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Quelli non s ingrassano con me: i loro libri non mi interessano, e quando mi interessano li rubo. Io sono per forme più incisive di lotta; non credo

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Academic year: 2022

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Di come la competizione e la metamorfosi colpiscono gli impiegati; dell’incontro di Dino nel sotterraneo della Metro e del suo ritorno al giornale ‘senza titolo’.

Certo, vedere un conduttore televisivo esibirsi in TV, lascia il segno. Se non fosse così, non si capirebbe perché le grandi aziende spenderebbero grossi capitali in pubblicità. Inoltre la visione in diretta di un avvenimento ardito, come camminare sui carboni accesi, trasmette nello spettatore una carica di adrenalina i cui effetti persino i più navigati stentano a stemperare. Ma sarebbe comunque azzardato pensare che un solo show televiso, sia pure amplificato dai giornali del giorno dopo con articoli e commenti ad hoc, possa avere un tale peso nelle decisioni aziendali che tutti all’indomani si mettano a proporre ai dipendenti di emulare gli eroi della TV o dei rotocalchi.

L’idea di spingere alla lotta, due o più fazioni del personale di una ditta, arrivò per gradi. A ritroso, prima di giungere alla prova del fuoco, si era passati attraverso altre prove, e difatti si proveniva dall’esibizione di coraggio di buttarsi a capofitto da un ponte, dall’arrampicata alpina, dal percorso trekking, dalle prove di abilità psicologiche, dai test attitudinali, dalla visita medica, dai colloqui con i capi. E prima di tutto questo, i samurai giapponesi avevano invaso i mercati occidentali di auto, di apparecchi elettronici, radio, impianti hi fi, televisioni. Gianni Agnelli aveva creato una joint venture con i francesi, per contrastare l’avanzata delle marche del Sol Levante, e nel contempo aveva dichiarato che mai gli italiani avrebbero potuto emulare i lavoratori di quel paese lontano, meno che mai allearsi con loro, essendo troppo diversi. Intanto, mentre i turisti giapponesi, davanti alle vetrine occidentali, fotografavano minuziosamente ogni particolare dei prodotti esposti, delle associazioni di questo emisfero avevano inviato i loro consulenti a Tokyo a studiare il fenomeno nipponico. I consulenti di ritorno dall’oriente si erano presentati ai consigli di amministrazione per illustrare metodi e tecniche in uso presso le multinazionali giapponesi per raggiungere la qualità totale. Era l’epoca in cui la libera iniziativa in Cina covava sotto la spessa coltre ideologica comunista, e in economia pericolo giallo era sinonimo di Giappone, dove favole metropolitane narravano di impiegati e operai che, nei giorni festivi, sostavano davanti al cancelli chiusi delle ditte, incapaci di trascorrere il tempo libero in modo diverso dalla piena occupazione lavorativa. In verità, il lavoratore era sottoposto ad orari prolungati, costretto alla competizione più strenua tra colleghi, spinto a dare il massimo, fino al karoshi, a morte improvvisa dovuta al sovraffaticamento.

La creazione dei circoli di qualità, sull’onda di quello che avveniva nel paese del Sol Levante, faceva temere lo sconquasso nell’organigramma aziendale. Gruppi di dipendenti, che eleggevano un leader, che si riunivano per discutere come migliorare i processi di lavoro, che portavano dati e analisi a sostegno delle proposte di cambiamento, che nei fatti introducevano elementi di sovvertimento nella piramide di comando. Inevitabilmente per superare l’anarchia, per ristabilire la gerarchia, si giunse allo scontro frontale, quindi alla lotta in campo aperto.

Ovviamente anche i dirigenti della M&F Italia avevano cercato di cavalcare questi cambiamenti.

L’amministratore delegato aveva anticipato tutti, studiando e ristudiando la partita, muovendo i pezzi ad uno ad uno, portandosi in avanti, spiazzando gli avversari ad ogni mossa. Il direttore del personale e delle comunicazioni, dott. Colombani, tramite i suoi contatti si era adoperato per raccogliere qualsiasi critica o pettegolezzo al fine di conoscere gli umori degli impiegati. Il rag.

Ravasi aveva catalogato ogni minimo accenno di insofferenza dei sottoposti. L’impiegata di concetto Diana aveva aggiunto nuove frecce al suo arco, proponendo al collega Dino di partecipare allo stesso gruppo di lavoro. Dino Turoni nella sua situazione di precarietà si era lasciato condurre dalla collega in questa nuova esperienza, pur fiutando i pericoli. Ed era stato in un momento di smarrimento che le aveva esplicitato la sua concezione di rapporto ideale tra uomo e donna: no a una relazione amorosa tra colleghi, no al matrimonio, anzi ognuno a casa propria, per ritrovarsi di tanto in tanto, quando si era di bell’aspetto e dell’umore giusto. Cosa che aveva avuto il risultato di divertire la collega, che aveva colto nei modi di Dino più segni di insicurezza che libertinaggio.

