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1.1 Acque reflue e virus enterici 1. INTRODUZIONE

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1.

INTRODUZIONE

1.1 Acque reflue e virus enterici

I reflui civili ed agricoli contengono una grande varietà di microrganismi (batteri, protozoi e virus), gran parte dei quali responsabili di infezioni e patologie a trasmissione oro-fecale. Questi microrganismi, escreti in gran numero con le feci di persone e animali infetti, possono andare a contaminare l’acqua direttamente o indirettamente; da questa possono quindi diffondersi nella popolazione in relazione ad alcuni fattori come la sopravvivenza nell’acqua, la dose necessaria per causare infezione negli individui suscettibili, la latenza (periodo di tempo che intercorre tra l’acquisizione del potere infettivo e l’escrezione), e la capacità di moltiplicarsi nell’ambiente (Leclerc et al., 2002).

Tra i microrganismi che possono costituire un rischio per la salute dell’uomo, i virus enterici patogeni stanno assumendo sempre maggiore importanza, anche a seguito del miglioramento delle tecniche di analisi che permettono di attribuire a questi molti episodi epidemici prima classificati come ad eziologia sconosciuta.

Numerosi studi epidemiologici hanno dimostrato che circa il 30% delle diarree infettive del bambino e dell'adulto sono attribuibili a batteri e/o parassiti mentre la rimanente quota può verosimilmente riconoscere una eziologia virale (Wallace et al., 1999; Koopmans et al., 2002).

I virus enterici comprendono più di 140 tipi (vedi tabella 1.1.1), tra questi principalmente gli enterovirus, i rotavirus, gli adenovirus 40 e 41, i calicivirus umani, i virus dell’epatite A ed E, gli astrovirus assumono particolare importanza per la salute pubblica (Metcalf et al. 1995). Infatti, i virus enterici causano circa 400 milioni di diarrea ogni anno con una mortalità che raggiunge annualmente i 2,2 milioni di individui per anno, per il 90% sono bambini di età inferiore ai 5 anni (World Water Council, 2003).

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tab. 1.1.1: Virus eliminati con le feci

FAMIGLIA GENERE SPECIE MALATTIE ASSOCIATE DIMENSIONI (nm) GENOMA Enterovirus Poliovirus Poliomielite paralitica, meningite asettica… 30 ssRNA

Enterovirus Coxackievirus A Meningite asettica,

encefalite 30 ssRNA Enterovirus Coxackievirus B Meningite asettica, endocardite, pericardite acuta 30 ssRNA

Enterovirus Echovirus Meningite asettica,

gastroenterite acuta 30 ssRNA

Enterovirus Enterovirus

68-71

Affezioni

respiratorie acute 30 ssRNA

Picornaviridae

Hepatovirus HAV Epatite virale A 30 ssRNA

Hepeviridae Hepevirus HEV Epatite virale E 30 ssRNA

Caliciviridae Norovirus, Sapovirus NLV,SLV Diarrea, vomito, gastroenteriti acute epidemiche 31-35 ssRNA

Rotavirus Rotavirus Diarrea infantile,

vomito 70 dsRNA

Reoviridae

Orthoreovirus Reovirus Non accertata 75-80 dsRNA

Adenoviridae Mastoadenovirus Adenovirus

Affezioni respiratorie, congiuntivite epidemica, gastroenteriti (tipo 40-41) 60-90 dsDNA

Astroviridae Astrovirus Astrovirus Diarree infantili 28 ssRNA

Coronaviridae Coronavirus HCov-229E HCov-OC43 SARS-HCov Affezioni respiratorie, polmonite atipica, gastroenteriti 80-130 ssRNA

I virus enterici hanno come caratteristica comune quella di replicarsi nell’intestino umano e sono escreti con le feci per settimane, con concentrazioni fino a 1010 particelle virali per grammo (rotavirus), con valori medi tra 106 (enterovirus) e 108 (HAV) (Feachem et al., 1983; Yates et al.,1988; Gerba, 2000). Le modalità di circolazione di questi microrganismi e le vie di contagio per l’uomo sono schematizzate in figura 1.1.1

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DEIEZIONI UMANE E ANIMALI RIFIUTI SOLIDI ACQUE DI SCARICO ACQUE SOTTERRANEE FIUMI E LAGHI OCEANI ED ESTUARI ACQUE DI BALNEAZIONE FRUTTI DI MARE IRRIGAZIONE E FERTILIZZAZIONE COLTIVAZIONI ACQUE POTABILI AEROSOL UOMO ACQUE DI DILAVAMENTO

fig. 1.1.1: Trasmissione dei virus enterici attraverso l’acqua

I virus non possono replicarsi nell’acqua in quanto sono parassiti intracellulari obbligati, ma vi possono sopravvivere a lungo (Abad et al. 1997; Carducci et al. 1996; Enriquez et al., 1995; Koopmans e Duizer 2004; Payment 1998) grazie alla mancanza di un rivestimento membranoso pericapsidico e alla presenza di un capside proteico virale particolarmente resistente in grado di adsorbirsi a particelle colloidali in sospensione nel mezzo idrico, che li proteggono dai trattamenti di disinfezione.

La dose infettante è bassa: generalmente tra 1 e 10 PFU (unità formanti placca) (Leclerc et al., 2002; Ward e Akin., 1984), per cui il rischio d’infezione da virus presenti in

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acqua risulta molto più alto di quello per i batteri allo stesso livello di esposizione, da 10 a 10000 volte secondo uno studio di Rose e Gerba del 1991.

Nei liquami la densità e il tipo di virus varia in funzione di molti fattori: geografici, socio-economici, stagionali e, specialmente, sanitari. Dahling e colleghi hanno osservato che in Porto Rico, regione con una densità demografica molto alta e un basso livello socio-economico, era presente un livello di contaminazione di enterovirus nelle acque di scarico maggiore rispetto ad altre parti degli U.S.A., con le concentrazioni massime di enterovirus che raggiungevano più di 105 UFC/litro.

Dopo escrezione con le feci e allontanamento tramite i collettori delle acque reflue, i virus enterici possono essere dispersi nell’ambiente (Block J.C. e Schwartzbrod L., 1989): la presenza dei virus enterici è stata rilevata sia nei liquami grezzi che nelle acque reflue in uscita degli impianti di depurazione, dimostrando l’inefficienza dei trattamenti nel ridurre la carica virale.

In base alla distanza dalla fonte di contaminazione e al grado di dispersione nell’ambiente, sono state evidenziate concentrazioni sempre minori di virus e quindi un aumento delle difficoltà di individuazione (tab. 1.1.2) (Carducci et al., 1997 e 1999; Divizia, 1993; Muscillo , 1997; Martini et al., 1999; Casini et al., 2002).

Tab.1.1.2 Concentrazione dei virus enterici in varie matrici ambientali

CAMPIONE VIRUS CONCENTRAZIONE

Feci Enterovirus Fino a 1010/g

Liquami Enterovirus 1-106/g

Acque superficiali Enterovirus 0,1-102/L

Acque marine Enterovirus 0,01-102/L

Aerosol da depuratori Enterovirus 0,0047-1/m3

Fanghi da depuratori Enterovirus

Primari: 10->103/100ml Attivi: 100-800/100ml Digeriti anareobic.: 0,2-200/g

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Nei paesi in via di sviluppo si stima che circa il 90% di liquami provenienti da aree urbane siano scaricati senza alcun trattamento in laghi e mari. (Henrickson et al.2001).

Negli Stati Uniti circa 9,3x107 persone (37% del totale) risiedono in aree costiere producendo una quantità di liquami di circa 1,0x1010 galloni al giorno (National Research Council, 1993) e nel 2005 più di 20.000 spiagge negli Stati Uniti sono state segnalate come non balneabili o addirittura chiuse alla balneazione, nella maggior parte dei casi per l’inquinamento da acque di scarico (National Resources Defence Council, 2006).

Anche i fiumi possono essere contaminati dai liquami: un recente studio effettuato in Giappone tra il 2003 e il 2004 ha evidenziato la presenza nel fiume Tamagawa di Norovirus (genotipo 1 e 2) e Adenovirus rispettivamente nel 97% (62/64) e 45% (29/64) dei campioni analizzati; TTV è stato isolato in 3 campioni e gli enterovirus sono stati rilevati nel 9% dei campioni. La presenza di genoma di Norovirus è risultata mediamente di 0,087 copie/ml per il genotipo 1 e 0,61 copie/ml per il genotipo 2 (Haramoto et al., 2005).

