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Il principio di legalità è riconosciuto come principio cardine degli ordinamenti statali liberali

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1. Introduzione.

Il principio di legalità è riconosciuto come principio cardine degli ordinamenti statali liberali. La sua affermazione nella maggior parte delle costituzioni nazionali come diritto fondamentale dell’individuo deriva dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, elaborata durante la Rivoluzione francese. D’altronde, se il diritto penale è stato definito come “ il potere punitivo legalmente limitato dello di uno Stato”, il principio di legalità costituisce uno dei capisaldi, forse il più importante, dei limiti all’esercizio di quel potere.

Ricopre inoltre un ruolo fondamentale nel concretare l’effettiva separazione dei poteri tra legislativo e giudiziario, tra chi ha il compito di determinare in modo chiaro le condotte punibili e chi ha il dovere di punire quelle e solo quelle. Si può dire, insomma, che il principio di legalità riveste due

diverse, ma strettamente connesse, funzioni.

Nell’ordinamento internazionale, come è noto, il principio di legalità opera essenzialmente in quanto diritto fondamentale volto a tutelare l’individuo attraverso la determinatezza e la prevedibilità del dato giuridico. Tuttavia, a livello internazionale, l’applicazione del principio di legalità solleva questioni in parte diversi da quelle che

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esso pone all’interno degli ordinamenti nazionali. Uno dei problemi sollevati dall’applicazione del principio di legalità in relazione alla repressione di crimini internazionali da parte di tribunali internazionali è legato alla natura non scritta di alcune fonti del diritto internazionale penale.

Norme incriminatici aventi la loro fonte in consuetudini internazionali o in principi generali di diritto,infatti, hanno talora confini incerti e sono il risultato di un processo di formazione in cui è difficile stabilire il momento preciso di affermazione definitiva della regola.

L’incertezza che ne consegue può apparire,a prima vista, difficilmente compatibile con un pieno rispetto del principio di legalità.

Proprio in considerazione di questo dato, alcuni tribunali internazionali penali si sono interrogati intorno alla possibilità di fare riferimento, accanto alla norma internazionale, anche al diritto interno dello Stato che ha uno stretto collegamento con l’evento criminoso, sia esso lo Stato ove è stato commesso il crimine o quello di nazionalità dell’imputato, al fine di determinare l’effettiva prevedibilità ed accessibilità della norma incriminatrice da parte dell’individuo nei confronti del quale questa deve trovare applicazione.

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In particolare, tale questione è stata affrontata in una recente decisione delle Camere straordinarie per la Cambogia; in precedenza, alcuni spunti rilevanti in proposito erano stati sviluppati nella giurisprudenza del Tribunale internazionale penale per la ex Iugoslavia.

La presente indagine si propone di chiarire quale possa essere la rilevanza del diritto interno dello Stato ove è stato commesso un crimine o di quello di nazionalità dell’imputato ai fini del rispetto del principio nullum crimen sine lege nel diritto internazionale penale.

Prima di entrare nel merito della questione, si ripercorrerà, seppur brevemente, l’evoluzione storica del principio nullum crimen nel diritto internazionale penale, sottolineando la crescente importanza che esso

ha assunto di fronte alle giurisdizioni internazionali penali.

Saranno poi messi in risalto gli aspetti che più condizionano il rispetto del principio nell’ordinamento internazionale, insistendo in particolare sui problemi

derivanti dall’applicazione di norme internazionali non scritte e dal decisivo ruolo dei giudici nello sviluppo e nella determinazione del contenuto delle stesse.

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Infine, sarà analizzata la giurisprudenza rilevante, individuando le diverse impostazioni che sembrano sottendere le soluzioni giudiziali accolte, al fine di metterne criticamente in luce pregi ed ambiguità.1

2. L’evoluzione del principio nullum crimen sine lege nel diritto internazionale penale.

In quanto garanzia fondamentale dell’individuo all’interno di un processo penale, il principio di legalità si sostanzia in due distinti divieti: il divieto di condannare un individuo per un crimine che tale non era al tempo della commissione del fatto (nullum crimen sine lege) e il divieto di applicare una sanzione non prevista dalla legge

(nullapoena sine lege).

In ambito internazionale, tale principio, nelle sue due componenti, è riconosciuto espressamente sia in trattati a portata universale (per esempio, nell’art. 15, par. 1, del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966) sia in trattati regionali (tra gli altri, nell’art. 7, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del1950).

