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DALLA RESPONSABILITÀ DEL MEDICO ALLA RESPONSABILITÀ SANITARIA, PASSANDO ATTRAVERSO LA RESPONSABILITÀ MEDICA

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DALLA RESPONSABILITÀ DEL MEDICO ALLA RESPONSABILITÀ SANITARIA, PASSANDO ATTRAVERSO LA RESPONSABILITÀ MEDICA

Prof. Flavio Peccenini*

Dalla responsabilità del medico alla responsabilità sanitaria, passando attraverso la responsabilità medica. Si può così suggestivamente evocare il percorso di uno specifico settore della responsabilità civile, da sempre – mi riferisco agli ultimi 20 anni –, caratterizzato dal connotarsi come un sottosistema transtipico nel quale (come diceva Barni) mutano acquisiti parametri e sfumano provvisorie certezze.

Cercherò allora di verificare se, come si legge in una recentissima raccolta di contributi sulla responsabilità medica, quest’ultima, nell’accezione di sottosistema, continui «ad essere concepita essenzialmente in chiave di responsabilità personale e colpevole del singolo operatore sanitario, trascurandosi i concorrenti (e nella pratica assorbenti) profili di responsabilità degli enti, imprese e strutture sanitarie» (Ruffolo) la responsabilità delle quali si «dovrebbe correttamente configurare non già come responsabilità da esercente professione intellettuale, bensì come responsabilità d’impresa ed in ogni caso per colpa contrattuale comunque “ordinaria” » (Ruffolo).

Parto da questa affermazione perché la lettura di interventi dottrinali ed arrètes giurisprudenziali - in tema di responsabilità autonoma della struttura, antecedenti alla menzionata affermazione - mi avevano convinto che i tempi erano ormai maturi per ridenominare il sottosistema utilizzando appunto il sintagma responsabilità sanitaria: «espressione che bene sintetizza l’evoluzione di una disciplina giuridica non più circoscritta alla relazione personale intercorrente tra il medico è il paziente, bensì estesa ad una molteplicità di

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rapporti che legano il malato ad una struttura sanitaria» con la sua complessa organizzazione, «all’interno della quale operano in stretta collaborazione una pluralità di specialisti» (Amato), disciplina attenta alle interferenze tra responsabilità dell’operatore e della struttura.

Il punto di partenza dell’odierna riflessione è dunque porre al centro dell’attenzione non più o non soltanto il medico, bensì la struttura individuando i rapporti giuridici obbligatori, di cui la prestazione sanitaria svolta nell’ambito di una struttura è oggetto:

1) tra amministrazione sanitaria e medico [di cui però non mi occuperò];

2) tra ente erogatore della prestazione ed assistito.

3) tra medico e paziente;

Partiamo da quest’ultimo rapporto, rispetto al quale siamo di fronte a quella che è stata definita una “contrattualizzazione a tappe forzate” con relativa enucleazione di regole operazionali coerenti. Di questo percorso sono esempi significativi quattro decisioni della terza sezione civile della Suprema Corte, frutti di un'altra fioritura estivo/primaverile (il 2003 aveva visto quella del danno non patrimoniale, il 2004 quella cui mi riferisco).

Con la decisione n. 4400 del 4 marzo 2004, la Corte affronta il problema del nesso di causalità nelle condotte omissive e, ponendosi in contrasto con le recenti sezioni unite penali, afferma «in sostanza che l’accertamento del nesso causale tra l’omissione del medico e la morte del paziente esige, sì, il “giudizio controfattuale” (stabilire, cioè, se la condotta alternativa corretta che il medico ha trascurato di tenere avrebbe evitato il danno); tuttavia tale giudizio controfattuale è soddisfatto quando si possa ritenere che, in presenza della condotta omessa, il paziente avrebbe avuto “serie ed apprezzabili possibilità” di guarigione (paragrafo 2.4 dei “motivi della decisione”), desumibili anche da un “serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica” (paragrafo 3.2 dei “motivi della decisione”)... insomma, la prova del nesso causale non esige la certezza assoluta d’una liaison tra omissione ed

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evento, tra l’altro impossibile a darsi, perché avente ad oggetto un fatto che non si è verificato o che non potrà più verificarsi, ma semplicemente la probabilità di quel legame. Probabilità che, nei vari passaggi della sentenza, viene di volta in volta definita “seria”, “ragionevole” o “apprezzabile”» (Rossetti).

