sistema destinato a cambiare le modalità di accesso e di contenuto del diritto di

esercitare attività lavorativa pur in assenza di accordi specifici. L’accordo bilaterale concluso tra Germania e Turchia venne poi rinnovato nel 1964.

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Il primo accordo di reclutamento concluso tra l’Italia e il Belgio venne sottoscritto nel 1946, con la Svizzera nel 1948 e con la Germania nel 1955.

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Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia e Regno Unito.

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asilo nell’Unione Europea. Questo obiettivo viene sancito con l’introduzione nel Trattato istitutivo della Comunità Europea di un nuovo Titolo IV relativo a “visti, asilo, immigrazione e altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone” operata nel 1997 tramite il Trattato di Amsterdam. Prende così avvio la c.d. “comunitarizzazione”, cioè il passaggio della materia dall’area intergovernativa alla competenza comunitaria. In particolare l’art. 63 del Trattato istitutivo della Comunità Europea prevedeva che, entro un periodo di cinque anni dall’entrata in vigore del Trattato, venissero adottate misure in materia di asilo, a norma della Convenzione di Ginevra del 1951, concernenti criteri e meccanismi per la determinazione dello Stato competente all’esame della domanda di asilo, norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo, all’attribuzione della qualifica di rifugiato e alle procedure applicabili per la concessione e la revoca dello status, oltre alle norme per assicurare protezione temporanea agli sfollati di Paesi terzi e la promozione di un equilibrio degli sforzi tra Stati membri nella gestione dell’accoglienza di rifugiati e sfollati.

Nel 1999 si tenne il Consiglio Europeo di Tampere da cui scaturirono importanti conclusioni sul tema dell’asilo. In particolare venne introdotto per la prima volta il concetto di Common European Asylum System (CEAS). Al paragrafo 13 delle Conclusioni del Consiglio Europeo di Tampere viene affermato che “il Consiglio europeo ribadisce l’importanza che l’Unione e gli Stati membri riconoscono al rispetto del diritto di chiedere asilo. Esso ha convenuto di lavorare all’istituzione di un regime europeo comune in materia di asilo, basato sull’applicazione della Convenzione di Ginevra in ogni sua componente, garantendo in tal modo che nessuno venga esposto nuovamente alla persecuzione, ossia mantenendo il principio di “non-refoulement”. A partire da tale proposta, quindi, si iniziò a sviluppare il Sistema Comune Europeo di Asilo prevedendo due diverse fasi: la

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prima diretta all’armonizzazione degli ordinamenti degli Stati membri sulla base di norme minime comuni; la seconda finalizzata alla realizzazione di alti standard comuni di protezione, una maggiore equità nel sistema di protezione dei rifugiati all’interno dell’Unione Europea e la garanzia di un più altro grado di solidarietà tra gli Stati membri. La prima di queste fasi si concluse solo nel 200530 con ritardi e rallentamenti determinati dalla necessità di mediare tra l’approccio umanitario e garantista che aveva ispirato la definizione degli obiettivi durante il vertice di Tampere e la volontà di molti Stati membri di garantire in primo luogo la sicurezza nazionale. Le direttive adottate, che contenevano solo standard minimi di tutela, consentirono agli Stati membri di mantenere politiche nazionali differenziate se pur con un orientamento comune31.

Terminato il completamento di questa prima fase di armonizzazione, la Comunità europea ritenne necessario avviare una riflessione al fine di determinare in quale direzione il CEAS si fosse dovuto muovere. Nel 2007, con l’elaborazione del Green Paper sul futuro regime comune in materia di asilo, prende avvio la seconda fase di implementazione del Sistema Europeo Comune di Asilo, individuando i tre pilastri sulla cui

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Tale fase portò all’adozione dei seguenti atti: Regolamento (CE) n. 2725/2000 del Consiglio, dell’11 dicembre 2000, che istituisce l’EURODAC per il confronto delle impronte digitali per l’efficace applicazione della convenzione di Dublino; Direttiva 2003/9/CE del Consiglio, del 27 gennaio 2003, recante norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri; Regolamento (CE) n. 343/2003 del Consiglio, del 18 febbraio 2003, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo; Direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta; Direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato.