Oggi sembra possibile sostenere che il principio di legalità non costituisca un diritto fondamentale dell’individuo riconosciuto come tale da una norma internazionale di natura consuetudinaria.

1 Rivista di diritto internazionale Ed Giuffrè 2012 Volume XCV Pag.809-810.

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Il Tribunale per il Libano ha recentemente affermato che esso è destinato ad avere una posizione di supremazia sia sulla legge locale, sia su quella internazionale. (jus cogens).

Nella giurisprudenza dei tribunali internazionali penali, tuttavia, il principio di legalità non ha sempre avuto la centralità che, attualmente riveste all’interno dello Statuto della Corte penale internazionale.

Da parte del Tribunale militare internazionale di Norimberga, la massima nullum crimen sine lege fu espressamente qualificata come a principio di giustizia. Non è chiaro, tuttavia, quale rilevanza fosse in definitiva attribuita dal Tribunale a tale principio di giustizia, anche se la posizione del Tribunale appariva orientata nel senso che, a causa della gravità ed atrocità dei crimini perpetrati, altri e più importanti principi

di giustizia rispetto a quello di legalità dovessero prevalere per condurre alla punizione dei colpevoli.

Al riguardo sono note le critiche e le problematiche sollevate dal fatto che i Tribunali militari internazionali

di Norimberga e di Tokyo punirono condotte che non potevano certamente dirsi ricomprese nella categoria dei crimini internazionali al tempo della commissione dei fatti di causa.

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Tuttavia, la necessità di non lasciare impunite condotte ritenute inaccettabili anche se non previste dal diritto internazionale al momento della loro commissione imponeva ai giudici di ritenere il principio di legalità cedevole di fronte ad esigenze repressive ritenute superiori. È peraltro noto che, nell’esercizio della propria competenza giurisdizionale, il Tribunale non diede alcuna rilevanza al diritto interno della Germania nazista.2

3. (Segue) Da Norimberga alla Corte Penale Internazionale.

Quando si evoca Norimberga, viene subito alla mente il dato di fatto che esso fu un processo dei vincitori contro i vinti. Questo fu un grave limite ma allo stesso tempo, Norimberga segnò una svolta nella storia sotto molti altri punti di vista.

Il primo è che si decise che i maggiori responsabili del nemico sconfitto non dovessero essere passati per le armi, né sottoposti a processo sommario né amnistiati; i principi dello stato di diritto imponevano che fossero processati per accertarne le colpe. Ciò pose un problema enorme: come fare per accertare le colpe di centinaia di migliaia di tedeschi che avevano in qualche modo partecipato ai misfatti nazisti? La soluzione fu la distinzione degli imputati in due

2 Rivista di diritto internazionale Ed Giuffrè 2012 Volume XCV Pag.811-812.

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categorie: da una parte leader e organizzazioni criminose ( ss, Gestapo), da processare davanti ad un tribunale internazionale;

dall’altra, le migliaia di esecutori, da far passare davanti a tribunali nazionali dei vari paesi in cui avevano commesso crimini. Venne così istituito un tribunale “internazionale” che agiva secondo una procedura inventata per la prima volta.

Un altro merito del tribunale di Norimberga è che, mentre prima, al termine di un conflitto venivano processati solo militari, normalmente di basso grado, nel 1945 per la prima volta vennero sottoposti a giudizio penale i vertici militari, ministri, grandi banchieri ed economisti, diplomatici di rango e artefici della propaganda.

Un’altra decisiva novità fu che vennero introdotte due nuove categorie di crimini. Oltre ai tradizionali crimini di guerra si decise di punire l’”aggressione” e i “crimini contro l’umanità”. Gli avvocati degli imputati protestarono contro questa violazione del principio dell’irretroattività della legge penale: gli imputati venivano puniti per fatti che non erano criminalizzati prima del 1945. La Corte rispose che il principio nullum crimen sine lege è una “massima di giustizia”, che però deve cedere ogni qualvolta sarebbe più ingiusto lasciare impuniti crimini atroci per mancanza di una norma incriminatrice.

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Decidere di punire crimini contro l’umanità significò che per la prima volta si poteva condannare i leader di uno stato per aver commesso atrocità contro i propri cittadini.

L’introduzione di quelle due nuove categorie di crimini si è poi consolidata nella comunità internazionale e nessuno più le mette in dubbio.

