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INQUADRAMENTO MEDICO LEGALE DELLA RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE MEDICA

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INQUADRAMENTO MEDICO LEGALE DELLA RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE MEDICA

Prof. Paolo Cortivo*

Parlare di responsabilità professionale medica è parlare di "errore", dobbiamo pertanto definire che cosa si intende per errore. Se andiamo alla ricerca di principi di ordine assoluto possiamo per esempio ricorrere all' interpretazione di Benedetto Croce per il quale l'errore è "l'atto o l'effetto dell'allontanarsi dal vero e dal giusto". E' una definizione assolutamente accettabile sul piano di quell'orientamento filosofico e sul piano assolutistico ma, come vedremo, non può essere applicata alla nostra attività professionale. Se ci spostiamo un po' più indietro fino ai filosofi dell'Illuminismo e ai Positivisti, vediamo che essi sono lontani dalla definizione del Croce.

L'errore professionale si può verificare in qualsiasi momento dell'attività medica, che sintetizziamo nelle due fasi diagnostica e terapeutica, ma le dobbiamo considerare ad ampio raggio. Per esempio, la parte terapeutica deve essere considerata comprensiva di quella riabilitativa. Questo comporta dei risvolti pratici: pensiamo per esempio alla riabilitazione neurologica o ortopedica dove l'errore materialmente è compiuto dal fisioterapista, ma non essendo questi una figura autonoma, la responsabilità può essere imputata a lui, ma in qualche misura anche al medico che ha prescritto la prestazione o che doveva vigilarlo. Oppure ancora si può parlare di errore in un caso come il seguente:

un individuo può lamentarsi di essere andato in miseria per essersi impegnato economicamente, convinto in base alla prognosi del medico curante che il nonno dovesse passare presto a miglior vita lasciandogli un’eredità. Il medico ha sbagliato la prognosi, il nonno è vivo e vegeto, l’individuo in questione afferma di aver subito un danno per prognosi errata.

Da dove deriva l'ipotesi della responsabilità medica? Deriva sempre dalla constatazione dell'evento avverso; l’utente che ha subito un evento avverso ritiene sempre che a monte vi sia un errore del medico. Ammettendo che l'errore vi sia stato, bisogna fare una distinzione: error scientiae ed error facti, ossia, ricorrendo alla semantica degli studiosi di

* Ordinario Medicina Legale, Università Padova

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logica, dobbiamo distinguere l'errore dallo sbaglio. L'errore è, per gli studiosi di logica, insito nella relatività della certezza della scienza positiva, di cui indubbiamente fa parte la scienza biomedica: noi sappiamo che è certo quello che la scienza, l’esperienza ci dicono oggi che è certo; domani la stessa scienza ci darà un dato diverso per cui il certo di prima diventa errore. Evidentemente questo tipo di errore non può essere addebitato al medico, siamo nell'ambito dell'error scientiae. Parliamo invece di colpa, in termini giuridici, quando l'operatore commette uno sbaglio, quando nell'ambito di una certezza scientifica egli agisce in modo inadeguato: error facti, cioè l'errore colpevole. Ed è a questo punto che l'utente e spesso il medico legale tirano le conclusioni: vi è un evento avverso a valle, vi è l'errore a monte pertanto c'è responsabilità professionale. Questo vuol dire applicare quel sillogismo che la Medicina Legale ha sempre negato: "Post hoc, ergo propter hoc". Ho avuto un incidente stradale ieri, oggi ho l'influenza, l'influenza è dovuta all'incidente stradale: evidentemente non è così; bisogna che tra l'errore e il danno ci sia una relazione giuridica, cioè vi sia un rapporto di causalità. Solo allora posso dire che c'è una responsabilità, benché questo non comporti automaticamente punibilità. Può esservi infatti responsabilità senza punibilità. Il concetto di causalità relativamente all'atto medico va considerato in termini giuridici. Fino a tutti gli anni '50 la nostra giurisprudenza ha sempre interpretato alla lettera l'articolo 40 del Codice Penale: "Nessuno può essere punito per un fatto considerato dalla legge un reato se tale fatto non è conseguenza della sua azione od omissione". Il nostro antico legislatore, che, a differenza del moderno legislatore, ha usato la lingua italiana col significato reale che le parole hanno, ha utilizzato il tempo indicativo presente per indicare un concetto di certezza: non si può punire qualcuno se non si è certi che il suo comportamento ha comportato un danno. Ora, in materia medica, questa esigenza di certezza non sempre può essere soddisfatta perché lo sbaglio medico può derivare da una condotta commissiva od omissiva. In caso di condotta commissiva, una volta stabilito il collegamento tra il danno e l'azione del medico, è facile risalire alla responsabilità di quest'ultimo: se nel corso di un'isterectomia viene pinzato un uretere, di conseguenza si verifica un'idronefrosi che determina un'atrofia renale è evidente che si può concludere che la causa del danno risale all'intervento chirurgico. Questo è tutt'altro che facile in materia omissiva: come posso sapere cosa sarebbe successo se il medico avesse fatto quello che non ha fatto? Possiamo interpretare gli eventi solo in termini di