La stessa sentenza, inoltre, precisa che la diagnosi errata integra di per sé l’inadempimento, e che, in un quadro clinico complesso caratterizzato da una grave patologia e da precarie condizioni di salute del paziente la prova della mancanza di colpa per la morte può tuttavia essere fornita dal medico, ma che dell’eventuale situazione di incertezza sulla stessa si deve giovare il creditore, e non il debitore dell’obbligazione risarcitoria.

La decisione 19 maggio 2004 n. 9471 introduce per la responsabilità in questione la qualifica di “paraoggettiva”; (usando ancora le parole di Rossetti) non abbiate timore non dovremo far spazio nelle nostre librerie e nella nostra memoria ad una nuova specie di responsabilità: si tratta di una immagine icastica a scopo definitorio, con cui, non solo, si sottolinea che la responsabilità medica è un mondo a parte, ma, soprattutto, che l’onere di allegazione e prova gravante sulla vittima di malpractice è ridotto al lumicino.

In altre parole «il giudice di legittimità ha dovuto affrontare e risolvere un problema che, banalizzando, può così riassumersi: quando l’attore chiede il risarcimento del danno da colpa medica, può limitarsi ad allegare che il medico è stato imperito, imprudente o negligente, ovvero deve espressamente indicare quale sia stata la “specifica tecnica” colposamente violata (ad es., erronea sutura, negligente lettura dei radiogrammi, adozione di un protocollo medico superato o obsoleto, ecc.)? A tale quesito la Suprema corte ha risposto che l’attore non ha alcun onere di allegazione analitica e specifica delle condotte

“tecniche” del medico, ma può limitarsi ad invocare la colpa per negligenza, imperizia od imprudenza. Sarà poi il giudice, nell’esercizio dei suoi poteri istruttori anche officiosi, a stabilire in cosa il medico si sia discostato dalle leges artis» (Rossetti).

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Con le sentenze n. 10297 del 28 maggio 2005 e 11488 del 21 giugno la Corte (rifacendosi espressamente alle S.U. 13533 dell’ottobre 2001 in tema di riparto dell’onere della prova in tema di inadempimento contrattuale) ha ribadito il contenuto del rispettivo onere probatorio nelle controversie in materia di responsabilità medico-chirurgica tra medico e paziente, precisando che il paziente deve provare il contratto o il contatto sociale, ed allegare l’inesattezza dell’inadempimento, mentre l’obbligato (sia esso il professionista o la struttura sanitaria all’interno della quale questi svolge la sua attività) deve provare che la prestazione sanitaria sia stata eseguita in modo diligente e che gli eventuali esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile

In particolare nella sentenza n. 10297 - con riferimento all’ente ospedaliero - la Corte ha altresì statuito ancora una volta in tema di c.d.

vicinanza (o riferbilità) della prova, affermando il principio per cui l’ente che risponde contrattualmente dei fatti illeciti e dolosi dei propri dipendenti, ai sensi dell’art. 1228 c.c., è tenuto a fornire la prova dell’assenza di colpa nell’operato del medico, intesa questa non come “prova negativa”, bensì come dimostrazione del fatto che la prestazione è stata eseguita in maniera diligente in conformità delle regole dell’arte.

Del pari nella sentenza n. 11488, questa volta con riferimento al medico, si è ribadito che compete allo stesso, che è in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore, provare l’incolpevolezza dell’inadempimento (ossia della impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore) e la diligenza nell’adempimento, tanto più se l’esecuzione della prestazione consista nell’applicazione di regole tecniche, sconosciute al creditore in quanto estranee al bagaglio della comune esperienza e specificamente proprie di quello del debitore (nella specie specialista di una professione protetta).

