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INTRODUZIONE «Alle obiezioni contro la libertà possiamo rispondere soltanto con un'eloquenza generica. È un triste tema su cui il più saggio paventa perfino di osare di riflettere»

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INTRODUZIONE

«Alle obiezioni contro la libertà possiamo rispondere soltanto con un'eloquenza generica. È un triste tema su cui il più saggio paventa perfino di osare di riflettere»

(Voltaire, Metaphysique de newton)

Non mi ritengo nemmeno lontanamente il più saggio, anzi, socraticamente so di non sapere. Nonostante ciò ho deciso di osare di riflettere. Come si scoprirà durante questo percorso, i concetti di “libertà” e di “responsabilità” sono intrinsecamente complessi, articolati, ambigui, confusi e di estremamente difficile trattazione. Inoltre, generalmente, nonostante ogni possibile progresso in merito alla discussione, la risoluzione del problema dell'esistenza della libertà e della conseguente responsabilità viene considerata fuori dalla portata del sapere umano. Ecco perché possiamo rispondere solo con un'eloquenza generica.

La libertà e la responsabilità, però, ci interessano perché appaiono fortemente connesse a svariati aspetti del nostro essere; e l'indagine filosofica non può e non deve perdere di vista il proprio spirito riflessivo in merito a tale discussione.

Le domande che fanno da sfondo a questo lavoro sono, in apparenza, semplici: Esiste la libertà? Siamo responsabili del nostro agire? Le risposte, tuttavia, sono molto complesse; in primis perché si tratta di argomenti radicati nella storia del pensiero umano, che risalgono fino a Platone e Aristotele, secondo perché le

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riflessioni sono interdisciplinari. Infatti abbracciano categorie diverse della filosofia – quali la morale, l'etica e la metafisica -, la psicologia sperimentale, la sociologia e le discipline empiriche come le neuroscienze, le quali oggi sembra si vogliano imporre con decisione sulla scena come portatrici di verità.

Il lavoro in questione segue uno schema ben preciso: si tratta di un'analisi concettuale filosofica della libertà e della responsabilità, seguita da uno studio – probabilmente embrionale – di carattere neuroetico relativamente alla stessa problematica. Il tutto al fine di teorizzare un modello di etica della relazione che possa essere applicato ad un mondo deterministico come potrebbe essere il nostro; questo perché ritengo che la filosofia non debba essere una mera speculazione accademica, ma debba contribuire in maniera attiva e preponderante allo sviluppo della nostra società.

Il primo capitolo fornisce un quadro complessivo definitorio del concetto di “libertà”, fondamentale per comprendere la tradizione della discussione, l'evoluzione storica del concetto, la distinzione tra libero arbitrio e libertà sociale o politica, e per comprendere le due grandi scuole di pensiero in cui si suddividono gli studiosi: ovvero il determinismo e l'indeterminismo.

Il secondo capitolo si propone di esaminare le posizioni incompatibiliste e compatibiliste – con le relative critiche e posizioni scettiche – della libertà. L'incompatibilismo, articolato in libertarianism, pessimismo e determinismo duro, si configura come quella teoria filosofica in base alla quale il determinismo universale non può coesistere con la libertà. Mentre, per quanto riguarda il compatibilismo, strutturato in due forme, in cui la prima si limita a considerare l'ipotesi di verità e la seconda che prende il nome di determinismo morbido, è, invece, possibile fornire un senso al concetto di “libertà” anche in

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un universo interamente regolato da leggi causali.

Il terzo capitolo opera un cambiamento tematico, in quanto esso è centrato sulla responsabilità. Viene proposta l'origine del termine, l'evoluzione e la conseguente concettualizzazione filosofica; la discussione contemporanea rappresenta la parte centrale del capitolo e, in chiusura, si teorizza il modello di etica della relazione basato sull'apertura nei confronti dell'alterità che possa essere applicato alla nostra società.

Il quarto e ultimo capitolo rappresenta un'indagine empirica neuroscientifica, con un focus sulla neuroetica, relativamente agli stessi concetti di “libertà” e “responsabilità”. Alcuni studi sperimentali sembrano mettere in discussione le nostre idee; qui si suggerisce una breve storia della nascita della neuroetica, per poi evidenziare alcuni studi riguardanti proprio i temi di fondo di questo lavoro. Sempre più si rende necessaria la collaborazione tra filosofia e scienza. Le conclusioni vogliono essere, più che altro, delle considerazioni personali in merito alla questione. Questo perché concludere, e quindi chiudere, una discussione in costante evoluzione credo che sia al limite dell'impossibile.

Prima di cimentarmi con questa importante sfida che segna una tappa fondamentale nel mio percorso di uomo e di filosofo, ci tengo ad esprimere i miei sentiti ringraziamenti nei confronti della mia famiglia che mi ha sempre sostenuto, del mio docente e Maestro Adriano Fabris, fonte di ispirazione e guida, e nei confronti di tutti coloro che in qualche maniera hanno contribuito a determinare ciò che sono.

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PARTE PRIMA Presupposti teorici

CAPITOLO PRIMO

Libertà e libero arbitrio tra legalità politico-giuridica e legalità naturale

Fin dagli albori della modernità diversi studiosi mettono in questione l'idea di libertà, affidandosi al cieco determinismo delle leggi naturali. «In questo senso, come testimonia magistralmente la terza antinomia della Critica della ragion pura, il problema consiste nello spiegare se – e, nel caso, come – gli esseri umani possano sfuggire alle ferree leggi che regolano il mondo della natura. E se non possono sfuggirvi, in quale senso possono dirsi liberi?»1.

Da sempre la filosofia ricerca soluzioni, risposte, interpretazioni a questi quesiti, e ancora oggi il dibattito in merito al concetto di libertà è attuale; sembra, però, che ci si trovi di fronte ad una sorta di mistero filosofico: possediamo chiara intuizione della nostra libertà, ma ciò che comprendiamo del mondo naturale, che non è molto, ci porta ad affermare che la libertà non è di questo mondo. Lo stesso Hume nel 1748, in Enquiries Concerning Human Understanding and Concerning the Principles of Morals, afferma che la questione della libertà è la più controversa delle questioni metafisiche.

Ma procediamo con ordine.

In primis si rammenti il fatto che la libertà possiede diversi modi di

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manifestazione: essa può essere libertà di qualcosa, ad esempio libertà politica, religiosa o ancora di espressione, di stampa di parola e molto altro. Essa può essere intesa anche in chiave negativa, come mera mancanza di vincoli o costrizioni, oppure in senso positivo, ricollegandosi così al concetto di responsabilità, in base al quale ogni individuo risulta essere responsabile delle proprie azioni. Si osservi, anche, come tale indagine risulti essere transfilosofica, nella misura in cui essa provoca il coinvolgimento di un sapere pluridisciplinare. Inoltre «il dibattito contemporaneo si sviluppa principalmente attorno alla relazione tra gli esseri umani e la legalità naturale o, per dirla diversamente, tra gli agenti e la struttura nomologica che regge il mondo o, ancora, tra il fare e l'accadere o tra la contingenza e la necessità. Non sorprenderà, dunque, che molti preferiscano parlare di libertà metafisica, invece di usare il termine – in effetti un po' vetusto - di libero arbitrio»2.

Conseguentemente a ciò se ne deduce che l'indagine metafisica sulla libertà ha implicazioni a livello etico, sociale e politico.

La filosofia non può che dedicarsi all'approfondimento della libertà: «in questa luce, ai filosofi spetta chiarire, ad esempio, che cosa la libertà sia, se essa sia compatibile con il determinismo, con l'indeterminismo o con entrambi e se sia effettivamente una precondizione della responsabilità, della razionalità e della vita morale. Ma ciò implica che, da un certo punto di vista, l'indagine empirica relativa alla libertà umana, lungi dall'essere risolutiva, presuppone l'analisi concettuale della nozione di libertà»3. L'indagine scientifica può anche

prescindere dall'analisi filosofica, ma nel momento in cui si tenta di applicare i risultati della ricerca empirica alla questione della libertà, come anche ad altri

2 Ivi, p.6. 3 Ivi, p. 20.

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temi in stretta relazione con la filosofia, è indispensabile avere preliminarmente indagato che cosa la libertà sia e tutto ciò che ad essa è correlato; e questo avviene esclusivamente sul piano concettuale. D'altra parte, oggi, è vero anche che non si può condurre l'indagine filosofica in completa indipendenza dai risultati scientifici, ed è per questo motivo che tale questione si sta sviluppando in stretta correlazione con le neuroscienze, ed in particolar modo con la neuroetica. Ad ogni modo, sostiene Mario De Caro, sembra equo dire che, al momento, la ricerca empirica sui processi volizionali non ha provato in modo conclusivo nulla di filosoficamente dirimente e che non si vedono ragioni convincenti per sostenere che la soluzione finale del problema del libero arbitrio arriverà da quell'ambito.

