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LE SOCIETÀ PUBBLICHE LE SOCIETÀ PARTECIPATE DAGLI ENTI LOCALI: TEMI DI ATTUALITÀ

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LE SOCIETÀ PUBBLICHE

Viene pubblicata, in questo fascicolo, la seconda parte delle relazioni svolte al Convegno tenutosi a Bologna il 13 ottobre 2011 sul tema “Le società partecipate dagli enti locali: temi di attualità”. Le relazioni pub- blicate in questo fascicolo sono quelle di Pasquale Principato, Paolo Novelli, Salvatore Pilato, Maria Teresa Polito, Stefano Pozzoli, Sergio Sottani.

Si ringrazia la direzione della rivista Azienditalia, sulla quale le relazioni sono già apparse (2011, fasc. 3, inserto “Enti locali”), per aver consentito la ripubblicazione dei testi in questa Rivista.

* * *

LE SOCIETÀ PARTECIPATE DAGLI ENTI LOCALI: TEMI DI ATTUALITÀ

LA RESPONSABILITÀ DEGLI ENTI A PARTECIPAZIONE PUBBLICA PER GLI ILLECITI AMMINISTRATIVI DIPENDENTI DA REATO (D.LGS. N. 231/2001) (∗)

di Pasquale Principato Introduzione al tema

A un decennio dall’entrata in vigore del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, la questione dell’applicabilità di tale normativa agli enti a partecipazione pubblica è arrivata all’esame della Corte di cassazione, dove ha trovato una soluzione positiva, sulla base di una motivazione tanto lineare quanto di portata generale.

Per affrontare i profi li ricostruttivi dell’argomento, occorre partire dalla disposizione del decreto che indivi- dua i soggetti cui si applica la disciplina della responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato: l’art. 1 estende l’ambito di operatività della normativa “agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica” (c. 2), precisando però che le disposizioni del decreto

“non si applicano allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale” (c. 3).

Va anche richiamata la formulazione della legge di delega 29 settembre 2000, n. 300 e, in particolare, i principi e i criteri direttivi esposti all’art. 11: da un lato, il c. 1 individua il campo di azione della delega con riferimento alla “responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e delle società, associazioni od enti privi di personalità giuridica che non svolgono funzioni di rilievo costituzionale”, specifi cando poi al c. 2 che

“per ‘persone giuridiche’ si intendono gli enti forniti di personalità giuridica, eccettuati lo Stato e gli altri enti pubblici che esercitano pubblici poteri”.

I problemi applicativi che, fi n dall’inizio, tale formulazione ha suscitato hanno riguardato la defi nizione e individuazione degli enti pubblici non economici e, dall’altro lato, la domanda se tutti gli enti pubblici econo- mici o le società a partecipazione pubblica siano soggetti alla disciplina del d.lgs. n. 231/2001.

Come appare evidente dalle due formulazioni legislative sopra riportate, il decreto n. 231 ha dato attuazio- ne al canone defi nitorio dei soggetti sottoposti alla propria disciplina secondo una impostazione parzialmente diversa rispetto a quella della legge delega: il criterio dell’esercizio di pubblici poteri si è tradotto nella formula di “enti pubblici territoriali” e “altri enti pubblici non economici”, con la ulteriore esenzione per gli “enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale”, applicabile pervero a prescindere dalla natura pubblica o privata degli associati o partecipanti all’ente collettivo.

Una spiegazione iniziale di tale scelta è rinvenibile nella relazione governativa di accompagnamento al decreto legislativo.

(∗) Il presente articolo è la revisione dell’intervento svolto al convegno Le società partecipate dagli enti locali: temi di attualità, Bologna 13 ottobre 2011.

(2)

Sotto un primo profi lo, l’estensione dell’esenzione agli enti territoriali diversi dallo Stato (unico soggetto espressamente indicato dall’art. 11, c. 2, l. n. 300/2000) è giustifi cata sia con il richiamo all’esercizio da parte di questi di poteri tipicamente pubblicistici, sia con considerazioni di ordine sistematico, richiamandosi l’art.

197 c.p. in tema di obbligazione delle persone giuridiche per la pena pecuniaria: appare incongruo ritenere lo Stato, le regioni, le province e i comuni tenuti a pagare una somma pari alla multa o ammenda infl itta, in caso di insolvibilità del loro amministratore, rappresentante o dipendente condannato per un reato costituente viola- zione agli obblighi inerenti alla qualità rivestita o commesso nell’interesse della persona giuridica. A ciò osta il principio che lo Stato non può ritenersi obbligato a pagare a sé stesso.

Quanto all’altro parametro dell’esercizio di pubblici poteri, la relazione governativa traccia una linea alle cui estremità vi sono, da un lato, le singole pubbliche amministrazioni (anche se non direttamente riconducibili al concetto di Stato, in quanto sue indispensabili articolazioni) e, dall’altro, “i c.d. enti pubblici economici i quali agiscono iure privatorum e che, per questa ragione, meritano una equiparazione agli enti a soggettività privata anche sotto il profi lo della responsabilità amministrativa derivante da reato”. Tra questi estremi, dice la relazione, “la locuzione ‘enti pubblici che esercitano pubblici poteri’ lascia residuare ampie zone d’ombra”.

Alcuni enti sono pubblici per ragioni contingenti (Aci, Cri, ecc.) pur avendo struttura associativa e disciplina sostanzialmente a base negoziale. Altri enti hanno pacifi camente natura pubblicistica ma si connotano per lo svolgimento di un pubblico servizio.

In relazione a queste categorie di enti, la relazione dà atto della scelta che il governo ha operato, espressa- mente qualifi cata come “drastica”, anche per fi nalità di certezza del diritto.

È pur vero che “a prima vista, il dettato della delega sembrerebbe imporre l’inclusione di tutti questi enti nel novero dei destinatari delle disposizioni del decreto legislativo; il dato testuale parrebbe cioè prevedere l’assog- gettamento alla disciplina sanzionatoria come la regola: rispetto ad essa, le eccezioni andrebbero contenute nei limiti dello stretto indispensabile”.

La relazione spiega però che, per gli enti associativi, la tendenza in atto (ormai 10 anni fa) alla privatiz- zazione, ne avrebbe presumibilmente comportato l’estinzione entro breve termine e, comunque, l’estensione della responsabilità a questi soggetti “avrebbe comportato un costo probabilmente non compensato da adeguati benefi ci”.

Quanto agli enti pubblici esercenti un pubblico servizio, la relazione ritiene che “all’affermazione della loro responsabilità amministrativa in dipendenza da reato, non sarebbe stata d’ostacolo la pure evidente inopportu- nità di applicare le sanzioni di natura interdittiva, con conseguente ‘scarico’ dei costi sulla collettività. Ben si sarebbe potuto, infatti, differenziare la risposta sanzionatoria, riservando agli enti che svolgono un servizio pub- blico, la meno invasiva sanzione pecuniaria”. Anche tale soluzione, però, è stata scartata per due motivi. “Per un verso, la sanzione pecuniaria comminata nei confronti dell’ente a soggettività pubblica avrebbe sortito un effetto generale special preventivo fortemente attenuato rispetto a quello suscettibile di produrre nei confronti di enti a soggettività privata e più sensibili alla ragione economica, essendo comunque destinata a tradursi in un disservizio per la generalità dei cittadini. Per altro verso – e salva diversa indicazione del Parlamento – la scelta dei reati, in uno con ulteriori indizi normativi desumibili soprattutto dalla disciplina civilistica (calibrata sulle società commerciali), consentono di ritenere con ragionevole certezza che il legislatore delegante avesse di mira la repressione di comportamenti illeciti nello svolgimento di attività di natura squisitamente economica, e cioè assistite da fi ni di profi tto. Con la conseguenza di escludere tutti quegli enti pubblici che, seppure sprovvisti di pubblici poteri, perseguono e curano interessi pubblici prescindendo da fi nalità lucrative”.

Il complesso delle considerazioni sopra svolte è stato quindi positivamente tradotto nella defi nizione di

“enti pubblici non economici” riportata nell’art. 1, c. 3, del decreto. Peraltro, il signifi cato che il legislatore delegato intendeva assegnare a tale espressione, comprensivo cioè dell’esercizio di un pubblico servizio, al fi ne di giustifi care l’esenzione dall’applicazione della disciplina del decreto, non risulta in realtà direttamente evin- cibile secondo una interpretazione sistematica. In primo luogo, va ricordato che prima dell’introduzione della normativa sulla responsabilità amministrativa degli enti, da almeno un decennio era normativamente prevista la possibilità per gli enti pubblici di gestire servizi pubblici anche in forma societaria, con assunzione diretta della qualità di socio (insieme ad altri soci pubblici, ovvero previa selezione di un socio privato (1)). Ne consegue

(1) Basti richiamare l’art. 22 della l. 8 giugno 1990, n. 142.