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probabilità. Fino alla fine degli anni '50 la giurisprudenza è stata concorde nel richiedere anche nel comportamento omissivo la certezza del rapporto di causa. Laddove il consulente o il perito rispondeva che non vi era certezza sul rapporto causale, la corte assolveva l'imputato o in sede civile non lo condannava al risarcimento perché mancava quel criterio di certezza provocando tutto sommato delle situazioni di iniquità.

Negli anni '60 si è sviluppata invece una nuova mentalità limitatamente alla materia medica: il criterio di certezza è stato sostituito dal criterio di probabilità, purché ragionevole. Negli anni '80 arriva la prima ed unica sentenza della Corte di Cassazione che è stata recepita dai giudici di merito. Essa toglie l'attributo del ragionevole e lascia il probabile: passiamo così da un estremo all'altro, dalla esigenza di certezza alla sufficienza della probabilità. Se questa tendenza evolutiva dovesse continuare, potremmo trovarci allineati all'esperienza francese, dove vige il principio della perdita di chances.

Distinguiamo 4 forme di responsabilità:

1) la responsabilità morale, che sarebbe più giusto chiamare responsabilità etica;

2) la responsabilità deontologica;

3) la responsabilità disciplinare;

4) la responsabilità legale.

La responsabilità morale non sottende ad alcun ordinamento e ad alcuna attività medica; sottende piuttosto ad un banale principio di buona educazione e rispetto del prossimo, quello che deve esistere tra cittadino e cittadino indipendentemente dal fatto che uno dei due sia a letto e l'altro abbia il camice bianco. Il mancato rispetto di queste semplici norme è quasi sempre il motivo iniziale del contenzioso. Chi ha esperienza in materia ricorderà che le parti lese, di fronte ad uno sbaglio grossolano ,hanno spesso giustificato il loro medico che, poveretto, più di così non poteva fare. Altre volte di fronte ad una prestazione tecnicamente egregia per un problema non completamente risolto, si assiste ad un atteggiamento di vendetta nei confronti del medico, il cui comportamento è stato ritenuto disumano.

La responsabilità deontologica riguarda il fatto che tutti noi abbiamo virtualmente giurato quando ci siamo iscritti all'Ordine dei Medici e ci siamo dettati un codice

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deontologico con delle norme che dobbiamo seguire, con il fine di mantenere il decoro e la dignità professionale. Nel caso che vi sia un comportamento scorretto in questi termini, sarà l'Ordine Professionale ad intervenire con la sua potestà sanzionatoria.

La responsabilità disciplinare riguarda soltanto quei medici che lavorano in regime di dipendenza o convenzione con istituti pubblici o privati con i quali c'è un rapporto contrattuale di lavoro che va osservato.