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Con il sorgere dei primi circoli di qualità, si era avvertito subito un rinvigorirsi del germe della metamorfosi. Intanto l’amministratore delegato aveva subito ribattezzati i circoli: ‘tqt’, total quality teams, in quanto i circoli - refuso di traduzione dal giapponese all’inglese, quindi passato tra le maglie dell’accademia francese - evocavano troppo l’ambiente ricreativo del dopo-lavoro. Le iniziative più decise venendo dal basso, i partecipanti erano sembrati in preda a una improvvisa euforia che aveva seminato lo sconcerto tra quadri e dirigenti. Quindi la metamorfosi del lunedì che in genere colpiva in misura maggiore i dipendenti più zavorrati di lavoro e con meno stipendio, ora si impadroniva della spina dorsale dell’organizzazione.

Uscendo dalla ditta un lunedì sera, come era consuetudine, sul tardi, il dott. Guglielmi salutò il portinaio: “Buona sera Pasquale. Adesso che anche l’ultimo inquilino se ne va, puoi chiudere”.

“Buona sera dottore. E’ finita bene la giornata?”

“Non è proprio finita… Mi porto alcune carte a casa”.

“…lavori in corso? Lei dovrebbe lavorare di meno, dottore!”

L’indomani nel presentare un memorandum a tutto il personale, per la ridefinizione dei tqt, l’amministratore delegato riqualificava i capi, creando il consiglio di esperti che avrebbe esaminato i risultati, che avrebbe tradotto proposte in iniziative, che avrebbe supervisionato l’iter dalla prima fase fino alla realizzazione. Qualcuno vide un provvidenziale intervento contro il morbo della metamorfosi. Qualcun altro parlò di coperchio: con abile mossa il gran capo avrebbe messo il coperchio all’onda che veniva da lontano, nientemeno che dal Giappone, e molti si sentirono di nuovo rinfrancati o ridotti al silenzio. Qualcuno affermò che la cosa contribuiva ulteriormente a ridimensionare la figura del dott. D.J Cornelia, ritagliata nelle vesti di cost saving manager, alla funzione contabile di mettere i numeri in fila, senza poter intervenire nelle decisioni: la metamorfosi aveva colpito anche lui.

Piuttosto che definirla un morbo, la metamorfosi nell’ambito di un ufficio, era vissuta come un disturbo di natura transitoria, che tuttavia poteva colpire chiunque in maniera indiscriminata e differenziata. Capitava che uno di solito espansivo fuori della ditta, in casa o con gli amici, sul posto di lavoro diventasse inspiegabilmente taciturno. Viceversa c’erano delle persone che fuori erano riservate al punto che se stavano per uscire dalla porta di casa, e improvvisamente si accorgevano che l’inquilino a fianco o di fronte stava anch’egli per uscire, immediatamente si bloccavano dietro la loro porta per non farsi vedere, attendevano origliando che l’altro si fosse allontanato, e quando l’ascensore era partito, uscivano. Inspiegabilmente queste persone nell’ambiente di lavoro si muovevano a loro agio, parlavano, civettavano. La metamorfosi si manifestava in entrambi i sensi e poteva togliere o dare il sorriso.

Dino Turoni era al suo primo impiego. Si era subito reso conto dei pericoli a cui andava incontro quando cominciò la sua carriera di impiegato. L’impatto iniziale lo aveva scioccato a tal punto che quello che doveva essere una situazione transitoria, l’impiego part-time - questione di settimane o mesi -, si protraeva ormai da qualche anno. Aveva di volta in volta formulato il proponimento di continuare gli studi, di trovare un lavoro di altra natura, ma non aveva fatto né l’una né l’altra cosa.

Il pensiero del posto fisso per un’intera vita lo atterriva. Se tuttavia da un lato sembrava che solo quella situazione di precarietà attenuasse l’inquietudine di dover scegliere e quindi di prendere partito, dall’altro lato l’aspetto economico lo comprimeva non poco. Intanto non poteva permettersi come casa, se non un abbaino all’ultimo piano di un edificio neanche troppo signorile. Non possedeva un’automobile. Viveva dello stretto necessario. Di tanto in tanto rammentava a se stesso che doveva imprimere una svolta alla sua esistenza.