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Le difficoltà nell’adozione degli strumenti normativi previsti in questa prima fase furono determinate anche dall’applicazione del principio dell’unanimità previsto dal Trattato di Amsterdam per l’adozione di quasi tutte le decisioni in materia. Nel 2001 venne firmato il Trattato di Nizza, entrato in vigore il 1° febbraio 2003, che prevedeva il parziale passaggio dalla procedura dell’unanimità alla maggioranza qualificata pur se con un irrigidimento del sistema di voto a maggioranza qualificata.

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base sviluppare il sistema: rafforzare l’armonizzazione degli standard di protezione avvicinando ulteriormente la legislazione in materia di asilo degli Stati membri; garantire e supportare una cooperazione effettiva tra gli stessi; incrementare la solidarietà ed il senso di responsabilità tra gli Stati membri e tra gli Stati europei ed extra-europei. La seconda fase del CEAS viene confermata dal Programma di Stoccolma del 2009 e con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nello stesso anno, l’art. 67 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea sottolinea che la realizzazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia deve avvenire sviluppando una politica comune in materia di asilo, e non più norme minime. Di conseguenza, la Direttiva Procedure 2013/32/UE mira a rendere più eque, celeri ed efficienti le disposizioni sul riconoscimento della domanda di protezione internazionale. Vengono inoltre introdotte disposizioni specifiche in favore di richiedenti asilo con bisogni speciali, in particolare minori non accompagnati e vittime di tortura. La Direttiva Accoglienza 2013/33/UE si propone, invece, di assicurare condizioni di accoglienza uniformi nei diversi Paesi membri, assicurando ai richiedenti asilo accesso all’alloggio, al vitto, all’assistenza sanitaria e psicologica. La nuova Direttiva Qualifiche 2011/95/UE, infine, cerca di realizzare un maggior riavvicinamento delle norme relative al riconoscimento e agli elementi essenziali della protezione internazionale, uniformando il trattamento dei beneficiari dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria. Rientra nel piano strategico in cui si colloca la seconda fase del processo di realizzazione del Sistema Europeo Comune di Asilo la revisione dei due Regolamenti vigenti in materia: viene approvato il Regolamento di Dublino III n. 604/2013, in vigore dal 1° gennaio 2014 in sostituzione del precedente Regolamento di Dublino II, ed il Regolamento EURODAC (European Dactyloscopie) n. 603/2013, una banca dati centrale in cui vengono registrate le generalità di chiunque attraversi irregolarmente le frontiere di uno

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Stato straniero. I due Regolamenti non modificano la sostanza del Sistema Dublino, di cui sono parte integrante, ma si limitano ad apportare alcuni miglioramenti.

L’impianto sopradescritto ha informato tutta la normativa in materia di diritto alla protezione internazionale. Da qui in avanti il legislatore ha operato a valle, recependo la normativa di rango comunitario nell’ordinamento interno, senza procedere a una risistemazione organica della disciplina. Tra il 2004 e il 2008 il legislatore italiano, ben oltre i termini previsti per il loro recepimento, ha adottato i tre fondamentali decreti legislativi di attuazione delle Direttive dell’Unione in materia di: accoglienza dei richiedenti asilo32

, attribuzione di qualifica di rifugiato e di beneficiario della protezione sussidiaria33, procedura per l’esame della domanda di protezione internazionale34. Tali decreti legislativi sono andati ad aggiungersi ai regolamenti comunitari all’epoca già in vigore35

. Il c.d. Regolamento di Dublino III è entrato in vigore il 19 giugno 2013, ed è applicabile alle domande presentate a partire dal 1° gennaio 2014. In pendenza dei termini per il recepimento degli strumenti normativi comunitari solo la Direttiva 2011/95/UE è stata recepita dallo Stato italiano con il Decreto legislativo n. 18/2014, e oltre la scadenza dei termini, con il decreto legislativo n. 142/2015 sono state recepite la Direttiva 2013/32/UE e la Direttiva 2013/33/UE.

32

Decreto legislativo n. 140/2005, di attuazione della Direttiva n. 2003/09/CE.

33

Decreto legislativo n. 251/2007 di attuazione della Direttiva n. 2004/83/CE.

34

Decreto legislativo n. 25/2008 di attuazione della Direttiva n. 2005/85/CE.

