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Improcedibilità ratione temporis: tentativi di ricomporre a sistema la teratologia processuale

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Academic year: 2022

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Adolfo Scalfati

Professore ordinario di Procedura penale – Università di Roma Tor Vergata

Improcedibilità ratione temporis: tentativi di ricomporre a sistema la teratologia processuale

1) Prologo

Il quadro generale delle nuove regole manifesta i due punti di sutura:

sospensione/cessazione della prescrizione del reato con la sentenza di primo grado e autonoma scansione temporale stabilita per le fasi d’impugnazione, prorogabili in diversa misura, il cui superamento genera improcedibilità: due cronometri dotati di distinti criteri di computo e morfologia (estinzione del reato – improcedibilità) che influiscono, direttamente o indirettamente, sulla durata del procedimento penale. La diversità delle situazioni giuridiche (estinzione del reato e arresto del processo) non permette facili equiparazioni o assimilazioni di principi sinora formulati con riguardo ai rapporti tra prescrizione del reato e giudizio penale.

In via pregiudiziale, va misurata la ragionevolezza della disciplina, così com’è stata ricomposta in ordine alla modulazione dei tempi giudiziari; la qual cosa richiederà di interrogarsi, sia sull’effettività delle previsioni a garantire tempi congrui al processo, sia sulla loro proporzionalità rispetto ad altri parametri costituzionali che impongono la recessione della ragionevole durata nella dinamica del bilanciamento dei valori.

2) Dubbi di ragionevolezza : profili di sintesi

In più punti la disciplina – e senza esaminare nel dettaglio ogni previsione – meriterebbe correttivi per evitare cadute sul versante costituzionale; ed ecco i nodi critici di natura più generale

- A) L’esistenza di un doppio criterio temporale (indagini preliminari, udienza, giudizio, dal un lato, impugnazioni, dall’altro) determina l’ampliamento cronologico a dismisura del procedimento di primo grado (si può spendere l’intero termine prescrizionale) e la contrazione delle fasi impugnatorie, con il rischio, nel complesso, di estendere i tempi giudiziari.

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- B) La presenza di procedimenti per taluni reati che possono durare sine die (tramite proroghe), una volta valicato il primo grado entro il termine di prescrizione, costituisce ampliamento temporale privo di certezza finale, con effetti perversi sulla prevedibilità cronometrica processuale e sulla proporzionalità della scelta rispetto ai contrapposti valori in gioco; senza considerare la ragionevolezza dell’inserimento nella lista di taluni reati anziché di altri.

- C) Si affidano al giudice scelte di politica criminale (prorogare e di quanto), articolate sulla notevole elasticità dei parametri che permettono il differimento;

emerge uno scarso tasso di legalità della disciplina se solo la si raffronta con la determinatezza delle ipotesi che generano la sospensione o l’interruzione della prescrizione del reato la cui durata pur si riflette indirettamente sui tempi giudiziari. Qui sarebbe inutile invocare una pretesa ragionevolezza della disciplina improntata a vacuo standard di determinatezza confrontandola con le fattispecie processuali basate su requisiti pressoché analoghi (es., proroga delle indagini preliminari o prolungamento dei termini cautelari): queste riguardano situazioni endo-procedimentali e non precludono la pronuncia sull’imputazione, come accade per l’improcedibilità; il tertium comparationis non reggerebbe.

- D) Il combinato disposto degli artt 344 bis e 161 bis c.p. impone la ripresa del decorso della prescrizione nel caso di annullamento con rinvio al primo grado senza apporre alcun limite cronologico massimo agli eventuali giudizi d’impugnazione successivi, considerando il tempo già trascorso; parimenti, spicca il nuovo decorso dei termini nel caso di annullamento con rinvio al giudice d’appello in assenza di un limite temporale complessivo. Si tratta di situazioni sulle quali il legislatore dovrebbe intervenire per scongiurare procedure giudiziarie irragionevolmente lunghe.

- E) La disciplina così concepita determinerà un effetto perverso: i reati meno gravi otterranno corsie più veloci, posto che per gli altri si potrà sfruttare un tempo più lungo, tra l’intera durata della prescrizione in primo grado e la prorogabile dilazione temporale nei giudizi di gravame; fenomeno che rappresenta l’obbiettivo opposto a quello sinora perseguito dalle discipline relative alla priorità nella trattazione dei processi e nell’esercizio dell’azione.