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che, considerata la connotazione economica propria della gestione della maggior parte dei servizi pubblici e considerata la pacifi ca applicabilità della normativa in questione alle società, la scelta di escludere dall’applica- bilità del decreto n. 231 il settore dei servizi pubblici (quanto meno nei casi in cui vi era direttamente coinvolto come socio l’ente pubblico istituzionale) avrebbe dovuto poggiarsi su un espresso richiamo all’oggetto di tale attività più che sulla interpretazione della locuzione “enti pubblici non economici”. Sotto un altro profi lo, se è vero che l’effetto special preventivo della sanzione pecuniaria può essere ritenuto più ridotto per le forma- zioni a base pubblicistica rispetto agli “enti a soggettività privata e più sensibili alla ragione economica” (2), va anche considerata l’applicabilità del generale meccanismo della responsabilità personale dei dipendenti e amministratori nei casi in cui possa predicarsi la natura di amministrazione pubblica in capo al soggetto collet- tivo responsabile ex d.lgs. n. 231, con il conseguente assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei conti.

Infatti, l’irrogazione di una sanzione pecuniaria all’ente pubblico connessa alla commissione di un fatto reato previsto dal decreto (3) comporterebbe necessariamente una valutazione offi ciosa sulla sussistenza dei presup- posti soggettivi (essendo l’esborso di per sé un oggettivo danno per il soggetto pubblico) della responsabilità di coloro che non hanno adottato le misure previste dalla normativa o vigilato sull’applicazione delle stesse.

Il sistema è pertanto dotato (seppure in via indiretta) di un meccanismo tale da traslare l’onere della sanzione eventualmente infl itta all’ente collettivo dalla persona giuridica alle persone fi siche responsabili e tale quindi da realizzare ugualmente la fi nalità special preventiva voluta dalla norma.

In conclusione, le opzioni sistematiche – pur chiaramente manifestate dalla relazione governativa nell’ottica di fi nalità di salvaguardia del settore dei servizi pubblici erogati da soggetti direttamente partecipati da enti pubblici – non si sono poi estrinsecate in coerenti e lineari disposizioni attuative della delega.

I primi casi affrontati dalla giurisprudenza di legittimità

La questione dell’applicabilità della disciplina del d.lgs. n. 231/2001 alle formazioni con veste societaria e partecipazione pubblica è giunta nello scorso anno all’esame della Corte di cassazione. Le pronunce hanno riguardato il caso di una società mista partecipata da un ente pubblico (e in cui l’altro socio è pacifi camente privato) e avente come oggetto sociale la gestione di una struttura sanitaria riconosciuta e il caso di una società interamente controllata da enti pubblici e affi dataria del servizio di gestione di rifi uti in ambito provinciale.

La prima sentenza (Cass. pen., Sez. II, 9 luglio 2010, n. 28699, p.m. Trib. di Belluno in proc. Istituto Codi- villa Putti s.p.a. (4)) motiva la soluzione positiva con argomenti apparentemente stringenti. Si afferma che

“sono esonerati dall’applicazione del d.lgs. n. 231/2001 – avente ad oggetto la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica – soltanto lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale e gli “altri enti pubblici non economici” (cfr. art. 1, u.c.). Dunque, il tenore testuale della norma è inequivocabile nel senso che la natura pubblicistica di un ente è condizione necessaria, ma non suffi ciente, all’esonero dalla disciplina in discorso, dovendo altresì concorrere la condizione che l’ente medesimo non svolga attività economica.

Nel caso di specie difetta – quanto meno – la prima condizione, vale a dire l’assenza di attività economica, contraddetta dalla veste stessa di società per azioni dell’Istituto Codivilla Putti: ogni società, proprio in quanto tale, è costituita pur sempre per l’esercizio di un’attività economica al fi ne di dividerne gli utili (v. art. 2247 c.c.), a prescindere da quella che sarà – poi – la destinazione degli utili medesimi, se realizzati”.

La sentenza, quindi, ritiene dirimente la veste societaria assunta dal soggetto di cui si discute: la causa di tale contratto implica necessariamente l’esercizio di un’attività economica al fi ne di dividerne gli utili e, sotto tale profi lo, non può ritenersi integrata la condizione resa chiara dall’art. 1, c. 3, del decreto (enti pubblici non economici).

(2) Questa è l’espressione della relazione governativa citata supra. La natura pubblica del socio rende meno effi cace il meccanismo normalmente insito nella irrogazione di una sanzione pecuniaria ad un organismo collettivo controllato da soggetti privati (imprenditori o meno): questi sono esclusivamente mossi dall’interesse di remunerare il proprio investimento e quindi più propensi a valutare il rischio di tale evento quale conseguenza probabile o comunque possibile di una data scelta imprenditoriale degli amministratori dell’ente controllato.

(3) Così come di una delle numerose ipotesi di illecito amministrativo di cui l’ente può essere ritenuto responsabile.

(4) Con commento di S. Beltrani, La responsabilità da reato delle società a capitale misto, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2011, 195 ss. Sul tema 1, v. anche P. Ielo, Società a partecipazione pubblica e responsabilità degli enti, ibidem, 2009, 101 ss.

(4)

La motivazione aggiunge (per completezza, avendo comunque ritenuto assorbente l’argomento sopra ripor- tato) che la Cassazione civile aveva già avuto modo di esaminare le società miste affi datarie di servizi pubblici, affermandone la natura privatistica; cadrebbe così in radice la possibilità di considerare tale soggetto come

“ente pubblico”.

Anche l’altra sentenza (Cass. pen., Sez. II, 26 ottobre 2011, n. 234, p.m. Trib. di Enna in proc. Ennauno s.p.a. (5)) ripercorre lo schema logico della precedente. Si sostiene che “in base al dato normativo una corretta lettura della disciplina concernente la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica porta a ritenere che possano essere esonerati dall’appli- cazione del d.lgs. n. 231/2001, soltanto lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale e gli altri enti pubblici non economici (d.lgs. n. 231/2001, art. 1, u.c.). Appare dunque evidente che la natura pubblicistica di un ente è condizione necessaria ma non suffi ciente per l’esonero dalla disciplina in questione; deve necessariamente essere presente anche la condizione dell’assenza di svolgimento di attività economica da parte dell’ente medesimo”.

La natura economica dell’attività svolta dall’ente scrutinato viene affermata “proprio in ragione della sua struttura societaria” e, comunque, dell’espressa verifi ca statutaria secondo cui l’ente “deve informare, tra l’altro, la propria attività a criteri di economicità consentendo la totale copertura dei costi della gestione integrata e integrale del ciclo dei rifi uti, con conseguente applicabilità, nei suoi confronti dell’art. 2201 c.c.”.

In entrambe le sentenze viene anche presa in esame la possibile ulteriore causa di esonero dall’applicazione della disciplina del decreto n. 231 conseguente alla riconducibilità dell’attività svolta da tali società nel concetto di “funzioni di rilievo costituzionale” di cui al citato art. 1, c. 3.

Afferma la seconda delle sentenze che “una tale conclusione non può essere condivisa. La ratio dell’esen- zione è infatti quella di escludere dall’applicazione delle misure cautelari e delle sanzioni previste dal d.lgs.

n. 231/2001, enti non solo pubblici, ma che svolgano funzioni non economiche, istituzionalmente rilevanti, sotto il profi lo dell’assetto costituzionale dello Stato-amministrazione. In questo caso, infatti, verrebbero in considerazione ragioni dirimenti che traggono la loro origine dalla necessità di evitare la sospensione di fun- zioni essenziali nel quadro degli equilibri dell’organizzazione costituzionale del Paese”. Anche Cass. pen. n.

28699/2010 ritiene che il rilievo costituzionale dell’ente o della relativa funzione deve a rigore essere “riservato a soggetti (almeno) menzionati nella Carta costituzionale (e su ciò dottrina costituzionalistica e giurisprudenza sono pacifi che); né si può qualifi care come di rilievo costituzionale la funzione di una s.p.a., che è pur sempre quella di realizzare un utile economico”.

D’altro canto, “l’attribuzione di funzioni di rilevanza costituzionale, quali sono riconosciute agli enti pubbli- ci territoriali, come i comuni, non possono tralaticiamente essere riconosciute a soggetti che hanno la struttura di una società per azioni, in cui la funzione di realizzare un utile economico, è comunque un dato caratterizzante la loro costituzione. Una conclusione diversa porterebbe all’inaccettabile conclusione, sicuramente al di fuori sia della volontà del legislatore delegante che del legislatore delegato, di escludere dall’ambito di applicazione della disciplina in esame un numero pressoché illimitato di enti operanti non solo nel settore dello smaltimento dei rifi uti, e quindi con attività in cui viene in rilievo, come interesse diffuso, il diritto alla salute e all’ambiente, ma anche là dove viene in rilievo quello all’informazione, alla sicurezza antinfortunistica, all’igiene del lavoro, alla tutela del patrimonio storico e artistico, all’istruzione e alla ricerca scientifi ca, in sostanza in tutti i casi in cui vengono ad essere coinvolti, seppur indirettamente, dall’attività degli enti interessati, i valori costituzionali di cui alla parte prima della Costituzione” (così, Cass. pen. n. 234/2011).