35

Regolamento (CE) n. 343/2003 sullo Stato membro responsabile all’esame di una domanda di asilo e il suo Regolamento di attuazione n. 447/2002; il Regolamento EURODAC (CE) n. 2725/2000 per il confronto delle impronte digitali e l’applicazione del Regolamento di Dublino e il suo Regolamento di attuazione n. 1560/2003.

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3. Le misure di protezione internazionale

Nel sistema normativo delle misure di protezione internazionale, il riconoscimento dello status di rifugiato, secondo le condizioni richieste dalla Convenzione di Ginevra, cessa di essere l’unica forma giuridicamente disciplinata dell’asilo politico. Accanto ad essa, infatti, il decreto legislativo n. 251/2007 prevede la protezione sussidiaria, mentre rimangono vigenti i permessi di natura umanitaria. La principale differenza, a livello procedurale, tra lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria da un lato e i permessi di natura umanitaria dall’altro, consiste nel fatto che le condizioni per il riconoscimento di questi ultimi possono essere accertati dalle Commissioni territoriali anche in mancanza di una domanda specifica, essendo sufficiente la formulazione della richiesta generica di protezione internazionale. A tali misure atipiche si aggiunge la protezione temporanea, di natura eventuale e comunque esclusivamente derivante da un provvedimento generale di natura eccezionale emesso dal Governo in forma di decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, mediante il riconoscimento, anche officioso, del diritto d’asilo (art. 20 del decreto legislativo n. 286/1998). In tutte e quattro le ipotesi, il richiedente asilo, a differenza degli altri cittadini stranieri, è titolare del diritto soggettivo a vedere esaminata la domanda proposta, senza poter essere immediatamente respinto o allontanato dopo l’emissione di un provvedimento espulsivo36.

36

Cfr. Cass., 15 dicembre 2009, n. 26253, nella quale è stato affermato che deve ritenersi illegittimo il rifiuto da parte della polizia aeroportuale di ricevere istanza di asilo politico in sede di svolgimento dei primi controlli all’ingresso, avendo l’amministrazione l’obbligo di inoltrarla al Questore per le determinazioni di competenza, “astenendosi da alcuna forma di respingimento e dall’adozione di

misure di espulsione che impediscano il corso e la definizione della domanda presso le Commissioni designate”.

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26 3.1 Lo status di rifugiato

Ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, la direttiva 2004/83/CE contiene una definizione simile a quella contenuta nella Convenzione di Ginevra. Viene qualificato come rifugiato, infatti, il cittadino straniero che “per il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori del territorio del Paese di ha la cittadinanza e non può, o a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese, oppure apolide che si trova fuori del territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può, o non vuole, farvi ritorno”. I profili di maggiore innovazione, rispetto allo status di rifugiato, si colgono nella specificazione degli atti e dei motivi di persecuzione, contenuti negli artt. 7 e 8 del decreto legislativo n. 251/2007. In particolare sono ritenuti atti di persecuzione quelli che, per la loro natura e frequenza, rappresentano una violazione dei diritti fondamentali inderogabili ex art. 15 par. 2 della CEDU.

3.2 I permessi umanitari

Il nostro Paese si è trovato a faccia a faccia con una realtà migratoria profondamente diversa da quella legata alla definizione tradizionale e universale di “rifugiato” e la necessità di ricorrere a strumenti di carattere umanitario si è manifestata in maniera sempre più costante nel corso degli anni. Questa necessità si è presentata in maniera emblematica solo in seguito alla c.d. “emergenza Nord Africa”, nel biennio 2011-2013, nei confronti di tutti gli stranieri, che pur non essendo minacciati personalmente, fuggivano da un contesto di conflitto interno e violazione generalizzata dei diritti umani. Se in una prima fase (da gennaio ad aprile 2011) arrivarono in Italia solo

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cittadini tunisini che lasciavano il proprio Paese a seguito della “Rivoluzione dei gelsomini” e della caduta del regime autocratico all’epoca vigente, in una seconda fase, corrispondente alla primavera e all’estate del 2011, arrivarono persone di origine sub-sahariana e asiatica in fuga dalla guerra civile scoppiata in Libia. Il Governo allora in carica, con il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 5 aprile 2011 e sulla base dell’art. 20 del Testo Unico dell’immigrazione, stabilì il rilascio ai cittadini nordafricani giunti sul territorio nazionale dal 1° gennaio 2011 al 5 aprile 2011 di un permesso di soggiorno per motivi umanitari della durata di sei mesi37. Successivamente, invece, pur rispondendo ancora una volta in maniera emergenziale agli arrivi, decise di adottare una linea totalmente differente nei confronti dei 24.000 stranieri in fuga dal conflitto libico che vennero automaticamente inseriti nella procedura di richiesta di protezione internazionale.