In ordine alla definizione di atto implicante soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà di particolare difficoltà ha ritenuto rilevante sia la novità e

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speciale complessità dei problemi tecnici, sia il grado di abilità necessaria per affrontarli, sia il margine di rischio che l’esecuzione dell’atto medico comporta, mentre non costituisce certamente circostanza di significato univoco l’alto tasso di esiti negativi di un certo intervento su una certa patologia.

Dunque, tirando le fila di questa breve ricognizione:

• la responsabilità medica è contrattuale anche in assenza di contratto (il c.d. contratto sociale);

• la colpa del medico si presume, quando l’intervento non è complesso;

• il nesso causale tra condotta del medico e danno si presume, quando il sanitario abbia tenuto una condotta astrattamente idonea a causare il danno, anche in assenza di certezze circa l’effettiva eziogenesi dell’evento dannoso;

• basta a radicare un giudizio di colpa l’omissione di informazione al paziente, a nulla rilevando che l’intervento sia stato eseguito diligentemente;

• l’operatore deve attivarsi per diagnosticare e curare anche i mali diversi da quelli per cui ha avuto inizio la terapia, secondo le regole della responsabilità contrattuale.

*** *** ***

Veniamo ora al secondo dei rapporti obbligatori che dobbiamo scrutinare.

Efficacemente si è scritto che «L’ente ospedaliero si presenta come una struttura complessa, caratterizzata certo dalla presenza al suo interno di medici dipendenti e di altri operatori in senso lato sanitari (id est personale infermieristico e/o ausiliario), ma anche dalla consistenza di una struttura organizzativa e amministrativa particolare, nonché dalla predisposizione di un apparato strumentale di rilievo. Inoltre, non può sottacersi la c.d.

spersonalizzazione della prestazione sanitaria all’interno della struttura. Il paziente non si rivolge direttamente all’uno o all’altro specialista, ma alla struttura, che di volta in volta, in ossequio alle sue esigenze organizzative, indirizza il paziente verso lo specialista che in concreto è possibile individuare.

Muovendo da tale premessa, i giudici di legittimità giungono a configurare

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autonomamente la responsabilità delle strutture sanitarie, come fattispecie complessa comprensiva della prestazione intellettuale dei sanitari che vi prestano la loro opera, ma caratterizzata altresì da altre competenze, così come dalla circostanza di essere espressione di un particolare apparato organizzativo, e che potrebbe definirsi “prestazione di assistenza sanitaria”, ovvero contratto di spedalità”, quale contratto sinallagmatico innominato – ma oramai di riconosciuta tipicità sociale e dal contenuto complesso» (Agnino)

Nella sentenza 13066 del 14 luglio 2004 testualmente leggiamo:

Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità dell’ente ospedaliero nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero odi una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (Cass. 21 dicembre 1978, n. 6141; Cass. 8 marzo 1979, n. 1716; Cass. 1 marzo 1988, n. 2144; Cass. 4 agosto 1988, n. 6707;

Cass. 27 maggio 1993, n. 5939; Cass. 11 aprile 1995, n. 4152; Cass. 27 luglio 1998, n. 7336; Cass. 2 dicembre 1998, n. 12233; Cass. 22 gennaio 1999, n.

589, in motiv.; Cass. 1° settembre 1999, n. 9198; Cass. 11 marzo 2002, n.

3492; Cass. 14 luglio 2003, n. 11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316, in motiv.). Relativamente alla responsabilità della casa di cura privata, è stato affermato il principio secondo cui essa può essere chiamata a rispondere del danno alla persona causato dalla colpa professionale del medico che ha eseguito l’intervento in due casi: a) a titolo di responsabilità indiretta ex art. 2049 c.c., ove sussista un vincolo di subordinazione tra la casa di cura ed il medico operante; b) a titolo di responsabilità diretta ex art. 1218 c.c., qualora la casa di cura abbia assunto direttamente nei confronti del danneggiato, con patto contrattuale, l’esecuzione dell’intervento (Cass. 11 marzo 1998, n. 2678).