Stando così le cose, non è ragionevole che l’imputato di reati più gravi è inesorabilmente destinato a subire un processo più lungo rispetto alla corsia preferenziale alla quale è soggetto l’imputato di reati meno gravi; il tema controverso è la durata del processo e non l’oblio della punibilità (la prescrizione) che matura proporzionalmente alla gravità della pena.

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F) Il trattamento della parte civile che ha ottenuto una condanna in primo grado la cui richiesta risarcitoria, a seguito d’improcedibilità, è rimessa al giudice d’appello competente presenta una dubbia soluzione (art. 578 comma 1 bis) e potrebbe comprimere irragionevolmente, malgrado il ruolo accessorio, il suo diritto ad ottenere una pronuncia sulla domanda.

G) Atteso che l’improcedibilità tronca ogni decisione diversa, si è ipotizzata la violazione dell’art. 112 Cost., anche sul piano della diseguaglianza di trattamento tra imputati dinanzi al dovere di pronuncia sull’imputazione, in ragione dei tempi diversificati di soluzione; è una conclusione che tendo ad escludere – quantomeno sul terreno dell’art. 112 Cost. - per quanto si dirà più avanti sulla figura dell’improcedibilità nelle impugnazioni

- H) E’ stata ipotizzata la violazione dell’art. 101 Cost. quanto alla compressione del potere del giudice di emettere una decisione di merito: tuttavia, anche tale prerogativa non è incondizionata; non lo era dinanzi alla prescrizione dove, ad eccezione dell’art. 129 comma 2 c.p.p., mancava una vera e propria decisione di merito. Peraltro, la situazione è già presente nel non doversi procedere per segreto di Stato secondo una disciplina che tende a bilanciare l’esigenza dell’accertamento con la salus rei pubblicae o nell’improcedibilità per inconsapevole partecipazione dell’imputato, dove prevale il diritto alla difesa.

E così, non appare di per sé irragionevole un contemperamento tra le esigenze sottese all’art. 101 Cost con quelle della durata del processo (111, comma 2 Cost.)

3) Natura sostanziale o processuale

Sul piano eminentemente astratto, è difficile ipotizzare che si tratti di un istituto di matrice sostanziale: le scelte di fondo del legislatore sulla cessazione della prescrizione con la sentenza di primo grado, la collocazione normativa dell’istituto tra le condizioni di procedibilità, la nomenclatura impiegata dai compilatori, l’influenza diretta sulla prosecuzione dei giudizi d’impugnazione costituiscono elementi per ben sostenere che si è dinanzi ad una figura processuale.

Tuttavia, la linea di demarcazione tra regola sostanziale e processuale non è sempre così lineare, considerata l’esistenza di figure a metà strada (per esempio, la querela) che influiscono in ogni caso sulla punibilità latu sensu intesa; anche il decorso del tempo genera effetti sulla punibilità quando paralizza per sempre il processo. Questi lineamenti anfibi, escludendo che la nuova improcedibilità sia inequivocamente riconducibile alle regole relative al reato e alla pena, non impongono che la disciplina debba avere carattere

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retroattivo (art. 2 c.p.), trattandosi di figura che incide primariamente sul processo e solo indirettamente sulla punibilità concreta. Occorre, nondimeno, stante la innegabile “natura mista” della nuova figura, una disciplina transitoria che risponda ai canoni della ragionevolezza e della proporzione; la retroattività della disposizione più favorevole, principio non esplicito dell’art. 25 comma 2 Cost. ma piuttosto riconducibile all’art. 3 della Carta fondamentale, è frutto di accurata comparazione con altri valori di pari rango. Del resto, la prospettazione di un dies a quo per l’efficacia della nuova improcedibilità (1 gennaio 2020) e l’esistenza di un regime transitorio – che pure avrebbe bisogno di qualche ritocco chiarificatore – appaiono frutto, a grandi linee, di un equilibrato coordinamento con la disciplina che sospende la prescrizione per i reati commessi prima del 1 gennaio 2020.

A diversa soluzione, dunque concludendo a favore dell’irretroattività, bisogna pervenire per il sopraggiungere di una lex pejor avente ad oggetto regole penali di “natura mista”, come l’introduzione eventuale di nuove ipotesi di reato tra quelle che permettono alle impugnazioni di durare più a lungo: qui l’imputato sarebbe investito da un diverso regime normativo che influenza indirettamente i tempi della punibilità concreta e subirebbe, sotto tale profilo, un trattamento deteriore rispetto alla medesima situazione vigente prima dell’entrata in vigore della legge integratrice; un quadro comparativo di tale soluzione è fornito dalla irretroattività (rispetto al momento del fatto) attribuibile alla legge che trasformi la procedibilità a querela in procedibilità d’ufficio per un determinato reato.