Ulteriori spunti di rifl essione

Tra le ragioni che militano a sostegno della soluzione fatta propria dalla Corte di cassazione se ne possono aggiungere anche delle altre.

Nel corso di questo primo decennio di effi cacia, il legislatore è intervenuto per ampliare le fattispecie di reato da cui discende la responsabilità amministrativa dell’ente (cfr. artt. da 24 a 25-undecies). Si ricorderà anche che la relazione governativa aveva tratto dalla elencazione iniziale un chiaro segno della voluntas legislatoris di reprimere “comportamenti illeciti nello svolgimento di attività di natura squisitamente econo-

(5) Sulla quale cfr. G. Amato, Le società partecipate rispondono dell’illecito amministrativo?, ibidem, 2011, 143 ss.

(5)

mica, e cioè assistite da fi ni di profi tto”, con ciò trovando coerente esclusione per “tutti quegli enti pubblici che, seppure sprovvisti di pubblici poteri, perseguono e curano interessi pubblici prescindendo da fi nalità lucrative”.

Al di là di alcune ipotesi di reato già in astratto incompatibili con l’oggetto sociale di enti a partecipazione pubblica (6), la maggior parte delle fattispecie man mano aggiunte ben può ritenersi coerente con la natura pub- blica della persona giuridica, a prescindere dal carattere lucrativo dell’attività esercitata. Infatti, se si considera che le ragioni della responsabilità amministrativa degli enti risiedono nella fi nalità di evitare che le forme di aggressione criminale si avvalgano di “schermi” tali da bypassare la tradizionale responsabilità delle singole persone fi siche, si può convenire sul fatto che tale fi nalità rivesta anch’essa un interesse pubblico, del quale non possono non ritenersi portatrici le formazioni sovraindividuali (società, enti, associazioni) espressione degli enti pubblici.

Si può quindi affermare che dalla tendenza all’ampliamento appare ancor meno sostenibile l’esonero da responsabilità di soggetti pubblici a fronte di violazioni di normative poste a tutela di così rilevanti interessi, come la tutela dell’incolumità fi sica approntata dalla disciplina di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, oggi prevista quale fonte di responsabilità dell’ente dall’art. 25-septies.

Una ulteriore ragione può ravvisarsi negli attuali assetti del dibattito, svolto con interventi legislativi paralle- lamente a quello qui esposto, legato alla disciplina applicabile all’attività d’impresa di enti pubblici. Come noto, la giurisprudenza costituzionale ha avuto modo di ritenere che tale attività va tenuta distinta dall’attività ammi- nistrativa in forma privatistica (sent. n. 326/2008 e n. 148/2009, rispettivamente in tema di limiti dell’attività delle società strumentali delle amministrazioni pubbliche – art. 13, d.l. n. 223/2006 – e di costituzione di società e partecipazione alle stesse da parte di pp.aa. – art. 3, cc. 27-29, l. n. 244/2007). Ai fi ni che qui interessano, è rilevante il principio affermato secondo cui “non è negata né limitata la libertà di iniziativa economica degli enti territoriali, ma è imposto loro di esercitarla distintamente dalle proprie funzioni amministrative, rimediando a una frequente commistione, che il legislatore statale ha reputato distorsiva della concorrenza”.

Esigenze di coerenza sistematica richiedono quindi di considerare in maniera uniforme l’attività di impresa degli enti territoriali sia dal lato della capacità negoziale per essi conformata dal legislatore che da quello del regime delle responsabilità dell’ente imprenditore: anche in questo campo un regime differenziato rispetto ai soggetti pacifi camente privati avrebbe effetti distorsivi della concorrenza.

Infi ne, come già accennato nella prima parte, l’ordinamento già conosce ipotesi in cui la persona giuridica pubblica risponde direttamente in qualità di responsabile di violazioni amministrative sanzionate con il paga- mento di una somma pecuniaria e disciplinate secondo i principi del diritto “punitivo” (ex lege n. 689/1981):

normativa in materia di lavoro, di tutela della riservatezza, di igiene degli alimenti, di accordi lesivi della con- correnza. In tutti questi casi, non risulta siano state prospettate questioni di illegittima sottoposizione dell’ente pubblico alla sanzione sulla base della ineffi cacia special-preventiva della stessa (come affermato dalla relazio- ne di accompagnamento al d.lgs. n. 231/2001).

Quali prospettive?

Pur riconoscendo l’importanza della scelta di fondo che le prime pronunce della giurisprudenza di legit- timità hanno offerto all’interprete e agli operatori, il criterio adottato dalla Corte di cassazione secondo cui l’esenzione sarebbe riconoscibile solo in caso di assenza di esercizio di attività economica (circostanza questa da escludere in radice quando l’ente è costituito in forma societaria) appare rigido quanto meno nei casi in cui l’oggetto dell’attività sociale sia un servizio a rilevanza non economica. In tale contesto, la veste societaria non sarebbe di per sé signifi cativa di quella funzione tipica prevista dall’art. 2247 c.c. (nei termini valorizzati dalle sentenze della Corte di cassazione) essendo infatti accompagnata spesso da contribuzioni dell’ente socio estra- nee al principio di autosuffi cienza del ciclo produttivo costi-ricavi proprio dell’attività d’impresa.

D’altro canto, e prendendo atto dell’interpretazione restrittiva data alle ipotesi di esonero dall’applicazione del d.lgs. n. 231/2001, va sottolineato che la sostanza degli adempimenti richiesti dalla normativa (peraltro, non come obbligo ma come facoltà, dalla cui attuazione conseguono positivi benefi ci) consiste nell’adozione di uno

(6) V., ad esempio, l’art. 25-bis: Falsità in monete, in carte di pubblico credito, in valori di bollo e in strumenti o segni di riconosci- mento, oppure l’art. 25-quater 1: Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili.

(6)

specifi co modello organizzativo, disciplinato dagli artt. 6 e 7 d.lgs. cit. I contenuti di tale modello rappresen- tano un’applicazione specifi ca di criteri di corretta e prudente organizzazione interna di strutture organizzative complesse: l’ente pubblico, in qualità di socio di società controllate o partecipate non può che trarre vantaggio dall’adozione e implementazione di tali controlli interni, nel quadro di una effi cace governance dell’organismo partecipato.

In questa direzione, va condivisa la prassi di dotare su base volontaristica gli enti di tali modelli, anche nei casi “dubbi” così come è positiva la previsione, nelle procedure di selezione del contraente o di riconoscimento di fi nanziamenti o agevolazioni, di specifi che valorizzazioni legate al possesso del modello organizzativo ex d.lgs. n. 231/2001 (7).

Va infi ne segnalata la previsione della recente legge regionale Abruzzo, 27 maggio 2011, n. 15, Adozione dei modelli di organizzazione e di gestione ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di per- sonalità giuridica, a norma dell’art. 11 della l. 29 settembre 2000, n. 300) e modifi ca all’art. 67 della l. reg. n.

1/2011. In questo caso, l’adozione dei modelli è stata imposta ope legis “agli enti dipendenti e strumentali della regione, con o senza personalità giuridica, ai consorzi, alle agenzie ed alle aziende regionali, nonché alle società controllate e partecipate dalla regione ad esclusione degli enti pubblici non economici, nel rispetto dell’autono- mia statutaria di cui alla disciplina civilistica in materia”. Pur con le indubbie interferenze con la competenza legislativa statale in materia di ordinamento civile e penale, si può ritenere che l’intervento citato abbia legitti- mamente applicato la potestà legislativa riconosciuta al legislatore regionale per i profi li di organizzazione delle proprie strutture amministrative.

* * *

LA RESPONSABILITÀ DEL “SOCIO PUBBLICO”

NELLA GESTIONE DEI RAPPORTI CON LE SOCIETÀ PARTECIPATE

di Paolo Novelli La Suprema Corte sposta il “fuoco” delle responsabilità dagli amministratori al “socio pubblico”

Sulla responsabilità degli amministratori di società partecipate da amministrazioni pubbliche è noto il recen- te pronunciamento della Suprema Corte di cassazione avvenuto nell’anno 2009. Una rifl essione di insieme è compiuta nella relazione del collega Salvatore Pilato.