In seguito alla contaminazione delle acque superficiali, i molluschi sono diventati una tra le maggiori cause di infezioni epatiche (Halliday et al., 1991; Chironna et al., 2002; Macalauso et al., 2006). I livelli dei virus enterici nei molluschi possono essere 100-1000 volte maggiori rispetto alle concentrazioni presenti nelle acque circostanti (Carter et al., 2005). La contaminazione virale dei mitili è ampiamente documentata in letteratura (Croci L., 2000; Pina S., 1998; La Guyader F., 2000; Muniain-Mujika I., 2000), così come gli scoppi epidemici di Norovirus e HAV causati dal consumo di mitili e ostriche contaminate da acque reflue (Elsaadanny S. et al., 2002; Kingsley D.H., et al., 2002; Shieh et al., 2003; Macalauso et al., 2006)

La cottura non rappresenta sempre un fattore di protezione, poiché numerose epidemie si sono registrate anche dopo il consumo di molluschi cotti (Miossec L., 2001).

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Considerando il ruolo che l’acqua assume come potenziale veicolo di trasmissione di malattie a carattere gastroenterico, risulta importante verificare l’efficienza dei trattamenti di depurazione e delle pratiche di disinfezione, utili a prevenire la diffusione di patogeni nei corpi idrici e la contaminazione ambientale che ne può derivare. Ciò assume una maggiore rilevanza se si pensa al possibile impiego dei reflui in agricoltura.

1.2

Acque reflue e rischio connesso al loro riutilizzo in

agricoltura

Secondo la vigente legislazione D.Lgs n°152/99, le acque reflue depurate possono trovare applicazione in vari campi e in particolare nell’irrigazione di colture destinate al consumo umano, di pascoli, ma anche di parchi e aree ricreative e ciò può avere delle conseguenze sulla salute della popolazione.

Il rischio sanitario legato al riuso dei reflui dipende da vari fattori come l’efficienza di rimozione o di inattivazione dei virus patogeni nelle acque trattate, la loro sopravvivenza nel suolo e sulle piante. HAV ha tassi di persistenza sul suolo maggiori rispetto ad altri virus enterici (Straub et al., 1992).

Le verdure possono essere contaminate dalle acque reflue riutilizzate attraverso il contatto diretto con i reflui o con il suolo irrigato, oppure indirettamente, principalmente attraverso la manipolazione umana del terreno, del liquame, delle piante e dei frutti (Manios et al., 2006).

I virus, una volta contaminate le piante, possono sopravvivere per diversi giorni: Poliovirus resiste su foglie e radici di lattuga da 14 a 36 giorni dopo l’irrigazione, con abbattimenti del 99% nei primi 4-5 giorni (Yates, 1988), invece Enterovirus fino a 15-60 giorni (WHO SCIENTIFIC GROUP, 1989).

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La sopravvivenza dei patogeni sulle piante è correlata in funzione inversa alla temperatura e alla luce solare e in funzione diretta con l’umidità e dipende anche dal tipo di virus e dal periodo stagionale: in genere è più elevata durante l’autunno e meno elevata in estate (Bitton , 1994).

Non ci sono molti dati concernenti i livelli o la persistenza di potenziale contaminazione interna dei virus nelle piante, anche se è probabile che i livelli di contaminazione interna siano più bassi rispetto a quella esterna (Carter et al., 2005). Comunque, una minore quantità di virus all’interno dei raccolti potrebbe potenzialmente avere un effetto equivalente ad una dose esterna.

Il lavaggio dei prodotti agricoli o la pelatura non sono sufficienti a rimuovere i virus presenti; per esempio HAV aderisce molto bene alla superficie dei prodotti, specialmente sulla lattuga (Croci et al., 2002).

Aulicino e colleghi (2000) hanno realizzato uno studio in un’area della provincia di Catania per valutare l’influenza delle acque contaminate da liquami e di reflui trattati su vegetali eduli irrigati a spruzzo all’aperto ed in serre: i risultati di questo studio hanno rivelato la presenza di virus enterici (reovirus) nei vegetali quando i coliformi fecali dell’acqua di irrigazione erano >1000/100 ml, limite previsto dall’OMS per liquami trattati ad uso irriguo.

Per valutare il rischio di infezione enterica virale connessa con il consumo di verdure crude irrigate con acque reflue sono stati costruiti dei modelli statistici QMRA (Quantitative microbial risk assessment models) (Shual et al., 1997; Petterson et al., 2001, 2002). Hamilton e collaboratori hanno applicato questo modello all’irrigazione dei cetrioli, broccoli, cavoli e lattuga: il modello ha dato rischi più bassi con il cetriolo, in quanto trattiene piccoli volumi di acqua sulla sua superficie e il suo tasso di consumo nella popolazione è più basso rispetto alle altre verdure prese in esame; per le altre verdure i

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rischi erano generalmente simili e inoltre il volume di acqua trattenuto sulla superficie della pianta era compensato dalla quantità di alimento che viene comunemente consumato. Per esempio, il cavolo ha mantenuto più acqua rispetto al broccolo, ma il cavolo è meno consumato dalla popolazione; le probabilità annuali di rischio connesso con queste verdure erano simili (Hamilton et al., 2006).

1.3 Riutilizzo delle acque reflue in agricoltura

Il riutilizzo agricolo dei liquami è una pratica applicata da centinaia di anni nel mondo. L’attuale interesse nasce da una serie di fattori di natura sociale, economica e tecnica. Il più importante di essi è ovviamente costituito dall’insufficienza delle risorse idriche tradizionali a fronte del crescente peso demografico, dell’aumento dei fabbisogni connesso allo sviluppo economico (industriale, agricolo, civile e turistico) ed ai mutamenti verificatisi nei cicli idrologici (Nurizzo, 2006).

Un riuso pianificato di questa risorsa è documentato in Europa già nel 16° secolo, mentre negli Stati Uniti, dove attualmente meno dell’1% dei liquami prodotti è destinato al riutilizzo agricolo, questa pratica ha cominciato ad essere applicata agli inizi del ‘900 (in California ed Arizona) per l’irrigazione dei giardini e prati, e per trattamenti di raffreddamento. In altri paesi come l’India, Israele e Sud Africa questa percentuale risulta più elevata: 20-25%. Il riutilizzo delle acque reflue è praticato anche in Nord Africa, nel Medio Oriente, America Latina ed Asia (Bartone et al., 1987).

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1.3.1 Legislazione sul riutilizzo delle acque reflue depurate

1.3.1.1Normativa italiana

Con l’emanazione della Legge Galli (legge n°36/94) viene riordinato il settore idrico e le acque recuperate vengono indicate come fonte alternativa per soddisfare i fabbisogni agricoli e industriali. Successivamente, gli stessi principi cardine della legge Galli sono stati ribaditi dal D.Lgs n°152 dell’11 maggio 1999 recante “Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento”. In particolare la tecnica del riutilizzo è disciplinata nell’articolo 26 dove vengono elencate le finalità:

 limitare il prelievo delle acque superficiali e sotterranee

 ridurre l’impatto ambientale degli scarichi sui corpi idrici recettori  favorire il risparmio idrico mediante l’utilizzo multiplo delle acque

reflue.

In attuazione dell’art. 26 del D.Lgs 152/1999, il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio ha emanato il D.M n° 185/2003 che stabilisce le norme tecniche per il riutilizzo delle acque reflue domestiche, urbane ed industriali attraverso la regolamentazione delle destinazioni d’uso e dei relativi requisiti di qualità.

La normativa prevede tre possibili destinazioni d’uso ammissibili:

 uso irriguo: per l’irrigazione di colture destinate sia alla produzione di alimenti per il consumo umano ed animale, sia a fini non alimentari, nonché per l’irrigazione d’aree destinate al verde a ad attività ricreative o sportive;

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 uso civile: per il lavaggio delle strade nei centri urbani; per l’alimentazione dei sistemi di riscaldamento o raffreddamento; per gli impianti di scarico dei servizi igienici;

 uso industriale: come acqua antincendio, di processo, di lavaggio e per i cicli termici dei processi industriali, con l’esclusione degli usi che comportano un contatto tra le acque reflue recuperate e gli alimenti o i prodotti farmaceutici e cosmetici.

