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FABRIZIO FONDI IL GIORNO DEL PERDONO

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Academic year: 2022

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FABRIZIO FONDI IL GIORNO DEL PERDONO

Erano appena le sette della mattina e il sole era ancora una palla rosa che fronteggiava timidamente la finestra dello studio dentistico. Il medico aprì la tenda e lasciò entrare la luce. Si fermò a contemplare quella bellezza, ma il viso di suo fratello gli si conficcò di nuovo tra i pensieri e gli spazzò via di colpo ogni piacevole sensazione, lasciandolo irritato e preoccupato. Ultimamente quella faccia disperata veniva a trovarlo troppo spesso.

Scosse la testa e si riportò con decisione alla sua scrivania. Perfino uno studio dentistico, in quel silenzio celestiale, poteva diventare un ambiente piacevole. Se solo non ci fosse stato quel maledetto ricordo...

Aveva due ore di pace prima di cominciare a lavorare. Si immerse nella lettura di un articolo e qualche minuto più tardi ne fu completamente assorbito.

«Buongiorno, dottor Favia».

Il medico saltò sulla sedia per la paura. Avvinghiò la mani sui braccioli della poltrona e li strinse così tanto da farli gemere.

L'uomo di fronte a lui era alto almeno due metri e spaventosamente magro. Aveva una voce sferzante e assolutamente priva di sentimento.

Sembrava di sentir parlare un rasoio elettrico. I lunghi capelli, color biondo cenere, erano pettinati indietro e lasciavano in evidenza un naso che pareva il becco di un avvoltoio. Due baffetti biondi e sottili davano alle sue labbra l'impressione di sorridere continuamente.

Aveva ai piedi aveva un paio di stivali neri sui quali spiccavano due lucenti speroni d'argento. I suoi occhi erano vivi e attenti, e lo stavano scrutando come due cani da caccia. Furono quegli occhi ad annunciare al dottor Giovanni Favia che le cose, per qualche ragione che non gli era ancora chiara, si stavano mettendo piuttosto male.

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L'uomo si accostò lentamente alla finestra e guardò fuori.

«Ti sei sistemato piuttosto bene, dottore» gli disse continuando a guardare all'esterno.

«Lei...lei..chi...»

«Non importa granché» rispose l'uomo voltandosi con una agilità insospettata «perché in fondo lo sai, chi sono. C'è davvero bisogno che te lo spieghi?»

Gli rivolse un sorrisetto obliquo e il medico si sentì avvolgere dentro una valanga di ghiaccio.

«Qui conta poco chi sono io, caro il mio dottore. Qui conta chi sei tu».

«Io...non capisco...come ha fatto a entrare? La porta è...»

«Sono dettagli, Giovanni. Dettagli che ci portano via tempo e basta».

L'uomo gli sedette di fronte. Il suo odore era nauseabondo. Sembrava appena spuntato dal centro della terra, pensò il medico, poi si pentì di quella fantasia. Perché in fondo non era detto che fosse davvero una fantasia. Sentiva il suo cervello assalito dai pensieri più assurdi.

«Hai paura, Giovanni? E' un po' tardi, ormai...»

«Io voglio solo che lei esca da questo studio. Non l'ho sentita entrare, ma questo non vuol dire che...»

«Perché vedi» disse l'uomo ignorandolo e alzando un po' la voce «tra noi due c'è un rapporto molto speciale. E io non mi muovo mai senza un motivo, caro Giovanni Favia».

Fu spaventato dal modo in cui l'uomo aveva rimarcato il suo nome.

Come se avesse appena letto il nome di una portata appetitosa da una lista di pietanze.

«Tra noi due non c'è proprio nessun rapporto» rispose gelido il medico «e io adesso avrei un po' da fare. Perciò la prego cortesemente di...»

«E' così che pensi di scacciare i fantasmi, dottore? Pensi che basti metterli cortesemente alla porta? O magari incatenarli a una bella zavorra e buttarli nel fondo di un fiume, eh?»

Quelle parole lo paralizzarono. Il sole si era alzato e picchiava dentro la stanza imponendo il suo calore. Ma non era il sole che gli toglieva il respiro.