Allo stato dell'arte, la principale contrapposizione teorica è quella tra l'incompatibilismo e il compatibilismo, relativamente alle forme del concetto di “libertà”, che possiamo identificare essenzialmente in quelle della libertà sociale e del determinismo.

1. Libertà sociale o politica

Quando si affronta il problema della libertà, una delle prime distinzioni da fare è quella tra libertà sociale o politica e il libero arbitrio, ovvero la libertà del volere, denominata anche “libertà metafisica”. «La libertà sociale riguarda la relazione fra l'individuo e gli altri individui, il libero arbitrio la relazione fra l'individuo e la natura; l'una ha a che fare con la legislazione politica e sociale,

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l'altro con la legalità naturale»4. Legge statale e legge naturale non vanno

confuse: la prima rimanda alla coercizione mentre la seconda alla determinazione della scelta. «In quanto concetti distinti, leggi dello Stato e leggi di natura rimandano a differenti interpretazioni delle modalità del possibile e del necessario. Alle leggi di natura fanno riferimento le cosiddette modalità aletiche: possibile, impossibile e necessario. Qualcosa è possibile quando non è in contrasto con le leggi di natura, impossibile quando è in contrasto con le leggi di natura, necessario quando il suo contrario è impossibile, cioè in contrasto con le leggi di natura. Alla legislazione politica o sociale fanno invece riferimento le cosiddette modalità deontiche: lecito, vietato e obbligatorio. In relazione alla legislazione politica e sociale le modalità del possibile e del necessario diventano quelle del lecito e dell'obbligatorio: qualcosa è possibile quando è lecito, impossibile quando è vietato, necessario quando è obbligatorio; e qualcosa è lecito quando è permesso dalle leggi, non è cioè in contrasto con esse, vietato quando non è permesso, obbligatorio quando non è permesso il suo contrario.»5

Altra distinzione da fare, che interessa tanto il libero arbitrio quanto la libertà sociale, riguarda il campo dell'azione e quello della scelta dell'individuo: «con azione si intende qui il comportamento fisico che realizza un determinato proposito, con scelta la deliberazione mentale che porta alla selezione del proposito»6. È comunque preferibile rifiutare una distinzione semplicistica e

4 Sergio Filippo Magni, Teorie della libertà. La discussione contemporanea, Carocci editore, Roma 2005, p.17. 5 Sulle forme della modalità, cfr. Anthony Kenny, Will, Freedom and Power, Duke University Press 1975 e Massimo

Mugnai, George Boole e lo psicologismo: la caratterizzazione delle leggi logiche, in An Investigation of the Laws of Thought, in George Boole, Filosofia, Logica, Matematica, Franco Angeli editore, Milano 1998.

Oltre alle modalità deontiche e alle modalità aleatiche, altre forme di modalità sono: - quella logica, ovvero una cosa è possibile se non è logicamente contradditoria

- quella epistemica, ovvero una cosa è possibile se non è in contrasto con i dati conosciuti - quella doxastica, quando una cosa è possibile se non è in contrasto con ciò che è creduto

- quella dinamica, quando una cosa è possibile se non è in contrasto con l'opportunità e la capacità dell'agente 6 Rogers Albritton, Freedom of will and freedom of action, in Proceedings and addresses of the American

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riduttiva fra libertà sociale e libero arbitrio, andando ad indicare che una riguarda l'azione e l'altro la volontà o la scelta. «Sicuramente il libero arbitrio ha a che fare con la volontà, ed è questione di libertà del volere, mentre la libertà sociale è interessata all'agire o al fare del soggetto, ma è, in questo caso, l'accezione del verbo “agire” o del verbo “fare” che implica anche la scelta. La libertà sociale riguarda in fin dei conti tanto la libertà dell'azione quanto la libertà della scelta: quello che in essa conta è l'assenza di coercizione o di vincoli o di impedimenti sull'agire e sullo scegliere, oppure, a seconda delle varie interpretazioni di essa, il possesso della capacità di agire e di scegliere, o dei mezzi per esercitare questa capacità»7.

Quanto detto verrà ripreso più avanti per un ulteriore chiarimento ed approfondimento.

La libertà sociale può essere definita e caratterizzata in termini negativi o positivi. Per quanto riguarda la negatività del concetto la scelta si può considerare libera nel caso in cui non è costretta o vincolata. Si parla in questo caso di libertà negativa o “libertà da”, in quanto si sottolinea l'assenza di qualcosa: la coercizione, il vincolo, l'impedimento, la punibilità e così via. Riferendosi a tradizioni filosofiche sei-settecentesche si ritrova già presente tale assunto. Nella fattispecie, Montesquieu asserisce che la libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono, mentre Locke dichiara che la libertà degli uomini sotto un governo consiste nella libertà di seguire la propria volontà in tutto ciò in cui la norma non dà precetti, senza essere soggetto alla volontà incostante, incerta, sconosciuta e arbitraria di un altro. «Quello che in questa definizione della libertà sociale conta è la mancanza di impedimenti esterni al

Philosophical Association, Apa, Newark 1985, Vol. 59 - N. 2, pp. 239-251.

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soggetto rivolti all'azione o alla scelta. È la libertà di cui gode chi non è in catene, e in questo caso la coercizione è sull'azione, o sotto la minaccia della pistola del bandito, e in questo caso la coercizione è sulla scelta»8.

L'agente che non è costretto è socialmente libero di compiere l'azione, e in quanto libero può compiere l'azione; in altri termini l'agente ha l'opportunità di agire in quanto privo di impedimenti esterni che ne ostacolano direttamente l'azione, oppure l'agente ha la capacità in quanto in possesso dei requisiti interni che lo rendono in grado di agire, o, ancora, ha entrambe le possibilità in contemporanea, cioè l'agente possiede sia l'opportunità sia la capacità di agire. Lo stesso procedimento è applicabile alla scelta.

Per quanto riguarda, invece, la positività del concetto di “libertà sociale” si può asserire che l'azione e la scelta sono libere se il soggetto ha il potere o la capacità di agire e di scegliere. Si parla in questo caso di libertà positiva o libertà di, in quanto si sottolinea la presenza di qualcosa: di un potere o di una capacità del soggetto. Riferendosi al possesso della capacità di scelta si parla di autonomia, ovvero l'accezione più ricorrente di libertà positiva: «il soggetto è politicamente libero quando è autonomo, ha cioè la capacità di darsi da solo le norme per agire»9. Ciò viene avvalorato dalla visione rousseauiana, secondo cui

l'obbedienza alla legge che ci siamo prescritti è la libertà, e dalla visione kantiana, in base alla quale la libertà giuridica è la facoltà di non obbedire ad altra legge che non sia quella a cui i cittadini hanno dato il loro consenso.