Il D.Lgs. n°152 del 2006, dal titolo “Norme in materia ambientale”, ha abrogato il decreto del 1999 prevedendo l’emanazione di nuove norme tecniche sul riutilizzo delle acque reflue, pubblicate il 2 maggio del 2006 e attualmente in attesa di ulteriori modifiche e integrazioni.

Le acque reflue recuperate, destinate al riutilizzo irriguo o civile, devono possedere dei requisiti di qualità ed essere conformi a valori-limite di una serie di parametri chimico-fisici (vedi alleg. 1) e microbiologici.

Per valutare la qualità microbiologica dell’acqua le norme attualmente prevedono la determinazione di parametri indicatori di contaminazione fecale, che includono i coliformi (Gantzer et al.,1998).

La Delibera del Comitato Interministeriale per la Tutela delle Acque (CITAI), emanata il 4 febbraio 1977 in attuazione della Legge Merli, ha rappresentato il primo documento che ha stabilito i requisiti di qualità microbiologica delle acque reflue depurate. Nella tabella 1.3.1a sono riportati i limiti ammessi per i parametri di qualità microbiologica, secondo quanto indicato dalla Delibera CITAI (Vianello G. e Zamboni N.)

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Fig. 1.3.1.1a Valori ammessi per la delibera CITAI per i parametri microbiologici (all.5, Delibera CITAI)

In generale, le norme risultano molto vaghe e carenti per quanto riguarda la definizione di standard qualitativi per il riutilizzo. Non vi sono, cioè, riferimenti specifici e valori ammissibili per la gran parte dei parametri utilizzati generalmente nella valutazione qualitativa delle acque.

Come si può notare dalla tabella riportata sopra, i limiti stabiliti sono molto restrittivi: per tale motivo sono stati modificati nel decreto n°185/03, che prevede la ricerca di E. coli e di Salmonella (tab.1.3.1.1b).

Tab.1.3.1.1b Valori limite delle acque reflue all’uscita dell’impianto di recupero. Parametri microbiologici (decreto n. 185/03).

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Notevole perplessità suscita la norma transitoria contenuta nell’art. 14, in base alla quale per un periodo di tre anni a decorrere dalla data d’entrata in vigore del presente regolamento, in caso di riutilizzo irriguo esiste la possibilità di una deroga ai limiti previsti per il solo parametro Escherichia coli fino a 100 UFC/100 ml, con un valore massimo di 1000 UFC/100 ml (Martelli, 2003). Ciò si applica esclusivamente a condizione che, nelle aree di origine delle acque reflue e in quelle dove avviene il riutilizzo irriguo, non sia riscontrato un incremento nel tempo dei casi di patologie riconducibili a contaminazione fecale. Purtroppo l’assenza di sistemi di sorveglianza impedisce di fatto il controllo da questo punto di vista.

1.3.1.2Normativa europea

La legislazione europea è attualmente carente di una regolamentazione specifica a riguardo, pertanto quasi tutti i Paesi appartenenti alla Comunità Economica Europea hanno fatto proprie le linee guida dell’OMS integrandole, però, con provvedimenti che limitano le possibili applicazioni delle acque recuperate, ed imponendo dei vincoli più restrittivi sui trattamenti da eseguire, in modo tale da garantire una maggiore tutela della salute pubblica (Mancini et al., 2006).

L’unica direttiva attualmente vigente è la direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane. In particolare l’art. 12 stabilisce: “Le acque reflue che siano sottoposte a trattamento devono essere riutilizzate, ogni qualvolta ciò risulti appropriato” (Bortone e Pineschi, 2000).

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1.3.1.3Normativa internazionale

La normativa internazionale si è finora occupata direttamente solo del problema del riuso dei reflui recuperati in ambito agricolo, tralasciando il riuso a scopi civili e industriali.

Le linee guida dell’OMS sono il risultato di numerose ricerche e studi sul rischio sanitario legato all’uso delle acque reflue recuperate. I criteri proposti sono quelli meno esigenti in quanto consentono di impiegare i reflui anche dopo trattamenti non particolarmente spinti e quindi con costi relativamente contenuti. Per questi motivi sono stati recepiti ed applicati in quei Paesi del bacino del Mediterraneo con un indice di avanzamento tecnologico relativamente basso, come Cipro, Marocco e Tunisia (Mancini et al., 2006). Le linee guida emanate nel 1971 stabilivano limiti di qualità microbiologica pari a 100 UFC/100 ml di coliformi; nel 1989 furono proposti valori limite meno restrittivi (tab. 1.3.3.1a).

Tab. 1.3.3.1a Linee guida dell’OMS per il riuso di acque depurate in agricoltura (1989)

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Per la categoria A, l’OMS ha valutato che con una tale concentrazione di coliformi fecali (1000/100 ml) il rischio annuo di virus enterici e infezioni batteriche raggiunge un livello che varia tra 10-5 e 10-9, ovvero è un rischio accettabile. Meno accettabile risulta il livello di uova di nematodi intestinale nella categoria A e B: i bambini che mangiano verdura irrigata con acqua che presenta una concentrazione di 1 uovo per litro, presentano un significativo incremento di Ascaris. Sarebbe quindi raccomandabile un livello maggiormente limitativo di 1 uovo per litro (Blumenthal et al., 2000).

Per la categoria C non esiste un limite per i coliformi fecali. In realtà, prove recenti, hanno messo in luce il pericolo di infezioni enteriche nelle famiglie di agricoltori a diretto contatto con acqua di scarico parzialmente trattata e nella popolazione che vive nei pressi dei campi irrigati; sarebbe quindi auspicabile inserire un limite pari a 10

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UFC/100 ml (Blumenthal et al., 2000).

Per i motivi appena elencati, alcuni Paesi hanno ritenuto non adeguati i limiti proposti dall’OMS.

L’U. S.- EPA (Enviromental Protection Agency) ha stabilito i seguenti limiti : Tab.1.3.3.1b US-EPA linee guida per il riuso di acque reflue in agricoltura (Adattata

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I limiti batteriologici che da molti anni costituiscono il valore di riferimento più accettato per il riuso, sono gli standard dello Stato della California (Tab. 1.3.3.1c)

I criteri proposti dallo Stato della California nel cosiddetto “Title 22” del 1978, poi confermati nel “California Water Recycling Criteria” del 2000, promuovono il raggiungimento di elevati standard di qualità delle acque recuperate al fine di minimizzare i rischi per la salute umana e per l’ambiente. Inoltre, essi consentono pratiche di riuso più ampie. Naturalmente, ciò comporta un aggravio sia sulla complessità degli impianti tecnologici che sui loro costi di gestione; per tali ragioni le direttive californiane sono state recepite soprattutto dai Paesi con livello di industrializzazione elevato, quali Israele, Sudafrica, Giappone e Australia.

Tab.1.3.3.1c Standard californiani per il riuso acque reflue. State of California, 1978 (Adattata da Junger, 2000).

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La legge prevede una netta divisione a seconda del tipo di coltura praticata, con una precisa casistica di metodi e tipi di irrigazione. Inoltre sono indicati anche altre possibili forme di riuso in campo civile e industriale.

Sono specificati i trattamenti minimi richiesti per le varie categorie di riuso che si specializzano a mano a mano che il tipo di riuso ha un rischio di diffusione batteriologica più elevato.

1.4

Trattamenti di depurazione delle acque reflue e

rimozione virale

Il processo di depurazione dei reflui ha come protagonisti comunità di organismi viventi. Sia in ambiente naturale (autodepurazione) che artificiale (impianto di trattamento), l’azione di popolazioni microbiche diverse (protozoi ciliati batteriofagi natanti, sessili e mobili di fondo) e in cooperazione tra loro porta alla degradazione delle sostanze inquinanti presenti nelle acque, attraverso processi di mineralizzazione e di raccolta in un materiale semisolido (fango) che in seguito può essere separato dalle acque per sedimentazione.

Numerosi sono i fattori che influiscono sulla riduzione dei patogeni nel liquame:

• Fisico-chimici: temperatura, adsorbimento su materiale sospeso, salinità, pH; • Biologici: sostanze inattivanti di origine microbica.

Ciascuno di questi fattori può agire separatamente o con effetti sinergici e perciò risulta difficile individuare l’azione di ogni fattore in campioni ambientali complessi come il liquame o il fango (Schwartzbrod, 2003).

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Sebbene i trattamenti primari e secondari eliminano il 90-99,9% dei microrganismi enterici, le acque reflue depurate contengono ancora alti titoli microbici (Koivunen et al., 2003; Rajala et al., 2003).