Ai fi ni che interessano l’esposizione dei temi assegnati, basti il richiamo alla summa divisio individuata in quell’occasione dalla Corte di cassazione per dirimere le questioni connesse alla perimetrazione della giurisdi- zione contabile in materia.

Con la sentenza la Suprema Corte (Sez. unite, sent. 27 ottobre 2009, n. 26806) ha ritenuto che – di regola – le società partecipate da enti pubblici siano assoggettate – anche con riguardo al regime delle responsabilità – alle norme del codice civile. Fanno eccezione – e quindi come tali devono essere verifi cate dall’interprete di volta in volta – le “fi nte società”, cioè quegli organismi che seppur formalmente costituite come società ai sensi del codice civile, disvelino in realtà la loro effettiva natura di organismi di diritto pubblico, enti pubblici quindi, e come tali suscettibili di essere ricompresi nel novero delle pubbliche amministrazioni (Sez. unite, ord. 27 otto- bre 2009, n. 27092, “Rai s.p.a.”). Per questi soggetti quindi, seguendo tale orientamento, l’interprete dovrebbe individuare la vera natura deducendola da una serie di indicatori che descrivano il regime giuridico “singolare”

della società ed i rapporti che la legano alle amministrazioni pubbliche titolari delle quote di partecipazioni sociali, in sostanziale deroga o rilevante devianza rispetta quello ordinario.

(7) Su questo tema, cfr. C. Manacorda, Il “buon andamento” della pubblica amministrazione: i contributi del decreto n. 231, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2012, 9 ss.

(7)

In questo senso la Corte di cassazione si è pronunciata anche per altre società, quali Anconambiente s.p.a.

(ord. 27 ottobre 2009, n. 4671), Casinò municipale di Campione di Italia s.p.a. (ord. 9 aprile 2010, n. 8437), Enav s.p.a. (ord. 3 marzo 2010, n. 5032). La lettura delle motivazioni delle decisioni richiamate consente di ponderare gli aspetti che di volta in volta la Suprema Corte ha ritenuto di rilievo dirimente nel riconoscere a tali soggetti giuridici la vera natura di enti pubblici economici.

Ma al di fuori di questi casi, per le altre società, cioè per quelle “vere”, il regime giuridico può invece essere rinvenuto solamente nel codice civile, nel libro V, titolo V e, per quanto concerne la responsabilità degli ammi- nistratori, nel relativo sistema delle responsabilità (artt. 2392 ss. c.c. e art. 2476 c.c. per le s.r.l.). Difatti, secondo la Corte regolatrice, l’azione di responsabilità sociale è diretta a ristorare il patrimonio sociale compromesso dalla mala gestio degli amministratori.

Ma tra questi amministratori e l’ente pubblico socio non ricorre alcun rapporto di servizio, che invece è confi gurabile unicamente tra i primi e la società. Vale pienamente la distinzione tra la “personalità giuri- dica della società di capitali e quella dei singoli soci e la piena autonomia patrimoniale dell’una rispetto agli altri non consentono di riferire al patrimonio del socio pubblico il danno che l’illegittimo comporta- mento degli organi sociali abbia eventualmente arrecato al patrimonio dell’ente: patrimonio che è e resta privato”.

Nella misura quindi in cui la condotta dell’amministratore arreca un danno al patrimonio della società, non vi è luogo per ipotizzare una parallela azione erariale promossa nei confronti dei medesimi soggetti da parte del p.m. contabile. Questi difatti può chiedere il ristoro di un danno erariale che, come tale, è confi gu- rabile solamente nei confronti del soggetto pubblico titolare delle quote sociali (mentre è noto che l’effetto deprimente prodotto al valore della quota sociale è una mera conseguenza indiretta del danno arrecato al patrimonio sociale). Restano dunque al p.m. contabile – in questa prospettiva – solamente i casi di condotte degli amministratori di società partecipate da enti pubblici che abbiano arrecato un danno diretto al patrimo- nio dell’ente socio (come è il caso del “danno all’immagine”), sulla “falsariga” dell’azione individuale del socio prevista dall’art. 2395 c.c.

La situazione, come visto, si inverte completamente per quelle società che disvelino la loro natura sostan- ziale di ente pubblico. In tali casi il p.m. contabile può promuovere l’azione di responsabilità ipotizzando anche un danno arrecato direttamente al patrimonio della società (che quindi in realtà è da confi gurarsi come danno ad un “patrimonio pubblico”) e non solamente all’ente pubblico titolare delle quote sociali. E tale azio- ne convive pienamente, senza rinvenire impedimenti che non siano il perdurante interesse ad agire, con le parallele azioni di responsabilità che fossero promosse anche contemporaneamente davanti all’Ago a mente del codice civile.

Non è certo questa la sede per commentare questo nuovo corso del giudice dei confl itti (1).

Piuttosto, procedendo dal “diritto vivente”, e tenendo conto della “regola” che vuole le società partecipate da amministrazioni pubbliche – in quanto tali – sottratte alla giurisdizione contabile con riguardo alle azioni di responsabilità promuovibili verso gli amministratori, preme svolgere alcune rapide considerazioni sulle con- seguenze che derivano da una simile ricostruzione, con riguardo al “ruolo” ed alle responsabilità del “socio pubblico”.

In proposito la Suprema Corte ha sostenuto che la suddetta limitazione della giurisdizione contabile non arrecherebbe alcun pregiudizio alla tutela delle ragioni del socio pubblico, poiché “nell’attuale disciplina della società azionaria – ed in misura ancor maggiore in quella della società a responsabilità limitata – l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità, in caso di mala gestio imputabile agli organi della società, non è più monopolio dell’assemblea e non è più, quindi, unicamente rimessa alla discrezionalità della maggioranza dei soci. Ne consegue che, trattandosi di società a partecipazione pubblica, il socio pubblico è di regola in grado di tutelare egli stesso i propri interessi sociali mediante l’esercizio delle suindicate azioni civili. Se ciò non faccia e se, in conseguenza di tale omissione, l’ente pubblico abbia a subire un pregiudizio derivante dalla perdita di valore della partecipazione, è sicuramente prospettabile l’azione del procuratore contabile nei confronti (non già dell’amministratore della società partecipata, per il danno arrecato al patrimonio sociale, bensì nei confronti) di chi, quale rappresentante dell’ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia

(1) Si vedano, tra le altre, le decisioni n. 14957/2011, n. 14655/2011, n. 10062/2011, n. 10063/2011, n. 16286/2010, n. 8429/2010.

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colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio ed abbia perciò pregiudicato il valore della par- tecipazione. Ed è ovvio che, con riguardo ad un’azione siffatta, vi sia piena competenza giurisdizionale della Corte dei conti”.

Tale assunto si pone in linea di continuità con il leading case costituito da “Acque albule s.p.a.” di Tivoli (Cass., Sez. unite, n. 13702 del 22 luglio 2004, reg. giur. su C.d.c. Sez. II centr. app., n. 96 del 26 marzo 2002):

“per il sindaco del comune sussiste l’obbligo di esercitare le azioni di responsabilità verso gli amministratori, a tutela del patrimonio comunale. L’esercizio di tali azioni, ricorrendone i presupposti, costituisce quindi un obbligo giuridico e non rientra tra le attività discrezionali rimesse a valutazioni di merito”.

Ne deriva che il socio pubblico è tenuto in quanto tale a verifi care la ricorrenza dei presupposti per agire nei confronti degli amministratori e degli altri soggetti quando essi abbiano arrecato un pregiudizio alla società secondo le regole dettate dal codice civile ma, ed in questo sta la differenza sostanziale rispetto il regime proprio di tali azioni, l’esercizio costituisce non una scelta discrezionale insindacabile, ma un vero e proprio obbligo giuridico, con ogni conseguenza in merito alla rinunciabilità e disponibilità che connotano le ordinarie azioni sociali di responsabilità.

Chi è il “socio pubblico”?

Occorre quindi chiedersi chi sia il “socio pubblico”, ovvero, come ricorda la Corte di cassazione, quel

“rappresentante dell’ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso”. Questione in realtà non scevra di diffi coltà, poiché non è detto che – sempre e necessariamente – in capo al soggetto formalmente titolare della rappresentanza ex lege in seno all’assemblea sociale siano rinvenibili altresì i poteri di decidere per l’ente pubblico titolare della partecipazione sociale (2). Limitando l’attenzione alle società partecipate dagli enti territoriali minori, il richiamo va innanzi tutto all’art. 50, lett. b), del tuel che assegna al sindaco/presidente della provincia, la rappresentanza legale dell’ente.

Essi quindi rappresentano l’ente, gli unici ai quali è assegnata la rappresentanza generale dell’ente e la capa- cità di esercitarla (si vedano anche l’art. 6, c. 2, del tuel e l’art. 50, c. 8).