Quello che ci interessa in questa sede è la responsabilità civile o penale. I presupposti giuridici della responsabilità civile nel nostro ordinamento richiamano le norme del diritto privato con riferimento al peculiare rapporto fra medico-chirurgo e paziente. Il medico risponde nei confronti del paziente secondo un criterio che può essere o di responsabilità extracontrattuale o aquiliana, oppure di responsabilità contrattuale.

La responsabilità extracontrattuale deriva da una generica formula dell'articolo 2043 del Codice Civile: qualunque evento doloso o colposo che cagiona ad altri un danno, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno. Quando si provoca un danno ad una persona, nel nostro caso un paziente, attraverso una condotta inadeguata, questi deve essere risarcito .Ne deriva, in questo caso, che vi è una presunzione di responsabilità da parte del medico, ma l'onere della prova che vi è stata una condotta inadeguata è a carico del danneggiato. L'articolo 2050,poi,è ancora più pesante se lo riferiamo all'attività medica, in quanto nell'ipotesi di esercizio di attività pericolose, richiama quasi un principio di responsabilità obiettiva, una presunzione assoluta di responsabilità, se non si dimostra di aver messo in atto mezzi idonei ad evitare il pericolo. In molti ambiti della medicina vi sono effettivamente situazioni che richiamano l'Art.2050,ma addirittura vi è un orientamento giuridico che vede tutta la Medicina contenuta in quella norma, in quanto di per sé pericolosa. Va ricordato ancora che il termine di prescrizione per la responsabilità extracontrattuale è di 5 anni.

La responsabilità contrattuale fa capo all'art. 1218 del Codice Civile: il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l'inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione o comunque da causa a lui non imputabile. La prescrizione è 10 anni.

Ma quando il medico si trova in ambito di responsabilità contrattuale o extracontrattuale?

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Per ciò che riguarda il libero professionista, che lavora nel suo ambulatorio o in casa di cura privata con rapporto libero-professionale è pacifico che è egli stesso ad intraprendere un contratto con l'utente e quindi vi è un rapporto contrattuale. Per i medici che lavorano invece in regime di dipendenza, nell'ambito di un istituto di cura pubblico o privato, l'utente fa scattare contemporaneamente due forme di responsabilità: nei confronti del medico che casualmente si è trovato ad assistere il paziente vi sarà un rapporto di responsabilità extracontrattuale, ma nei confronti dell'ente con cui il paziente opera un contratto di cura vige un rapporto contrattuale. Abbiamo allora due diverse durate di prescrizione che l'utente deve ben tener presente: passati i 5 anni non potrà più rivalersi sul medico, ma potrà chiedere il risarcimento del danno alla struttura.

Qual è l'obbligazione del medico? Obbligazione di mezzi e obbligazione di risultati. Da noi è sempre stato pacifico che l'obbligazione è di mezzi. Se esistesse un'obbligazione di risultati, nessuno farebbe il medico. Vi è tuttavia da parte dell'utente e di ambienti culturali estranei all'ambito medico, ma che entrano nelle aule giudiziarie, la tendenza a far valere una obbligazione di risultato. Vi sono poi particolari specializzazioni per le quali la cultura anche nostra tradizionale ha portato ad ammettere un'obbligazione di risultati, distinguendo una specializzazione medica da un'altra. Ciò è culturalmente e dottrinalmente inaccettabile.

Pensiamo per esempio alla Odontostomatologia, con particolare riferimento all'aspetto riabilitativo protesico, e alla Chirurgia Estetica. Nel primo caso vi è stato chi ha detto che non si può parlare di obbligazione di mezzi in questo campo perché non si fa niente di medico, non è una cura, non si tratta che di mettere un manufatto ad una bocca edentula, ma sana. Non si tiene così conto che vi è sempre uno scontro tra un prodotto non biologico con un terreno biologico e la reazione che ne deriva è sempre imprevedibile.