A Norimberga venne proclamato un altro principio fondamentale: il fatto di aver commesso un crimine internazionale in esecuzione di un ordine superiore non esime dalla responsabilità penale; ne rispondono sia il superiore sia colui che ha eseguito l’ordine. Questo principio, che ad una prima lettura sembrerebbe scontato, ancora oggi non è universalmente accettato: gli americani lo hanno fatto attenuare nello Statuto della Corte penale internazionale, escludendone l’automatica applicazione per i crimini di guerra, anche se poi hanno reintrodotto il più rigoroso principio di Norimberga nello Statuto del Tribunale speciale per Saddam Hussein.3

4. La repressione penale dei crimini internazionali da parte dei tribunali interni.

3 “Il sogno dei diritti umani” Antonio Cassese Ed Serie Bianca Feltrinelli 2008 Pag.125-127.

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Tradizionalmente, gli Stati esercitano la propria potestà punitiva sulla base di due principi: territorialità ( quando l crimine è stato perpetrato sul proprio territorio); nazionalità attiva (quando il crimine è stato commesso da un proprio cittadino). Alcuni Stati, fra cui l’Italia, accolgono anche il principio di nazionalità passiva, e dunque affermano la propria giurisdizione quando la vittima del crimine è un proprio cittadino.

Il principio di territorialità è quello maggiormente applicato, sia per le regioni ideologiche, infatti questo principio esalta il concetto di sovranità nazionale, sia per ragioni di ordine pratico, dato che la raccolta delle prove si rivela ovviamente più facile sul territorio in cui il crimine è stato commesso.

In materia di punizione dei crimini internazionali, le convenzioni stipulate in materia normalmente prevedono che gli Stati debbono esercitare la propria potestà punitiva anche alla luce del principio di universalità. Si tratta di un principio di competenza giurisdizionale molto ampio, che consente ad uno Stato di affermare la propria giurisdizione penale a prescindere dal luogo di commissione del crimine, e dalla nazionalità del presunto reo o della vittima. Il principio di universalità opera secondo due varianti. Nella sua accezione condizionata, il principio di universalità è idoneo a radicare

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la giurisdizione di uno Stato soltanto se il presunto autore del crimine si trova sul territorio di quest’ultimo ( c.d foro dello Stato di cattura).

In questa versione condizionata, il principio di universalità è accettato, nel diritto internazionale consuetudinario, per la pirateria. A livello convenzionale, esso è previsto per la repressione delle c.d infrazioni gravi delle Convenzioni di Ginevra del 1949 e del primo Protocollo addizionale del 1977; per la repressione della tortura; per gli atti di terrorismo previsti nelle varie Convenzioni dell’ONU in materia, e per il traffico internazionale di droga.

In una più ampia accezione, il principio di legalità consente l’esercizio della giurisdizione penale da parte di uno Stato verso i crimini commessi all’estero, da stranieri, nei confronti di cittadini stranieri, a prescindere dalla presenza del presunto reo sul proprio territorio. Si parla in questo caso di principio di universalità “pura”, o universalità tout court.

E’ evidente che l’applicazione del principio di universalità può dare luogo ad abusi. Questo rischio può sussistere, in maniera particolare, nei confronti degli organi supremi dello Stato che, per timore di un possibile esercizio della giurisdizione penale universale da parte di Stati stranieri, potrebbero incontrare impedimenti nell’esercizio delle proprie funzioni ufficiali all’estero.

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E’ opportuno precisare che non sembra che nel diritto internazionale consuetudinario si sia venuta a formare una norma che imponga agli Stati di esercitare la propria potestà punitiva sui crimini internazionali.

L’obbligo in questione è quindi contenuto esclusivamente in taluni trattati internazionali.4

5. (Segue) La prassi degli Stati.

In materia di repressione dei crimini internazionali la prassi degli Stati si è orientata principalmente secondo due direzioni, distinguendo la criminalità individuale dalla criminalità di sistema. La prima comprende i crimini di guerra commessi dai combattenti di propria iniziativa e per ragioni “ proprie”. La seconda comprende invece i crimini commessi su ampia scala, principalmente per ottenere vantaggi bellici, su richiesta, o con l’acquiescenza o la tolleranza, dell’autorità governativa. Generalmente, la prima forma di criminalità è punita dalle autorità dello Stato cui appartiene il reo; mentre il secondo tipo di criminalità, quella di sistema, è solitamente punita da tribunali internazionali o da tribunali nazionali dello Stato nemico, cui appartengono le vittime.

4 “Le sfide attuali del diritto internazionale” Antonio Cassese Paola Gaeta Ed. Il Mulino 2008 Pag.203-205.