In sostanza, il sindaco o il presidente in quanto tali possono rappresentare l’ente in assemblea sociale senza abbisognare di alcuna delega od investitura particolare. Saranno i sostituti, piuttosto, che necessiteranno di una delega. Ma per il rinvio disposto dal tuel, allo statuto dell’ente per l’individuazione delle modalità di esercizio di tale potere di rappresentanza, è possibile che in esso si prevedano sia forme di delegazione della rappresentanza dell’ente nelle assemblee delle società partecipate, sia anche più in generale la regolamentazione del sistema della governance.

Ai soggetti appena menzionati, il tuel affi anca anche il consiglio, al quale spettano in ogni caso le decisioni fondamentali sulla vita dell’ente a mente dell’art. 42 tuel.

Ne deriva che, come criterio generale, nella ripartizione dei compiti in materia tra sindaco/presidente, giunta e consiglio, si può ritenere che la materia in parte sia defi nibile in statuto, ma che spettino in ogni caso al con- siglio le decisioni sugli atti, esso difatti, in quanto organo di indirizzo politico-amministrativo, ha competenza in materia di assunzione di partecipazioni in società di capitali (art. 42, c. 2, lett. e) di indirizzi da osservare per la nomina e la designazione dei rappresentanti del comune presso enti, aziende ed istituzioni (art. 42, c. 2, lett. m), nonché di indirizzi da osservare da parte delle aziende pubbliche e degli enti dipendenti, sovvenzionati o sottoposti a vigilanza (art. 42, c. 2, lett. g). In quest’ottica si è ritenuto che spettino al consiglio tutte le deci- sioni suscettibili di avere un rifl esso sulle modalità organizzative del servizio pubblico, od una ripercussione sul bilancio di previsione dell’ente, quali l’emissione di un prestito obbligazionario, la quotazione in borsa, il mutamento dell’oggetto sociale, ecc.

Può quindi affermarsi che in presenza di decisioni fondamentali il consiglio debba essere messo in con- dizioni di potersi esprimere preventivamente, con cognizione di causa, dando indicazioni vincolanti per chi rappresenterà l’ente in assemblea sociale.

E con riguardo alla decisione di promuovere l’azione sociale di responsabilità, ci si potrebbe chiedere se in materia possa decidere autonomamente il sindaco, in qualità di rappresentante dell’ente in assemblea, ovvero

(2) G. Cantisano, Decisioni prese dal rappresentante legale dell’ente nelle aziende partecipate: rappresentanza formale o sostanzia- le?, in La fi nanza locale, n. 9/2007, 105 ss.

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egli necessiti, eventualmente secondo lo statuto, dell’autorizzazione della giunta, oppure ancora, data la sua intrinseca gravità, la decisione possa farsi rientrare, seppur con qualche forzatura, tra gli ‘indirizzi’ che debba esprimere il consiglio ai sensi dell’art. 42, c. 2, lett. g).

Ma le responsabilità del “socio pubblico” certamente non si limitano alla sola doverosa verifi ca delle condi- zioni per promuovere l’azione di responsabilità verso gli amministratori. Sussiste ancor prima in capo all’ente l’obbligo di prestare adeguata tutela del valore intrinseco della partecipazione sociale e, ancor maggiormente, degli interessi pubblici perseguiti utilizzando lo strumento societario. Doveri che sorgono sin dal momento della decisione di costituire una società, o di assumervi una partecipazione, così come per ogni altra forma di inter- vento fi nanziario che utilizzi le risorse dell’ente. Quindi, la concreta individuazione delle relative responsabilità dipende anche dalla particolare strutturazione della governance dell’ente verso le proprie partecipate.

Tale aspetto assume un particolare signifi cato per le c.d. società in house providing, poiché è noto che la confi gurabilità di tale modulo organizzatorio presuppone un controllo stringente dell’ente e forme di direzione tali da limitare grandemente, se non sino annullare, ogni autonomia decisionale degli amministratori, ricondu- cibile a forme analoghe alla “delegazione interorganica” (3). Si intende dunque che il “rapporto in house” tra ente pubblico e società è in grado di integrare o modifi care lo “statuto” delle responsabilità. Innanzi tutto, la relazione seppur non formalmente organica, ma funzionale, tra amministratori della società in house e pubblica amministrazione, è comunque volta a conseguire un controllo analogo a quello che l’ente ha sui propri uffi ci potrebbe confi gurare, nella sostanza, un “rapporto di servizio” diretto tra i due soggetti, mettendo in crisi la opinabile summa divisio concepita dalla Suprema Corte.

Secondariamente, peserà certamente in modo non indifferente il riscontro di come in concreto sia stata attuata la governance sulle società in questione, sia dal punto di vista commissivo, cioè come responsabilità di co-gestione, ma anche da punto di vista omissivo, come mancata realizzazione, utilizzo e/o considerazione di adeguati strumenti informativi, idonei a rendere edotti per tempo gli organi di vertice dell’ente socio.

I nuovi rischi dell’insolvenza della società pubblica

Da un diverso punto di vista, la stretta relazione tra ente pubblico e società rischia di condurre, una volta che si profi li all’orizzonte il rischio della crisi e dell’insolvenza, a conseguenze assai gravose anche per il bilancio complessivo dell’ente stesso. È evidente che l’esercizio del potere di ‘direttiva’ e le altre forme di ingerenza e di controllo da un canto non elidono le responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali ma soprattutto potrebbero infl uenzare l’eventuale azione sociale di responsabilità, potendosi confi gurare ipotetiche responsa- bilità da co-gestione tra amministratori pubblici e componenti del consiglio di amministrazione della società, tanto più gravide di conseguenze se si giungesse ad irreversibili situazioni di insolvenza, nell’ambito delle quali deve mettersi in conto anche l’eventualità del fallimento della società stessa. In tali casi (ma non solo) è stata ipotizzata in dottrina (4) la possibilità di ricondurre in capo all’ente una responsabilità sussidiaria per abuso da direzione e coordinamento ex art. 2497 ss. c.c. nonché, con riguardo alle persone fi siche, una responsabilità in solido a norma del c. 2 del medesimo art. 2497 c.c., insomma di quegli amministratori pubblici e dirigenti che avessero preso parte all’“etero-direzione”.

Parimenti, se non ancor più facilmente, potrebbe ipotizzarsi una responsabilità solidale degli amministratori e dei soci nella s.r.l. (ai sensi degli artt. 146 l. fall. e 2476 c. 7 c.c.) e quindi del socio “unico” ente pubblico (eventualità assai frequente) in caso di abusi commessi da amministratori pubblici in rappresentanza dell’ente.

Ma se anche la società pubblica insolvente non fosse ritenuta assoggettabile a fallimento, resterebbe il rischio di coinvolgere l’ente nella procedura di dissesto.

* * *

(3) Sia consentito anche il rinvio a P. Novelli, Le società in house, in P. Novelli, L. Venturini, La responsabilità amministrativa davanti all’evoluzione delle pubbliche amministrazioni ed al diritto delle società, Milano, 2008.

(4) F. Fimmanò, La responsabilità da abuso del dominio dell’Ente in caso di insolvenza di società partecipata. Sulle questioni indotte dalla disciplina dettata dagli artt. 2497 ss. c.c. in materia di direzione e coordinamento, con riferimento alle società pubbliche, si v.: Enti locali - Attività di direzione e coordinamento, documento del Gruppo di studio Servizi pubblici del Consiglio nazionale dottori commer- cialisti e del Consiglio nazionale ragionieri, dicembre 2006, nonché M. Sebastianelli, Direzione e coordinamento: rifl essi applicativi, in Azienditalia n. 10/2007, 733 ss.

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I RECENTI ORIENTAMENTI DELLA CORTE DI CASSAZIONE

SULLE SOCIETÀ PUBBLICHE: QUALI STRUMENTI PER LA CORTE DEI CONTI?

di Salvatore Pilato L’attualità del punto di vista osservazionale

La giurisdizione della Corte dei conti sulle società partecipate dagli enti locali costituisce oramai da tempo un tema strategico per l’esercizio delle attribuzioni riservate al giudice della fi nanza pubblica, poiché su tale complessa ed alquanto variegata fenomenologia economica insiste una molteplicità di fattori che imprimono la logica della continua revisione dei principi interpretativi e delle regole applicative.

Il primo fattore di revisione permanente della materia possiede fondamento normativo, poiché la legislazio- ne fi nanziaria ha optato – prima – verso scelte di favore per la c.d. esternalizzazione soggettiva di servizi ed atti- vità pubbliche, individuando nella società di capitali lo strumento naturale per il conseguimento della migliore effi cienza organizzativa, ma ha – poi – ripiegato verso discipline vincolistiche e limitative per circoscrivere l’ambito delle missioni e delle competenze consentite.