Alla fine della sua mezza giornata di lavoro percorse il sottopassaggio della metropolitana per andare a prendere il treno. Anche quel giorno stava rimuginando il medesimo pensiero quando si imbatté in due barboni che stavano litigando “per la solita cento lire” pensò; invece scoprì che si contendevano un cappello, o forse qualcos’altro. Di solito tirava dritto, ma quel giorno si sentiva più insicuro che mai circa il proprio futuro. Aveva una vaga sensazione che dentro di lui, ben radicato dentro, covasse un verme solitario che prima o poi lo avrebbe portato a condividere un pezzo di

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strada con uno di quelli. Prese dal portafogli due banconote da mille lire e si avvicinò ai due. “Se posso aiutarvi” disse, “se posso mettere pace…”

“Oggi non mi compri per mille lire, neanche per diecimila” gli rispose uno dei litiganti dal volto e dai capelli rossicci; aveva un’età indefinita. Poi si rivolse all’altro, e gridando: “Lasciami il cappello, me ne vado, ho deciso!” glielo strappò di mano.

L’altro barbone, più vecchio e malandato, si strinse contro il muro, si accoccolò; silenziosamente si mise a piangere.

“Tutto per un cappello?” chiese Dino a metà voce come tra sé e sé incredulo.

“No, non piange per il cappello” spiegò l’altro, “anche se con questo ci abbiamo fatto la colletta insieme; il cappello è mio, ma lui non piange per il cappello, piange perché vuole trattenermi, qui con lui”.

“E non puoi portarlo con te?”

“No che non posso! Io ritorno nel mondo dei morti-vivi. Ospitalo a casa tua!”

Dino non fiatò e l’altro aggiunse: “Visto? Anche tu appartieni al mondo dei morti-vivi; allora devi sapere che i morti non possono portare con loro altri pesi morti. Io ritorno a fare quello che facevo prima, il mestiere puzzolente di lacché, e nel mio mestiere, nella mia vita non c’è posto per uno come lui, altrimenti non stai a galla, lo capisci?”

“Che mestiere fai?”

“Che importa? Uno come tanti… sono tutti uguali, posti dove non è concesso di stare con un piede dentro e uno fuori. Facevo il portinaio di un albergo, ero così stufo di dover sorridere a tutti che ho finito con il litigare con tutti, così prima che mi cacciassero, me ne sono andato, e per cinque mesi ho fatto il clochard , o se vuoi l’accattone… cercavo la libertà”.

“E perché ora hai cambiato idea?”

“Perché ho trovato la fame, perché ancora una volta sono stufo. E’ libertà questa? Guardami, siamo presi a calci dalla polizia, presi a spintoni dai drogati, visti male dalla gente… Sono stufo di subire.

C’è troppa miseria in giro; dicono che nessuno più muore di fame… eppure ho visto uomini come lui, come me, piangere per la fame mentre la gente passava senza degnarti di uno sguardo. E che dire del freddo?” Dopo una pausa e uno sguardo al compagno, aggiunse: “Posso sperare di trovare, oltre a un lavoro, anche ospitalità in un albergo, ma da solo”.

“Io invece ho per casa un sottotetto: è uno spazio troppo ridotto, mica si può dividere una branda per due?”

“Eh no, ma sarebbe un modo intelligente di stare al mondo”.

Con l’idea di dover cambiare il corso della propria vita Dino ritornò a casa. Aveva un intero pomeriggio davanti a sé tutto da inventare. Chissà come se la passava Caterina; avrebbe voluto invitarla, ma conosceva la risposta in anticipo. Oggi no; fra un paio di giorni, può darsi. Quando meditava di imprimere un ritmo diverso alla sua esistenza, lui intendeva questo nel senso di bisogno di credere maggiormente a ogni atto che compiva. Per il resto continuava a prestare attenzione a non trovarsi coinvolto nell’ingranaggio lavoro-guadagno-vacanza-breve-ma-intensa oppure nel circolo vizioso del vincere la solitudine con la molteplicità d’interessi, per non riuscire più a trovare spazio per nuove amicizie. Un retaggio di educazione provinciale lo preservava da questi pericoli.