Per quanto riguarda i virus, invece, i trattamenti primari risultano inefficienti determinando solo una riduzione del 5-10% (Leong, 1983; Rao et al., 1986; Hurst 1988).

La quantità di virus presenti dipende ovviamente dal livello di contaminazione del liquame in entrata dell’impianto di depurazione e dal tipo di trattamento.

In seguito al trattamento biologico la concentrazione media varia fra 0 e 102 UFP per il litro (Schawartzbrod, 2003) (tab.1.4).

Tab. 1.4 Trattamenti di depurazione e presenza di virus enterici

TRATTAMENTO TIPO DI VIRUS QUANTITA’ DI

VIRUS % CAMPIONI POSITIVI AUTORI Trattamento biologico

Enterovirus 0,5 a 14 NPPUC L-2 Hugues et al.,

(1985) Sedimentazione primaria Enterovirus Rotavirus 4 UFPL-1 10 FF L-1 87% 75% Bosch et al.,(1986) Sedimentazione primaria Adenovirus Enterovirus 50 a 700 UFPL-1 120 a 580 UFPL-1 Krikelis et al., (1986)

Fanghi attivi Enterovirus

Adenovirus

1,4 NPPUCL-1 79% Payment et al.,

(1986) Trattamento

biologico

Enterovirus 72 a 457 UFPL-1 100% Lewis et al., (1986)

Fanghi attivi Enterovirus 2 a 5500 UFPL-1 Dahling et al.,

(1989) ? Poliovirus Coxackievirus B5 Adenovirus 100% Kueh and Grohman, (1989)

Fanghi attivi Enterovirus

Reovirus 0 a 102 MPNCUL-1 27% 100% Aulicino et al.,(1995) Sedimentazione primaria Enterovirus Reovirus 0 a 103 MPNCUL-1 75% 100% Aulicino et al., (1996)

Fanghi attivi Enterovirus 0,14 UFPL-1 45% Vilagines et al.,

(1997)

Fanghi attivi Enterovirus 30% Gabrielli et al.,

(1997)

Fanghi attivi Enterovirus Genoma 84% Gantzer et al.,

(1997) Fanghi attivi +

clorazione 0,2 mgL

-1

HAV Genoma 30% Divizia et al.,

(1997)

Fanghi attivi HAV Genoma 100% Espigares et al.,

(1999) Trattamento

biologico

Norovirus 1,1 x 104 RCP-2 Lodder et al.,

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Solitamente gli impianti di depurazione che mancano di un trattamento terziario riducono la carica virale in maniera insufficiente.

Recenti studi condotti a livello di un impianto di depurazione hanno valutato la riduzione della contaminazione microbica prendendo in considerazione non solo le forme batteriche, ma anche l’abbattimento di virus, protozoi ed elminti (fig.1.4.1) (Schwartzbrod, 2003)

Fig. 1.4.1 Valutazione della riduzione microbica a livello di un impianto di depurazione.

Spesso, in aggiunta ai trattamenti primari e secondari le acque reflue necessitano di un trattamento terziario o di disinfezione per aumentare l’efficienza di depurazione (Koivunen et al., 2005).

I trattamenti terziari possono essere di tipo chimico-fisico e “naturali”, come il lagunaggio e la fitodepurazione, quest’ultimi di recente applicazione. Tra i primi, i più utilizzati sono alcuni composti del cloro, in particolare l’ipoclorito di sodio, raggi UV e acido paracetico (Pergetti, 1999).

Virus 102/L Batteri 108/L Protozoi 103/L Elminti 101/L

ENTRATA DELL’IMPIANTO USCITA DELL’IMPIANTO

Trattamento del liquame con Sedimentazione primaria Fango attivo Sedimentazione secondaria Virus 101/L Batteri 107/L Protozoi 101/L Elminti 1/L

Virus Batteri Protozoi Elminti 103/Kg 107/Kg 101/Kg 103/Kg

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La clorazione è il metodo di disinfezione più utilizzato in tutto il mondo: è abbastanza efficiente contro molti batteri enterici, ma presenta una più bassa efficienza contro i virus, spore batteriche e cisti di protozoi (Tyrrell et al., 1995; Veschetti et al., 2003). L’uso della clorazione sta diminuendo, in quanto determina la formazione di sottoprodotti tossici e cancerogeni (Oppenheimer et al., 1997). Inoltre è stata evidenziata la comparsa di interferenze sull’efficacia disinfettante dovute alla presenza di solidi sospesi (Puzzarini, 1997).

L’efficacia dei disinfettanti non è uguale per tutti i virus, ma varia a seconda della resistenza che essi hanno verso questi (Ansaldi et al., 2004; Nwachcuku et al., 2004). Studi sull’inattivazione del virus dell’epatite A hanno mostrato che il cloro può danneggiare l’RNA virale: valori di ipoclorito di 0,4 e 1 mg/l determinano il 99% di inattivazione di HAV rispettivamente in 35 e 12 minuti, mentre per Polio 2 occorrono 20 e 7 minuti (Bigliardi L., 2005).

L’irradiazione delle acque reflue con UV tipicamente elimina in modo efficace sia i batteri che i virus. I dati ricavati dalla letteratura dimostrano la sua efficacia nei confronti dei batteri indicatori di contaminazione fecale, quali i coliformi fecali; inoltre non induce formazione di prodotti secondari e presenta un basso costo di esercizio, comparabile a quello dell’ipoclorito (Blatchley et al., 1996; Collivignarelli et al., 2000; Liberti et al., 2000; Rayala et al., 2003).

Nel Nord America già da diversi anni tale tecnica è utilizzata nella disinfezione di reflui di origine domestica (Parrotta e Bekdash,1998). Gli inconvenienti dell’irraggiamento con UV sono la mancanza di batteriostasi, che ha come conseguenza la ricrescita batterica per fotoriattivazione e i bassi rendimenti di disinfezione in presenza di torbidità dell’effluente (Pergetti, 1999).

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In un recente studio sono stati monitorati i liquami di un impianto di depurazione che utilizza sia il trattamento di disinfezione con ipoclorito che l’irradiazione UV per produrre acque reflue per uso agricolo: nei campioni di liquame grezzo sono stati rilevati enterovirus con una media di 6,8x102 UFP/l, mentre dopo i trattamenti sono state rilevate le seguenti medie rispettivamente 2,4x101 UFC/l nell’effluente dopo clorazione e 4,9x101 UFC/l dopo irradiazione con UV. I dati ottenuti confermano l’efficienza di rimozione per tutti gli indicatori batterici, ma per enterovirus si sono osservate percentuali di abbattimento basse e variabili con un range di 88,5-100% dopo clorazione e di 80,2-100 dopo trattamento UV (Bonadonna et al., 2002).

Gli adenovirus sembrano essere i virus più resistenti all’irradiazione UV tra quelli finora studiati. Meng e Gerba (1996) hanno indicato dosi di UV di 24 e 30 mWs/cm2 per ottenere l’inattivazione del 90% rispettivamente di adenovirus 40 e 41. Queste dosi sono più alte di quelle riportate per rotavirus, poliovirus e colifagi.

L’acido peracetico (PAA) è un potente agente antimicrobico utilizzato recentemente nel campo della depurazione. Il prodotto che viene utilizzato commercialmente si ottiene per reazione tra perossido d’idrogeno e acido o anidride acetico. Non è possibile utilizzare acido peracetico puro in quanto estremamente instabile e sensibile alla temperatura. L’efficacia di questo disinfettante è dovuta all’azione ossidante che nei microrganismi altera o distrugge diverse strutture vitali quali proteine, membrana plasmatica, alcuni enzimi del metabolismo e il DNA, provocando la loro inattivazione. Inoltre, sembra che agisca a livello dei legami disolfuro che si trovano nel capside (Caretti et al., 2003).