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«Eppure uno come te dovrebbe saperlo che i fantasmi prima o poi tornano a galla, no?»

Il dottor Favia risucchiò avidamente un po' d'aria, poi appoggiò una mano tremolante sul telefono.

«Chiamo i carabinieri, allora. Se non se ne va prima, ci penseranno loro».

«No, non lo farai» rispose l'uomo dirigendo il suo sguardo affilato verso la libreria che stava alle spalle del medico «perché non penso proprio che tu abbia un buon rapporto con loro. O sbaglio?»

Il medico allontanò rapidamente la mano dalla cornetta come se fosse incandescente.

«Allora sentiamo cosa vuole. Prima che la sua diventi una violazione di domicilio, l'avverto che io non...»

«Basta con queste cazzate, dottore. Perchè non parliamo invece delle tue violazioni? O mi vuoi dire che tu sei un santarello senza macchia?»

Giovanni Favia si sentì sprofondare in un tunnel nero come la pece.

Un tunnel senza uscita.

«Ma...ma lei chi è?»

«Me l'hai già chiesto, pezzente, eppure lo sai bene, chi sono».

Il fetore del suo alito lo stordì. Eppure quello era poca cosa rispetto al resto. Sentiva la presenza di quell'uomo tra i suoi pensieri, come una trivella inarrestabile. Gli leggeva dentro come un libro spalancato e...

L'uomo si alzò di nuovo, incredibilmente agile per la sua statura. Gli inchiodò i suoi occhi addosso e il medico si sentì senza scampo.

«Vogliamo parlare di quella notte, dottore? Eri già così religioso, quella notte? O forse lo sei diventato più tardi, giusto per mondarti l'anima...»

Giovanni Favia si portò le mani alla faccia e cercò di fermare il pianto ma non ci riuscì. Quando staccò le mani dal viso, due minuti dopo, i suoi occhi erano gonfi e le sue gote di un rosso intenso. Un filo di muco gli colava dal naso. L'uomo aspettava paziente, scorrendo le costole dei libri una a una.

«Da quella notte è passato...neanche mi ricordo più, quanto tempo è passato...»

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«Te lo dico io, dottore. Trent'anni e qualche mese. Esattamente il tempo che era previsto prima del mio intervento. E adesso eccomi qua».

L'uomo si sedette di nuovo. Il suo viso si fece di colpo serio e duro come il diamante.

«Sono venuto a sistemare le cose, Giovanni. A riportare l'equilibrio.

Mancano esattamente ventiquattro minuti. Direi che è proprio l'ora di cominciare».

«Vuole dei soldi? Dica una cifra, una qualunque...»

«Non ci fai più niente con i tuoi soldi, ora. Tra ventiquattro minuti sarai morto e i tuoi soldi se li godrà qualcun altro. Spero solo che sia qualcuno meno bastardo di te».

«Ma insomma! Basta, perdio!»

Il dottor Favia guizzò in piedi. La sua faccia era una perfetta miscela di disperazione e terrore. Le vene che gli correvano lungo il collo erano scure e spesse, gli occhi gli debordavano dalle orbite.

«Mi dica che cazzo vuole e se ne vada! E basta con questi giochetti da...»

L'uomo si alzò dalla sedia con la rapidità di un ghepardo. Lo afferrò per i capelli e gli sbatté la fronte sul piano della scrivania prima ancora che lui potesse pronunciare un'altra sillaba, poi lo spinse sulla sedia e lo mise a sedere. Sulla fronte del medico si aprì un taglio che la attraversava da una tempia all'altra. Il sangue cominciò a colare, denso e scuro come succo di ciliegia.

L'uomo attese pazientemente che il medico si riprendesse. Lo vide sbattere più volte le palpebre, rianimarsi a poco a poco e mettere a fuoco la situazione.

«Non costringermi ad anticipare i tempi, dottore. Per te sarebbe solo peggio».

Giovanni Favia si portò una mano alla fronte, poi si pulì sui pantaloni e si rassegnò a obbedire. Quell'uomo era più forte, più veloce, più cattivo di lui. Ma le sue parole erano più dolorose dei suoi colpi.