Fuori dal concentrato iperurbanizzato rimanevano ancora molti elementi allo stato naturale. Nei boschi le stagioni erano quattro. La flora e la fauna della montagna ignoravano anche i più rudimentali sistemi di semplificazione del ciclo atmosferico. Nella campagna viceversa molte colture venivano prodotte in serra. Al principio si era cominciato con gli ortaggi e i fiori… Adesso accadeva che i figli dei nuovi tecnici dell’agricoltura, essendo cresciuti in ambienti tenuti a temperatura costante, mal si adattassero ai freddi invernali, ai caldi afosi dell’estate, agli sbalzi di temperatura in genere. Per costoro vivere all’aperto poteva costituire un pericolo. Quindi era avvenuto che l’attesa rivoluzione che doveva sconvolgere the seasonal way of living, la vita nell’avvvicendarsi delle stagioni, invece di espandersi dai centri urbani alle campagne, stava avendo luogo in campagna e si sarebbe propagata in città solo successivamente. Il progresso rendeva

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possibile un sogno antico quanto l’uomo: vivere in una condizione di eterna primavera. La spinta alla moltiplicazione dei prodotti della terra per sconfiggere la fame nel mondo, aveva generato questo miracolo. I moderni urbanisti avevano pronto dati e disegni per mettere sotto serra interi quartieri della megalopoli.

Tuttavia accanto ai partigiani del benessere a tutti i costi e ai fautori del progresso, esistevano gli ecologisti, la lega per la protezione degli animali e per la difesa dell’ambiente, la lega per i diritti dell’uomo. Numerosi e non molto ascoltati, quantunque avessero dalla loro parte la natura che di tanto in tanto dava tangibili segni di indomabile forza. La gente col trascorrere degli anni era portata ad adeguarsi, a invecchiare e a non porre ostacoli. Ma intanto, finché c’era vita, le abitudini resistevano.

Fino a quando il buon senso non gli veniva meno, Dino avrebbe continuato a preferire le piccole dosi. Come il placebo per il malato, ogni effetto su di lui sarebbe stato benefico ma limitato, poiché niente ai suoi occhi era assoluto, neanche Dio.

Dubbioso di riuscire a smentire se stesso, decise di ritornare alla redazione del giornale ‘senza titolo’ per approfondire la portata del loro disegno alternativo.

Differenziate nella forma e nei contenuti, le risposte al tema ‘progetto-uomo’ erano giunte numerose: lettere, cartoline postali raccomandate con ricevuta di ritorno (da parte di grafomani che volevano a tutti costi essere pubblicati), telegrammi. Alcuni lettori casuali (managers, dirigenti, funzionari) avevano tentato di inviare i loro messaggi attraverso sistemi di comunicazione più sofisticati, usufruendo dei nuovissimi servizi di collegamento adottati presso le loro aziende; senza peraltro capire bene come questi servizi funzionassero, si erano arresi di fronte al segnale che dava per sconosciuto il non-nome del giornale. Ne avevano dedotto che poteva trattarsi di un’operazione promossa da qualche centro di potere occulto, nel qual caso valeva la regola degli executives delle alte sfere: è preferibile ignorare per non rimanere coinvolti.

In quanto ai messaggi pervenuti, fra le tante posizioni disparate emergevano dei tratti di fondo in comune. A un genere di uomo-artista che parla con fatti costruiti sulla propria pelle, si contrapponeva un genere che si esprime con la fantasia. Nello sforzo di molti collaboratori di trovarsi coerenti con la linea del giornale, loro malgrado, si leggeva la rabbia proveniente dal risentimento di dover combattere una guerra oscura. L’unica ragione del loro essere alternativi era che non si rassegnavano che altri fossero famosi senza possedere maggiori qualità. Conclusione pilotata dei molteplici interventi fu che l’artista doveva prendere posizione, e se questo sottintendeva anche la scelta di un colore, coerentemente bisognava cambiare inchiostro fino a scrivere con il sangue.

“Innanzi tutto qui si continua nell’errore d’individuare nell’artista solo colui che scrive, dipinge, compone musica, mentre artista è l’uomo-artigiano che crea. A parte questo, anche limitando il discorso al campo della parola, non si fa politica solo con la controinformazione, il reportage, eccetera. La poesia non deve essere per forza sovversiva; le opere d’evasione sono un mezzo importante di formazione politica. Prendi la pubblicità…”

“… abbiamo bandito dalla nostra tavola i caroselli pubblicitari; abbiamo convenuto che sono una forma di condizionamento non meno pesante dei sistemi feudali di mecenatismo. La pubblicità è un mezzo di deformazione mentale”.