I dati ricavati dalla letteratura scientifica, riguardanti sperimentazioni condotte sugli effluenti dei depuratori, dimostrano l’efficacia di tale disinfettante per quanto riguarda i principali indicatori batteriologici. In particolare, si sono ottenuti abbattimenti degli

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indicatori fecali variabili dalle 2 alle 3 unità logaritmiche con concentrazioni di acido peracetico comprese tra 1 e 6 mg/l e con tempi di contatto di 5-30 minuti (Lefevre et al., 1992; Cavadore et al., 1993; Andreottola et al., 1996; Puzzarini, 1997). Lazarova e colleghi (1998) hanno osservato che usando più di 10 mg l-1 di PAA è stato possibile inattivare virus e protozoi. Per ottenere una inattivazione del 99% di HAV alle dosi di 480 e 640 mg/l di PAA occorrono rispettivamente 52 e 36 minuti, tempi elevati rispetto a quelli richiesti per gli enterovirus (Bigliardi et al., 2006). La tabella 1.4.1 riporta per un effluente secondario le dosi e i tempi di contatto dei disinfettanti con le corrispondenti riduzioni in unità logaritmiche per E.coli, Streptococchi fecali ed Enterovirus, come riportato da Stanfield (1996), e Lazarova e colleghi (1998).

Tab. 1.4.1 Rimozione di microrganismi mediante trattamenti di disinfezione

A=(Stanfield,1996) B=(Lazarova et al., 1998)

I trattamenti “naturali” (lagunaggio e fitodepurazione) determinano una riduzione della carica microbica e virale maggiore rispetto ai sistemi finora esaminati: 1-6 Log10 di

riduzione dei batteri, 1-4 Log10 per i virus. Tuttavia, essendo di recente utilizzo necessitano

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Attualmente, nessun sistema è comunque in grado di controllare completamente tutte le forme biologiche, e in particolare i virus presenti nei liquami (Graff et al., 1993; Straub et al., 1994; Legnani et al., 1996).

1.5 POSSIBILI INDICATORI

Nonostante i dati epidemiologici, tutte le normative vigenti precedentemente descritte, non prevedono il controllo virologico delle acque reflue destinate al riutilizzo.

Ciò è dovuto principalmente alle difficoltà legate alla ricerca dei virus nell’ambiente che sono varie:

• ridotte dimensioni dei virus • elevata variabilità genetica • elevata diluizione

• adsorbimento a particolato in sospensione nel mezzo idrico

• presenza di sostanze in grado di interferire con le procedure di rilevamento

e alla mancanza di una metodica standardizzata adattabile a tutti i virus enterici, alla necessità di trattare volumi considerevoli e ai costi notevolmente superiori rispetto alle analisi batteriologiche.

Inoltre, non è possibile ricercare tutti i virus patogeni bisogna fare una scelta che dipende dalla loro potenziale presenza, dalla rappresentatività e dai metodi analitici disponibili.

Sarebbe quindi necessario sviluppare un sistema di indicatori da affiancare alla ricerca diretta dei virus patogeni.

Per poter assolvere al ruolo di indicatore di contaminazione, è necessario però che i microrganismi rispondano a determinati requisiti:

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− essere presenti con densità almeno uguali, o meglio maggiori;

− rispondere in ugual misura alle condizioni ambientali e agli eventuali

trattamenti di disinfezione e sopravvivere almeno tanto a lungo quanto il patogeno;

− non devono essere in grado di replicarsi nell’ambiente; − non devono essere patogeni;

− essere facilmente rilevabile ed identificabile, con metodologie pratiche,

ripetibili, economiche e selettive in tutti i tipi di campione.

Gli indicatori finora proposti vengono classificati, in base alla loro natura, in batterici (carica batterica, colimetria, enterococchi e clostridi) e virali (batteriofagi, reovirus e TTVirus) e, secondo il tipo di trasmissione, in generici (carica batterica) ed enterici ( colimetria, enterococchi, clostridi, batteriofagi e reovirus). E’ di fondamentale importanza studiare le similitudini dei vari indicatori con i virus, le correlazioni tra essi e la rappresentatività verso più tipi di virus (tab.1.4).

Tab.1.5 Possibili indicatori virali

INDICATORI RESISTENZA DIFFUSIONE CORRELAZIONI FACILITA’

D’USO

Carica batterica < Generale +/- +

Colimetria < Simile ai virus enterici +/- +

Enterococchi </= Simile ai virus enterici +/- +

Clostridi > Simile ai virus enterici +/- +

Batteriofagi </= Simile ai virus enterici +/- +

Reovirus =/> Simile ai virus enterici ? -

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Nella maggior parte dei casi gli indicatori non si sono rivelati affidabili almeno per uno dei requisiti richiesti, anche se si sono verificate poche situazioni in cui è stato possibile determinare delle correlazioni (Carducci et al., 1997).

Gli indicatori batterici, E.coli ed Enterococchi fecali, forniscono soltanto una misura approssimativa del rischio per la salute umana, perché la relazione tra le loro concentrazioni e quelle dei virus non è mai costante. Diversi studi infatti hanno evidenziato la mancanza di correlazione significativa tra la presenza di virus enterici e indicatori batterici (Leclerc et al., 2001; Simpson et al., 2003; Carducci et al., 2006).

Purtroppo, i rischi di patologie d’origine idrica ad eziologia virale possono sussistere malgrado la conformità dei parametri batteriologici ai dispositivi di legge.

I batteri non hanno una resistenza ambientale paragonabile con quella dei virus enterici, sia perché vengono inattivati più rapidamente dai fattori naturali e dai trattamenti disinfettanti per la presenza di un rivestimento membranoso di natura lipidica, e sia perché hanno diversa ecologia e talora diversa distribuzione stagionale; quindi l’assenza di tali batteri nell’ambiente non esclude la presenza di un inquinamento virale (Patti et al., 1996).

Tra i possibili indicatori virali, i batteriofagi, e in particolare i Colifagi somatici, sono stati proposti quali indicatori di contaminazione virale dei corpi idrici e di efficacia dei processi di depurazione, a causa della loro rilevante diffusione nell’ambiente, della somiglianza morfologica funzionale e strutturale con i virus enterici, della maggiore sopravvivenza nel corpo idrico rispetto ai batteri indicatori di contaminazione fecale, della resistenza più elevata alla disinfezione rispetto ad alcuni fagi e agli enterovirus, e alla presenza di metodi semplici per il rilevamento (Turner et al., 1995;Muniain-Mujika et al.,2000; Harwood et al., 2005) .

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I colifagi somatici si replicano nel mezzo idrico in funzione della presenza di E.coli, sono presenti in abbondanza nelle feci umane e animali e di conseguenza si ritrovano in elevate concentrazioni sia nei liquami che nelle acque contaminate.

Tuttavia, non sono indicatori specifici di contaminazione umana, perché possono essere eliminati anche dagli animali e la loro possibile replicazione ambientale nei mesi estivi non li rende indicatori ottimali.

Nuove possibili prospettive si stanno aprendo per quanto riguarda l’utilizzo di indicatori virali come il virus TT e Adenovirus, eventualmente da affiancare alla ricerca di patogeni quali il virus dell’epatite A, uno dei principali virus patogeni ad RNA, molto stabile nei liquami grezzi e presente frequentemente negli effluenti finali degli impianti di depurazione.

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1.5. 1 TT virus

E’ stato scoperto nel 1997 nel sangue di un paziente giapponese affetto da epatite acuta post trasfusionale (Nishizawa et al., 1997), e il virus fu denominato TT dalle iniziali del paziente da cui era stato isolato.

Recentemente il Comitato internazionale per la tassonomia dei virus (ICTV) ha deciso di classificare il TTV e TTMV nel genere Anellovirus (Okamoto et al., 2004). E’ stato deciso di mantenere il nome TT , ma è stato modificato il significato delle due lettere iniziali, che dal vecchio acronimo, dall’inglese “transfusion transmitted virus” adesso fanno riferimento a due termini latini, “torques e tenuis” (collana e sottile) si parla cosi di torque-teno-virus (Maggi et al., 2003). Questo nome è stato suggerito perché, secondo le regole della tassonomia internazionale, nessun nome deve essere dedotto da nomi propri di persone (Hino et al., 2002).

Particolarmente complessa è stata anche la classificazione degli isolati di TTV all’interno del genere Anellovirus, a causa della vasta eterogeneità genetica che il virus presentava già in seguito alle analisi iniziali. I primi studi filogenetici hanno portato ad identificare 23 genotipi di TTV, suddivisi in 4 gruppi filogenetici più grandi (Okamoto et al., 1999; Biagini et al., 1999). Studi condotti sulla regione UTR hanno portato all’identificazione di più di 40 genotipi e 70 sottotipi, numeri in aumento vista la frequenza con cui vengono identificati nuovi isolati. Peng e collaboratori hanno proposto di raggruppare gli isolati in 5 genogruppi indicati con i numeri da 1 a 5 (Peng et al., 2002; Devalle et al.,2004). Più recentemente Jelcic e collaboratori hanno proposto di raggruppare gli isolati di TTV in una nuova famiglia Anelloviridae, suddivisa a sua volta in 4 generi (Jelcic et al., 2004).