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Occorre tuttavia osservare che la circostanza che la repressione dei crimini di natura propriamente internazionale è stata a lungo affidata unicamente alle giurisdizioni nazionali (fino alla creazione della CPI, infatti, non esisteva alcun organo internazionale di giustizia innanzi a cui potessero essere sottoposti a giudizio individui accusati di aver commesso uno dei crimini in discorso) ha rappresentato un grosso limite. Infatti, gli Stati che vantano un incontestabile titolo giurisdizionale per l’esercizio dell’attività repressiva, in primis lo Stato territoriale, ma anche quello di nazionalità del presunto autore, sono comunque solitamente quelli meno interessati ad esercitarla. Non resta che il principio di universalità penale della giurisdizione.

Quest’ultimo consentirebbe ad ogni Stato di esercitare l’azione repressiva sui crimini in discorso, a prescindere dal luogo di commissione del fatto o della nazionalità dell’autore del crimine (ma purchè l’accusato si trovi sul territorio dello Stato del foro o vi sia un altro collegamento con il crimine). Ammesso comunque che il diritto internazionale, compreso il diritto internazionale consuetudinario, autorizzi con certezza gli Stati a reprimere i crimini in questione sulla base del principio di universalità, si può dubitare che essi si avvalgano di tale possibilità in modo cospicuo. I procedimenti penali per crimini commessi all’estero sono difficili da condurre, per la difficoltà di

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reperire il necessario materiale probatorio, nonché spesso politicamente inopportuni. Lo Stato che non ha alcun collegamento con il crimine può dunque non avere alcun interesse concreto a perseguirlo.

E’ per queste ragioni che i fautori del rafforzamento dell’azione repressiva sui crimini internazionali ripongono molte speranze nella CPI e nella volontà degli Stati parti allo Statuto di Roma di porre la Corte in condizioni di operare efficacemente.5

6. La repressione penale da parte di tribunali internazionali.

Dopo i tribunali penali internazionali di Norimberga e Tokyo, la svolta decisiva si è avuta negli anni ’90: nel 1993 e nel 1994, infatti, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ha istituito due Tribunali penali internazionali ah hoc (quello per la Ex Jugoslavia e quello del Ruanda).

I fattori che hanno consentito questo progresso sono principalmente due.

Il primo, di cruciale importanza, è costituito dalla fine del bipolarismo. Ciò ha ingenerato, per un certo periodo, un relativo

5 “Le sfide attuali del diritto internazionale” Antonio Cassese Paola Gaeta Ed. Il Mulino 2008 Pag.205-207.

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ottimismo nel campo delle relazioni internazionali, a sua volta stimolato da alcuni elementi:

a) l’affievolimento della diffidenza reciproca che aveva frustrato lo sviluppo di relazioni amichevoli e della cooperazione tra Est e Ovest;

b) la circostanza che gli Stati formatisi a seguito della dissoluzione dell’URSS, e principalmente la Federazione russa, cominciarono ad accettare e rispettare alcune regole fondamentali del diritto internazionale;

c) il realizzarsi fra i membri permanenti di convergenze di vedute in seno al Consiglio di Sicurezza, con la conseguente possibilità per questo organo di iniziare a funzionare in maniera più efficace rispetto al passato.

Un secondo fattore è rappresentato dall’importanza crescente della dottrina dei diritti umani. L’enfasi posta sulla necessità di rispettare la dignità umana e, di conseguenza, di punire tutti coloro che la calpestano in modo grave accentuò e diffuse l’esigenza del ricorso alla giustizia penale internazionale.6

6 “Le sfide attuali del diritto internazionale” Antonio Cassese Paola Gaeta Ed. Il Mulino 2008 Pag.207-209.

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7. Il rispetto del principio nullum crimen in caso di applicazione di norme di diritto internazionale penale non scritte.

Uno dei principali problemi che solleva l’applicazione del principio di legalità a livello internazionale riguarda la questione come tale principio possa essere conciliato con la natura per lo più consuetudinaria delle norme di diritto internazionale penale e con l’importante ruolo svolto dai giudici nel determinarne il contenuto. Il principio nullum crimen sine lege, per come è stato tradizionalmente inteso nei sistemi di civil law, si compone di quattro distinti corollari:

a) la forma scritta della norma penale;

b) la sua determinatezza;

c) il divieto di analogia;

d) la non-retroattività nell’applicazione della stessa.