Non si tiene conto nemmeno di tutta quella componente psicologica di quel particolare paziente che invece emerge frequentemente quando ci si trova coinvolti in ambito di responsabilità professionale legata alla Odontostomatologia. Nel secondo caso, la Chirurgia Estetica, si parla di obbligazione di risultati, in quanto non è un atto medico rivolto alla guarigione, è una Medicina se vogliamo voluttuaria, si può fare o non si può fare. Ma attenzione: se diciamo che la Chirurgia Estetica non ha finalità terapeutiche, il chirurgo estetico compie regolarmente dei delitti di lesione personale. L'atto chirurgico ha di per sé

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la tipicità giuridica del delitto di lesioni personali. La perde nel momento in cui da un lato vi è il consenso del paziente, dall'altro vi è la finalità terapeutica. Anche questa specialità va considerata una chirurgia come un'altra. D'altra parte la cultura che ci ha tramandato questa obbligazione di risultato deriva da quando la Chirurgia Estetica era relegata a piccoli interventi di facile fattura. Oggi questi interventi sono diventati estremamente sofisticati e classificabili nell'ambito di chirurgia maggiore e come tali gravati dalle imprevedibilità proprie dell'atto operatorio. Ricercando le sentenze in materia non ho mai trovato che vi sia effettivamente qualche espressione quanto meno della Suprema Corte riferibile ad obbligo di risultato. Che di fatto però questo ci sia e venga giustamente reclamato da parte dell'utente, è dovuto ad un cattivo esercizio della professione da parte di alcuni professionisti che possiamo definire mercenari i quali, pur di ottenere un cliente, si impegnano ad offrire un risultato: nel momento in cui questo non viene raggiunto, il medico è chiamato a risponderne.

Qual è la definizione di colpa in sede civilistica? Ce la dà l'Art.1176 del CC che richiama la diligenza del buon padre di famiglia e specificamente per le attività professionali. Una volta si parlava di quella diligenza del buon padre di famiglia propria del medico medio.

Tale dicitura risale a tempi andati quando si distingueva tra attività medica e attività chirurgica. Adesso si deve fare riferimento alla diligenza media dello specialista in quella branca. In sede civile l'articolo 1136 propone una limitazione di responsabilità per le professioni intellettuali quando si devono affrontare problemi tecnici di particolare difficoltà. In questo caso la responsabilità viene affermata solo nel caso che ricorra la colpa grave, ossia un comportamento grossolanamente imperito. E' evidente che in caso di grave difficoltà il medico può essere accusato solo di imperizia e non di negligenza e imprudenza.

La responsabilità penale può essere per dolo o per colpa.

La responsabilità per dolo noi la riferivamo ad eventi come quelli che portarono al processo di Norimberga o ad atti compiuti da sperimentatori impazziti. Oggi non è più così.

Si incorre nel dolo quando si compie una prestazione, per quanto ben condotta, su un soggetto che non ha dato o che ha negato il suo consenso.

Generalmente la responsabilità penale è per colpa, che può essere specifica o generica.

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Di solito si incorre nella negligenza, imprudenza e imperizia, con le definizioni che ne hanno dato i maestri del diritto: negligenza è il contrario di quella sollecitudine e diligenza da buon padre di famiglia che si dovrebbe avere; imprudenza si riferisce ad un comportamento tanto più attivo quanto è passivo quello del negligente, operando quando esiste una situazione di pericolo; imperizia è la mancanza di quel bagaglio culturale e di quella esperienza che il caso richiede.

Il legislatore ha distinto tra colpa lieve e colpa grave in ambito civile. Questa distinzione è possibile anche in ambito penale? A questo proposito ci sono due orientamenti distinti:

un orientamento fortunatamente minoritario che esclude che vi possa essere una differenziazione dell'intensità di colpa in ambito penale; l'atteggiamento prevalente è invece di trasferire in campo penale la valutazione civile, raccogliendo il dettato della Corte Costituzionale del 1973,che intendeva garantire da una parte la serenità del medico nell'operare, dall'altra la serenità del paziente nel sottoporsi all'atto medico.

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