«Ti sei chiesto perché negli ultimi giorni non hai fatto che pensare a Stefano?»

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Giovanni Favia sentì un grumo intasargli la gola. L'uomo stava finalmente arrivando al dunque.

«Cosa c'entra Stefano, adesso?»

«Cosa c'entra? Diciamo...che quello è il tuo fantasma, no?»

Il medico abbassò lo sguardo. Una goccia di sangue cadde sul piano della scrivania ma lui non ci badò. Guardò invece l'uomo che sorrideva, in bocca due chiostre di piccole lapidi giallastre, sbeccate e consumate da un tempo...eterno. Adesso sembrava invecchiato di colpo: la sua pelle si era raggrinzita e ingiallita, gli occhi erano due pozzi neri infiniti, un concentrato di dolore antico.

«Adesso devi solo confessare, dottore. Poi ti falcio via come un mazzo di spighe».

Giovanni Favia fissò gli occhi dell'uomo e convenne che quello era uno sguardo capace di ammazzare.

«Allora?» insisté lui.

«Vuole...vuole sapere com'è andata? Vuole che le...»

«Io lo so già com'è andata. Voglio che tu riviva quel momento per filo e per segno».

Il medico intrecciò le mani sul piano del tavolo e fece un gran respiro.

«Sono pronto».

L'uomo sorrise e allargò le braccia.

«E allora comincia. Io sono qua per ascoltare».

* * *

Sono nato il 10 giugno del 1937, nove minuti dopo mio fratello Stefano. Nostro padre era dentista, nostro nonno era stato dentista e noi, naturalmente, eravamo destinati a fare lo stesso mestiere.

Pensare ad altro non era neanche in discussione.

Siamo stati abituati dalla vita a dividere tutto da sempre, i giochi e gli amici durante l'infanzia e l'adolescenza, le paure dei bombardamenti durante la guerra, abbracciati nei sotterranei a farci coraggio mentre la sirena fischiava tra le strade e le donne pregavano sotto ai tavoli.

Poi il lavoro, lo studio dentistico, la casa, le auto, i vestiti, gli spazi, i

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guadagni e le rinunce. Ma soprattutto le donne: niente impegni sentimentali, niente relazioni serie, solo sesso, possibilmente lussurioso e perverso, consumato alla svelta e diviso da buoni fratelli.

Professionisti irreprensibili durante il giorno, viziosi e goderecci al calare della sera. Una doppia vita condotta assieme in perfetto accordo. Talmente identica che stare separati, anche solo per qualche minuto, ci ha sempre provocato un'ansia irrimediabile. Stare da soli era come uscire di casa nudi.

Eravamo un raro e clamoroso caso di soggetti identici: nei tratti somatici, nelle espressioni, nei movimenti. Avevamo addirittura la stessa voglia color caffellatte sotto la scapola sinistra. Ci dicevano spesso che sembrava di vedere due bracci di una stessa macchina.

Praticamente due cloni con una vita identica.

Un fratello gemello è una persona alla quale non puoi nascondere nulla. Perché lui è come te, pensa e agisce come te, desidera ciò che desideri tu, odia ciò che odi tu. Parlare con lui è come parlare con sé stessi.

Questo era ciò che avevo sempre pensato fino all'anno 1968. Fino a quella fatidica e maledetta giornata dell'anno 1968 che cambiò tutto. E divise per sempre le nostre vite.

*

Era la metà di un pomeriggio zeppo di lavoro quando incrociai Stefano lungo il corridoio dello studio. Mi prese per un gomito e mi trascinò in una stanza riservata. Era sudato e ansimava.

«Hai già prenotato alla bisca?» gli chiesi. Il gioco era un'altra di quelle bestie che ci divorava le carni.

«Stasera non posso venire. Ho appena conosciuto una, giù al bar...»

«E allora?»

«Vedessi che splendore! Non riesco a togliermi dalla testa quelle gemme verdi, Giò. L'ho abbordata mentre prendeva un cappuccino.

Due chiacchiere, una passeggiata e in un lampo è passata un'ora. L'ho invitata a cena e lei ha accettato. Ancora non ci credo! È di una

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bellezza accecante, credimi. Stasera la porto alla locanda di Antonio...»