Il secondo fattore mutante è rappresentato dal continuo perfezionamento ed affi namento dei criteri di ripar- tizione della giurisdizione elaborati dalla Corte di cassazione, i quali da ultimo si esprimono in affermazioni di principio fondate sulla distinzione della partecipazione pubblica dal patrimonio sociale.

Il terzo fattore di revisione assume natura osservazionale, poiché è incentrato sulla mutevole morfologia della società partecipata, la quale si presenta con fenomeni caratterizzati prima dalla espansione orizzontale (società c.d. multiservizi e generaliste), e poi dalla espansione verticale (società c.d. di terzo livello), con una molteplicità di implicazioni sul mercato e sulla tutela della concorrenza.

Utilizzando le chiavi di lettura proposte dalla giurisprudenza amministrativa è necessario non abbandonare mai il punto cardinale dell’analisi economica dell’impresa pubblica, la quale – a causa e per l’effetto dell’in- vestimento di risorse di derivazione pubblica – assume connotazioni peculiari nella propria collocazione sul mercato.

Infatti, come osserva il giudice amministrativo, si tratta di società a capitale minimo garantito, che confi da- no – quindi – in genere, su un affi damento in house, su un contratto di programma o su un contratto di servizio conforme alle discipline comunitarie. Su tale presupposto giuridico di rilevanza economica, le società pubbliche conseguono la certezza di una provvista fi nanziaria assolutamente idonea a coprire i costi generali di funziona- mento e di organizzazione.

Il giudice amministrativo discute, in proposito, di società c.d. “di terza generazione”, e più recentemente di società di “terzo livello”, per l’allargamento dell’area delle partecipazioni azionarie, distinguendo le società strumentali dalle società esercenti i servizi locali, alle quali ultime non si applicherebbero i regimi limitativi di più recente introduzione (da ultimo, sui vincoli di cui all’art. 13 d.l. n. 223 del 4 luglio 2006, convertito dalla l.

n. 248 del 4 agosto 2006, cc. 1 e 2: cfr. Cons. Stato 4 agosto 2011, n. 17).

Le invarianti concettuali dimenticate. Le immunità di fatto

Per il paradossale andamento dei corsi e dei ricorsi storici, le invarianti concettuali (v. M.S. Giannini) che ausiliano la giurisdizione della Corte dei conti, piuttosto che costituire punti di principio fermi ed immodifi cabi- li, rappresentano invece deboli momenti di rifl essione, talvolta accantonati con la conseguenza della privazione di adeguate “chiavi di lettura” da utilizzare per muovere il sistema di tutela degli interessi fi nanziari della pub- blica amministrazione.

La fuga dell’amministrazione nel diritto privato (M. Nigro), la privatizzazione di secondo grado (S. Casse- se), la oggettivazione dell’azione amministrativa (P. Maddalena), la distinzione tra privatizzazione “formale”

e “sostanziale” (o tra privatizzazione “fredda” e “calda”, in Corte cost. n. 466/1994), sono le “chiavi di lettura”

storiche e risalenti nel tempo con uno sguardo di retrospettiva, per arginare il fenomeno delle immunità di fatto, individuato nella recessione dell’azione pubblica di responsabilità patrimoniale, e nell’affi damento esclusivo al sistema delle azioni di responsabilità sociale per la protezione del patrimonio della società partecipata.

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Le immunità di fatto si superano attraverso strumenti di cognizione idonei a “snidare la pubblicità reale”

della società “insincera” (T. Ascarelli), collocando in evidenza la governance complessiva del settore di attività, la infl uenza dominante, la collocazione nel mercato ed il ruolo del socio pubblico.

La giurisprudenza della Corte costituzionale sui limiti delle attività di diritto privato delle società pubbliche Già nella sent. n. 326 dell’1 agosto 2008 la Corte costituzionale aveva esaminato le limitazioni apposte dalla disciplina statale all’area di mercato occupata dalle società di capitali a partecipazione pubblica, ed aveva rico- nosciuto la fondatezza della distinzione tra l’attività amministrativa in forma privatistica e l’attività d’impresa degli enti pubblici.

In particolare, la Corte costituzionale aveva affermato la legittimazione della pubblica amministrazione a svolgere entrambe le attività (pubblica in forma privatistica, e d’impresa tout court) attraverso lo strumento della società di capitali, purché siano diverse le condizioni giuridico-fattuali di esercizio di ciascuna di queste.

Ciò perché nel primo caso (attività pubblica in forma privatistica) sussiste l’attività amministrativa di natura fi nale o strumentale, posta in essere dalla società di capitale che opera per conto della pubblica amministrazione.

Nel secondo caso, invece (attività d’impresa nel libero mercato), sussiste la erogazione di servizi al pubblico (consumatori o utenti) in regime di concorrenza con l’impresa privata.

La tendenza normativa verso la separazione delle due sfere di esercizio evita che il medesimo soggetto, il quale svolga attività amministrativa, eserciti allo stesso tempo attività d’impresa, benefi ciando dei privilegi giuridici e/o fattuali in godimento nella qualità di pubblica amministrazione.

Tale conclusione è riproposta nella sentenza della Corte costituzionale n. 148 del 4 maggio 2009.

Con tale decisione la Corte costituzionale ha ritenuto la infondatezza delle questioni di legittimità inerenti il divieto per le amministrazioni pubbliche di costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie fi nalità istituzionali, il divieto di assumere o mantenere direttamente o indirettamente partecipazioni, anche di minoranza, nelle società medesi- me, salva la deroga in relazione alle società che producono servizi di interesse generale ed alla assunzione di partecipazioni in tali società, nell’ambito dei rispettivi livelli di competenza amministrativa, con la contestuale disciplina delle modalità di assunzione e mantenimento delle partecipazioni consentite, e di dismissione di quelle vietate (art. 3, cc. da 27 a 29, l. n. 244/2007).

Nell’interpretazione della ratio legis, il giudice costituzionale, pur riconoscendo che “la creazione di enti e società per lo svolgimento di compiti di rilevanza pubblica è e rimane uno strumento utilissimo per perseguire maggiore effi cienza a vantaggio della collettività”, ha evidenziato il duplice scopo “di evitare forme di abuso (la cui esistenza è verosimile, tenuto conto che sono circa tremila, ad esempio, le società partecipate dalle pubbli- che amministrazioni, che sottraggono l’agire amministrativo ai canoni della trasparenza e del controllo da parte degli enti pubblici e della stessa opinione pubblica)”, e di “tutelare la concorrenza e il mercato”.

I nuovi orientamenti della Corte di cassazione sulla giurisdizione nei confronti della società pubblica

Negli orientamenti della giurisprudenza della Corte cassazione sono stati di recente introdotti nuovi profi li di ermeneutica giuridica nell’interpretazione del complesso fenomeno delle attività d’impresa e delle attività di rilevanza economica della pubblica amministrazione, soprattutto in considerazione della confi gurazione giuri- dica assunta dalla società di capitali a partecipazione pubblica.

In particolare, la Corte di cassazione ha introdotto la distinzione tra il danno arrecato alla partecipazione di capitale del socio pubblico (danno erariale alla pubblica amministrazione), ed il danno cagionato – viceversa – direttamente alla società partecipata, e solo indirettamente al patrimonio pubblico (danno al patrimonio sociale).

Su tale distinzione opera il criterio innovativo della ripartizione di giurisdizione tra Corte dei conti e giudice ordinario, poiché solo il danno al patrimonio pubblico (o danno alla partecipazione sociale-pubblica) è assorbito dalla cognizione del giudice della fi nanza pubblica, mentre viceversa il danno diretto solo ed esclusivamente al patrimonio sociale (danno societario) è attratto dagli strumenti di tutela civile-risarcitoria riservati alla compe- tenza del giudice ordinario, salva la posizione di vigilanza della giurisdizione fi nanziaria sull’eventuale omesso esercizio dei diritti dell’azionista pubblico per il ripristino del valore della propria partecipazione (c.d. tutela di secondo grado).

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La tutela della legalità amministrativa e fi nanziaria: quali strumenti per la Corte dei conti?

Appaiono utili alcune considerazioni sui contesti generali all’interno dei quali operano i mezzi di tutela a disposizione del giudice della fi nanza pubblica.

Il primo contesto generale è intimamente legato al fabbisogno complessivo di legalità fi nanziaria a garanzia degli equilibri di bilancio, affi nché la sana e corretta gestione delle risorse pubbliche costituisca la pre-condizio- ne indefettibile alla buona amministrazione dei diritti fondamentali della persona e del cittadino.

Il secondo contesto generale è dipendente dalla individuazione dei profi li interpretativi rivolti al perfe- zionamento degli strumenti procedimentali e processuali nei poteri riservati alla Corte dei conti, per renderli conformi ai principi di effettività e di pienezza della tutela degli interessi pubblici, sempre più adespoti (v. N.