“Nel senso della deformazione, la pubblicità forma più della scuola, del catechismo, dei mass media. Così il cinema, così la televisione. Il fatto è: lasci tutto ciò che è evasione in mano ai centri di potere ufficiali? Sai con quale risultato? Che ognuno di noi messo di fronte, a un articolo contro il consumismo, a un saggio che tratta della fame nel mondo, dice di essere contro il consumismo, contro lo sfruttamento, ma poi in pratica non si fa mancare nulla e ambisce a possedere la macchina e la villa sul lago; in realtà ognuno di noi cade nella trappola che TV, caroselli e mass media tessono ogni giorno. E tu sei sempre del parere che, per esempio, gli scritti d’evasione non ci interessano, che essi servono solo a rimpinguare i manipolatori della cultura ufficiale?”

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“Quelli non s’ingrassano con me: i loro libri non mi interessano, e quando mi interessano li rubo. Io sono per forme più incisive di lotta; non credo nella conversione, anche se fosse possibile sarebbe un processo troppo lungo e io rischio di crepare prima”.

Dino disse che la poesia ha una forza espressiva che nessun regime può imbrigliare. Soddisfatto del proprio intervento - per quanto telegrafico - poi rimase in ascolto per il resto del tempo. Più tardi giudicò il medesimo intervento con ben altra severità. Tempestiva l’osservazione sulla poesia; poco corrispondente alla realtà l’immagine riflessa che aveva dato di sé. Appellativo a parte, il poeta in lui doveva ancora nascere. L’inquietudine personale, il suo essere diviso a metà, acquistava significato se d’ora in poi convogliava i suoi sforzi verso una méta collettiva. Per esempio, per quanto tempo ancora l’uomo moderno, bombardato dai mass media, sarebbe riuscito a mantenere vivo lo spirito di libero pensatore? Il preservare questa prerogativa era un affare di tutti che il singolo individuo non poteva illudersi di risolvere da solo, magari appartandosi. Il problema era di trovare il modo di soffermarsi a riflettere, senza perdere il contatto con il mondo esterno. Né eremita, né punk quindi. E non era un problema da poco.

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L’amore è un castigo. Ci punisce di non aver saputo restare soli.

Marguerite Yourcenar 10

Dell’on. Andreoli e dei sacrosanti diritti di ciascuno. Del passaggio di Caterina dall’atelier D’Onorato, al tappeto in casa di Dino, al tragitto in auto, con inattesa svolta….

L’evoluzione continua prendendo velocità anche dalla propria forza d’inerzia, accelerava i ritmi, si riversava a valanga; le nuove scoperte scientifiche, sommandosi, si moltiplicavano per due, per quattro, per ventiquattro. Il corso delle stagioni andava semplificandosi; i computers regolavano la vita di ognuno anche durante il tempo libero. Solo l’apparato politico rimaneva tale e quale a quello insediatosi nell’immediato dopoguerra. Non solo, i protagonisti della scena politica sembravano che avessero scoperto il siero della longevità, poiché erano trascorsi venti anni, trenta e passa, rimanevano vivi e vegeti a calcare i seggi del parlamento. Incuranti che il tasso della natalità fosse sceso, che l’età media della popolazione stesse aumentando, che bisognasse mettere mano a dei cambiamenti. A nulla era valso l’esempio di altre nazioni progredite che davano periodicamente bella mostra di come si amministra la cosa pubblica. Altrove la democrazia era sinonimo di avvicendamento nella gestione dello stato. Da una elezione all’altra gli elettori spostavano l’asse preferenziale del quindici e del venti per cento. Mentre gli elettori della penisola, ammaliati dagli uomini ai vertici, non cessavano di confermare loro un appoggio incondizionato. E questi sempre presenti, sordi ai consigli dell’alleato americano che pure avrebbe favorito un colpo di mano, non fosse che per mettere a riposo qualche partigiano rosso ultraottantenne. E devoti al Santo Padre che non cessava di pregare perché le loro anime, cattoliche o laiche, non abbandonassero il corpo;

poiché fino a quando non ci sarebbero state scosse nel mondo politico, si poteva confidare che il regno temporale della Chiesa conservasse la tiara e lo scettro.

Il paese quindi, cominciando a disperare di rimuovere l’oligarchia partitica, dava segni di rimpiangere la monarchia esiliata. La famiglia dell’ex-sovrano, se non altro, aveva colorito le pagine dei rotocalchi; le fughe amorose del principe con la soubrette avevano commosso anche il cuore dei vecchi commilitoni, senza che lo ammettessero, poiché richiamavano loro alla mente i bei tempi andati della leva e della gioventù. Le bizze della regina avevano fatto tremare più di un governo, per le intemperanze poco riguardose di un ministro verso la casa reale, che prestavano voci ai pettegolezzi. Mentre il sovrano cercava rifugio in una baita svizzera all’insaputa dell’amante, della regina e del gabinetto ministeriale. Il paese quindi manifestava un reale interesse:

e si domandava quanto fosse giusto tenere fuori dai confini un re in esilio. La Costituzione del popolo sovrano andava modificata per accogliere le spoglie moribonde del vecchio monarca, la cui autorità vantava una legittimità recante un suggello divino. In quanto agli uomini della repubblica, che fossero usciti dalla resistenza o dalle fila dei balilla, davano uno spettacolo di decadenza fisica che metteva a repentaglio l’immagine turistica della penisola. Vero è che qualcuno tra i deputati, in piena fase elettorale – quando le proposte abbondano – era arrivato a prospettare una nuova repubblica, insieme a una nuova costituzione. Ma i capi storici si sottoposero a un restauro facciale e apparvero in televisione. Anche Andreoli. Tutti a ribadire che non ci stavano, che era meglio lasciare le cose a posto. E le riforme rimasero allo stato di proposta come d’altronde merita ogni promessa elettorale, estorta sotto la pressione emotiva del pericolo comunista.

Ci sono tuttavia uomini che prevedono gli eventi o li anticipano o brigano per non farsi anticipare.

In obbedienza alla propria formula scaturita dopo numerosi anni di studi sul campo: il potere giustifica il potere, l’onoverole Andreoli ideò un nuovo corso di laurea di cui si vide assegnare la cattedra. Tempestiva l’attuazione del suo disegno in un momento in cui sempre nuovi professori

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lasciavano la cattedra (simbolicamente, e a un loro protetto) per uno scranno al parlamento. La materia di insegnamento non aveva nessun carattere politico e prendeva spunto da un capitolo del suo ultimo libro-diario, dove emergevano alcune riflessioni sui diritti inalienabili di ciascuno ad avere un volto, un nome e una firma. Poiché il corso non insegnava niente di preciso venne disatteso dalla grande massa degli studenti che affollavano gli atenei per costruirsi una carriera per il domani. Vi confluirono invece persone che avevano già fatto strada nella scala sociale e che desideravano aggiungere al successo conseguito la patina del riconoscimento ufficiale. Per molti si trattava di aggiustare il tiro, di dare uno spessore culturale alla propria immagine. Tra i primi iscritti ci fu l’industriale mecenate Brambilla. Un caso a parte si determinò con la richiesta d’iscrizione di alcuni professori che avevano più di una laurea e di numerosi letterati che avevano vinto numerosi premi letterari. L’onorevole Andreoli desideroso di levarseli dai piedi, concesse agli uni una laurea ad honorem, e degli altri non ne volle sapere. Tuttavia per evitare defezioni alla prossima tornata elettorale, agli esclusi fu assegnato il titolo di cavaliere o di dama di commenda. Il punto essenziale era che l’onorevole, non solo coltivava l’obiettivo non dichiarato di ampliare la sua sfera d’influenza tra i detentori di voti e potere, ma aveva in mente un punto d’arrivo: la creazione di un albo delle firme di prestigio. Cosa che disordinatamente già esisteva, però mancava di un disegno organico, ragion per cui era continuamente oggetto di contestazione.

Benché la senatrice Anna Maria Parini si fosse trovata a sedere insieme all’on. Andreoli nel panel del congresso femminista, sia pure ben distanti l’uno dall’altra, in ogni altra materia erano su fronti contrapposti. La senatrice denunciò il nuovo corso di laurea, come demagogico, anticostituzionale e truffaldino, per cui annunciò subito una raccolta di firme per contrastarne l’operato e per la sua abolizione tout court.

Appena Maria Teresa D’Anteo seppe d’essere stata prescelta a essere insignita del titolo di dama di commenda, lo seppe anche Caterina Nastasia. Il giornalista poeta suo amico avrebbe ricevuto un riconoscimento quale ‘giovane scrittore’.

Dopo avere trovato il tempo di felicitarsi con entrambi, con ritardo Caterina s’apprestava a recarsi all’atelier del pittore D’Onorato. Non trovava la stecca delle sigarette, non trovava le chiavi della macchina, non rammentava dove aveva posteggiato l’auto, non rammentava le indicazioni ricevute, aveva smarrito l’indirizzo, aveva smarrito la sua consueta presenza di spirito. Vi giunse trafelata senza aver avuto il guizzo di un momento di notare il palazzo d’epoca dove si era introdotta.

D’Onorato era assente: aveva però avuto il pensiero di farle trovare sul tavolo un bouquet di orchidee con un biglietto di benvenuto.