Se si adotta il modello appena descritto si può notare che fra le due accezioni di libertà sociale non c'è una correlazione: esse non si implicano né si escludono. Si può essere dotati dell'opportunità di agire e di scegliere – libertà

8 Ivi, p.19. 9 Ivi, pp. 20-21.

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negativa – ma non della capacità – libertà positiva -, e viceversa; la soppressione o la salvaguardia di una delle due libertà non comporta la soppressione o la salvaguardia dell'altra. Di contro, però, il premio Nobel Amartya Sen afferma, nell'opera Globalizzazione e libertà del 2002, che le due libertà devono essere considerate inestricabilmente e profondamente interrelate. Una violazione della libertà negativa deve anche essere, senza che sia compensata da qualche altro fattore, una violazione della libertà positiva. L'origine di tale diversificazione, fra il senso negativo e il senso positivo di libertà, risale a Kant; tuttavia egli utilizza la distinzione in relazione al libero arbitrio e non alla libertà sociale o politica: «la libertà ha un aspetto negativo in quanto assenza di determinazione causale, e uno positivo in quanto capacità di autodeterminazione o, a seconda dei testi, autonomia, cioè scelta in conformità alla legge della ragione»10. Si deduce dalla Critica della ragion pura che questa

libertà della ragione può considerarsi non solo negativamente, come indipendenza dalle condizioni empiriche, ma anche positivamente come la facoltà di dare spontaneamente inizio a una serie di eventi; dalla Fondazione della metafisica dei costumi, opera del 1785, si ricava, invece, che la volontà può agire indipendentemente da cause esterne che la determinano. Questa definizione della libertà è negativa, quindi inidonea a farne comprendere l'essenza, ma da essa si può ricavare un concetto positivo tanto più ricco e fecondo. Che cosa può essere dunque la libertà della volontà se non è autonomia, cioè la proprietà della volontà di esser legge a se stessa?

L'uso dei due sensi di libertà in relazione alla tematica della libertà sociale è invece già ampiamente espressa dallo storico della filosofia Guido De Ruggiero

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nel 1925 nell'opera Storia del liberismo europeo. Grazie alla ripresa della tematica da parte di Norberto Bobbio e di Isaiah Berlin, la questione in esame ha trovato ampia diffusione nel dibattito contemporaneo, in relazione alla libertà sociale e politica; inoltre, lo stesso Bobbio, instaura un parallelo fra i due concetti di libertà – “positivo” e “negativo” – e il libero arbitrio: «i due significati di libertà sin qui illustrati corrispondono ai due significati di libertà prevalenti nelle discussioni dei filosofi, cioè alla libertà come l'intendono i deterministi e alla libertà come l'intendono gli indeterministi. I primi infatti negano generalmente la libertà del volere, ma non escludono la libertà di agire, se ad essa si attribuisce il significato di libertà negativa; i secondi affermano principalmente e con assoluta priorità su di ogni altra forma di libertà la libertà di volere, che corrisponde alla cosiddetta libertà positiva, e non comporta necessariamente la libertà di agire»11. Pensando alle posizioni hobbesiane e

lockiane, pare insostenibile un parallelismo fra le due forme di libertà e il libero arbitrio; indubbiamente può essere rilevata esclusivamente una corrispondenza storica. Infatti sono stati proprio filosofi deterministi - come quelli sopra citati, che non accettano che si possa parlare di una libertà del volere - ad ammettere come unica forma di libertà la libertà di agire intesa come mancanza di impedimenti esterni.

L'analogia fra la questione della libertà sociale o politica e quella del libero arbitrio non può essere estesa fino al punto tale da ammettere una corrispondenza concettuale fra libertà negativa e negazione del libero arbitrio e viceversa. Libertà sociale e libero arbitrio sono due concetti diversificati e non sovrapponibili. Sostenere una concezione della libertà sociale non implica

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sostenere alcuna concezione relativa al possesso o meno del libero arbitrio. Secondo Philip Noel Pettit, si rifiuta pertanto un approccio olistico al problema della libertà, che conduce a trascurare questa separazione e a correlare strettamente libertà sociale e libero arbitrio: «cerco una teoria che costruisca il libero arbitrio in modo tale che esso sorregga una linea difendibile in relazione alla libertà politica, e una teoria che interpreti la libertà politica in modo tale che si accordi con la linea difesa in relazione al libero arbitrio»12.

La filosofia analitica contemporanea, mediante una ricostruzione razionale dei concetti politici, ha proposto una definizione del concetto di “libertà sociale” che intende ridurne le imprecisioni e le ambiguità: «Oppenheim distingue la libertà sociale da quella che egli definisce libertà di scelta. La libertà sociale è considerata una relazione triadica fra due agenti e l'azione compiuta, ed è sinonima, poiché è essenziale che la relazione sia fra almeno due agenti. […] Qualora un agente sia il governo e l'altro un cittadino o un insieme di cittadini si parla di libertà politica, la quale si presenta come una sottocategoria della libertà sociale. Oppenheim definisce innanzitutto la relazione di non-libertà: nei confronti di P (detentore di un potere), R (un agente) è non-libero di fare X se e solo se P rende impossibile o punibile per R fare X; per poi passare a quella di libertà: nei confronti di P, R è libero di fare X o di fare non-X se e solo se P rende R né non-libero di fare X né non-libero di fare non-X. L'una non è il semplice contrario dell'altra, perché nella non-libertà è un'azione che viene impedita, nella libertà sono due o più azioni alternative che vengono permesse: sono non libero di fare ciò, sono libero di fare questo o quello»13. Condizione

necessaria per la validità di tale sistema è l'esistenza di un insieme di regole

12 Philip Pettit, A Theory of Freedom: from psychology to the politics of agency, Oxford University Press, New York 2001, p.3.

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che chiarisca quali sono gli atti non consentiti che, nel caso in cui non dovessero essere rispettati, consentono l'adozione della punizione. La presenza di una semplice proibizione legale non basta, però, ad annichilire la libertà sociale, perché deve aggiungersi la punibilità e la certezza dell'applicazione; si resta altrimenti socialmente liberi sebbene l'azione sia legalmente vietata. Sempre Oppenheim evidenzia come, a differenza della libertà sociale, la libertà di scelta non è una nozione triadica, ma diadica: essa è limitata alla relazione tra un attore e alcune sue azioni potenziali. «Dire che un agente ha libertà di scelta riguardo a un'azione significa, dice Oppenheim, che è per l'agente possibile agire in quel modo se solo scegliesse di farlo. Quello che è essenziale per comprendere la distinzione fra libertà sociale e libertà di scelta è il riferimento o meno a un agente che pone l'impedimento; ed è quanto basta per separare nettamente i due sensi di libertà: la libertà di scelta non è una condizione necessaria né sufficiente della libertà sociale. Se A può fare X, egli è non-libero [in senso sociale] di farlo solo se la sua incapacità è stata causata da qualche altro agente. Altrimenti A rimane libero [in senso sociale] di fare X, anche se egli non ha la libertà di scelta quanto a X. La libertà di scelta non va poi confusa con la libertà di cui si parla trattando del libero arbitrio; essa si oppone a impedimenti e non alla determinazione: i deterministi – scrive Oppenheim – possono con perfetta coerenza negare la dottrina del libero arbitrio e tuttavia affermare che gli uomini hanno spesso la libertà di scelta. Essi argomentano che il fatto che A può fare X o Z non preclude la possibilità di spiegare e prevedere la scelta effettiva di A grazie a leggi (ad esempio psicologiche o sociologiche) causali»14.

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Il filosofo MacCallum, invece, non utilizza questa distinzione fra libertà sociale e libertà di scelta, infatti sostiene che: «ogni qualvolta è in discussione la libertà di un agente o di un gruppo di agenti, si tratta sempre della libertà da qualche vincolo, restrizione, interferenza o barriera al fare, non fare, diventare o non diventare qualcosa. Tale libertà è dunque sempre di qualcosa (un agente o più agenti), da qualcosa, di fare, non fare, diventare o non diventare qualcosa; è una relazione triadica. Assumendo il modello X è (non è) libero da Y di fare (non fare, diventare, non diventare) Z, X sta per gli agenti, Y per le condizioni di impedimento quali vincoli, restrizioni, interferenze e barriere, e Z per le azioni o condizioni di carattere o di circostanza»15; inoltre, in aperta polemica con

Oppenheim, MacCallum osserva come quest'ultimo limiti il campo delle variabili in modo così netto da tagliar fuori molte questioni.

In fin dei conti, quello di libertà sarebbe un unico concetto triadico sempre identico: X è libero da Y di fare Z. E «proprio l'accordo con l'uso comune di espressioni come “è un'azione libera”, “è un'azione possibile”, mostra che la prima distinzione da porre è quella legata al fatto se si sia di fronte a un impedimento esterno che toglie l'opportunità oppure alla mancanza di un potere e di una capacità. L'uso linguistico ordinario tende a separare i due casi: comunemente, infatti, si dice che non è libero solo di chi è impedito dall'esterno, cioè di chi non ha l'opportunità, mentre di chi non ha la capacità, mancando di requisiti fisici o psichici interni si preferisce dire che non può, piuttosto che non è libero»16. Quanto detto è stato già osservato in precedenza

anche da Thomas Hobbes nell'opera Della libertà e necessità del 1654; sostiene il filosofo che la libertà è l'assenza di tutti gli impedimenti all'azione

15 Gerald C. MacCallum Jr., Negative and Positive Freedom. The Philosophical Review, Sage School of Philosophy of Cornell University editori, Volume 76, terza edizione, New York 1967, pp. 312-334.