Mastropasqua, Il ruolo della Corte dei conti, in Atti Convegno, Varenna 2011).

Il terzo contesto generale è contraddistinto dai profi li evolutivi da innestare sui recenti interventi normativi appartenenti alle manovre economiche di risanamento dei bilanci pubblici, ed al percorso di attuazione del federalismo fi scale.

Le misure anticorruzione in un sistema a tutela integrata

Il diritto alla buona amministrazione inizia a diffondersi quale espressione di sintesi per indicare un siste- ma giuridico nel quale i tre principi indisponibili della legalità, del buon andamento e dell’imparzialità nella gestione dei pubblici poteri, rappresentano il presupposto per la piena realizzazione dei diritti fondamentali della persona.

In tale contesto si inseriscono le nuove concezioni sulla pianifi cazione del sistema di contrasto dei fenomeni corruttivi, all’interno del quale devono operare una molteplicità di strumenti di natura eterogenea, integrati tra loro per fi nalità non solo repressive, ma soprattutto preventive e dissuasive.

La maggiore espansione oggettiva e soggettiva dell’ambito della giurisdizione contabile costituisce stru- mento di contrasto della corruzione e del condizionamento criminale delle pubbliche amministrazioni, in attua- zione delle previsioni della l. 3 agosto 2009, n. 116 di ratifi ca della Convenzione Onu sulla corruzione.

La mutazione della morfologia delle strategie anticorruttive è connessa alla modifi cazione genetica dei sistemi e dei comportamenti corruttivi.

La corruzione possiede oggi una dimensione lata, che impone una concezione anch’essa lata nella predi- sposizione degli strumenti di contrasto. Invero, la corruzione è anche favoritismo, clientelismo, deviazione del sistema procedimentale di scelta degli interessi pubblici a vantaggio di gruppi di interessi privati che ottengono posizioni di dominio contrattuale e di mercato.

Le mafi e si trasformano oggi in imprese global service che assumono posizioni di dominio nei rapporti con- trattuali con la pubblica amministrazione, e nella cura dei propri interessi economici divengono centri di inter- mediazione con tutti i soggetti che intendono entrare nel mercato e nei molteplici settori che lo compongono.

I nuovi modelli normativi, organizzativi ed interpretativi, degli strumenti di contrasto dei fenomeni corrut- tivi, intesi in senso lato, si ricongiungono alla nuova concezione della trasparenza delle attività amministrative, la quale diviene il naturale habitat normativo indicato quale “livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili, ai sensi dell’art. 117, c. 2, lett. m), della Costituzione”.

Il controllo della Corte dei conti sugli enti locali per il rispetto del patto di stabilità interno

Al fi ne di verifi care la effettività della tutela del diritto alla buona amministrazione è opportuno dedicare un’analisi specifi ca al sistema dei controlli sui bilanci e sulle attività di gestione degli enti locali.

Materia ed argomenti di rifl essione sono offerti dalla Corte costituzionale nella sent. n. 37/2011 depositata il 9 febbraio 2011, la quale dichiara il difetto di legittimazione della Corte dei conti a sollevare questione di legittimità costituzionale nello svolgimento delle funzioni di controllo disciplinate all’art. 1, cc. 166-169, l. n.

266/2005 (legge fi nanziaria 2006) in materia di rispetto del patto di stabilità interno e dei vincoli in materia di indebitamento posti dall’art. 119 Cost., trattandosi di attività di natura “non giurisdizionale”.

La ricostruzione sistematica operata dalla Corte costituzionale sulla diversità tra tipi e modi di esercizio delle funzioni di controllo intestate alla Corte dei conti offre una molteplicità di stimoli alla rifl essione ed all’ap- profondimento, poiché – nella loro autentica sostanza – i controlli collaborativi a garanzia della sana gestione

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fi nanziaria non appaiono talmente dissimili dalle altre forme di controllo, al punto tale da potere segnare una linea di demarcazione così netta. Ed infatti, essi si sviluppano con strumenti e forme qualifi cate da rapporti in contraddittorio con le amministrazioni, anche nella fase dell’adozione delle misure auto-correttive.

Ciò costituisce la palese e chiara dimostrazione che la giustizia fi nanziaria e contabile si confi gura come un sistema di istituti e di strumenti che procedono oltre la giurisdizione contenziosa intesa in senso stretto, al fi ne di produrre sulle amministrazioni pubbliche effetti d’accertamento e regolatori con l’utilizzazione di procedimenti mirati all’auto-correzione delle scelte di bilancio, ed all’ausilio delle attività di gestione con interpretazioni rese in forma consultiva, e quindi non contenziosa.

Ad un inquadramento unitario delle funzioni di controllo riservate alla Corte dei conti, contribuiscono le recenti misure di garanzia del patto di stabilità introdotte dalla manovra economica di contenimento della spesa pubblica, ed il procedimento di accertamento del fallimento “politico” dell’ente locale con le conseguenti sta- tuizioni interdittive dalle funzioni pubbliche elettive (cfr. infra).

I lineamenti del giudizio di conto nei confronti dei consegnatari di azioni in società a partecipazione pubblica Il ritorno di attualità del giudizio di conto, quale fenomeno processuale partecipe della ricerca di strumenti di “certezza legale” sulle gestioni pubbliche inizia ad estendersi anche alle partecipazioni azionarie in società costituite, e/o controllate, e/o fi nanziate con capitale e comunque con contributi fi nanziari di provenienza pub- blica.

Le Sezioni unite della Corte di cassazione con l’ord. n. 7390/2007 depositata in data 27 marzo 2007 hanno espressamente statuito l’infondatezza delle opinioni che vorrebbero escludere i titoli azionari dal novero dei beni mobili, il cui maneggio importa l’assoggettamento dell’agente contabile al giudizio di conto in conformità alla disciplina generale di contabilità pubblica.

Le questioni di rilievo possono esprimersi nei temi che seguono, nei quali risiedono potenzialità espansive rimesse a puntuali soluzioni interpretative:

a) defi nizione dei criteri utilizzabili per la individuazione dell’agente pubblico sul quale incide la legitti- mazione passiva per la resa del conto, optando tra il criterio della “mera” custodia o custodia “pura” dei titoli (criterio statico), ed il diverso e più complesso criterio della attività di amministrazione e gestione della parteci- pazione azionaria principale e delle partecipazioni collegate o derivate (criterio dinamico);

b) individuazione con esemplifi cazioni sempre più esaustive, ma sempre aperte a nuove enumerazioni, dei fatti fondamentali e rilevanti per la determinazione della variazione di valore dei titoli azionari, e conseguente specifi cazione degli atti e dei documenti sensibili all’onere di allegazione nell’adempimento dell’obbligo di resa del conto;

c) possibile espansione delle utilità tipiche del giudizio di conto, al fi ne di renderlo duttile e fl essibile, e quindi idoneo all’accertamento di fatti rappresentativi di punti di criticità di matrice normativa, tra i quali la entità dei compensi liquidati agli amministratori e la misura di congruità secondo l’andamento della gestione d’impresa e la eventuale formazione di utili d’esercizio (cfr. legge fi nanziaria 2007 e 2008), la acquisizione o la cessione di partecipazioni azionarie in società collegate, e le modalità di esercizio della posizione di dominio (cfr. artt. 3 e 27 l. 24 dicembre 2007, n. 244 – legge fi nanziaria 2008).

La tutela induttiva alla buona gestione economica e fi nanziaria

L’individuazione dei punti critici negli strumenti procedimentali e processuali a disposizione della Corte dei conti, e la elaborazione di effi caci criteri di mediazione nel riparto di giurisdizione con il giudice ordinario, sono entrambi profi li che si ricongiungono tra loro e confl uiscono verso logiche interpretative utili a correggere, inte- grare e rafforzare le misure d’intervento della Corte dei conti sulle gestioni azionarie a partecipazione pubblica.

L’emergenza di dissesti fi nanziari nella gestione dei bilanci degli enti locali, e la diffusione di stati d’in- solvenza nelle società a partecipazione pubblica locale, conseguenti a defi cit fi nanziari non più suscettivi di ripianamento per ricapitalizzazioni approvate dal socio pubblico, pongono in evidenza i punti di fragilità del sistema di protezione degli interessi fi nanziari della pubblica amministrazione, il quale non può essere fondato solo ed esclusivamente su misure di contrasto successive al defi nitivo consolidamento degli eventi lesivi della integrità della fi nanza pubblica.

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Peraltro, iniziano a profi larsi comportamenti elusivi del patto di stabilità interno, concepiti nella predisposi- zione degli atti di bilancio al fi ne di occultare e rendere latente il dissesto fi nanziario della società pubblica e/o dell’ente locale partecipante.