Nel caso specifico, l’esigenza di introdurre un nuovo e più lungo tempo di definizione giudiziale eventualmente manifestata dal legislatore dovrebbe indietreggiare dinanzi al principio di prevedibilità delle conseguenze sulla concreta punibilità vigente al momento del fatto, evitando l’adozione ai procedimenti in corso sulla base della cieca applicabilità del tempus regit actum.

4) Si tratta di improcedibilità sopravvenuta dell’azione penale ?

Considerata l’espressione usata dall’art. 344 bis comma 1 c.p.p., secondo cui il decorso del tempo costituisce una causa di improcedibilità dell’azione penale, occorre prima interrogarsi sulla disomogenea categoria delle cause che condizionano l’esercizio dell’azione penale e, poi, sulla possibilità ontologica che la nuova figura sia davvero tale.

Le condizioni di procedibilità (querela, istanza, autorizzazione a procedere) impediscono l’esercizio dell’azione; tali condizioni possono essere anche non

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esplicitamente tipizzate (art. 345 comma 2 c.p.p.), purchè siano normativamente previste (l’imputato vivo, la presenza del reo nel territorio dello stato, l’autorizzazione del comandante per i reati militari). Si è dinanzi a veri e propri presupposti dell’azione, la cui assenza rende l’iniziativa male esercitata, ricadendo su tutti gli atti successivi, sentenze incluse, fino all’irrevocabilità della pronuncia. La prova sta nel fatto che la remissione di querela non determina una sopravvenuta improcedibilità dell’azione – essendo stata essa validamente esercitata con l’originaria presenza della condizione - bensì l’estinzione del reato: si tratta di un elemento intervenuto successivamente che non inficia l’azione ma obbliga ad una decisione estintiva; stesso discorso vale per la sopraggiunta morte dell’imputato che produce l’estinzione del reato.

Stando alla Corte costituzionale, rientrano fra le condizioni per l’esercizio dell’azione il provvedimento di riapertura delle indagini, la revoca della sentenza di non luogo a procedere; si tratta di rimuovere l’ostacolo alla richiesta di rinvio a giudizio – dunque, all’azione penale - avanzata dal pubblico ministero. Parimenti l’irrevocabilità della sentenza o del decreto condiziona l’esercizio dell’azione penale per bis in idem (art. 649 c.p.p.). La tipologia presenta una medesima ragion d’essere: evitare che una decisione stabile sull’imputazione permetta la nuova iniziativa del pubblico ministero de eadem re et persona.

E’ attratta all’area della improcedibilità l’operare del segreto di Stato e la inconsapevole partecipazione dell’imputato al procedimento. Ma tra le condizioni (positive o negative) dell’azione e il veto di proseguire l’accertamento per segreto di Stato o per la partecipazione inconsapevole dell’imputato esiste una marcata differenza. Le condizioni di procedibilità sono requisiti dell’azione che abortisce senza di loro. Le altre sono situazioni che bloccano l’iter giudiziario e prescindono dall’iniziativa penale già legittimamente esercitata. A tal riguardo, bisogna parlare di clausole preclusive dell’accertamento. Le rationes sono differenti. Le condizioni dell’azione, atto obbligatorio soggetto a presupposti predeterminati, ne influenzano la legittimità; la domanda del pubblico ministero è subordinata l’intervento di un terzo o ad un insuperabile provvedimento giudiziario. Le clausole preclusive dell’accertamento prescindono dalla legittimità dell’azione, in origine ben esercitata, e rispondono a talune esigenze ritenute prevalenti sull’accertamento;

più in particolare, perisce il potere giudiziario, limitato alla sola verifica delle premesse che non rendono possibile pronunciarsi sull’imputazione:

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nell’insieme, esse sono il frutto di discipline fondate sul bilanciamento di valori di rilievo costituzionale posti a base delle fattispecie risolutive.

Il trattamento sull’assenza delle condizioni di procedibilità è sempre identico:

produce un non doversi procedere ma la definitività del provvedimento che la dichiara non preclude l’esercizio dell’azione de eadem re et persona ove dette condizioni, la cui assenza costituiva l’ostacolo originario, sopravvengono.