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che non siano contenuti nella natura e nella qualità intrinseca dell'agente. Afferma inoltre che, un individuo non dice di essere libero di fare una cosa semplicemente perché possiede il potere o la facoltà di farla; quando sostiene che l'individuo può fare qualcosa, può intendere che ne ha l'abilità o l'opportunità. Egli è libero di fare qualcosa solo in assenza di impedimenti al modo di fare quella determinata cosa. Charles Margrave Taylor, però, nega che questo sia il vero senso di “libertà”: concepire la libertà solo come assenza di ostacoli esterni, che è il concetto hobbesiano grezzo di “libertà” – usando le sue stesse parole -, sarebbe una versione caricaturale della libertà negativa. Ma questo giudizio dipende dall'adozione di una nozione di “libertà negativa” troppo ampia, includendo essa l'autorealizzazione di ogni persona, e di libertà positiva troppo ristretta, coincidendo essa con l'autogoverno collettivo.

Come definizione esplicativa più adeguata del concetto di libertà sociale, si può, dunque, utilizzare quella fornita dal filosofo Robert Alan Dahl: definiamo la libertà di un individuo come l'opportunità di perseguire i propri fini senza impedimenti esterni. Tale definizione, tuttavia, rimane su un terreno meramente descrittivo ed è neutrale dal punto di vista valutativo: essa può essere condivisa indipendentemente dalle convinzioni etiche possedute.

2. Determinismo

La questione del determinismo si è già proposta nell'antichità classica, in relazione al rapporto dell'uomo con il fato e la determinazione naturale: “se ogni movimento è sempre ad altri concatenato - scrive Lucrezio nel De rerum

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natura – e il nuovo movimento nasce dal vecchio secondo un ordine certo, e i corpi primi non iniziano, deviando dalla linea retta, un qualche movimento che infranga le leggi del fato, evitando che una causa faccia seguito all'altra all'infinito, da dove viene, domando, agli esseri viventi, qui sulla terra, questa libera volontà che, strappata al fato, ci permette di recarci dove ci conduce il nostro piacere, e di modificare il nostro movimento non in un momento e in un luogo prefissati, ma nel punto preciso in cui lo decide la mente?”

Partendo dal determinismo di matrice aristotelica, attraverso un excursus storico-concettuale, si arriverà ad una lettura moderna del problema deterministico.

In età romana Alessandro d'Afrodisia contrappose la filosofia aristotelica al determinismo stoico, sostenendo che il pensiero aristotelico è permeato di elementi indispensabili alla difesa di una teoria indeterministica dell'agire umano17. Già in quel periodo, tuttavia, alcuni sostennero che la posizione di

Aristotele propendesse verso il determinismo. W. D. Ross sostiene che: «in complesso dobbiamo dire che Aristotele condivideva la credenza dell'uomo comune nel libero arbitrio, ma che non esaminò il problema molto a fondo e non si espresse con perfetta coerenza»18. Sembra che Aristotele non riesca a

formulare il concetto di libero arbitrio in quanto in lui non è presente un concetto di volontà nel senso poi sviluppato; Antony Kenny sostiene, di contro, che «il pregio della teoria aristotelica dell'azione consiste proprio nel fare a meno della nozione di volontà, nozione messa in crisi dalle critiche di Ryle e Wittgenstein, e che coloro che hanno delineato una teoria dell'azione umana che prescinde dall'idea di un atto di volizione si sono molto avvicinati alle

17 Marco Tullio Cicerone, De fato 1 e 39.

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posizioni di Aristotele»19.

Tuttavia – ribadisce Carlo Natali – escludere del tutto Aristotele da una storia del determinismo antico sarebbe un errore: «sebbene non ci sia stata tramandata nessuna sua discussione specifica del problema, in molti passi egli pare attaccare una serie di posizioni di tipo deterministico. Si tratta di passi che appartengono a varie opere, e che, pur molto noti, non sempre sono stati considerati insieme»20. Risulta irrilevante fornire una definizione astratta dei

concetti di “libertà” e “determinismo” per poi misurare sulla base di essa quanto Aristotele sia stato un vero indeterminista; di notevole importanza, è necessario sottolineare, è il fatto che egli ci ha permesso di compiere innegabili passi avanti nella discussione. Aristotele stabilisce che, indipendentemente dal loro valore morale, ogni nostra azione, sia buona o cattiva, o dipende da noi oppure non dipende da noi. In Aristotele emergono per la prima volta argomenti centrali del dibattito sul determinismo, come l'idea che noi siamo la causa prima delle nostre azioni, che da noi dipende il fare una cosa e il suo contrario, che il determinismo elimina il caso e il contingente e che la pratica sociale della lode e del biasimo non sarebbe giustificata se il nostro agire non dipendesse da noi; qui la questione del determinismo si articola secondo vari campi del sapere: logico, metafisico, fisico ed etico. Dopo Aristotele deterministi ed indeterministi hanno ritenuto necessario dover prendere posizione in merito, dimostrandosi favorevoli o contrari.

Nel VI secolo d.C. Boezio, introducendo nel Secondo commento al De interpretatione una discussione sulla questione del determinismo scrive: «c'è una disputa tra i filosofi sulle cose che avvengono in dipendenza da cause, se

19 Cfr. Anthony Kenny, Aristotele's Theory of the Will, Yale University Press, 1979, pp. 7-8.

20 Mario De caro, Libero arbitrio. Storia di una controversia filosofica, Carocci editore, Perugia 2015, p. 40. Per l'elenco e il commento dei suddetti passi, cfr. ivi, pp. 41-54.

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tutte capitino necessariamente o se alcune siano per caso. E su questi punti c'è una grande lite tra gli Epicurei, gli Stoici e i nostri Peripatetici». Ma, se è vero che Aristotele presenta nelle sue opere una serie di argomenti antideterministici, il Peripato post-aristotelico sviluppa altri interessi, dedicandosi soprattutto a ricerche erudite, storiche, biografiche e letterarie; infatti tra gli scritti post-aristotelici si trova solo qualche accenno a questioni di determinismo. La scuola peripatetica ha cercato, comunque, di elaborare, a partire dai vaghi accenni di Aristotele, una dottrina aristotelica del destino e della provvidenza, senza però giungere a una posizione unitaria e coerente. L'interesse principale delle ricerche dei peripatetici sul destino consiste nelle loro critiche al determinismo e nel loro tentativo di ammettere il principio di causalità senza ammettere il determinismo.

La natura e i limiti del libero arbitrio umano, così come viene inteso dagli scolastici, si possono ricavare più facilmente, quasi in negativo, a partire dalle varie forme di determinismo che lo minacciano. In generale, la tendenza scolastica è quella di allinearsi alla strategia antideterministica con cui Aristotele cerca di salvaguardare lo spazio della deliberazione umana respingendo la tesi secondo cui gli eventi futuri sono già predeterminati dalle cause passate o presenti; Tommaso d'Aquino, ad esempio, respinge, in accordo con Aristotele, il fatalismo, inteso come determinismo astrale. Nell'epoca medioevale è raro trovare qualcosa che sfugga all'ordinamento divino. Non si dà qui neppure il limite della materia, perché anch'essa riceve il suo essere dalla causa prima. E, rispetto alla causa prima, se tutto è ordinato, nulla è accidentale – il che equivale a dire che tutto è sottoposto alla provvidenza, e la volontà umana non fa in questo caso eccezione. Ciò permette di prendere in

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considerazione il determinismo teologico.