La strategia di contrasto di tali fenomeni richiede il completamento del sistema di tutela attraverso la uti- lizzazione dei controlli concomitanti (1) e di strumenti processuali inibitori della insana gestione fi nanziaria ed induttivi al ripristino della legalità fi nanziaria (cfr. anche, ord. ex art. 700 c.p.c., Corte conti, Sez. giur. reg.

Campania, n. 146 del 20 luglio 2011).

I nuovi raccordi tra controllo e giurisdizione nelle nuove discipline sul dissesto fi nanziario

Le fi nalità di prevenzione fi nanziaria in un nuovo quadro normativo favorevole al perfezionamento del raccordo tra il controllo e la giurisdizione fi nanziaria della Corte dei conti sugli enti locali, costituiscono uno dei più importanti profi li che ispirano i recenti interventi legislativi per la stabilizzazione e lo sviluppo, e per l’attuazione del federalismo fi scale.

Il raccordo tra il controllo e la giurisdizione della Corte dei conti è sancito dalle disposizioni normative poste a presidio del rispetto del patto di stabilità interno, ed a garanzia della vigilanza preventiva sulla insorgenza dello stato di dissesto fi nanziario (2).

Dall’accertamento della responsabilità amministrativa discende anche la comminatoria di misure soggettive temporaneamente interdittive dello svolgimento di incarichi pubblici di natura elettiva e non elettiva, con esten- sione del giudizio dinanzi alla Corte dei conti a statuizioni sull’affi dabilità professionale degli amministratori degli enti locali (3).

La sopravvenienza del nuovo quadro normativo, contraddistinto anche dalla introduzione di nuovi strumenti di prevenzione e di ricognizione dei dissesti fi nanziari, coincide con la progressiva emergenza di veri e propri stati di necessità nei quali la pubblica amministrazione è chiamata a fronteggiare la apertura delle procedure concorsuali, liquidatorie e/o fallimentari, delle società a partecipazione pubblica, con le implicazioni gestionali discendenti dalla possibile applicazione della disciplina sull’abuso di etero-direzione imputabile nei confronti della posizione soggettiva dominante (cfr. artt. 2497 ss. c.c.).

* * *

IL CONTROLLO SULLE SOCIETÀ PARTECIPATE DAGLI ENTI LOCALI CHE FRUISCONO DI SOVVENZIONI COMUNITARIE

di Maria Teresa Polito Le società e la disciplina comunitaria

Verrà qui fatta qualche breve considerazione sul tema del Convegno da un osservatorio particolare quale è quello, all’interno della Corte dei conti, della Sezione di controllo affari comunitari ed internazionali.

Il diritto comunitario nella gestione delle società a partecipazione pubblica si è da sempre preoccupato di affermare che la scelta delle stesse rispondesse, alle regole del mercato concorrenziale. Il giudice comunitario, infatti, ha in più occasioni censurato regimi normativi nazionali comportanti l’attribuzione ingiustifi cata di diritti speciali o esclusivi con la formazione o il rafforzamento di posizioni di monopolio, ritenendo che ai sensi dell’art. 86, c. 2, del Trattato Ce, ora art. 106, c. 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue),

(1) Cfr. art. 11 l. n. 15/2009 (Corte dei conti).

(2) Cfr. l. 15 luglio 2011, n. 111, Disposizioni urgenti per la stabilizzazione fi nanziaria (conv. d.l. n. 98/2011), art. 20 (c. 12) nuovo patto di stabilità interno: parametri di virtuosità.

(3) Cfr. d.lgs. 6 settembre 2011, n. 149 Meccanismi sanzionatori e premiali relativi a regioni, province e comuni, a norma degli artt.

2, 17 e 26 della l. 5 maggio 2009, n. 42), art. 6, Responsabilità politica del presidente di provincia e del sindaco.

(15)

l’attribuzione di un privilegio economico ad un’impresa potesse assumere un profi lo di discriminazione non tollerabile nell’ambito del diritto dell’Unione; ciò in linea con l’esigenza del rafforzamento dell’integrazione europea. Da tale orientamento è derivato il percorso dell’intervento normativo comunitario volto a garantire – anche nei confronti di tali soggetti – la trasparenza e la par condicio – nel mercato degli appalti. A seguito di tale impostazione, si è sviluppato in Italia un acceso dibattito, in particolare in relazione alle società in house (soggetti esterni all’amministrazione che adempiono a compiti/servizi di interesse pubblico) ed ai requisiti che le stesse dovessero possedere per non essere lesive del diritto comunitario nella materia degli appalti pubblici.

In particolare, sia la Corte di giustizia che il Consiglio di Stato, hanno, con una giurisprudenza oramai consoli- data, fi ssato specifi ci punti, ai fi ni della valutazione di legittimità degli affi damenti diretti, per quanto riguarda in particolare l’accertamento della reale sussistenza del c.d. controllo analogo (1).

Nel sistema nazionale, che ha visto, all’inizio degli anni duemila, con gran favore la proliferazione di tali società, sia nella forma di società in house che di società partecipate per la gestione di servizi sociali, anche di interesse economico generale, va registrata, dal 2008 in poi (con la l. n. 133/2008), un’inversione di tenden- za, volta a porre restrizioni in stretta connessione con le diffi coltà di gestione dei bilanci degli enti locali. Gli interventi più rilevanti sono consistiti nella sottoposizione delle società ai medesimi vincoli posti dal patto di stabilità a carico degli enti locali, nell’obbligo di adottare, per le assunzione di personale, le modalità selettive previste per gli enti pubblici, nell’obbligo di esperire gare per la fornitura di beni e servizi, nonché in consistenti riduzioni degli organi di gestione delle società stesse, oltre che ad obblighi di riduzione della spesa per studi e consulenze.

I controlli della Corte dei conti

Sulla contabilità degli enti locali e sulla rifl essa contabilità delle società, la Corte dei conti da tempo svolge attività di controllo nella misura in cui i bilanci delle società incidano sui bilanci degli enti locali.

Tali controlli sono stati svolti, in particolare, tenendo conto dell’impatto, sui bilanci degli enti, delle situa- zioni acclarate di perdita delle società e quindi, sulle diffi coltà economiche-fi nanziarie per gli enti pubblici di osservare i vincoli posti dalla disciplina del patto di stabilità interno. È infatti evidente che alla magistratura contabile non è consentito fare controlli tout court sulle società partecipate dagli enti territoriali.

Ma, in più occasioni, l’Istituzione Corte dei conti ha ribadito l’esigenza che si pervenisse ad una rappre- sentazione autentica, veritiera e corretta della gestione delle diverse amministrazioni riconducendo, tendenzial- mente in modo unitario, i risultati dei bilanci pubblici.

Si è più volte sottolineata l’urgenza, anche in rispetto dei principi contabili internazionali (Ipsas n. 6), che si pervenisse al consolidamento dei bilanci pubblici, con quelli delle partecipate.

Solo così è possibile per l’ente valutare l’effettiva situazione fi nanziaria, l’ammontare della gestione e la situazione patrimoniale del complesso degli enti che consolidano i conti permettendo di individuare, anche con riguardo alle entità che costituiscono il gruppo, la situazione globale dei diversi rapporti economico-fi nanziari.

Ma se il limite sopra indicato ha caratterizzato i controlli della Corte sulle società partecipate da enti loca- li, con riguardo, invece, a società che hanno fruito di aiuti comunitari, i controlli della Corte hanno seguito logiche più ampie. Il sistema comunitario infatti, in tale materia, è indirizzato ad analizzare la buona spendita delle risorse dell’Unione (il principio di sana gestione è individuato in diverse norme del Tfue, fra cui gli artt. 310, c. 5, e 317, c. 1); esso tende, quindi, a “inseguire” la risorsa pubblica da chiunque sia amministrata, piuttosto che valutare la natura pubblica o privata dei soggetti gestori. Ovviamente, il sistema nazionale, che è responsabile nei confronti dell’Unione, sia in materia di fondi strutturali che in materia di fondi in agricol- tura, della corretta gestione di tali sovvenzioni, tende a premunirsi, prevedendo nei disciplinari, al momento dell’ammissione, che il soggetto benefi ciario (anche società) si sottoponga a tutti i controlli previsti dai regolamenti comunitari.

La Corte italiana già da anni, anche alla luce dell’art. 3, c. 8, della l. n. 20/1994, “può effettuare controlli nei confronti di terzi contraenti o benefi ciari di provvidenze fi nanziarie a destinazione vincolata” (art. 16, c. 3, l. 12 luglio 1991, n. 203, per la disciplina dettata dall’art. 2, c. 4, del d.l. n. 453/1993, convertito dalla l. 14 gennaio 1994, n. 19), fra cui vanno sicuramente annoverate le sovvenzioni comunitarie.

(1) Consiglio di Stato, ad. pl., 3 marzo 2008, n. 1.

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