Me lo disse con una certa riluttanza. Sapeva bene che le rarissime volte che dovevamo separarci nasceva un problema per entrambi, ma intuivo chiaramente che non avrebbe potuto rinunciarne per niente al mondo. Già riuscivo a scorgere l'affacciarsi di una forza nuova e potente che lo stava trasformando. Soltanto un'ora, era passata, ma sufficiente a scavare tra noi un solco formidabile. La sua immensa portata non mi era ancora del tutto chiara.

Anzi, non mi era per niente chiara.

* * *

«Come sarebbe a dire niente sesso? Hai sprecato una serata intera a chiacchierare del nulla? Ma sei impazzito?»

Lo fissavo perplesso, quasi incredulo. I suoi occhi guardavano lontano, come se la sua vita con me fosse già passato morto e sepolto.

«Al momento di affondare il colpo non me la sono sentita. Non lo so.

All'improvviso mi è sembrata...una cosa da non fare. Avevo paura che...»

«Che non ci stesse? Bastava che mi raggiungessi alla bisca e ti saresti divertito alla grande. La carne fresca non mancava, Ste'. Non ti invidio proprio...»

«Beh, che posso dirti. Non ce l'ho fatta e basta. Domani sera la vedo di nuovo e forse stavolta...»

«Ancora? Sei proprio un masochista, allora! Quella è una scassaballe, Ste', lo sai meglio di me. Le abbiamo sempre rifuggite come la peste, quelle così».

Stefano si alzò e se ne andò dritto a dormire. Quelle battute gli facevano male e io ne godevo. E mi impegnavo cercando di distruggere una felicità che gli vedevo traboccare dagli occhi. Già allora avrei dovuto riconoscere che i nostri volti, ancora identici in superficie, avevano assunto due espressioni profondamente diverse. Il mio era ancora il ritratto del cinismo, il suo quello della speranza.

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*

«Non ho voglia di parlarne, adesso».

Era passato un altro giorno. Ridevo a crepapelle e continuavo a punzecchiarlo ma Stefano teneva la testa bassa e si manteneva serio, addirittura contrariato. Stavolta era davvero un'altra cosa. Amava già quella ragazza con tutto sé stesso, potevo sentirlo nell'aria. Lo frenava soltanto la paura delle ripercussioni sul nostro rapporto.

E io, invece di venirgli incontro, godevo a rigirare il coltello nella piaga.

« Quando sono rientrato, ieri sera, già dormivi della grossa. Che c'è, la mamma la vuole a casa entro la mezzanotte?»

«Ha ventisette anni, frequenta l'ultimo anno di medicina e vive da sola. Sarò rientrato al massimo un'ora prima di te».

«Ma insomma, te la sei scopata o no?»

«No».

«No?! E che diavolo hai fatto con lei fino alle due di notte?»

«Abbiamo conversato, Giovanni. Di un sacco di cose. E ho scoperto che è una persona meravigliosa. E' intelligente, è determinata, è leale.

Mi piace da morire...»

«Ma niente sesso...»

«Prima o poi succederà, non mi faccio tutta questa fretta».

«Questo significa che la vedrai ancora?»

«Stasera alle nove. Andiamo a cena alla Pagoda. Mi aspetta qui al bar di fronte».

«E così un'altra serata se ne va a puttane...»

«Ti consiglio di farci l'abitudine, Giò. Per una così potrei anche appendere le scarpette al chiodo. Tu ti rifiuti ancora di crederci, ma io non sono mai stato così serio. Insieme ne abbiamo fatte Dio solo sa quante, però adesso mi interessa questa ragazza, Gio'. Voglio provare a costruire una relazione con un minimo di spessore. Mi rendo conto che detto da uno come me fa ridere, ma stavolta vado fino in fondo».

Gli sedetti accanto, estrassi due banconote da cinquantamila lire e le

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posai sulla scrivania.

«Centomila che è come le altre. Me la faccio nel giro di una serata».

«Stavolta niente scommesse, Gio'. Stavolta siamo su un altro livello».