Per quanto concerne il pensiero medievale «il ruolo che Dio svolge sulle azioni umane potrebbe essere considerato da due punti di vista: quello relativo alla prescienza, cioè al modo con cui Dio conosce le azioni umane (ovvero l'ambito dei futuri contingenti) e quello relativo alla provvidenza, con cui Dio governa il mondo disponendo l'ordine complessivo delle cause seconde»21. Ma se Dio

vede già davanti a sé tutte le cose, e le conosce in modo infallibile, non può esservi per gli uomini vera libertà di scelta; mentre se le cose possono effettivamente accadere in modo diverso da come sono state previste, Dio non ne ha scienza, ma soltanto una conoscenza probabile.22

Si è visto come nulla, neppure la volontà umana, sfugga all'ordinamento provvidenziale divino, rispetto al quale nulla risulta veramente accidentale. «Ciò non significa tuttavia annullare del tutto la contingenza e porre che tutto avvenga di necessità. Per il fato, si è già visto come ciò non avvenga, a motivo del margine di indeterminatezza assicurato da una parte dalla materia e dall'altra dall'agire libero degli enti razionali. Il caso della provvidenza, riconosce Tommaso nel suo Commento alla Metafisica, è più complicato. La provvidenza non può né ingannarsi né incontrare alcuna limitazione intrinseca o estrinseca, a differenza dei corpi celesti. È insomma impossibile che qualcosa sia disposto da Dio e non si verifichi, e questo sembra implicare che ogni effetto della provvidenza accada di necessità. Per Tommaso, tuttavia, dalla causa non dipende solo l'effetto, ma anche tutti gli accidenti e le proprietà che a esso ineriscono: per esempio, la natura non si limita a produrre l'uomo, ma l'uomo con la proprietà specifica di essere capace di ridere. Ora, Dio è causa

21 Mario De caro, Libero arbitrio. Storia di una controversia filosofica, cit., p. 195.

22 Per un chiarimento sommario in merito alla soluzione cfr. Mario De Caro, Libero arbitrio. Storia di una controversia filosofica, cit., pp. 196-200.

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dell'ente in quanto ente, ed è dunque causa anche degli accidenti che ineriscono all'ente in quanto ente, tra cui figurano anche le modalità, come necessità e contingenza. Alla provvidenza spetta dunque non solo produrre un ente, ma anche attribuirgli un determinato statuto modale, e questo è quanto la provvidenza ottiene predisponendo le cause intermedie, dalle quali un certo effetto conseguirà appunto in modo necessario o contingente. È dunque vero che ogni effetto sottoposto alla provvidenza divina possiede una necessità, ma sempre nella forma di una necessità ipotetica: se è stato disposto da Dio, allora accadrà (si aliquid est a Deo provisum, hoc erit)»23. La posizione di Tommaso,

inevitabilmente, suscita più di una reazione; ma, onde evitare di perdersi nei meandri del dibattito medievale, si segnala, sommariamente, esclusivamente la visione di Giovanni Duns Scoto, il quale rovescia la funzione concettuale dell'impedibilità delle cause e, radicalizzando il presupposto implicito del determinismo provvidenziale, cioè che anche l'interferenza delle cause risulta determinata dal punto di vista della causa prima, lo spinge fino al suo superamento: se anche le cause impedienti agiscono in virtù di una causa superiore, tutto dipende dal modo in cui agisce quest'ultima. Dunque, l'unico modo per salvaguardare la contingenza è concedere che la causa prima agisca non in modo necessario, ma in modo contingente e volontario.

Resta da considerare il cosiddetto determinismo psicologico, ovvero l'idea che la volontà, e di conseguenza il libero arbitrio, qualora esso venga collocato nella sfera dell'appetito razionale, sia in qualche modo necessitata dalle indicazioni dell'intelletto o della ragione, ovvero dall'oggetto esterno appreso dall'intelletto e proposto alla volontà come bene. Si potrebbe sostenere che dal

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punto di vista dell'esercizio dell'atto, la volontà è libera perché muove sé stessa: è vero che l'impulso primo, sotto il profilo ontologico, dipende da Dio, ma Dio mette in moto la volontà umana, la pone in essere, non come qualcosa di necessario, ma come qualcosa di libero, in grado di scegliere tra differenti beni particolari.

«Disse l'obiettore: è evidente dal senso esteriore del testo biblico che la prima intenzione nel creare l'uomo era che, come il resto degli animali, egli non avesse intelletto né pensiero, e non distinguesse tra il bene e il male; ma, giacché si ribellò, il suo peccato gli impose questa grande perfezione, propria dell'uomo, ossia quella di avere questo discernimento che esiste in noi, il quale è la più nobile delle cose che possediamo e costituisce la nostra sostanza. Ma questo è strano: la punizione per il suo peccato consisterebbe nella concessione di una perfezione che prima non aveva, ossia l'intelletto. È come chi dice che un individuo, essendosi ribellato e avendo esagerato nel fare il male, venne trasformato in stella e posto in cielo»24. Il paradosso di Maimonide,

espresso con le parole dell'obiettore, assume un significato rilevante grazie alle parole di Schelling qualche secolo più tardi; è in definitiva la positività del male, ovvero il suo essere un'opzione concretamente disponibile, a rendere effettiva e non solo formale la libertà.

La Riforma protestante frantuma la tranquilla coscienza con cui, avendo alle spalle quattordici anni di filosofia patristica e scolastica, il cristiano poteva conciliare il libero arbitrio e la grazia divina. «All'atteggiamento accomodante con cui Erasmo nello scritto Sul libero arbitrio (1524) aveva fatto un estremo tentativo per comporre la questione Lutero risponde l'anno dopo con la rigorosa

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consequenzialità del De servo arbitrio: “la prescienza e l'onnipotenza di Dio sono diametralmente opposte al nostro libero arbitrio e distruggono dalle fondamenta la dottrina che lo sostiene”»25. La Chiesa romana affida ai Gesuiti

la controffensiva culturale, con l'intento di restituire la piena libertà all'uomo e il conseguente riconoscimento del valore delle opere che la dottrina della grazia luterana nega. Sul piano filosofico, invece, al determinismo dei concetti teologici di grazia e di predestinazione occorre opporre quello della contingenza del volere umano; l'obiettivo è quello di riconoscere la piena autonomia della volontà dell'intelletto. Contrariamente alla tradizione razionalistica scolastica, che assoggetta alla volontà la finalità di agire in conformità dell'intelletto, si sviluppa un nuovo spazio che promuove una concezione in base alla quale la volontà esprime un potere di determinazione assoluta, anche in assenza di motivazione razionale.

Cartesio dichiara: «ho voluto evitare, per quanto possibile, le controversie della teologia e mi sono mantenuto entro i limiti della filosofia naturale26. Infatti

accordare il libero arbitrio umano con gli ordinamenti della provvidenza divina comporta difficoltà grandissime, che possono essere eluse soltanto riconoscendo che l'intelletto finito dell'uomo non è in grado di cogliere l'infinitezza dell'onnipotenza di Dio»27. In Meditazioni metafisiche. Risposte alle

quinte obbiezioni egli riconosce alla volontà un potere assoluto di azione, cioè la libertà di indirizzarsi in un senso o nell'altro senza attendere la determinazione dell'intelletto. Nel proseguo dell'opera Cartesio propone una diversa valutazione dell'arbitrio di indifferenza, che conduce a distinguere

25 Mario De caro, Libero arbitrio. Storia di una controversia filosofica, cit., p. 261. 26 Lettera a Mesland del 2 maggio 1644, in Descartes, 1964-74, p.117.

27 René Descartes, Principia Philosophie, Amsterdam 1644, trad. it. a cura di E. Garin, Opere filosofiche, Vol. 3, I principi della filosofia, Laterza, Roma 2005, pp. 41-42.

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nettamente la libertà di Dio da quella dell'uomo. Pierre Gassendi, razionalista radicale, dialogando con Cartesio, sostiene che: «omnis peccator est ignorans, poiché la volontà è sempre determinata dall'intelletto, chi sbaglia o si comporta male lo fa perché difetta di conoscenza, e lo stesso mutamento di giudizio non è motivato dall'incertezza della volontà ma dal prevalere di un giudizio più chiaro su uno più oscuro»28.