Ad oggi l’art. 5, comma 6 del Testo Unico dell’immigrazione prevede che allo straniero non possa essere rifiutato o revocato un permesso di soggiorno nel caso in cui ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario, nonché sulla base di obblighi costituzionali o internazionali dello Stato. Per quanto riguarda gli “obblighi costituzionali”, le ragioni di carattere umanitario possono essere rinvenute facendo riferimento sia al diritto di asilo tutelato dalla nostra Costituzione, che attribuisce un diritto soggettivo perfetto allo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà garantite dalla Costituzione italiana, all’ingresso e al soggiorno nel territorio dello Stato (art. 10, comma 3, Cost.); sia al divieto di estradizione per reati politici (art 10, comma 4, Cost.); sia più in generale a violazione dei diritti inalienabili dell’uomo (art. 2 Cost.). Al

37

Perdurando lo stato di emergenza sul territorio nazionale, con i Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri del 6 ottobre 2011 e del 15 maggio 2012, la durata di tali permessi è stata prorogata di sei mesi in sei mesi.

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di là delle motivazioni derivanti da vincoli costituzionali e internazionali dell’ordinamento italiano, si è tuttavia nel corso degli anni rivelato più problematico individuare i “seri motivi di carattere umanitario” che, volutamente, non sono stati tipizzati e predeterminati dal legislatore. Negli ultimi anni si è verificata una crescita esponenziale del numero e della tipologia di esigenze di tutela umanitaria sul territorio nazionale e all’interno dell’ordinamento italiano tale permesso è allo stato attuale rilasciabile:

- Nel caso in cui la Commissione territoriale o il giudice in sede di accoglimento del ricorso non accolga la domanda di protezione internazionale presentata dallo straniero (status di rifugiato o protezione internazionale), ma ritenendo che possano ugualmente sussistere “gravi motivi di carattere umanitario”, “trasmette gli atti al Questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno”38

. Stesso dovere spetta alla Commissione nazionale per il diritto di asilo “nel caso di revoca o cessazione degli status di protezione internazionale”39

. - Allo straniero sprovvisto di titolo di soggiorno ma nei cui confronti non possa disporsi l’espulsione o il respingimento per il rischio che “possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, ai sensi dell’art. 19, comma 1, del Testo Unico dell’immigrazione. In questo caso il rilascio del permesso avviene previo parere della Commissione competente, o a seguito della richiesta presentata direttamente alla Questura. Il principio di non refoulement, sancito dall’art. 3 della CEDU e dall’art. 33 della Convenzione

38

Art. 32, comma 3 del Decreto legislativo n. 25/2008.

39

L’art. 33, comma 3 del Decreto legislativo n. 25/2008 richiama esplicitamente l’art. 32, comma 3 del medesimo decreto.

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di Ginevra40, ha subìto nel corso degli anni una progressiva espansione, come risulta evidente dalla relazione tra divieto di non refoulement proprio del diritto dei rifugiati e il divieto di tortura e di pene o trattamenti inumani, o degradanti, previsto dall’art. 3 della CEDU. A questo riguardo, con la pronuncia Sharifi e altri c. Italia e Grecia, il 21 ottobre 2014 la Corte ha condannato l’Italia per aver respinto indiscriminatamente un gruppo di richiedenti asilo verso un Paese considerato “non sicuro”41

.

- Allo straniero per il quale la Corte d’appello rigetti l’estradizione o l’esecuzione di un mandato di arresto europeo per reati politici o per il rischio di violazione dei diritti di difesa e di atti persecutori, discriminatori e torture nello Stato di eventuale rinvio, o che non possa essere respinto o espulso nel medesimo Stato a causa di un conflitto interno o internazionale in corso.

- Allo straniero vittima di violenza o di grave sfruttamento, che sia destinatario di misure di protezione sociale nelle ipotesi previste dall’art. 18 del Testo Unico sull’immigrazione, cioè nel caso in cui sussistano “situazioni di violenza o di grave sfruttamento nei confronti di uno straniero, ed emergano concreti pericoli per la sua incolumità”.