Successivamente, è stato affermato che la responsabilità della casa di cura è generalmente “responsabilità per inadempimento dell’obbligazione che la stessa casa di cura assume, direttamente con i pazienti, di prestare la propria organizzazione aziendale per l’esercizio dell’intervento richiesto”, individuando

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dunque nel contratto e nell’art. 1218 c.c. il titolo della responsabilità (Cass. 8 gennaio 1999, n. 103). Quest’ultima decisione, poi, richiamando il rischio d’impresa che si assume la casa di cura, precisa che in questo rischio “è compreso anche quello della distribuzione delle competenze tra i vari operatori, delle quali il titolare dell’impresa risponde ai sensi dell’art. 1228”. Di recente, poi, le Sezioni Unite di questa Corte hanno definito “complesso e atipico” il

“rapporto che si instaura (…) tra la casa di cura ed il paziente, anche nell’ipotesi in cui quest’ultimo scelga al di fuori il medico curante, dal momento che la clinica non si limita (…) ad impegnarsi alla fornitura di mere prestazioni di natura alberghiera (somministrazione di vitto e alloggio), ma si obbliga alla messa a disposizione del personale medico ausiliario, di quello paramedico ed all’apprestamento dei medicinali e di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicanze (Cass. S.U. 1° luglio 2002, n. 9556).”

Se dunque la responsabilità della struttura ha natura contrattuale essa può conseguire, a norma dell’art. 1218 c.c., all’inadempimento delle obbligazioni che sono direttamente a carico dell’ente debitore, può tuttavia anche conseguire, a norma dell’art. 1228 c.c., all’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, che assume la veste di ausiliario necessario del debitore.

“Rispetto a quest’ultima evenienza occorrono alcune precisazioni.

Innanzitutto non è necessario che il medico sia “dipendente” della casa di cura [o della struttura in genere], sia cioè a questa legato da un rapporto di lavoro subordinato. A norma dell’art. 1228 c.c., il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si vale dell’opera di terzi, risponde dei fatti dolosi e colposi di costoro. Ausiliari, dunque, sono tutti coloro dei quali il debitore si avvale nell’esecuzione della prestazione, indipendentemente dalla natura del rapporto che ad esso li leghi (Cass. 20 aprile 1989, n. 1855). In secondo luogo, in applicazione dell’art. 1228 c.c., non rileva che il sanitario il quale esegue l’intervento possa essere anche sanitario di fiducia del paziente, ove la scelta,

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come nel caso di specie, cada su soggetto comunque collegato all’organizzazione aziendale della casa di cura. La prestazione dell’ausiliario, cioè del medico, è necessaria per l’esecuzione della prestazione della casa di cura, che si obbliga alla messa a disposizione del personale medico, paramedico e dell’attrezzature necessarie per l’intervento e, dunque, si avvale del medico, sia pure di fiducia anche del paziente (così Cass. n. 13066/2004)”.

Ma non basta; il contratto che si instaura tra struttura e paziente ha ulteriori caratteristiche legate ai c.d. obblighi di protezione.

In primo luogo, analogicamente al rapporto tra medico e paziente, lo si è ritenuto idoneo a produrre effetti protettivi nei confronti di terzi (così fin da Cass. 22 novembre 1993 n. 11503) essendo caratterizzato da “una pluralità di prestazioni, in cui accanto ed oltre alla prestazione principale, è garantito e rimane esigibile un ulteriore diritto a che non siano arrecati danni a terzi estranei al contratto. (…) Col ricovero della gestante l’ente ospedaliero si obbliga non soltanto a prestare alla stessa le cure e le attività necessarie al fine di consentirle il parto, ma altresì ad effettuare, con la dovuta diligenza e prudenza, tutte quelle altre prestazioni necessarie al feto (ed al neonato) sì da garantirne la nascita, evitandogli – nei limiti consentiti dalla scienza (da valutarsi sotto il profilo della perizia) – qualsiasi possibile danno”.