Non è sicuramente questa la sede in cui prendere in esame il pensiero e la filosofia cartesiana, ma non si può prescindere dalla trattazione, seppur per sommi capi, dei contributi che egli fornisce allo sviluppo del dibattito sulla libertà nel mondo moderno. Non del tutto consapevolmente Cartesio sposta il problema della libertà dalla sfera antropologica a quella metafisica. La questione è infatti connessa al famoso dualismo ontologico tra res cogitans e res extensa, uno dei capisaldi della metafisica cartesiana. Sebbene Cartesio non rinunci al tentativo di dimostrare razionalmente la libertà umana, attraverso l'analisi del rapporto volontà-intelletto, una delle prove più convincenti del libero arbitrio consiste nell'immediata esperienza interiore – aprendo così la strada allo spiritualismo contemporaneo -: «la libertà è una delle nostre nozioni più comuni, della quale siamo talmente certi che non vi è nulla che conosciamo più chiaramente. Sarebbe infatti un errore dubitare di ciò che percepiamo interiormente e che sappiamo essere in noi»29.

Citando Massimo Mori possiamo domandarci anche noi se una libertà chiusa nella turris eburnea dell'anima può condurre a una libera azione nel mondo delle cose?30

28 Pierre Gassendi 1962, in Meditationem IV, pp.436-457.

29 E. Garin, Opere filosofiche, Vol. 3, I principi della filosofia, cit., pp. 39-41.

30 Massimo Mori, Gli spiriti e le macchine. Il determinismo moderno, in Libero arbitrio. Storia di una controversia filosofica, cit., p. 268.

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Al pari di Cartesio, altri grandi autori della filosofia del Seicento discutono del problema della libertà, nell'ambito della teoria delle facoltà umane, basandosi sul rapporto volontà-intelletto; essi però non possono prescindere dal dualismo metafisico cartesiano. Le diverse soluzioni proposte al problema della libertà, che tendenzialmente propendono per il determinismo piuttosto che per l'indifferentismo cartesiano, motivate spesso con inferenze tecniche relativamente alla volontà e alle sue funzioni, si accompagnano quindi di solito a una critica, esplicita o implicita, del dualismo. Ciò avviene in diversi modi: Hobbes nega semplicemente uno dei due termini dell'alternativa, riconducendo l'attività del pensiero alla sostanza corporea, e ogni realtà a corpo; Leibniz tenta di salvare una sorta di dualismo tra anima e corpo, ma nega che esso si fonda su due sostanze qualitativamente diverse; Spinoza, invece, risolve il dualismo cartesiano in un monismo metafisico, in modo che le due sostanze riconosciute da Cartesio si riducano a due attributi di un'unica sostanza infinita. Durante il Settecento il meccanicismo cartesiano è parzialmente integrato da un materialismo organicistico; le funzioni del corpo sono determinate, anche e soprattutto, dal cervello, cioè da una connessione sistematica generale in cui le parti sono considerate nella loro indissolubile appartenenza a una totalità indivisa. In questo modo, sostiene La Mettrie, il pensiero non viene ricondotto alla semplice attività meccanica del corpo, ma può configurarsi come una funzione superiore nella quale confluiscono anche le valutazioni etiche e i processi deliberativi; «l'organizzazione fisiologica e cerebrale dell'uomo fa sì che la volontà sia necessariamente determinata a desiderare e ricercare ciò che può costituire un vantaggio reale per l'anima e per il corpo. L'azione meccanica più elementare – voltare a destra o a sinistra – così come le più

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drammatiche scelte etiche dipendono da essa, senza lasciare alcun spazio al libero arbitrio. Siamo trascinati da un determinismo assolutamente necessario, e non ne vogliamo essere schiavi. Quanto siamo pazzi! E pazzi tanto più disgraziati in quanto ci rimproveriamo continuamente di non aver fatto ciò che non era in nostro potere di fare!»31. Le tesi deterministiche, nettamente

prevalenti nel Seicento, diventano così parte integrante della cultura filosofica illuministica, tanto che L'Enciclopedia, con l'articolo Liberté, redatto da Diderot, le diffonde su vasta scala. Ciò non implica tuttavia l'abbandono del libero arbitrio. Uno dei contributi più significativi in proposito ci viene proposto da Samuel Clarke, che riprende i tradizionali argomenti a favore della libertà di indifferenza e dell'assoluta spontaneità della volontà32. Un altro contributo

rilevante è fornito da Leibniz il quale, nonostante sviluppi contro il principio di indifferenza la tesi, espressamente deterministica, - secondo cui se la volontà è completamente indifferente verrebbe a mancare un effettivo elemento di causazione e nessuna azione verrebbe mai intrapresa, poiché non ci sarebbe alcuna ragione sufficiente a produrla - si presenta come difensore della libertà, tanto da usare in senso positivo l'espressione “libero arbitrio”. La spontaneità leibniziana sarebbe quindi espressione della libertà nella misura in cui escluderebbe qualsiasi determinazione esterna, ma continua a presupporre la completa determinazione interna33. Questo concetto di “spontaneità” rischia di

corrispondere a un'idea solo apparente di libertà già chiara a Kant, che la assimila alla «libertà di un girarrosto, dato che anch'esso, una volta caricato, fa da sé i propri movimenti»34.

31 La Mettrie, Antiseneca, ovvero discorso sulla felicità, 1978, p.330. 32 Per approfondire il pensiero di Clarke cfr. 1738.

33 Per una migliore comprensione cfr la teoria delle monadi di Leibniz. 34 I. Kant, Critica della ragion pratica, A 174, Laterza, Bari 1970, p. 241.

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Finora il determinismo ha obbedito rigorosamente al modello del meccanicismo; l'ipotesi della monade di Leibniz, anche se assume per lo stesso autore un valore quasi esclusivamente metaforico, prospetta invece l'ossimoro dell'automa spirituale e, lo stesso richiamo giunge, analogamente, su base empirica, dalle riflessioni sulla libertà condotte da John Locke e da David Hume. La vecchia tradizione classica della volontà come appetitus rationalis e della libertà come soggezione della volontà all'intelletto, che ha impedito a Cartesio di procedere sulla strada della libertà di indifferenza, impedisce anche a Locke di abbracciare una soluzione opposta a quello che viene definito come il suo determinismo psicologico. Anche il pensiero di Hume si può ascrivere al medesimo determinismo psicologico, che sta alla base di una delle più diffuse posizioni nel dibattito contemporaneo sul libero arbitrio: la tesi compatibilista – per cui il determinismo pratico è compatibile con la libertà umana; e di cui ci si occuperà più avanti -. Se Hume costituisce ancora oggi la pietra miliare dei compatibilisti, l'opera Saggi sui poteri attivi della mente umana del 1788 di Thomas Reid rappresenta il modello dei libertarians; egli difende l'esistenza di una causalità specifica degli esseri razionali, l'agent causation, in base alla quale essi sono in grado di cominciare una nuova serie causale senza essere a loro volta determinati da una causa precedente.

Come si è visto, nell'antichità e nel medioevo, fino poi alle discussioni rinascimentali, ma anche oltre, la tematica del libero arbitrio viene dibattuta in opposizione all'onniscenza e all'onnipotenza di Dio; il problema è la libertà dell'uomo di fronte a Dio. Questo è il cosiddetto determinismo teologico. A partire dalla rivoluzione scientifica il problema del libero arbitrio si pone in relazione alla determinazione secondo le leggi di natura; e si ricordi che è Kant

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che ha impostato in maniera paradigmatica la questione del rapporto fra libertà e determinismo causale: «non c'è libertà alcuna ma tutto nel mondo accade esclusivamente in base a leggi di natura. Ammettiamo che non si dia alcun'altra causalità tranne quella in base a leggi di natura; in questo caso tutto ciò che accade implica uno stato precedente, a cui fa seguito infallibilmente secondo una regola. Ma lo stato precedente deve, a sua volta, essere alcunché di accaduto. […] Cioè la causalità della causa per cui qualcosa avviene è a sua volta alcunché di accaduto, il quale, in base alle leggi della natura, implica a sua volta uno stato antecedente alla sua causalità; questo, ancora un volta ne presuppone un altro ancor più remoto, e così via. Nel caso, dunque, che tutto accada in base a leggi di natura, non vi sarà altro che un inizio subalterno, mai un inizio primo»35. Sostiene Filippo Magni che il quadro

nel quale la discussione sul libero arbitrio si presenta oggi non è cambiato rispetto all'impostazione kantiana. Il contrasto odierno si articola tra la struttura nomologica deterministica della realtà naturale e la credenza comune nella nostra libertà.36

La letteratura filosofica, per quanto riguarda il libero arbitrio, è ricca di formulazioni deterministiche, e ciò complica – non poco – la situazione.