Lo studio era situato al piano rialzato che dava su un giardino, ed era composto da quattro stanze ampie dai soffitti alti decorati in gesso, più una riservata al maestro. I due allievi, che si riferivano al pittore sempre chiamandolo ‘maestro’, parevano divertirsi un mondo ogni volta che rispondevano a una domanda di Caterina. Lei era lì per imparare, ma forse la sua presenza li metteva in soggezione.

I quadri del pittore richiamavano alla mente lo stile di Dalì; uno aveva le dimensioni di una parete e raffigurava l’arcata di una porta al di là della quale si estendeva il deserto; qui dal giglio prendeva forma il corpo di una donna; là l’uomo moderno, nell’atto di allontanarsi dalla foresta, con il quadrante dell’orologio al posto del viso rivolto all’indietro, e davanti il Tempio della Borsa Valori;

un autoritratto: il maestro al cavalletto mentre dipingeva se stesso. Il bambino che osserva il padre, un essere nuovo che gli appare per la prima volta con il becco di un rapace, il volto tormentato dalla bufera, la fronte rischiarata dal sole. I temi dei quadri confermavano l’estro che la critica riconosceva al pittore D’Onorato.

Verso mezzogiorno Antonio e Pietro, i due allievi, in compagnia di Caterina, si recarono in un american-bar a fare colazione. Lo definivano, tra ammiccamenti e sorrisi, il bar delle muse. Per due motivi. Le spiegarono che per una speciale convenzione con il proprietario del locale (e per congeniale illuminazione), le loro consumazioni venivano regolate a fine mese direttamente dal maestro. Intanto l’american-bar andava man mano affollandosi; la presenza di giovani donne era preponderante. Dopo avere sbocconcellato tre o quattro panini a testa, Antonio e Pietro davano l’impressione di volere rimanere più a lungo. Poi si alzarono scherzando fra di loro e chiedendosi

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l’un l’altro se si erano rifocillati a sufficienza e avevano tratto ispirazione da quanto avevano visto.

Dissero a Caterina che nelle immediate vicinanze c’era un salone di moda e che le ragazze erano delle modelle. Caterina indovinò il resto, che quel gioco fatto di ammiccamenti era abituale tra i due, e che senza la sua presenza avrebbe avuto un tono più marcato.

Due volte alla settimana c’era l’impegno di andare al corso di pittura, a fasi alterne l’università, quasi tutti i giorni si recava alla sede del settimanale, la vita di Caterina Nastasia non conosceva tregua. Il figlio e la scuola, il marito e la casa, le amicizie particolari e gli interessi culturali, senza contare i contrattempi. Per forza di cose alla relazione con Dino imprimeva il ritmo che poteva. A volte invece capitava che un contrattempo le lasciasse un po’ più di tempo libero.

Infatti quel pomeriggio il marito di ritorno da un viaggio, le telefonò dicendo che era in anticipo e sarebbe andato lui a prendere il figlio a scuola. Ed ecco che Caterina telefonò a sua volta a Dino.

Il tempo era piovoso, disse che sarebbe andata a trovarlo a casa, per vedere quanto era cambiato dall’ultima volta: il solito tono dimesso, non era cambiato in nulla, a parte il fatto che adesso si mostrava attento ai problemi della carta stampata. Ma in fatto di coinvolgimento, era quello di sempre, caldo tiepido nelle cose che lo interessavano, per il resto distaccato tendente al freddo. Ogni volta che lo incontrava, all’inizio con lei si mostrava musone, come a ribadire che trascurandolo gli si faceva un torto, poi rasserenato prendeva a ipotizzare qualche uscita da fare insieme o un progetto di viaggio, pronto a riprendere il muso quando gli si frapponevano ostacoli.

Caterina arrivò e si mise a sedere sul tappeto: “Ti vedo rabbuiato, soffri il brutto tempo?”

“No, si tratta di una cosa che riguarda la ditta dove lavoro”.

“E da quando uno come te, part-time, si porta i pensieri del lavoro a casa?”

“Si tratta di una disgrazia… oggi abbiamo appreso che un dirigente italo-americano è stato trovato morto”.

“Lo conoscevi bene tu?”

“Gli portavo i telex, la corrispondenza arrivava sempre in abbondanza per lui”.

“Si sa come è morto?”

“Parlavano di infarto, era uno che lavorava sodo… Dopotutto non era così duro come si credeva, né come persona, né nel fisico”.

“Bisogna volersi più bene… non ti pare?”

“Sì, a se stessi, e a quelli più vicini a noi, non ti pare?!”