Si alzò velocemente dalla sedia e afferrò il camice senza indossarlo. Si avviò a testa bassa verso l'uscita.

«Vado a lavorare adesso».

Chiuse la porta dietro di sé lasciandomi attonito. Ancora non riuscivo ancora a crederci. Per la prima volta quella splendida vita in simbiosi, che appariva agli occhi di tutti eterna e indistruttibile, rischiava seriamente di avere fine. Per la prima volta ebbi paura. Paura di perdere metà di me stesso.

* * *

Quando fermai l'auto di fronte ai tavoli esterni del bar, dovetti ammettere che Giovanni non aveva esagerato. Dana si alzò e si diresse verso di me come se sfilasse in passerella. Sembrava scesa direttamente dal paradiso. Entrò in auto e il suo profumo inondò l'abitacolo mentre, per la prima volta, sentivo una punta di invidia farsi largo nel mio cuore. Sciolse i capelli lasciandoli liberi di fluttuare lungo la schiena fin quasi all'altezza dei fianchi. In prossimità delle punte erano giallissimi.

«Non so cosa dire. Sei splendida».

«Grazie. Anche tu sei niente male, "dottor Favia"».

Aveva un sorriso radioso. Il ristorante era a pochi minuti di auto. Ma alla sua altezza tirai dritto lungo la strada principale.

«Guarda che dovevi svoltare qui».

«Lo so. Ma voglio prima farti vedere una cosa».

«Cosa?»

«Abbi due minuti di pazienza e vedrai».

Lei rispose con un sorriso indimenticabile. Un sorriso fiducioso.

La portai in un posto sterrato a buio alla periferia della città. Quando frenai in uno spiazzo deserto, le ruote stridettero alzando attorno una spessa nube di polvere.

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«Mamma mia, che posto!»

Non le risposi. Mi voltai verso di lei e le infilai una mano tra le cosce.

La sentii irrigidirsi ma non mi fermai. Non ero abituato a fermarmi.

«Stefano...cosa fai? Io non credo di essere pronta...»

Avevo cominciato a baciarla sul collo, poi le appoggiai una mano sul seno. Spinsi un bottone laterale e il suo sedile cominciò a sdraiarsi gradualmente.

«Stefano...aspetta. Aspetta un attimo, perdio!»

Le sbottonai i primi due bottoni della camicetta e fiondai la testa tra i suoi seni senza neppure ascoltarla ma lei mi schiaffeggiò decisa.

«Stefano! Maledizione! Falla finita!»

Mi prese la testa tra le mani e quando ci guardammo lessi nel suo viso un terrore autentico. La luce nei miei occhi, il mio sguardo, la piega tortuosa della mia bocca: tutto di me in quel momento le faceva paura.

E io ero a un passo dall'essere fuori di me. La sua bellezza mi mozzava il respiro, ma il mio desiderio era in realtà ingigantito dall'idea che non potesse essere mia. Era di Stefano e lui non l'avrebbe mai divisa con me. E per questo dovevo averla.

Poi un lampo nei suoi occhi e tutto precipitò.

«Tu...tu non sei Stefano! Tu... tu sei... Giovanni! Vi...vi siete scambiati di ruolo, eh? Siete due bastardi. Siete due carogne! Lasciami, metti giù le mani, lasciami! Non mi toccare! Non ti azzardare a toccarmi!»

In trenta anni mai mi era successo che qualcuno riuscisse a distinguerci solo dal viso. Provai la orribile sensazione di essere smascherato. Qualcuno aveva scavato sotto la superficie. E in quell'attimo qualcosa si lacerò per sempre.

«Sta' zitta, puttana. Sta' zitta e ferma. Apri 'ste cosce e sta' zitta!»

Ma lei non cedette. Mi schiaffeggiò e gridò con tutta la sua forza. Mi colpì all'addome con le ginocchia. Mi insultò in tutti i modi, sbracciando e cercando di liberarsi. Cercai di calmarla ma peggiorai le cose. Finchè non sentii la rabbia montarmi addosso alla velocità della luce. E la bestia prese il sopravvento.

«Zitta, Cristo! Zitta! Zitta! Zitta!»