Ma cosa si intende ora per “determinismo”?

Indicando un senso generale dell'espressione, e utilizzando le parole di De Caro, ogni evento è determinato dal verificarsi di condizioni sufficienti per il suo accadere; e in base all'interpretazione che viene fornita a queste condizioni sufficienti il determinismo può assumere svariate forme: «può essere inteso come determinismo teologico, in cui le condizioni sufficienti sono i disegni

35 I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p.382.

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divini, come determinismo logico, in cui le condizioni sufficienti sono costituite dalla verità di alcuni enunciati e dalle leggi della logica, come determinismo causale, in cui le condizioni sufficienti sono interpretate come cause, ma può essere inteso anche come determinismo fisico o come fatalismo»37. Quindi,

basandosi sulla formalizzazione della logica modale, il determinismo lo si può definire ∀B, ∃A Nec (A → B), ovvero un evento B è determinato se e solo se esiste un evento A, tale che necessariamente se si verifica A, allora si verifica B.

Il determinismo causale sostiene che un evento B è un effetto di altri eventi antecedenti A che lo necessitano, essendone cause sufficienti; questo, secondo la teoria regolarista, per cui ciò che è alla base della relazione causale è la successione regolare fra due tipi di eventi; ed è in base a questa successione regolare che viene giustificata la relazione di necessità fra la causa e l'effetto. Tuttavia, cosa si debba intendere per causalità è un problema ancora irrisolto per la filosofia contemporanea. Infatti non esiste solamente una teoria della causalità; all'ipotesi regolarista, di cui sopra, il pensiero occidentale e Novecentesco contrappone la visione singolarista - eventi singoli possono essere connessi in una relazione causale senza che essa sia necessariamente manifestazione di alcuna successione regolare - e la visione statistico-probabilistica, in cui la presenza della causa non determina, nella relazione causale, con certezza l'effetto, ma ne aumenta solo la probabilità di occorrenza.

Peter Van Inwagen, cerca di evitare che una discussione sul determinismo comporti anche una discussione sulla causazione e separa il determinismo dal

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cosiddetto principio della causazione universale, tesi in base alla quale ogni evento ha una causa. In base alla sua formulazione, dunque, il determinismo fisico corrisponde a Nec ((A ∧ L) → B) cioè uno stato del mondo, B, all'istante t1 segue necessariamente dallo stato del mondo A, all'istante antecedente t0, in connessione con le leggi di natura, L. Il determinismo di Inwagen corrisponde alla tesi secondo cui a ogni istante c'è esattamente un solo futuro fisicamente possibile; inoltre il principio della causazione universale non sarebbe una buona formulazione del determinismo. Esso, infatti, non esclude che causa dell'evento possa essere una causazione interna all'agente, libero da precedenti catene causali, e nemmeno che la causa possa non necessitare, ma solo produrre un effetto e quindi fornire un'interpretazione non deterministica della nozione di causa.

Nel tentativo di precisare cos'è il determinismo, bisogna prendere in esame anche il concetto di “fatalismo”, che, a sua volta, si sviluppa come determinismo logico e come inevitabilismo. Riferendosi al noto esempio aristotelico, poiché per la legge logica della bivalenza ogni proposizione, anche quella concernente eventi futuri, deve essere vera o falsa, allora se oggi è vero che “domani accadrà una battaglia navale”, domani accadrà una battaglia navale. Qui il fatalismo è presentato come determinismo logico. Alla stessa conclusione si può giungere mediante l'inevitabilismo, in base al quale ciò che accadrà è inevitabile; lo stesso Van Inwagen afferma: «credere che il futuro sarebbe nel modo in cui di fatto sarà, anche se noi scegliessimo di comportarci differentemente e senza importanza del come noi sceglieremmo di comportarci. Sostenere questa tesi è semplicemente negare la realtà della

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causa e dell'effetto»38. Già nel 1912 Moore dice: «qualunque cosa si voglia, il

risultato sarà sempre lo stesso, e dunque è sempre inutile desiderare in un modo piuttosto che in un altro»39; così inteso, il fatalismo, coincide con

l'inevitabilismo. «Sia il determinismo fisico sia il determinismo causale consentono, invece, di affermare che le nostre azioni, in quanto esse stesse stati del mondo oppure cause o effetti di cause, hanno conseguenza nel futuro, che sono a loro volta modificabili attraverso la modificazione degli stati del mondo da cui dipendono o delle cause da cui sono necessitate. Come aveva già notato Hobbes, per un determinista, questa inferenza, se l'effetto dovrà necessariamente accadere, allora accadrà a prescindere dalle sue cause, è falsa. Il determinismo ammette, così, la deliberazione su futuri corsi di azione: cause o leggi di natura non sono il fato.

Il determinismo è una tesi di carattere ontologico, riguardante, cioè, come le cose sono effettivamente nel mondo. Tuttavia, nella formulazione del determinismo la prospettiva ontologica viene spesso messa in relazione con una tesi di carattere epistemologico, riguardante la conoscibilità delle cose nel mondo. […] È tuttavia preferibile tenere distinte le due tesi; non necessariamente la prevedibilità e la conoscibilità vanno insieme al determinismo. Questo, come a volte viene sostenuto, sia per la costitutiva limitatezza delle capacità conoscitive dell'uomo, la quale potrebbe lasciare imprevedibili gli stati futuri anche se completamente determinati, sia perché una tale connessione non è valida se si intende il determinismo come determinismo causale e si assume l'interpretazione probabilistica della nozione di causa. […] Determinismo ontologico e determinismo epistemologico sono

38 Peter van Inwagen, An Essay on Free Will, Oxford University Press, Oxford 1983 pp.27 ss.

39 George Edward Moore, Ethics, London, Oxford University Press, London 1912, trad. it. Maria Vittoria Predaval Magrini, Etica, Franco Angeli editore, Milano 1982, p. 123.

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due teorie distinte.

Così come si sono enunciate, le formulazioni del determinismo descrivono per lo più forme di determinismo di carattere universale, le quali attribuiscono necessità a tutti gli eventi del mondo, sia naturale sia umano: così è ad esempio il determinismo teologico, il fatalismo e buona parte delle interpretazioni del determinismo causale e fisico. Tuttavia si possono individuare anche forme di determinismo di carattere locale, che limitano l'attribuzione di necessità soltanto a eventi appartenenti a campi o ambiti particolari: si può così parlare di un determinismo storico, sociale o economico, oppure di un determinismo mentale o psicologico. Trattando di libero arbitrio ciò che è in discussione è solo un settore specifico del determinismo, il determinismo psicologico, valido cioè nell'ambito della mente e del cervello umani, non essendo necessario presupporre un determinismo di carattere universale. Si potrebbe ad esempio accettare che a livello subatomico sia la fisica stessa a mostrare la non validità del determinismo, e insieme sostenere una forma di determinismo a livello psicologico, proprio perché è diversa la scala di grandezza nella quale si pongono i due fenomeni. Ciò che vale nella scala di grandezza dell'elettrone può non valere nella scale di grandezza del cervello umano»40.