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ORF 4 ORF 4 ORF 4 ORF 4 TTV 3853 nt ORF 2 ORF 2ORF 2 ORF 2 ORF 1 ORF 1ORF 1 ORF 1 ORF 5 ORF 5 ORF 5 ORF 5

TTV non è in grado di replicarsi in vitro, per cui le informazioni in nostro possesso sulle caratteristiche fisico-chimiche del virus derivano da studi condotti su particelle virali purificate da plasma o da feci.

La particella virale ha una forma sferica, un capside a probabile simmetria icosaedrica e un diametro compreso tra 30 e 32 nm (Mushahwar et al., 1999; Itoh et al., 2000). Si ritiene che il virus sia privo di involucro lipidico esterno (Okamoto et al., 1998), poiché rimane inalterato dopo trattamento con detergenti (come il Tween 80); ulteriore prova di ciò deriva dal ritrovamento del TTV nella bile di pazienti infetti (Ukita et al., 1999) dove, per la presenza dei sali biliari, sono riscontrabili solo virus privi di involucro esterno.

Il materiale genetico è costituito da un singolo filamento di DNA (Okamoto et al., 1998) circolare e covalentemente chiuso (Miyata et al., 1999) a polarità negativa (Mushahwar et al., 1999). La sua lunghezza è di circa 3800 nucleotidi (Kamahora et al., 2000; Okamoto et al., 2000; Muljono et al., 2001).

L’infezione da TTV è estremamente diffusa in tutto il mondo, la prevalenza del virus appare molto alta nella popolazione generale indipendentemente dall’appartenenza geografica, dall’origine etnica e dallo sviluppo socio economico; nella maggior parte dei

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paesi analizzati, oltre l’80% della popolazione generale risulta portatrice del virus, con valori che in alcune regioni (Arabia Saudita, Singapore, ecc) sfiorano o raggiungono la totalità della popolazione (Bendinelli et al., 2001).

La presenza di TTV non sembra essere associata a specifiche patologie, anche se inizialmente il virus è stato considerato l’agente responsabile di patologie epatiche di cui ancora non era nota l’origine eziologia. In realtà, anche se non è da escludere un coinvolgimento occasionale di TTV nella patologia epatica, sembra essere ormai confermato che TTV non sia la causa diretta di queste malattie del fegato (Berg et al., 1999; Mushahwar et al., 1999; Matsumoto et al., 1999; Kao et al., 2000; Shang et al., 2000; Ali et al., 2002). Inoltre, alcuni studi hanno indicato che il virus non sembra causare gravi problemi alla salute (Abe et al., 1999; Hino et al., 2007) e alcuni ricercatori hanno suggerito che TTV possa essere considerato un commensale della flora microbica umana o, più semplicemente, un virus completamente apatogeno (Griffiths, 1999; Mushahwar, 2000).

La elevata prevalenza di TTV fa presupporre che il virus utilizzi molteplici modalità di trasmissione: infatti, il DNA è stato ritrovato in diversi campioni biologici (sangue, saliva, secrezioni naso-faringee, secrezioni vaginali, seme, sangue cordale, feci, capelli e pelle) (Gerner et al., 2000; Kazi et al., 2000; Inami et al., 2000; Liu et al., 2000; Martinez et al., 2000; Matsubara et al., 2000; Schroter et al., 2000; Stark et al., 2000; Osiowy et al., 2000; Biagini et al., 2001a; Chan et al., 2001; Fornai et al., 2001; Pirovano et al., 2002; Yazici et al., 2002; De Castro Amarante et al., 2007). In particolare, la maggior diffusione del virus in soggetti trasfusi o comunque esposti al sangue, ed il suo frequente isolamento in campioni di feci dimostrano come la via parenterale e quella oro-fecale siano le predominanti modalità di trasmissione (Luo et al., 2000; Lin et al., 2000;

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Nakagawa et al., 2000; Tawara et al., 2000; Azzi et al., 2001; Chattopadhyay et al., 2005; Irshad et al., 2006; Kheradpezhouh et al., 2007).

Recenti studi hanno suggerito di utilizzare TTV come indicatore di contaminazione fecale per la sua presenza nelle feci e per la notevole stabilità nell’ambiente (Verani M. et al.,2006; Myrmel et al., 2004)): infatti, TTV non perde la sua infettività neanche dopo trattamento a 65°C per 96 ore con calore secco, soltanto la purificazione per immunoaffinità o trattamenti al calore più spinti risultano efficaci per una sua eliminazione (Chen et al., 1999; Takayama et al., 1999). Il virus è stabile almeno quanto i Parvovirus (Berns et al., 1996).

Negli ultimi anni, alcuni studi sono stati rivolti alla ricerca di TTV nei campioni ambientali. In India, uno studio condotto per valutare la prevalenza di TTV nel liquame ha riscontrato la presenza di questo virus nel 12,7% dei campioni prelevati all’entrata di un impianto di depurazione e nel 2% di quelli in uscita (Vaidya S. R. et al., 2002).

In Giappone, invece, dal 2003 al 2004 è stato effettuato uno studio su otto impianti di trattamento di liquami, in cui TTV è stato rilevato nel 97% dei liquami grezzi, nel 18% dei liquami sottoposti a trattamento secondario (prima della clorazione) e nel 24% dei reflui depurati (dopo clorazione). Nel medesimo studio sono stati analizzati anche campioni provenienti da due impianti basati su un processo avanzato di depurazione (filtrazione seguita da ozonazione), i cui reflui sono destinati al riuso: nessuno di questi campioni è risultato positivo per TTV (Haramoto E. et al., 2005).

Dai risultati di questo studio è emerso che TTV è endemico in Giappone e viene continuamente riversato nell’ambiente marino dopo il trattamento di depurazione; infatti, il la percentuale di positivi alla PCR qualitativa per TTV non è diminuita in seguito al processo di clorazione (Haramoto E. et al., 2005).

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L’elevata prevalenza di TTV nei liquami costituisce una ulteriore conferma della modalità di trasmissione oro-fecale di questo virus (Vaidya S.R. et al., 2002).

In uno studio effettuato in Norvegia, TTV è stato isolato nei mitili anche se solo nell’8% dei campioni analizzati (Myrmel et al., 2004). La sua bassa prevalenza nei mitili probabilmente è dovuta al fatto che il virus viene rilasciato a basse concentrazioni (Moen et al., 2003); inoltre, è possibile che il basso recupero delle particelle virali dai tessuti dei mitili abbia contribuito a questi risultati (Myrmel et al., 2004).

1.5.2 Adenovirus

Gli adenovirus sono stati scoperti e isolati nel 1953 osservando l’effetto citopatico da essi provocato in colture di adenoidi umane (da cui il nome del virus).

Adenovirus è un virus a Dna lineare a doppio filamento e presenta un capside di simmetria icosaedrica formato da 252 capsomeri poligonali (240 esoni costituiscono le facce e i lati di triangoli equilateri e 12 pentoni costituiscono i vertici).

Sono privi di pericapside. Al microscopio elettronico misurano un diametro variabile da 60 a 90 nm. Se ne conoscono almeno 51 sierotipi , compresi in almeno 6 sottogruppi (da A ad F), che sono stati identificati come patogeni per l’uomo (tab. 1.4.1.1).

Le patologie da adenovirus colpiscono principalmente:

• il tratto respiratorio (farinigiti, malattie respiratorie acute e polmoniti) • l’apparato visivo (congiuntiviti, cheratocongiuntiviti

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Soltanto gli adenovirus di tipo 40 e 41 sono in grado di causare sindromi gastrointestinali (Enriquez et al., 1995) e sono responsabili di gastroenteriti soprattutto nei bambini, dove sono secondi solo a rotavirus (Uhoo et al.,1990; Crabtree et al., 1997). Studi condotti in Australia, analizzando oltre 5000 campioni fecali durante il periodo 1981-1996, hanno indicato adenovirus responsabile del 3-9% dei casi ospedalieri di gastroenteriti e la maggior parte dei casi ha riguardato bambini: adenovirus 41 è risultato responsabile del 40-80 % dei casi citati, mentre meno del 20% ha riguardato adenovirus 40 (Grimwood et al., 1995).

