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LA RESPONSABILITÀ CIVILE DEL MEDICO PER INFEZIONE DEL PAZIENTE

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LA RESPONSABILITÀ CIVILE DEL MEDICO PER INFEZIONE DEL PAZIENTE

Avv. Barbara Porta*

Il dovere del medico di prevenire le infezioni si inscrive in quello più generale di tutelare la propria salute, quella dei propri assistiti, quella dei dipendenti del reparto o dei componenti dell’equipe o dei collaboratori e di impedire il diffondersi della malattia (si veda in generale l’obbligo di osservare norme di carattere generale stabilite nel D.M. 28.09.1990 – norme di protezione dal contagio professionale da HIV nelle strutture sanitarie ed assistenziali pubbliche e private – G.U. 08.10.1990 N.

235-), nonché le precauzioni specifiche che riguardano soprattutto i reparti di malattie infettivi, gli studi odontoiatrici ed i laboratori di analisi chimiche.

Inoltre il dovere del medico di prevenire le infezioni è strettamente correlato a quello di sapere ed aggiornarsi espressamente sancito dal Codice deontologico del 1998. Infatti all’art. 16 di detto codice si fa esplicita menzione dell’obbligo di

“formazione professionale permanente”, dovere che è tanto più cogente quanto più la malattia è grave o mortale; recita l’art. 16: “Il medico ha l’obbligo dell’aggiornamento e della formazione professionale permanente, onde garantire il continuo adeguamento delle sue conoscenze e competenze al progresso clinico scientifico”.

Peraltro l’art. 12 dello stesso codice impone espressamente di conoscere la natura, la composizione e gli effetti dei farmaci, nonché le caratteristiche d’impiego dei mezzi diagnostici che il medico prescrive.

Fatta tale breve premessa, nelle ipotesi di infezioni da agenti biologici l’indagine della responsabilità civile del medico verte, in buona sostanza, sulla sfera di controllo che questi ha, nel caso concreto, sui fattori che possono generare o, comunque, favorire lo sviluppo dei germi e, conseguentemente, l’infezione.

Viceversa, nel caso opposto in cui non abbia luogo tale accertamento di certezza o probabilità, la responsabilità può essere ravvisata solo qualora il medico non riesca a dimostrare la sua totale estraneità al processo infettivo, poiché, in ambito di responsabilità contrattuale, l’onere probatorio risulta invertito.

Come si vede dunque l’indagine sull’an debeatur può assumere i connotati tipici dell’indagine di tipo probabilistico.

Se si accerta, infatti, che il medico era tenuto o, ad ogni modo, poteva prevenire e/o controllare l’insorgenza dell’infezione, allora può essere fondatamente ravvisata la responsabilità del professionista. Sul punto possiamo ricordare ad esempio una pronuncia della Suprema Corte, IV sezione penale del 17.01.1992 in cui la Cassazione, in un caso di omicidio colposo per tardiva diagnosi di infezione tetanica in donna sottoposta a taglio cesareo, ha ritenuto che in tema di responsabilità per colpa professionale del medico, nella ricerca del nesso di causalità tra la condotta dell’agente e l’evento, al criterio della certezza degli effetti della condotta lesiva si

* Avvocato, Torino

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può – e si deve occorrendo- sostituire il criterio della probabilità, anche limitata, di tali effetti e della idoneità della condotta a produrli; da tale pronuncia consegue pertanto che il rapporto di causalità sussiste anche quando l’opera del sanitario, se correttamente e tempestivamente intervenuta, avrebbe avuto non già la certezza, bensì soltanto serie ed apprezzabili probabilità di successo, tali che la vita del paziente sarebbe stata, con una certa possibilità, salvata.

Centrale, in ogni caso, è quindi lo standard di condotta che deve tenere il medico al fine di non incorrere in responsabilità.