L’art. 345 comma 2 c.p.p. prevede lo stesso trattamento per le condizioni dell’azione non tipizzate esplicitamente.

La disciplina che regola la sopravvenuta condizione originariamente assente è stata trasferita all’ipotesi dell’imputato che ridiventa compos sui e all’ipotesi di imputato redivivo: entrambi questi casi non rappresentano condizioni sopravvenute dell’azione originariamente assenti; ed ecco l’esigenza di una esplicita statuizione che estenda alle situazioni predette la disciplina dettata per il sopraggiungere di una condizione di procedibilità. La letteratura destina lo stessa conclusione all’ipotesi del sopraggiunto venir meno del segreto di Stato.

Nonostante l’identità di trattamento tra il sopraggiungere di una condizione dell’azione (tipica o atipica) e la sopravvenienza di altre situazioni giuridiche che, in deroga all’art. 649 comma 1, c.p.p., consentono di agire in bis in idem, resta assiologicamente una differenza tra l’assenza presupposti dell’iniziativa penale (mancanza delle condizioni di procedibilità) e i fattori che impongono, ad azione penale legittimamente esercitata, la paralisi della giurisdizione come nell’ipotesi di segreto di Stato, dell’infermità di mente o di morte dell’imputato.

Si passi ora alla domanda sul se è possibile considerare il decorso del tempo nella fase di gravame come condizione negativa dell’azione (secondo alcuni, causa sopravvenuta d’improcedibilità dell’azione penale) o se invece, a dispetto dei termini usati (improcedibilità dell’azione penale), si versa dinanzi ad un difetto di potere giurisdizionale che impone un non liquet. La morfologia della nuova figura può incidere sul regime dei suoi rapporti con le situazioni soggettive delle parti e del giudice.

Non è sostenibile che si versi dinanzi ad una condizione negativa dell’azione penale o di una causa sopravvenuta di improseguibilità dell’azione penale quando la disciplina è dettata esclusivamente per le fasi impugnatorie, per due ragioni di fondo.

Innanzitutto, sul piano strutturale, l’impugnativa non rappresenta la

“prosecuzione” dell’azione penale la quale, invece, si consuma nella domanda legittimamente (requisiti soggettivi e oggettivi) presentata dal pubblico ministero. Il gravame d’accusa possiede una propria fisionomia: è strettamente

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legato all’interesse ad impugnare, discrezionalmente valutato di volta in volta dal magistrato; inoltre, il potere è da lui stesso rinunciabile come rivela, oggi ancor più di ieri, il concordato sui motivi in appello. Insomma la disciplina dell’atto introduttivo di gravame sfugge alle caratteristiche di obbligatorietà e irretrattabilità tipiche dell’azione penale.

In secondo luogo, non sarebbe nemmeno ipotizzabile considerare l’impugnativa come una prosecuzione dell’azione penale quando la domanda è avanzata dall’imputato o da altra parte privata.

Stando così le cose, l’improcedibilità ratione temporis costituita per le sole fasi di impugnativa non può consistere in una improcedibilità dell’azione penale per la semplice ragione che l’atto introduttivo della fase non presenta i caratteri dell’azione penale, all’epoca, legittimamente esercitata tramite l’atto d’accusa.

Ecco perché, rigorosamente, il decorso del tempo, quale fenomeno che impedisce di proseguire la vicenda impugnatoria non può morfologicamente considerarsi come una sopravvenuta condizione che influenza l’azione penale.

La denegata pronuncia generata dal decorso del tempo rappresenta una figura affatto peculiare: un non liquet espressione di un punto di bilanciamento tra l’esigenza di decidere sulla domanda e la ragionevolezza dei tempi entro i quali è accettabile che essa si attui, determinando, il loro superamento, la perenzione del potere giudiziario (un fenomeno analogo al non doversi procedere per segreto di Stato o all’imputato divenuto incapace). Questa ipotesi ricostruttiva trova un serio sintomo sistemico nel mancato richiamo all’improcedibilità ratione temporis nell’art. 129 c.p.p., disciplina evocativa di formule di proscioglimento che postulano un più o meno ampio accertamento di merito o l’assenza originaria delle condizioni per l’esercizio dell’azione.

Invece, il non doversi procedere in ragione dell’art. 344 bis c.p.p. andrebbe aggiunto, in sede di coordinamento, tra le cause proscioglimento, segnatamente nell’art. 529 c.p.p.