È opportuno sottolineare che il requisito per cui la norma che prevede la condotta criminosa deve essere certa e determinata è stato recentemente riaffermato in modo chiaro anche dalla Corte penale internazionale, secondo la quale le norme penali non devono solo essere preesistenti, ma anche certe e scritte.

Le difficoltà inerenti al processo di identificazione delle norme internazionali consuetudinarie o dei principi generali in materia penale sembrano potere influire sul rispetto del principio di legalità.

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Il requisito della prevedibilità, infatti, non concerne soltanto la norma incriminatrice applicabile, ma riguarda anche il metodo di individuazione di tali norme. In altre parole, un certo grado di determinatezza è richiesto anche sul modo attraverso il quale i giudici procedono ad identificare il contenuto della norma applicabile. Come è noto, il riconoscimento di una consuetudine internazionale o di un principio generale di diritto internazionale, e del preciso contenuto di questi, costituisce un’operazione che può rivelarsi assai problematica.

Inoltre, possono sorgere difficoltà nel garantire il rispetto del nullum crimen a livello di diritto internazionale penale anche in relazione ad un’altra delle caratteristiche intrinseche al principio stesso: la concreta accessibilità della norma da parte dell’individuo. Una norma non scritta e che si forma a livello interstatale si presenta come meno accessibile da parte di un individuo rispetto ad una norma scritta e consacrata nel dato legislativo nazionale.

Inoltre, proprio a causa della particolare natura delle fonti non scritte, il ruolo svolto dai giudici nella determinazione delle norme internazionali penali di natura consuetudinaria e dei principi generali di diritto è stato fondamentale e ancor più decisivo forse che in qualsiasi altro ramo del diritto internazionale.

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Lo spazio lasciato alla attività ricostruttiva dei giudici, peraltro, non può essere visto come automaticamente in contrasto con il principio di legalità. Al contrario, e ciò risulta più evidente nei sistemi di common law, un certo margine di “creatività” è inevitabilmente delegato all’organo giudiziario sia per la necessaria opera interpretativa e ricostruttiva che ogni dato normativo richiede sia per evitare che una concezione eccessivamente restrittiva del principio di legalità impedisca lo sviluppo progressivo del diritto in sede giudiziale.

D’altronde, già da tempo la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato, in un’evidente ottica di conciliazione tra sistemi di civil law e di common law e proprio per lasciare spazio al diritto di formazione giurisprudenziale. L’opera per certi versi “creativa” dei giudici si rivela poi imprescindibile in un contesto come quello del diritto internazionale penale non solo per la particolarità delle sue fonti (in termini di natura, di chiarezza del contenuto e di rapporti tra le stesse) ma anche per lo stato ancora primitivo del suo sviluppo.

Un’interpretazione estensiva del contenuto di una norma penale può risultare in taluni casi necessaria allo scopo di adattare il dato normativo ai cambiamenti e alle trasformazioni della realtà sociale di riferimento che il diritto ha in qualche modo l’ambizione di rispecchiare.

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Vero è tuttavia che non è semplice stabilire se e fino a che punto uno sviluppo progressivo del diritto si conformi all’essenza del reato e sia ragionevolmente prevedibile.

Sulla valutazione in merito alla prevedibilità di uno sviluppo progressivo del dato normativo incide in maniera particolare un elemento che, unitamente al divieto di analogia e alla non retroattività della legge penale, sostanzia e concretizza il principio di legalità. Si tratta del principio di tassatività o di sufficiente determinatezza della norma. In astratto, tale principio sembra poter essere soddisfatto, almeno in parte e con l’inevitabile margine di indeterminatezza dato dalle possibili divergenti interpretazioni di un medesimo dato testuale, solo da un testo scritto.

È stato invece osservato che nel caso delle norme internazionali consuetudinarie, dei principi generali di diritto internazionali e delle decisioni giudiziarie il principio di tassatività può solo essere un principio guida, da osservare per l’opera di interpretazione di tali norme.7

8.I principali meriti della giustizia penale internazionale.

7 Rivista di diritto internazionale Ed Giuffrè 2012 Volume XCV Pag 814-817.

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La repressione penale dei crimini internazionali da parte di tribunali internazionali presenta numerosi vantaggi rispetto a quella realizzata da tribunali interni, in particolare rispetto ai tribunali dello Stato sul cui territorio sono stati commessi crimini internazionali. Fra questi, vi è certamente il fatto che questi tribunali sono ovviamente la sede naturale per l’esercizio della giurisdizione penale rispetto a crimini di natura, appunto, internazionale, e possono garantire un minimo di uniformità nell’applicazione del diritto internazionale, mentre i procedimenti condotti innanzi a tribunali interni possono condurre ad una disomogeneità, non solo nell’applicazione del diritto internazionale, ma anche nell’applicazione delle pene.