Per comodità tale standard di condotta verrà esaminato in relazione a tre fasi che vedono coinvolto il medico.

a) Fase antecedente all’operazione

Senza ombra di dubbio il medico che esegue l’intervento sul paziente, non può essere indifferente alle condizioni igieniche della sala in cui opera, così come di quelle del personale presente in sala.

Sul punto della responsabilità del medico per carenze igieniche della sala non sussistono, a quanto consta, precedenti specifici.

Pur tuttavia, alcune sentenze della Cassazione1 hanno affermato il principio per cui è onere del medico tenere conto di eventuali carenze di dotazione della struttura sanitaria, nonché, laddove la strumentazione disponibile non consenta di eseguire l’operazione entro margini di sicurezza accettabili, il medico deve prendere in seria considerazione l’ipotesi di effettuare l’intervento altrove, a pena di incorrere in negligenza ed imperizia.

Ora, da questo principio giurisprudenziale è dato trarre che non è diligente il comportamento del medico che esegua l’operazione o in situazioni di carenza igienica o, comunque, senza avere accertato, entro margini ragionevoli, la salubrità dell’ambiente in cui si deve effettuare l’intervento o l’asepsi della strumentazione con cui opera.

Ad esempio: nell’ipotesi in cui il medico si accorga che il liquido disinfettante (ammonio quaternario o ipoclorito di sodio) utilizzato dal personale sanitario è già stato usato, contro le più elementari norme di igiene e sterilità, in precedenti interventi, egli sarà responsabile se avvierà l’operazione malgrado i rischi che tale fatto può comportare. Ovviamente, e pare superfluo rilevarlo, il medico dovrà accertarsi di non essere egli stesso o i componenti della sua equipe un veicolo di germi.

b) Fase operatoria

Anche durante questa fase il medico non può tralasciare il controllo sull’igiene degli strumenti che si trova ad utilizzare, ma di questo profilo si è già detto.

Si deve invece rilevare come il medico possa in questa fase adottare delle misure idonee a prevenire eventuali processi infettivi. Si pensi, ad esempio, ad accorgimenti quali l’inserimento di tubi di drenaggio alla ferita.

1 Cass., 27-07-1998, n. 7336, in Resp. civ. prev., 1999, 996. Conforme: Cass., 19-05-1999, n. 4852, in Resp. civ. prev., 1999, 995.

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Oltre alla prevenzione, il medico deve certo anche evitare, usando la diligenza che gli è propria, di cadere in errori essi stessi produttivi di infezioni quali, ad esempio, dimenticare garze o altri corpi estranei all’interno del paziente.

c) Fase post-operatoria

Tuttavia è nella fase che segue l’operazione che il medico deve prestare ogni tipo di cautela e particolare attenzione e ciò poiché molti germi patogeni sono ospiti abituali nell’uomo e possono svilupparsi in particolari condizioni, quali appunto quelle che si presentano dopo l’intervento.

Vale infatti la pena ricordare che la prestazione del medico non si esaurisce con l’operazione. Anzi, le Corti sono molto attente al tipo di cura che viene impiegata da questi nel seguire il paziente nel decorso postoperatorio.

Ad esempio, in un caso di infezione generatesi per imperita, negligente ed imprudente assistenza post-operatoria, il Tribunale di Torino2, nella suddivisione delle quote di responsabilità del medico e della Casa di cura convenuta in giudizio, ha dato particolare rilievo al comportamento del medico, che non si era curato di fare effettuare un antibiogramma, non si era preoccupato di modificare la terapia antibiotica in atto, né si era attivato per effettuare quei minimi esami clinici allo scopo di individuare la causa dell’infezione ai fini di rimuoverla.

Nel caso di specie, si noti che il CTU aveva attribuito il 60% di responsabilità al chirurgo sulla base di tali omissioni e il 40% alla Casa di Cura per non avere adottato tutte le misure idonee atte ad evitare l’insorgenza di complicanze attraverso un’adeguata asepsi. Il Giudice, a fronte della negligenza del medico nella fase post- operatoria, ha ritenuto di non condividere la quantificazione operata dal CTU, ed ha individuato nella misura dell’80% la responsabilità del chirurgo.