Analogamente il mancato richiamo all’art. 344 bis c.p.p. tra le possibili deroghe al ne bis in idem, secondo quanto prescrive l’art. 649 laddove menziona il solo art. 345 (sopravvenienza dei requisiti di procedibilità dell’azione), appare un ulteriore elemento sistemico della sostanziale differenza tra l’assenza delle condizioni di procedibilità (che, sopraggiunte, permettono l’iniziativa penale) e la causa d’improseguibilità giudiziaria ratione temporis dichiarata nelle fasi impugnatorie. Se l’art. 649 comma 1 c.p.p. non evoca la nuova improcedibilità (art. 344 bis) quale possibile deroga al ne bis in idem, vuol dire che tale divieto resta fermo, una volta divenuta irrevocabile la sentenza di non liquet, precludendo un nuovo esercizio dell’azione se si

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invocasse il mutamento della qualificazione giuridica del fatto che avrebbe trovato in appello o in cassazione termini più lunghi; al di là della difficile realizzabilità di simile ipotesi, resterebbe inibita l’azione dinanzi al

“mutamento del titolo del reato” quandanche questo potesse determinare effetti ampliativi sui tempi del processo. Il proscioglimento per non doversi procedere ratione temporis, sfugge alle regole dettate per le condizioni di procedibilità ed è interamente sottoposto alla statuizione del ne bis in idem sancito dall’art. 649 c.p.p.

Certo concepita come estinzione del potere giudiziario per decorso del tempo, la nuova formula è in attrito con la possibile rinuncia dichiarata dall’imputato:

una preclusione oggettiva rimessa alla scelta arbitraria del privato. Ma il risultato non cambierebbe se si concepisse la figura in questione come una vera improcedibilità dell’azione penale. Tuttavia, la regole che rimette all’imputato l’eventuale prosecuzione impugnatoria può essere giustificata dal carattere recessivo della ragionevole durata (intesa anche in senso soggettivo) dinanzi al diritto ad ottenere l’accertamento di non colpevolezza quale corollario delle libertà enunciate dagli artt. 24 comma 2 e 27 comma 2 Cost.

Postulando una sopravvenuta caducazione dell’intervento giudiziario, l’improcedibilità di cui parla l’art. 344 bis c.p.p. prevale su qualunque altra causale di proscioglimento essendo troncata, in assenza di specifiche indicazioni, ogni altra verifica se non quella che riguarda l’assenza di potere generato dal decorso del tempo.

5) Improcedibilità ratione temporis e inammissibilità

Il tema induce a rivalutare i complicati rapporti tra la formula terminativa in esame e le questioni già affrontate, come per esempio, il giudicato parziale o l’adozione della confisca obbligatoria.

Un punto particolarmente spinoso riguarda la relazione tra (la prevalenza o meno dell’) inammissibilità dell’impugnazione e l’esame sull’improcedibilità ratione temporis. E’ vero che l’inammissibilità preclude di esaminare la domanda impugnatoria e non si ignora l’orientamento sul cd giudicato sostanziale – prodotto dalla carenza dei requisiti dell’atto introduttivo – che preclude tra l’altro, l’indagine sul proscioglimento immediato e sulle cause estintive del reato; né si trascura la linea interpretativa che sostiene la predominanza dell’inammissibilità dell’impugnazione sulla disamina relativa all’assenza delle condizioni procedibilità (SU 21.6.2018 n. 40150).

Ma se si inquadra il nuovo istituto come un mezzo che estingue il potere giudiziario a seguito del decorso del tempo, a detto potere è impedito di

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valutare anche i presupposti del cd. rapporto processuale d’impugnazione, dovendosi limitare al solo vaglio sull’assenza delle condizioni (il decorso del tempo) che ne legittimano l’esercizio. La differenza non è di poco conto: se si ritiene che il non liquet per ragioni temporali soccomba all’inammissibilità, anche una decisione assunta fuori termine e oggetto d’impugnazione inammissibile resterebbe ferma; al contrario, l’improcedibilità ratione temporis dovrebbe essere dichiarata anche dinanzi all’inammissibilità dell’impugnativa, travolgendo le decisioni dell’intero accertamento. La questione diventa ancora più controversa pensando all’inammissibilità per carenza di specificità dei motivi d’appello o per manifesta infondatezza nel ricorso per cassazione, ipotesi nelle quali il giudice compie una valutazione sommaria sul merito della domanda prima di decidere sull’ammissibilità dell’impugnativa.

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