In specifico per la struttura si è rilevata la «presenza di una serie di obblighi integrativi individuabili ex lege ovvero ex contractu. Infatti l’obbligazione principale a carico dell’ente di fornire una prestazione chirurgica o medica [verso corrispettivo] consiste in una prestazione tecnicamente idonea, secondo le regole dell’arte e della scienza medica e chirurgica, a pervenire al risultato voluto ma non al risultato stesso, ed è collegata ad una serie di obblighi accessori. Questi sono strumentali alla realizzazione dell’obbligo principale e sono funzionali alla protezione di interessi del paziente che debbono ritenersi egualmente meritevoli di tutela anche se non espressamente dedotti nel rapporto contrattuale (ad es. obbligo dell’ospedale di ricoverare il paziente nella

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propria struttura, assicurare al ricoverato le cure specialistiche mediche e paramediche che necessita, offerta di servizi infermieristici di ristorazione e di applicazioni terapeutiche in senso lato). La prestazione di assistenza sanitaria sarebbe, quindi, caratterizzata non solo da attività di carattere diagnostico o terapeutico (prestazioni di natura tecnico-intellettuale), ma anche da obbligazioni accessorie c.d. di sicurezza e/o protezione, con funzione di salvaguardia del diritto costituzionalmente riconosciuto della salute dei pazienti.

Tali obblighi accessori di protezione sono frutto di una considerazione del rapporto contrattuale in termini di buona fede (secondo l’art. 1175 c.c.), che nel caso in esame hanno come oggetto l’efficienza della struttura ospedaliera o, comunque, una “buona organizzazione” della struttura stessa. L’organizzazione non è più solo un indice per valutare la qualità dell’adempimento ai sensi dell’art. 1176 c.c., ma diviene vero e proprio oggetto di un obbligo giuridico di protezione strumentale alla realizzazione della prestazione principale dovuta, in quanto attiene alle concrete modalità esecutive della stessa prestazione obbligatoria principale. Pertanto, tutte le volte in cui difetti un esatto giudizio valutativo in ordine all’idoneità dei mezzi in relazione all’obbligo assunto, ricorrerebbe un caso di inettitudine iniziale del debitore, che renderebbe impossibile l’attuazione non solo degli obblighi protettivi, ma anche della stessa obbligazione principale … così la responsabilità della struttura ospedaliera viene dunque in rilievo quante volte sia riscontrabile un deficit organizzativo, concretatesi ora in una mancanza di sicurezza delle attrezzature, ora nella mancata protezione della salute dei ricoverati, ed ancora nel difetto di protezione della salute dei terzi» (Agnino).

Non mancano i precedenti: (così specificamente riguardo al personale Trib. Monza 7 giugno 1995, in Resp. civ. prev. 1996, 389 con nota di Toscano afferma che “la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria può non essere dovuta ai comportamenti dei singoli facenti parte della propria organizzazione, ma far capo alla struttura ospedaliera complessivamente

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organizzata”: le richieste di visita del pediatra e del neurologo, se fossero state esaudite in tempi rapidi, “avrebbero determinato, con ragionevole probabilità, un diverso sviluppo causale degli eventi, essendo inconcepibile, invece, che un ospedale sia strutturato in modo tale da rendere difficili, vista la lontananza dei reparti, interventi in altri reparti”; relativamente alla mancanza di un servizio di anestesia e rianimazione in un ospedale pediatrico Trib. Milano 9 gennaio 1997 (in Resp. civ. prev. 1997, 1220); per l’inadeguatezza delle dotazioni tecniche – difetto di una ventosa – Cass. 19 maggio 1999 n. 4852, (in Resp.

civ. prev. 1999, 995) – mancanza di un cardiotacografo – Cass. 16 maggio 2000 n. 6318, (in Resp. civ. prev. 2000, 940 con nota di Gorgoni).