Vi è inoltre da considerare che i giudici internazionali danno maggiori garanzie di imparzialità, o almeno di obiettività, rispetto ai giudici nazionali, soprattutto quando questi ultimi operano nel luogo in cui il crimine in relazione al quale si svolge il processo è stato perpetrato.

I tribunali internazionali possono tra l’altro svolgere indagini su crimini che hanno ramificazioni in vari Paesi in maniera più agevole rispetto ai tribunali nazionali.

Infine, lo svolgimento di processi internazionali, che senza dubbio ha una maggiore visibilità rispetto a quelli nazionali, è un chiaro segnale

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della volontà della comunità internazionale di rompere con il passato, e punire coloro che compiono atti inaccettabili. Nel dispensare giustizia, lo scopo perseguito dalla comunità internazionale non è tanto retributivo; piuttosto, si vuole stigmatizzare comportamenti devianti, nella speranza che ciò possa produrre un qualche effetto deterrente per il futuro.8

8.E i suoi problemi.

I tribunali internazionali non esercitano la giurisdizione per conto di uno Stato; anzi essi giudicano sempre crimini commessi sul territorio di uno Stato, dei quali essi non sono gli organi giudiziari ed inoltre hanno sede su un territorio diverso da quello dello Stato territoriale ( il c.d locus commissi delicti). Un problema cruciale è quindi quello della cooperazione degli Stati, poiché senza questa, vi è il rischio che i mandati di cattura non siano eseguiti e la ricerca delle prove e delle testimonianze, si riveli inadeguata. Così anche per i Tribunali penali ad hoc, quali quello per la ex Jugoslavia e per il Ruanda, i quali hanno sede in zone diverse da quella della presunta commissione dei crimini rientranti nella loro giurisdizione e necessitano perciò della

8 “Le sfide attuali del diritto internazionale” Antonio Cassese Paola Geta Ed. Il Mulino 2008 pag.213.

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cooperazione degli Stati, e non solo di quelli che rientrano nell’ambito territoriale di giurisdizione ( ex Jugoslavia e Ruanda), ma anche di quelli dove i ricercati si possono essere rifugiati.

Un secondo problema attinente al processo penale internazionale è quello della lunghezza dei procedimenti. Essa è principalmente causata dall’accoglimento del modello accusatorio, il quale richiede che ogni mezzo di prova sia acquisito oralmente, nel corso del dibattimento, e dunque sottoposto all’esame incrociato di accusa e difesa.

La lunghezza del procedimento e poi accentuata da altri fattori:

a) la necessità di provare l’esistenza di alcuni elementi tipici dei crimini internazionali, come ad esempio, l’esistenza di una prassi sistematica o diffusa, nel caso dei crimini contro l’umanità;

b) la necessità di esaminare il contesto storico o sociale del crimine;

c) il fatto che spesso i crimini internazionali consistono in reati di natura complessa, perpetrati su ampie zone di territorio, di frequente coinvolgenti più Stati e per periodi di tempo lunghi;

d) la difficoltà di raccogliere gli elementi di prova;

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e) le difficoltà inerenti l’utilizzo di più lingue e le necessarie traduzioni degli atti.9

9.La questione dell’ “imparzialità”.

I Tribunali penali internazionali fin ad oggi istituiti, e in particolare quelli per la ex Jugoslavia e per il Ruanda, sono spesso accusati di

“parzialità”. Si tratterebbe di una parzialità non soltanto di natura storica, giacchè si tratta di tribunali ad hoc, e dunque operanti per giudicare i crimini commessi in specifici contesti, “politicamente”

selezionati dal Consiglio di Sicurezza. Questi tribunali sono accusati di parzialità perché ad oggi principalmente processato gli appartenenti ad uno solo dei gruppi coinvolti nel conflitto: gli Hutu, nel caso del Ruanda e i membri dei gruppi etnici serbi, croati e musulmani, nel caso della ex Jugoslavia.10

9 “Le sfide attuali del diritto internazionale” Antonio Cassese Paola Gaeta Ed. Il Mulino 2008 pag.

214-215.

10 “ Le sfide attuali del diritto internazionale” Antonio Cassese Paola Gaeta Ed. Il Mulino 2008 pag.216.

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