- A tutti coloro che siano destinatari di misure di protezione temporanea, per rilevanti esigenze di carattere umanitario, in occasione di conflitti, calamità naturali o altri eventi di particolare gravità verificatesi in Paesi extra UE, ai sensi dell’art. 20 del Testo Unico sull’immigrazione. Questo è ciò che è accaduto in occasione dell’afflusso di persone provenienti dal Nord Africa, a seguito della c.d. “primavera araba”.

40

Implicito è, inoltre, il riferimento al diritto di asilo al divieto di estradizione per reati politici previsti dall’art. 10, comma 3 e 4 della Costituzione.

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Cfr. http://asiloineuropa.blogspot.it/2014/10/sentaza-sharifi-e-altri-contro-italia. html

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Il permesso di soggiorno per la protezione umanitaria ha durata biennale ed è rinnovabile. Questo consente l’accesso allo studio e al lavoro, ed è convertibile in permesso di soggiorno per lavoro. Tale permesso dà diritto: al ricongiungimento dei familiari in presenza dei requisiti di alloggio e reddito previsti dal Decreto legislativo n. 286/1998, al mantenimento del nucleo familiare e al medesimo trattamento riconosciuto al cittadino italiano in materia di assistenza sociale, sanitaria e di accesso agli alloggi pubblici42.

3.3 La protezione sussidiaria

Secondo la definizione normativa contenuta nell’art. 2 lett. g) del Decreto legislativo n. 251/2007, la persona ammissibile alla protezione sussidiaria è “il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese”. L’art. 14 del Decreto legislativo n. 251/2007 definisce il contenuto di “danno grave” che costituisce requisito necessario della protezione sussidiaria. Sono considerati danni gravi: la condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte; la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano e degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine; la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato interno o internazionale. Le prime due

42

Alla luce di quanto disposto dall’art. 14 comma 4 del DPR n. 21/2015, che prevede la durata biennale del permesso di soggiorno per motivi umanitari, qualora l’interessato svolga un’attività di lavoro subordinato o di lavoro autonomo, come richiesto dall’art. 4 comma 6 del Decreto legislativo n. 286/1998, può rientrare tra i destinatari dei benefici quali l’accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica.

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fattispecie di danno grave contengono la riproduzione dell’art. 3 CEDU.

Molto spesso i richiedenti protezione internazionale lamentano il concreto pericolo di violenza derivante dalla condizione del Paese di provenienza, pur non potendo affermare di essere direttamente perseguitati o minacciati individualmente. Nella maggior parte dei casi adducono una situazione ambientale nella quale i componenti di un certo gruppo sociale hanno subito morti o violenze da essi evitati. In queste situazioni diventa cruciale stabilire se la situazione di pericolo debba essere diretta verso il richiedente o possa essere sufficiente la rappresentazione di una situazione sociopolitica dalla quale il richiedente è fuggito e nella quale il rischio diventa effettivo per qualsiasi persona che appartenga alla categoria a rischio. Il riconoscimento della protezione sussidiaria, infatti, si attua nei confronti di quello straniero che si trovi in una situazione in cui sussiste uno dei fattori di rischio di danno grave, ma in cui non sono ravvisabili elementi di persecuzione individuale. La natura strettamente individuale della rappresentazione dei fatti incidenti sull’adozione della misura costituisce un requisito tipico solo del rifugio politico. La giurisprudenza di legittimità, nell’ordinanza n. 6880/2011 ha sancito che “il riconoscimento della protezione sussidiaria non richiede, diversamente da quanto previsto per lo status di rifugiato politico, l’accertamento dell’esistenza di una condizione di persecuzione del richiedente, ma è assoggettato a requisiti diversi, desumibili dall’art. 2 lett. g) e dall’art. 14 del d.lgs. n. 250 del 2007”.

La Corte di Giustizia, nella sentenza n. 172 del 2009 (caso Elgafaji) ha espressamente precisato che il nesso causale tra la situazione generale di danno grave e la diretta esposizione individuale nella protezione sussidiaria è più sfumato rispetto al rifugio politico, ed ha ritenuto che ai fini della protezione sussidiaria “una minaccia alla vita individuale

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