A parere dei compatibilisti le confusioni – come le chiama Davidson – inducono a scambiare gli innocui effetti della causazione deterministica con i casi in cui la libertà è effettivamente assente. Scrive Mario De Caro, che almeno quattro di esse meritano di essere ricordate:

- una prima fonte di confusione è rappresentata da una tendenza

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naturale ad antropomorfizzare le leggi di natura, quasi che, nota Dennett, le leggi naturali fossero agenti malvagi ansiosi di controllarci. Ma, ovviamente, le leggi non sono agenti, non hanno volontà o desideri, e quindi non possono esercitare alcun controllo su di noi; pertanto per Dennett il determinismo non dovrebbe essere percepito come una minaccia

- in secondo luogo, si presenta il problema teologico del libero arbitrio; esso nasce perché la preveggenza e la provvidenza divine sono percepite come un'oscura minaccia gravante su di noi, e spesso si considera il determinismo come la versione secolare di quegli attributi divini. Tuttavia, il determinismo è una tesi empirica riguardante il carattere regolare delle leggi di natura. Secondo molti studiosi, tra cui Honderich e Bishop, alla luce delle nostre conoscenza attuali si può affermare che la tesi deterministica è approssimativamente vera e che eventi macroscopici, e le nostre azioni in particolare, si possono considerare quasi determinati. In nessun modo, però, il determinismo causale richiama le prerogative divine

- altro elemento turbante, sottolineano i compatibilisti, è la tipica confusione tra necessitazione causale e necessità logica; gli eventi non accadono di necessità per il mero fatto di essere effetti di cause deterministiche, al contrario, essi accadono condizionatamente in quanto sono dati il passato e le leggi di natura, dunque il loro accadere è necessitato ma non necessario. Ecco perché il determinismo causale non è incompatibile con la libertà

- infine, se fosse vero che le leggi di natura, al pari di quelle giuridiche, costringono gli agenti ad agire in un certo modo, la libertà sarebbe impossibile: la costrizione, infatti, è l'opposto della libertà. Ma le leggi di natura si limitano a

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rappresentare l'immutabile regolarità con cui certi fenomeni succedono ad altri.41

3. Indeterminismo

Il tentativo di calare la libertà in un contesto in cui non può esservi determinazione genera enormi difficoltà. Il primo nucleo di teorie della libertà è l'incompatibilismo libertario, o semplicemente libertarismo; naturalmente il significato del termine libertarismo assume in questo contesto una connotazione differente rispetto al contesto filosofico politico. La tesi cardine delle teorie libertarie dimostra che la libertà è possibile soltanto in un contesto indeterministico; l'indeterminismo, in quanto lascia il futuro costitutivamente aperto, sembrerebbe rappresentare l'ambiente naturale della libertà. Si può, inoltre, parlare di vari tipi di indeterminismo: antropologico, biologico, ontologico, radicale e causale.

Per quanto riguarda l'indeterminismo antropologico, esso coincide con l'ammissione del libero arbitrio umano, ovvero con la possibilità di autodeterminarsi. Il problema si è posto già con Spinoza, il quale sostiene che il libero arbitrio è messo radicalmente fuori causa dal suo panteismo deterministico. Storicamente la libertà umana è vista in maniera incondizionata, come autodeterminazione, autocausalità e assenza di vincoli all'azione, e in maniera condizionata, come possibilità di scelta d'azione, ma con i limiti imposti dal contesto. La prima forma di libertà è tipica del mondo

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antico e ha il suo primo sostenitore in Aristotele, nell'Etica Nicomachea, il quale precisa, infatti, che l'uomo è il principio dei suoi atti; anche Epicuro e Lucrezio sono di quest'idea e in De Rerum Natura emerge che il volere è il principio della libertà d'azione, mentre Cicerone nel De Fato vede la libertà dell'uomo in quanto tale, per sua stessa natura. Il concetto di libertà condizionata prevale, invece, nella modernità ed è esposto chiaramente da Locke, il quale, nel Saggio sull'intelligenza umana, vede la libertà umana come la possibilità della scelta; la medesima tesi è poi riproposta da Martin Heidegger in Essere e Tempo, in cui la trascendenza dell'uomo rispetto al mondo è contemporaneamente libertà d'azione e limitazione della libertà stessa.

Il premio Nobel Jacques Monod si occupa dell'indeterminismo biologico, in particolare delle mutazioni genetiche, peraltro già implicito in Darwin, e con il saggio Il caso e la necessità ribadisce che: «Le alterazioni nel DNA sono accidentali, avvengono a caso. E, poiché esse rappresentano la sola fonte possibile di modificazione del testo genetico, a sua volta unico depositario delle strutture ereditarie dell'organismo, ne consegue necessariamente che soltanto il caso è all'origine di ogni novità, di ogni creazione nella biosfera. Il caso puro, il solo caso, la libertà assoluta, sta alla radice stessa del prodigioso edificio dell'evoluzione: oggi questa nozione centrale della biologia non è più un'ipotesi fra le molte possibili o perlomeno concepibili, ma è la sola concepibile in quanto è l'unica compatibile con la realtà quale ce la mostrano l'osservazione e l'esperienza»42. In sintesi, è qui e ora che l'agente, in quanto libero, può

compiere una scelta o un'azione diversa da quella che di fatto compirà.

L'indeterminismo ontologico ammette, invece, l'esistenza della contingenza

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quale fattore di causalità nel divenire della materia; si oppone quindi al determinismo che pretende una rigida concatenazione necessaria tra cause ed effetti. Alla credenza nel dominio assoluto della necessità teorizzata dal determinismo, esso, nega la cogenza assoluta nel divenire della materia. Il problema dell'indeterminismo, riproposto con la meccanica quantistica grazie al principio di indeterminazione di Heisenberg del 1927, deriva dalla duplice natura corpuscolare-ondulatoria delle particelle, cioè dal fatto che le particelle subatomiche esistono sia come realtà corpuscolari, con una massa, e sia come onde. In base al menzionato principio di indeterminazione, non è possibile conoscere contemporaneamente i valori di posizione e quantità di moto, quindi il tempo, delle particelle subatomiche; questo perché la quantità di moto è definita come il prodotto della massa dell'oggetto per la sua velocità, quindi se non si conosce la velocità non si conosce nemmeno il tempo. Esso stabilisce, infatti, i limiti nella conoscenza e i limiti nella determinazione dei valori che grandezze fisiche coniugate assumono contemporaneamente in un sistema fisico.43 Nella sua forma più nota tutto ciò viene espresso dalla relazione: ∆x∆p

≥ ћ/2 in cui ∆x è l'incertezza sulla posizione e ∆p quella sulla quantità di moto, quindi il tempo, mentre ћ è la costante di Planck ridotta44. Il mondo potrebbe

sembrare deterministico, ma questo è dovuto esclusivamente al fatto che ћ/2 è una costante piccolissima. Inoltre, tali particelle, possono essere descritte come energia, cioè in forma di onda; non come una singola onda, bensì come un insieme di onde sito in una certa zona dell’atomo, dunque - dato che questo insieme è descrivibile soltanto mediante una funzione, e quindi esclusivamente

43 Quanto si evince dalla lettura di queste pagine è maturato da una serie di incontri svoltisi con due amici laureati in ingegneria e in fisica, rispettivamente il Dott. Giorgio Marchina e il Dott. Marco Monaci, che ringrazio vivamente per la fruttuosa collaborazione.

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come infinite onde di diversa lunghezza - l’infinità della funzione comporta un'indeterminazione circa la quantità di moto della particella. Questa imprevedibilità della materia si riflette di conseguenza sull'indeterminabilità del cosmo stesso. Il premio Nobel Murray Gell-Mann scrive: «Se non siamo in grado di fare previsioni sul comportamento di un nucleo atomico, immaginiamo quanto più fondamentalmente imprevedibile sia il comportamento dell’intero universo, anche disponendo della teoria unificata delle particelle elementari e conoscendo la condizione iniziale dell’universo stesso. Al di sopra e al di là di quei principi presumibilmente semplici, ogni storia alternativa dell’universo dipende dai risultati di un numero inconcepibilmente grande di eventi accidentali»45. Il principio di Heisenberg ha forti implicazioni sulla filosofia della

scienza e sul dibattito epistemologico del XX secolo, sancendo l'impossibilità, da parte della scienza, di pervenire ad una conoscenza della realtà fisica completa o totale, ovvero pienamente deterministica, aprendo definitivamente la strada all'incertezza e all'indeterminazione; esso rappresenta, dunque, la fine della visione deterministica espressa da Laplace nel contesto della fisica classica e, assieme ad altri principi della meccanica quantistica, sancisce la nascita della fisica moderna.

Altre due varianti del concetto di “indeterminismo” sono, come già accennato in precedenza, l'indeterminismo radicale, detto anche semplice o non causale, e l'indeterminismo causale. Il primo è caratterizzato da una tesi molto semplice: per spiegare la natura della libertà è sufficiente presupporre che le azioni libere sono connesse agli agenti che le compiono mediante un nesso di carattere indeterministico, ma non causale46; mentre il secondo tenta di

45 M. Gell-Mann, Il quark e il giaguaro, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 160.

46 Per un approfondimento sull'indeterminismo radicale, cfr. Mario De Caro, Il libero arbitrio. Una introduzione, cit., pp. 39-44.

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