Il riconoscimento di un’autonoma responsabilità dell’ente per i danni subiti dai pazienti a causa di un deficit organizzativo, indipendentemente da profili colposi del personale sanitario, rende necessario chiarire cosa debba intendesi per “buona organizzazione” o “efficienza”, in altre parole, come si è opportunamente rilevato (Iudica) non basta, affermare l’esistenza di un danno da disorganizzazione ma occorre “delineare i contenuti e i confini formali delle nozioni di organizzazione ad efficienza”.

A tal proposito occorre ricordare che (Iudica) “sempre più spesso e in sempre più ampi settori del servizio sanitario, il legislatore ha dettato norme che impongono, caso per caso, determinati standard di efficienza o di organizzazione:

si pensi, al riguardo, ad esempio, alle regole che impongono misure di sicurezza o di igiene o alle disposizioni relative ad altri aspetti della gestione del servizio dell’azienda ospedaliera (cfr. D.P.C.M., 19 maggio 1995, Schema generale di riferimento della “Carta dei servizi pubblici sanitari”, in G.U., 31 maggio 1995, n.

125, che traccia le linee guida per l’adozione da parte di ciascuna Azienda ospedaliera di standard ed indicatori di qualità ben precisi e D.M., 24 luglio 1995, Contenuti e modalità di utilizzo degli indicatori di efficienza e di qualità nel Servizio sanitario nazionale, in G.U., 10 novembre 1995, n. 263).

Tuttavia, non sempre il rispetto delle norme esistenti è sufficiente a mettere

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l’ente al riparo dalla colpa contrattuale in presenza di altri fatti di inefficienza e non sempre esistono indici normativi di riferimento. E’ allora ragionevole accollare alla struttura qualunque rischio connesso con la sua organizzazione?

Sotto il profilo strettamente giuridico della individuazione della responsabilità, occorre osservare che anche il ricorso all’ausilio di importanti discipline come l’economia aziendale non è esaustivamente idoneo ad “individuare un livello, ovvero un parametro di organizzazione adeguatamente preciso e qualificato giuridicamente” (Iudica).

Resta quindi il ricorso alla già ricordata clausola generale della buona fede e correttezza nell’adempimento delle obbligazioni contrattuali codificata nell’art. 1175 c.c., alla quale però si propone (Iudica) di affiancare ulteriori riferimenti formali, per ridurre il margine di discrezionalità del giudice.

I riferimenti formali vengono individuati

A) nel trend legislativo che ha portato verso una sempre più accentuata aziendalizzazione dell’ente ospedaliero, in una prospettiva in cui il rischio di impresa deve essere sopportato nella sua interezza da chi la esercita.

B) nella normativa in materia di danni derivanti da prodotti difettosi, che pur non potendosi applicare in via diretta (a questo proposito, invece, la Corte di Giustizia C.E. con decisione 10 maggio 2001 - in Resp. civ. prev. 2001, 837 - ha statuito, contro le stesse conclusioni dell’Avvocato Generale, la diretta applicabilità della normativa in materia di responsabilità del produttore ”all’ipotesi nella quale l’utilizzo, all’interno di un ospedale pubblico, di una soluzione (fabbricata dei laboratori della farmacia di un altro ospedale, anch’esso pubblico e gestito dal medesimo ente) destinata a preparare un organo per un trapianto ha danneggiato irrimediabilmente l’organo stesso, impedendo l’operazione chirurgica”) suggerisce indici e criteri utilizzabili per dare maggior concretezza di contenuto alla clausola di buona fede riferita alla efficienza della struttura ospedaliera.