La responsabilità del medico, come ci dimostra la decisione torinese appena menzionata, può dunque ben essere ravvisata non solo quando vi sia un errore di diagnosi da parte dello stesso delle manifestazioni post-operatorie, ma, ancor prima, quando vi siano delle omissioni da parte del medico nel disporre quegli accertamenti necessari per dirimere ogni ragionevole dubbio circa eventuali infezioni.

Sul punto, del resto, la giurisprudenza è costante nell’affermare la responsabilità del medico che non segua costantemente i propri pazienti anche dopo l’intervento operatorio3.

Oltre a predisporre gli eventuali esami del caso e monitorare attentamente il decorso post-operatorio, il medico deve altresì verificare la qualità dei servizi offerti dalla struttura ospedaliera presso cui si svolge la degenza del paziente, intervenendo laddove vi siano delle carenze. Ciò pur rimanendo ferma la concorrente responsabilità dell’ospedale o della Casa di cura.

Un ultimo aspetto che pare opportuno mettere in luce è l’informazione che il medico è tenuto a fornire al paziente circa la possibilità di eventuali infezioni derivanti dal tipo di intervento cui lo stesso viene sottoposto.

2 Trib. Torino, 1 marzo 1999, n. 1188, ined.

3 Cass., 8-07-1994, n. 6464, in Giur. it., 1995, I, 1, 790. Conforme: App. Venezia, 23-07-1990, in Riv. it. med. leg., 1991, 1320; Trib. Padova, 9-08-1985, in Foro it., 1985, I, 86.

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Sotto questo profilo, si deve osservare che la mancata adeguata informazione può essere di per sé fonte di responsabilità del medico per l’insorgenza di processi infettivi non prospettati al paziente.

A tale riguardo la più recente giurisprudenza ritiene sussistere la responsabilità del sanitario per violazione dell’obbligo di informazione (si veda in particolare: C. App.

Milano 02.05.1995, Trib. Padova 09.08.1985 e la recente Cass. 08.07.1994 n. 6464), che può così sintetizzarsi:

a) commette un illecito aquiliano, consistente nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, il medico il quale omette di informare il proprio paziente sui rischi dell’intervento che sta per compiere;

b) tale illecito fa sorgere l’obbligo del risarcimento del danno in caso di complicazioni, quand’anche l’intervento sia stato correttamente eseguito;

c) il consenso, per essere validamente prestato, deve provenire dal paziente, mentre resta del tutto irrilevante il consenso prestato da un congiunto -anche stretto- del paziente stesso, salvo che quest’ultimo non fosse capace di intendere e di volere (cfr. Trib. Napoli n. 1317 del 30.01.1998).

Ciascuno dei principi suddetti costituisce l’espressione di una tendenza giurisprudenziale che può ritenersi ormai consolidata.

Il principio secondo cui l’intervento chirurgico o terapeutico compiuto senza il consenso del paziente costituisce fonte di responsabilità è stato più volte affermato dalla Suprema Corte, e si fonda sull’assunto secondo cui, in mancanza di informazione, il consenso non sarebbe consapevole, e, dunque, l’intervento sarebbe impedito al chirurgo. Sarebbe impedito in forza di norme addirittura primarie:

1) dall’art. 32, 2° comma della Costituzione, a norma del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge;

2) dall’art. 13 Cost. che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica;

3) dall’art. 33 L. 23.12.1978 n. 833 che esclude la possibilità di accertamenti e trattamenti sanitari contro la volontà del paziente se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità di cui all’art. 54 cod. penale.

(Cass., sez. III 25.11.1994 n. 10014; Trib. Roma 10.10.1992; Trib. Genova 20.07.1980).

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