I pugni mi partirono dalle mani uno dietro l'altro. Sette, otto, nove,

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dieci. Tutti al volto, forti, furibondi. Non ricordo di aver mai più provato un'ira così profonda. Venti, ventuno, ventidue. Quando mi fermai, la ragazza aveva smesso di parlare da un pezzo. Le mani mi tremavano, gocciolavano di sangue ed erano livide. Il suo volto era irriconoscibile, le sue braccia, che un attimo prima avevano così fieramente dato battaglia, si erano adagiate inerti lungo il corpo. Mi sforzai di riprendere il controllo, cercando di calmare quell'incalzante batticuore che aveva accompagnato l'ondata di panico. Attorno all'auto c'erano soltanto un buio fitto e un silenzio di tomba.

E piangere sul passato non sarebbe servito a niente. Potevo solo scegliere di andare a costituirmi al primo commissariato oppure far sparire il cadavere e pulire meticolosamente l'automobile.

E questo decisi di fare.

* * *

Dormiva ancora profondamente e provai una gran pena per lui. Gli avevo fatto uno sgarro senza precedenti, ma adesso potevo solo seguire la corrente e sperare che ci portasse presto fuori dal tunnel.

Feci un lungo respiro e attaccai con la recita.

«Ste'. Vuoi svegliarti o no? Ste' !»

Ci volle un po' prima che si svegliasse, poi aprì gli occhi d'improvviso, si sedette sul letto con la bocca aperta e lo sguardo smarrito. Si guardò attorno cercando di raccapezzarsi. Sapevo cosa stava pensando. Un attimo prima era uscito dalla doccia, aveva indossato l'accappatoio e stava scegliendo il vestito da indossare per la cena con Dana. Poi si era sdraiato un istante sul letto per placare quel terribile attacco di sonnolenza che lo aveva assalito. E in un baleno si erano fatte le nove di mattina.

«Dobbiamo andare, Ste'».

Lui continuava a guardarsi attorno spaesato.

«Ma...ma...che cazzo succede? Ieri sera...»

«Ieri sera dormivi come un sasso. Ho provato a svegliarti in tutti i modi ma non c'è stato niente da fare. Allora ti ho lasciato perdere e

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sono andato alla bisca da solo. Che serata! Ho vinto quattrocentomila.

Non hai idea di cosa ti sei perso...»

Stefano neanche mi ascoltava. Si vestì alla meglio, senza neppure legarsi le scarpe. Si fermò davanti allo specchio e si diede una sistemata veloce ai capelli.

«Ci vediamo più tardi allo studio. Poi ti spiego».

Lo lasciai correre via e del resto non potevo fare altrimenti.

La tragedia puntava verso di noi. Riuscivo a scorgerla come un capitano di vascello riesce a scorgere la tempesta dalle prime avvisaglie. Ancora lontana ma inesorabilmente piazzata sulla nostra rotta. In un modo o nell'altro, in quella tempesta bisognava passarci attraverso. Io ci avevo ficcato dentro entrambi, io avrei dovuto tirare entrambi fuori.

* * *

«Sparita. Scomparsa nel nulla dall'oggi al domani. Non è possibile, non è possibile...»

I gomiti appoggiati sul tavolo, le mani tra i capelli, da quel momento Stefano aveva passato giorni interi a macerarsi. Le giornate successive le aveva trascorse dentro al bar nella speranza che lei si facesse viva.

Aveva chiesto in giro finché la rassegnazione lo aveva domato.

L'insonnia e l'inappetenza l'avevano già trasformato profondamente.

Aveva gli occhi stanchi e un viso distrutto..

«Dai, Ste'. Mangia qualcosa. Se lo vorrà, si farà viva lei. L'hai sempre detto anche tu che le donne sono strane. Magari aveva un impegno importante e non ha avuto il tempo di avvisarti. Cosa vuoi saperne, possono esserci migliaia di motivi...»

«E' successo qualcosa di brutto, lo sento. Non sono mai stato così male, Gio'. La cosa terribile è che mi sono accorto di amarla. E' la donna della mia vita, Gio'. Se le è successo qualcosa...»