Soltanto negli Stati Uniti sono responsabili del 5-20% dei ricoveri ospedalieri per diarrea di bambini sotto i 2 anni. Molti individui sono infettati prima di raggiungere i 20 anni di età, mentre solamente il 20% dei bambini sotto i 6 mesi mostra anticorpi per adenovirus; entro l’età di 3 anni si ha presenza di anticorpi almeno nel 50% dei soggetti (Carter, 2005).

Le infezioni da adenovirus possono ricorrere durante tutto l’anno e il periodo di incubazione del virus è generalmente minore di 10 giorni (Foy, 1997, Gaydos, 1999) ma può arrivare anche a 24 giorni (Hunter, 1998)

La trasmissione include la via oro-fecale e l’inalazione di aerosols; in seguito ad infezioni acute, alcuni sierotipi (adenovirus 1, 2, 5) vengono escreti per lunghi periodi in feci, urine e secrezioni respiratorie delle persone infette contribuendo alla diffusione endemica del virus ai gruppi suscettibili.

Anche altri tipi di adenovirus, come ad esempio adenovirus 5, sono spesso ritrovati in ambienti acquatici (Tani et al,. 1995, Lee et al., 2002) a dimostrazione del fatto che anche i ceppi respiratori vengono escreti con le feci (Fong and Lipp, 2005) sebbene in numero minore rispetto agli adenovirus enterici 40 e 41, che raggiungono concentrazioni di circa 106- 108 per ml.

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Gli adenovirus sono stati isolati frequentemente nei liquami grezzi (Puig et al., 1994, Pina et al., 1998), dove sono presenti in concentrazioni maggiori rispetto agli enterovirus (Irving and Smith, 1981, Krikelis et al., 1985). In Grecia uno studio effettuato dal 2003 al 2004 in quattro diversi impianti di depurazione ha rilevato la presenza di adenovirus nell’81,5% dei campioni di liquami grezzi analizzati. Uno studio svoltosi in Norvegia su impianti di trattamento di liquami al fine di valutare l’efficacia dei trattamenti stessi ha individuato adenovirus nel 96% dei campioni in entrata e nel 94% dei campioni in uscita (Myrmel et al., 2006). Ciò è indicativo della resistenza del virus stesso ai trattamenti di depurazione (Carter et al., 2005).

Nei liquami adenovirus ha mostrato una resistenza maggiore sia rispetto ai poliovirus che al virus dell’epatite A in acqua di rubinetto e marina. Ad esempio, adenovirus è almeno 60 volte più resistente alla radiazione ultravioletta rispetto ai virus enterici ad RNA (Meng and Gerba, 1996, Gerba, 2002) e sopravvive da 3 a 5 volte più a lungo dei poliovirus in acqua marina, con 99 giorni necessari ad una riduzione 2-log di infettività (Enriquez et al., 1995). Nei liquami grezzi alla temperatura di 15°C adenovirus 40 e 41 sopravvivono rispettivamente per 40 e 43 giorni (Schwartzbrod et al., 2003).

La maggior resistenza mostrata dagli adenovirus enterici potrebbe essere associata alla natura del loro DNA a doppia elica, che anche se danneggiato potrebbe essere comunque riparato dai sistemi di riparazione del DNA della cellula ospite infettata (Bernstein e Bernstein, 1991).

Le loro caratteristiche di elevata resistenza ambientale e diffusione in matrici idriche li rendono più adatti a ricoprire il ruolo di possibili indicatori di inquinamento virale fecale, rispetto ai virus ad RNA come gli enterovirus, e il virus dell’epatite A (Enriquez et al., 1995; Pina et al., 1998; Wyn Jones and Sellwood 2001).

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1.5.3 Virus dell’epatite A

Il virus dell’epatite A (Hepatitis A Virus o HAV) appartiene alla famiglia Picornaviridae, in cui rappresenta il virus prototipo del genere Hepatovirus.

Il virus ha un diametro di 27-30 nm, è circondato da un capside icosaedrico costituito da 4 proteine capsidiche (VP1-4), non possiede pericapside e il genoma è ad RNA lineare a singola elica, polarità positiva, legato alla proteina VPg.

Sono stati identificati 7 genotipi di HAV, di cui 4 sono di origine umana e 3 di scimmia (Robertson B. H. et al., 1992).

HAV è caratterizzato da una bassa variabilità antigenica, dimostrata dall’esistenza di un singolo sierotipo (Lemon, et al., 1983).

Il virus dell’epatite A è la principale causa di epatite acuta nel mondo (Centers for Disease Control and Prevention, 1995; Morace et al., 2002). La sua distribuzione varia a seconda delle aree geografiche, nelle quali il virus presenta diverse endemicità (fig 1.6.1).

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L’Italia è attualmente un Paese a endemicità bassa-intermedia: in particolare nel centro-nord l’infezione di HAV è a bassa endemia, invece il sud presenta una endemia medio-alta. Dalla valutazione dei dati del SEIEVA del periodo 1996-2000 emerge che, dopo il picco della seconda metà degli anni ’90, l’epatite A ha presentato in Italia una diminuzione della sua incidenza (da 10 casi/100.000 a 3 casi /100.000 abitanti); tra il 2000-2001 l’incidenza si è stabilizzata a 2 casi/ 100.000 abitanti per anno e ad oggi permane questa incidenza (SEIVA 2003-2006).

L’infezione di HAV ha un tasso di mortalità inferiore a 0,1% (Hollinger and Emerson, 2001), sebbene i recenti scoppi epidemici tendano ad essere più violenti (Kanda et al., 2002): nel 2003 in Pennsylvania una epidemia associata al consumo di cipolle verdi contaminate causò 3 morti su 555 casi (Anon., 2003; Wheeler et al., 2005).

L’uomo è l’unica sorgente d’infezione: spesso inapparente nei bambini, mentre è sintomatica e più grave negli adulti.

La trasmissione dell’infezione avviene principalmente tramite la via oro-fecale (Mast and Alter., 1993), sebbene possa verificarsi anche per via parenterale (Noble et al.,1984; Curthbert , 2001; Sheretz , 2005).

Il periodo di incubazione dura circa 1-2 settimane e la sintomatologia è bifasica: febbre, malessere, nausea e vomito come gran parte delle infezioni gastroenteriche, e inoltre danno epatico (urine scure, feci scolorite, ittero, prurito, aumento delle transaminasi sieriche).

Il virus viene eliminato con le feci in alte concentrazioni (fino a 109 virioni/g) per 10-14 giorni prima dell'inizio della malattia e per 1-2 settimane dopo l’inizio della malattia (Poovorawan et al., 2005).

HAV è molto stabile nei liquami grezzi ed è stata dimostrata la sua presenza anche negli effluenti finali degli impianti di depurazione.

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In un impianto di depurazione a fanghi attivi sito a Bari, Morace e colleghi hanno rilevato la presenza di HAV in tutti i campioni analizzati, comprendenti sia liquame grezzo che acque prelevate nell’effluente finale. Ciò dimostra che i tradizionali trattamenti dei liquami non sono in grado di rimuove il virus (Morace et al., 2002). La difficoltà di rimozione del virus è dovuta anche al fatto che HAV è molto resistente nell’ambiente (Abad et al., 1994):

 è stabile a pH acido: mantiene la sua infettività quando sottoposto a pH 1 per 2 ore a temperatura ambiente e continua fino a 5 ore, a differenza di poliovirus e di altri enterovirus che perdono tutta la loro infettività dopo 2 ore (Siegl et al., 1984; Scholz et al., 1989);  mantiene l’infettività a 4°C; rimane inalterato per mesi, soprattutto

in presenza di materiale organico;  resiste alcune ore a 60 °C

 si inattiva a 100°C per 5 minuti (Croci et al.,1999)  si inattiva ai raggi UV (1 minuto a 1,1 watts).

Nel 40% circa dei casi riportati la fonte di infezione da HAV non può essere facilmente identificata, mentre per il resto le cause di infezione possono essere ricondotte a scoppi epidemici di contaminazione fecale di acqua (Bosch et al., 1991) o cibo (Rosemblum et al., 1990).

All’interno di quest’ultima categoria, i molluschi incidono sempre più e, risentendo delle acque urbane contaminate, sono diventati una tra le maggiori cause di infezioni epatiche (Halliday et al ., 1991; Chironna et al., 2002; Macalauso et al., 2006).