Da tali riferimenti si può delineare il contenuto dell’obbligo dell’ente ospedaliero nel modo seguente: “fornire al paziente la sicurezza di uno standard

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organizzativo tollerabile, perché corrispondente a quello che, tenuto conto del luogo, del tempo, delle circostanze, e delle altre struttura ospedaliere affini, si può considerare normale e tale che il paziente medio di buona fede può ragionevolmente attendersi e ragionevolmente prevedere. Il paziente potrà allora chiedere il risarcimento del danno subito per difetto da organizzazione, pure in mancanza di colpe ascrivibili al sanitario, solo qualora il difetto o il vizio di organizzazione e di efficienza, oltre ad essere causa del danno, debba ritenersi intollerabile, avendo superato quel livello oltre il quale deve considerarsi violata quella regola di buona fede che governa il rapporto contrattuale in tutti i suoi versanti" (Iudica).

Secondo una recente ricognizione (Chindemi) degli spunti rinvenibili in letteratura e dei casi esaminati dalla giurisprudenza si ritiene,a titolo esemplificativo, che i requisiti minimi di una struttura sanitaria possano essere i seguenti:

a) personale medico, paramedico ed ausiliario, qualificato, sufficiente per numero e presente;

b) coordinamento tra i diversi servizi con opportuno dislocazione logistica;

c) locali idonei per funzionalità e sotto il profilo igienico;

d) apparecchiature moderne, appropriate, idonee e funzionanti;

e) farmaci e presidi terapeutici sicuri, efficaci e in corso di validità;

f) sangue sicuro;

g) una opportuna vigilanza.

In questa ottica di «espansione della sfera della responsabilità per la maggior tutela per il paziente» si è correttamente osservato (Nocco) che «si colloca anche una recente sentenza di legittimità (Cass. 24 settembre 1997 n.

9374): “Se dall’esecuzione ancorché prudente, diligente e tecnicamente corretta, di un intervento chirurgico o di un accertamento diagnostico invasivo, deriva un danno o addirittura la morte del paziente, non informato dai medici – nella specie, dipendenti da un ente ospedaliero – dei rischi gravi per la vita o

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l’incolumità fisica a cui poteva andare incontro, al fine di prestare il necessario consenso a procedervi , sussiste la responsabilità dell’ente, anche nel caso che non sia stato individuato il medico a cui incombeva tale obbligo”. Tale pronuncia, resa nello specifico ambito del difetto del consenso informato ma facilmente generalizzabile, fa gravare sulla “tasca profonda” dell’ospedale il peso di questo

“danno anonimo”. E’ chiaro che la novità del dictum non sta solo nel fatto che l’ospedale o clinica non avrà l’azione di rivalsa nei confronti di un medico ignoto, quanto piuttosto che si prescinde totalmente dall’accertare la persona fisica concretamente danneggiante».

Nella stessa ottica espansiva, la giurisprudenza di legittimità (Cass. 13 settembre 2000, n. 12103) «ha individuato una nuova voce di obbligo gravante sulla struttura, alla luce dell’affidamento del paziente nei suoi confronti, “nella diagnosi e nella terapia in ordine a qualsiasi stato morboso che ne ponga in pericolo la vita, quand’anche diverso da quello diagnosticato in relazione ai sintomi che avevano indotto al ricovero”. (Nocco)

Se a quanto sin d’ora detto aggiungiamo, quali semplici “memento”, inviti all’attenzione, a) tutta l’emergente problematica legata al risk menagement b) prospettive legislative che il progetto di legge Tomasini comporta, e c) il preoccupante quadro del mercato assicurativo di fuga dalla responsabilità sia dei singoli sia delle strutture, appare evidente che così come, abbandonare la locuzione “responsabilità del medico” per “responsabilità medica” aveva denotato la maggiore complessità delle problematiche connesse alle prestazioni sanitarie e quindi alla responsabilità del personale coinvolto, specialmente laddove operi in équipe, la locazione responsabilità sanitaria esprime meglio l’odierna ulteriore complessità del problema e del moltiplicarsi dei centri potenziali di imputazione della responsabilità e di controllo dei rischi per la salute in fase di prevenzione del danno nonché di allocazione dei costi di un sistema risarcitorio che non sembra orientato a evolversi in un sistema indennitario, ancorché di fronte ad una scenario di potenziale assenza di risorse.

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