Abbassò la testa tra le mani e ricominciò a sospirare e a parlare da solo. Si torturava per essersi addormentato quella maledetta sera, si arrovellava per ottenere risposte che non potevano arrivare. E io soffrivo con lui. Dovevo lavorare per due e passare il resto del giorno a

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rifilargli una bugia dietro l'altra. Non era come vivere la sua esperienza, ma mi stava sfinendo comunque.

Furono quaranta giorni di inferno nei quali mai mi riuscì di intravedere uno spiraglio di ripresa. Poi, quando finalmente all'orizzonte si profilava una schiarita, il cadavere riaffiorò dal fiume e la ferita di Stefano si riaprì con violenza.

Lo trovò un pescatore che si era imbattuto in un grosso sacco nero un chilometro prima della foce del Tevere. Il corpo era ormai irriconoscibile. Lungo il tragitto aveva battuto violentemente sulle sponde riportando numerose fratture. I pesci e i granchi avevano fatto il resto. Nonostante ciò, due giorni dopo il corpo venne identificato come quello di Dana Bernardi.

E così entrammo nella fase culminante.

* * *

Giornate interminabili e sempre uguali. Lo lasciavo a letto e a letto lo ritrovavo, in condizioni sempre peggiori: barba lunga, capelli arruffati, sporco, maleodorante. Non parlava quasi più.

Aveva dovuto subire anche due pressanti interrogatori da parte della polizia. La sua versione non li aveva convinti del tutto e le indagini erano ancora aperte. Non c'erano prove schiaccianti a suo carico e solo per questo, probabilmente, non l'avevano ancora arrestato. Ma l'idea di finire in galera neppure lo sfiorava. Era Dana, solo Dana, la causa della sua disperazione.

Massimo un anno, mi dissi per farmi coraggio. Un anno e torniamo in carreggiata.

Invece le cose peggiorarono. A poco a poco smisi di combattere e finii per considerare quella situazione come una pena da scontare per i miei peccati. Rientravo all'ora di pranzo, lo accudivo come un animale domestico, e tornavo a lavorare. Un giorno dietro l'altro.

Quando rientrai alla villa quel giorno, il sole ancora colorava di rosa le facciate chiare della casa mentre la tenda della veranda si agitava sotto

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le raffiche del vento. Dietro la tenda c'era qualcosa che sbatteva ritmicamente su di essa gonfiandone il tessuto dall'interno. Non riuscivo a togliere gli occhi da quel gonfiore mentre un'idea folle mi attraversava la mente. Aprii lo sportello dell'auto con il cuore in gola.

Venti metri di corsa con il fiato sospeso mentre dalla bocca mi usciva un gemito strano, un suono a metà strada tra il lamento, la preghiera e il pianto. Superai le tre scalette con un salto e lo trovai così, con il volto viola e gli occhi spiritati, penzolante da una corda agganciata all'anello fissato sul soffitto della veranda. Un'immagine terribile che ancora mi capita di sognare. Non ebbi neppure la forza di tentare un salvataggio impossibile; caddi in ginocchio, infilai la testa tra i suoi piedi e lo abbracciai. Urlai il mio dolore, la mia disperazione, lo strinsi con forza e rimasi non so quanto tempo in quella posizione, a domandarmi come avevo potuto essere così stupido e così crudele. In quel momento avrei dato ogni cosa al mondo per essere al suo posto.

* * *

Quando trovai la lettera, Stefano era stato sepolto da dieci giorni.

L'aveva nascosta in un cassetto dove sapeva che periodicamente andavo a guardare. Era firmata e datata il giorno della sua morte.

Sentii le gambe farsi molli e per un attimo fui tentato di gettarla via.

Ma sarebbe stata l'ennesima vigliaccheria nei suoi confronti. Non potevo scappare ancora.

Con il groppo alla gola, la aprii lentamente con un tagliacarte e mi sedetti. Mi dissi che forse avrei trovato qualche risposta. Ma quello che in realtà desideravo davvero era il suo perdono. E il suo perdono non c'era.

Lo so che sei stato tu. L'ho sempre saputo. Ma pensavo che prima o poi me l'avresti detto. Invece no, una vigliaccata dietro l'altra. Certo che l'hai veramente conciata bene. Cos'hai fatto, l'hai picchiata?