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La più grande epidemia si verificò a Shangai nel 1988 causando circa 300.000 casi di epatite in seguito al consumo di mitili crudi contaminati.

Nel 1999 sono stati riportati 184 casi di epatite A in Spagna associati ad una partita di molluschi bivalvi importati (Sánchez et al., 2002) ed in generale nelle acque costiere a Barcellona (Pina et al., 1998), in Florida (Griffin et al., 1999) ed in Italia (Puglia) (Casini et al., 2002).

Altri scoppi epidemici dovuti al consumo di cibi contaminati sono stati quelli che si sono verificati nel 1992 a Denver (Colorado) coinvolgendo 5000 persone (Dalton et al., 1996), in una scuola del Michigan a causa del consumo di fragole contenenti il virus dell’HAV (Hutin et al., 1999); in seguito al consumo di cipolle verdi contaminate, nel 1998 in un ristorante dell’Ohio si verificò uno scoppio epidemico, che coinvolse 43 persone (Dentinger et al., 2001).

Dal settembre del 2000 ad agosto 2001, in Tunisia è stato effettuato uno studio per valutare la diffusione di HAV nella popolazione di Monastir: è stata osservata una epidemia nei mesi invernali con un picco nel mese di Gennaio e il virus è stato rilevato nell’80% dei campioni di siero, nel 33% dei campioni di liquami grezzi e di quelli prelevati dopo il trattamento secondario, e infine nel 20% dei campioni di mitili raccolti nel periodo Gennaio-Febbraio in diverse aree, vicine allo sbocco dell’impianto in cui sono stati prelevati i campioni di liquame (Gharbi-Khelifi., 2007).

La presenza del virus nei liquami riflette quindi l’infezione clinica e sub-clinica presente nella popolazione. Inoltre, i risultati ottenuti in questo studio dimostrano che l’impianto di depurazione non è stato efficiente nel rimuovere il virus che, quindi, essendo rilasciato nel mare ha causato la contaminazione dei mitili.

Nel 2004, sono stati monitorati i liquami in ingresso e in uscita dal depuratore di S. Jacopo a Pisa, le acque del corpo idrico recettore, quelle del mare alla foce del suddetto

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corso d’acqua e i mitili ivi presenti: il virus dell’epatite A è stato ritrovato soltanto in un campione dei mitili analizzati. (Carducci et al., 2006).

Un recente studio effettuato in Grecia ha evidenziato la presenza di anticorpi anti-HAV nel 65,7% degli individui che lavorano negli impianti di depurazione e nel 32,6% del gruppo di controllo suggerendo la necessità di una vaccinazione mirata a questo gruppo di lavoratori (Arvanitidou et al., 2004). Invece, in Toscana è stata studiata la prevalenza di anticorpi anti-HAV in un gruppo di 65 lavoratori di un impianto di depurazione e in un gruppo di controllo costituito da 160 individui residenti nella stessa area; il 55% dei lavoratori dell’impianto e il 44% del gruppo di controllo ha mostrato sieroprevalenza per HAV. La mancanza di evidenza di rischio occupazionale in Italia è legato all’elevata circolazione del virus in passato (Bonanno et al., 2000). Altri studi nel nord e centro Europa hanno mostrato livelli di rischio più alti.

La vaccinazione (con 3 tipi di vaccino) è soltanto consigliata per alcune categorie a rischio:

- viaggiatori (2-3 settimane prima della partenza); - personale sanitario (reparto geriatrico e neonatale); - personale asili nido e materne;

- addetti alla preparazione alimentare; - militari in missione all'estero;

- persone con malattia epatica cronica;

- lavoratori addetti alla raccolta di rifiuti e smaltimento reflui urbani; - tossicodipendenti.

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1.6 Ricerca degli agenti virali nelle acque

La ricerca degli agenti virali nelle matrici idriche ha dovuto negli anni confrontarsi con i numerosi limiti delle metodiche proposte.

I metodi colturali si basano sulla visualizzazione degli effetti citopatici del virus sulle cellule, ma non esiste un unico sistema di cellule che può essere usato per tutti i virus enterici umani. Inoltre, alcuni virus enterici si replicano senza produrre apparenti effetti citopatici e altri che non possono essere coltivati(Abbaszadegan et al., 1999; Cho et al., 2000; Taylor et al., 2001; Fout et al., 2003).

I limiti dei convenzionali metodi colturali hanno spinto all’applicazione in tali campioni delle tecniche molecolari come PCR e Real-Time PCR, già studiate e messe a punto per i campioni clinici, rapide da eseguire e dotate di alti livelli di sensibilità e di specificità (Papapetropoulou and Vantarakis,1998; Xu et al.,2000; Rigotto et al.,2005).

La PCR è in grado di amplificare sequenze specifiche del genoma virale attraverso reazioni a catena della polimerasi. Tuttavia richiede la costruzione di specifici primers, lo sviluppo di un metodo di recupero e di concentrazione delle particelle virali, seguito dall’estrazione e dalla purificazione dell’acido nucleico dal campione ambientale per eliminare potenziali inibitori (Legeay et al., 2000; Rigotto et al., 2005). Infatti, nei campioni ambientali sono presenti composti organici e inorganici che possono interferire con la reazione inibendo gli enzimi; proteine e carboidrati possono legarsi ai nucleotidi e agli ioni magnesio rendendoli non disponibili (Shieh et al., 2000; Kingsley and Richards, 2001; Abd El Galil et al., 2004; Karamoko et al., 2005). La presenza di inibitori può determinare dei risultati falsi negativi (Parshionikar et al., 2004).

Diversi metodi vengono utilizzati per eliminare questi inibitori, come la cromatografia su colonna, l’estrazione con guanidina tiocianato e l’estrazione con solventi.

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Le procedure sviluppate sino ad ora per rimuovere gli inibitori non sono in grado di eliminarli completamente da tutti i tipi di campioni (Queiroz et al., 2001; Parshionikar et al., 2004).

La presenza di inibitori nei campioni può alterare anche l’efficienza di estrazione del genoma virale. E’ necessario quindi verificare l’efficienza di recupero di una tecnica di estrazione del genoma virale prima di applicarla ai campioni ambientali da analizzare.

Nonostante la sensibilità e la specificità della PCR, non si può escludere la possibilità di avere falsi positivi a causa dell’enorme variabilità del campione ambientale e alla contaminazione con le sequenze amplificate.

La Real-Time PCR è una tecnica di amplificazione genica, che oltre ad offrire tutti i vantaggi della PCR classica, come la sensibilità, la specificità e la rapidità di risposta, presenta il vantaggio di poter monitorare la reazione di amplificazione in tempo reale (McKillip et al., 2004). Permette, inoltre, di quantificare la carica virale presente nei campioni ambientali.

La Real-Time PCR si può realizzare mediante l’impiego di coloranti intercalanti (es. SYBR green), che si legano in maniera aspecifica a tutto il DNA oppure mediante sonde ad ibridazione, specifiche per il frammento di interesse, marcate con molecole fluorescenti (TaqMan, Molecular Beacons, Scorpion, ecc.). Tra tutte le sonde che possono essere utilizzate la sonda TaqMan è la più sensibile, riuscendo a rilevare da 5 a 25 copie genomiche nei campioni ambientali (Hadfield et al., 2001; Gardner et al., 2003).

Così come la PCR tradizionale, anche la Real-Time PCR può fornire risultati falsi-positivi, se non vengono utilizzate particolari accortezze come la separazione fisica delle varie fasi in cui si articola il metodo. L’ottimizzazione del metodo non può inoltre prescindere dal prendere in considerazione anche le fasi del procedimento analitico:

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campionamento, concentrazione del virus ed eliminazione degli inibenti della reazione di amplificazione (De Medici et al., 2001;Di Pasquale et al, 2005).

Sia la PCR che la Real-Time PCR non forniscono alcuna informazione sull’infettività dei virus, che è di primario interesse per valutare i rischi per la sanità pubblica (Gassiloud et al., 2003; Ko et al., 2005; Guévremont et al., 2006).

Figura

tab. 1.1.1: Virus eliminati con le feci
fig. 1.1.1: Trasmissione dei virus enterici attraverso l’acqua
Fig.  1.3.1.1a  Valori  ammessi  per  la  delibera  CITAI  per  i  parametri  microbiologici  (all.5, Delibera CITAI)
Tab.  1.3.3.1a  Linee  guida  dell’OMS  per  il  riuso  di  acque  depurate  in  agricoltura  (1989)
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