L'hai violentata? Non voleva starci e hai perso la ragione? Ho visto le tue mani, Gio', le ho viste subito. Vederle mi ha fatto star male da morire, più di tutto il resto. L'idea di te che la prendi a sberle, che le

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stringi la gola, che la getti nel fiume...

Avevo trovato qualcosa di più consistente di una bisca o di una scopata prezzolata. Avevo trovato una compagna per la vita, Gio'.

Prima o poi sarebbe successo anche a te, cosa credi? E allora la tua vita ti sarebbe apparsa come una lunga infanzia dalla quale finalmente uscire. Ho già preparato la corda, Gio'. Chiudo questa lettera e poi mi ammazzo, ma in realtà sono già morto. Certe occasioni passano una volta sola e io non ho potuto afferrare la mia per colpa tua. Mi hai condannato per sempre a una vita che non mi interessa più.

Se un giorno proverai ciò che sto provando io, allora capirai davvero. Solo allora. Nel frattempo, vivi per il meglio quanto ti resta.

* * *

«E questo è tutto. Proprio tutto».

Il dottor Favia alzò la testa con fierezza cercando di sostenere lo sguardo del pazzo che aveva di fronte. Ma ben presto la paura gli si strinse di nuovo addosso.

«Che...che succede adesso?» chiese con voce tremante.

«Succede che muori. Fai la stessa fine di quella ragazza bionda che hai steso trent'anni fa».

«E' stato un incidente, gliel'ho detto. Da quel giorno ho cambiato vita.

Sono diventato un'altra persona e...»

«Ti sei fatto trent'anni di vita di troppo, è già più di quanto meritavi. E la Giustizia arriva per tutti, Giovanni».

«Aspetti, la supplico» disse il medico alzandosi in piedi e sollevando le braccia come se quel gesto potesse fermare l'uomo.

«Ho aspettato quanto dovevo».

«La prego. La prego! Le faccio una proposta: se...»

Il coltello gli si infilò nel petto veloce come una freccia. Affondò nel suo cuore squarciandolo in due.

«Questo te lo manda Dana Bernardi, brutto bastardo».

L'uomo estrasse il coltello e lo infilò di nuovo nel petto, ancora più

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forte, ancora più veloce.

«Questo invece te lo manda Stefano».

Il medico si accasciò a terra e cominciò a vomitare sangue. La voce dell'uomo gli giungeva ancora comprensibile ma già lontana.

«Non c'è altro da dire, dottore. Il posto dove stai andando è pieno di gente come te. Starai in buona compagnia».

Favia vide gli stivali dell'uomo sfilare davanti ai suoi occhi e ripartire verso l'uscita della stanza. Sentì la porta aprirsi e richiudersi. Rimase solo un silenzio chiassoso che ingigantiva la confusione violenta dei suoi pensieri. Ma durò solo qualche attimo.

Poi il mondo si spense.

* * *

Il corpo lo trovò la sua assistente. La donna entrò nello studio qualche minuto prima delle otto e trenta. Giovanni Favia sedeva nella sua poltrona preferita di fronte alla scrivania, aperta tra le mani una rivista scientifica. La stanza era in perfetto ordine, come raramente le era capitato di vedere in venti anni che lavorava presso di lui.

Il suo medico curante ne certificò la morte pochi minuti più tardi. Gli aveva consigliato più volte di farsi operare al cuore. E' l'unico modo per prevenire un infarto, continuava a dirgli, ma lui aveva sempre rifiutato.

Due giorni più tardi si tennero i funerali. Vi partecipò un quartiere intero. Il parroco descrisse Giovanni Favia come un uomo adorabile e gentile, cortese con tutti e infinitamente comprensivo.

«Ci mancherà da morire» aggiunse prima di concludere la cerimonia.

Questo racconto è opera della fantasia. Nomi, personaggi, luoghi, avvenimenti sono il prodotto dell'immaginazione dell'autore e, se reali, sono utilizzati in modo assolutamente fittizio. Ogni riferimento a fatti e persone viventi o scomparse è del tutto casuale.

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