Baciandosi si aiutarono a vicenda a liberarsi dei vestiti. Caterina non degnò d’uno sguardo la branda vicina. Era da aspettarselo, lei amava il tappeto. Dino pensò quanto fosse monotona nelle sue abitudini. Mentre l’assecondava, non poté fare a meno di dirsi che era stufo di subire sempre il medesimo rituale. “Qui ci vuole una svolta” si ripromise tirando su con il naso come se annusasse.

Aveva poggiato il viso fra le gambe di lei. Nonostante il raffreddore percepiva, tra sentori volatili dal profumo di viola, un aroma più intenso, intimo, come di caglio, mentre peli arruffati gli solleticavano la guancia. Osservando la forma bombata del pube, l’immagine gli suggeriva un guscio d’ostrica. Nell’aprirla il suo frutto bruno roseo si offriva maturo. Il labbro avvertiva la morbidezza di un mollusco. E un umido sapore di latte acidulo di capra e di sudore correva dalla punta della lingua fino al cervello, e dal cervello a ogni parte del corpo. Un caleidoscopio di immagini, frammenti di sapori e di odori l’assalirono, avvicendandosi, eruppero e si sciolsero. Così inebriato dall’eccitante profumo di lei, considerava che Caterina si era riproposta ancora nella stessa posizione, offrendo le cosce e cercando con la bocca il pene.

“Cos’altro cercare in un uomo?” pensava Caterina. Intendeva osservarlo bene: tutto lì quello che una donna bramava, non aveva bisogno di parole per esprimere quello che voleva. Lei ormai prendeva l’uomo per quello che era. E a quello non parlava. Era assurdo mentire. Il dialogo con qualsiasi uomo aveva sempre portato lì. Inoltre a lui sentiva di non dovere niente. Solo per questo si era data. Cos’altro importava, se non lo sfogo dei sensi per ritornare padrona di se stessa? E per

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questo aveva preso. Il vuoto che provava a posteriori a volte riusciva a liberarla dal peso del proprio corpo; altre volte avvertiva la misura della dipendenza al proprio fisico, inappagato; allora, soltanto un successivo bagno caldo, misto a carezze elargite dalla propria mano, senza inibizione, riusciva a placare la sua natura femminile, tutt’intera.

Nel sentire, con il suo penetrante odore, il seme appiccicoso che avrebbe dovuto fecondarla, bagnarle i seni, riemergeva con più forza il senso del rifiuto di concedersi tutta e l’ostinazione a non lasciarsi penetrare. E poi, con un uomo che non era suo marito, un amore che non le dava totale abbandono sembrava meno peccaminoso. In certe situazioni, e la sfera sessuale era una di queste, avvertiva ancora disagio, quasi un senso di turbamento come chi commette peccato mortale, benché da tempo fosse ai ferri corti con il Signore, da quando, ragazzina, aveva perso entrambi i genitori.

“Non hai dimenticato, spero, dove dobbiamo andare?” domandò all’improvviso Caterina.

Dino strabuzzò gli occhi, sorpreso di udire la sua voce, essendo ancora nudi e conoscendo l’avversione di Caterina a parlare prima o subito dopo aver fatto l’amore. D’altronde era una cosa che accettava volentieri, data la spossatezza di quei momenti. Aveva inoltre notato che lei sembrava recuperare in anticipo le forze. Sentendosi vulnerabile, non disse che si sarebbe sottratto di buon grado alla prospettata serata di lettura di poesia con dibattito successivo, d’obbligo.

“Fuori piove, sei sicura di volere uscire?” Il suo essere poeta però, per di più ora vicino alle vicende del giornale ‘senza titolo’, non lo dispensava dal prendervi parte. Se non altro non lo avrebbe tollerato Caterina, che in ciò vedeva un punto qualificante della sua personalità di uomo. Con la mente cercava già qualche altro inghippo a cui aggrapparsi.

“Pioviggina, è il solito tempo di fine inverno, non per questo ci si rinchiude in casa”.

Nello scendere le scale Caterina contò uno a uno i gradini: un uomo che abita in un sottotetto non è mai un buon investimento per la vecchiaia. Faticava ancora a divincolarsi del tutto dall’uomo che aveva sposato, non voleva trovarsi un altro padrone. Se avesse sentito il bisogno di assecondare qualcuno, avrebbe concesso più corda a Guido ch’era un bambino. Poi anche lui sarebbe diventato grande, despota, cui tutto è dovuto, padreterno: i bambini si guastano crescendo. Ma a quel punto sarebbe stato affare della donna che avrebbe incontrata. Lei era soltanto la madre e dentro di sé gioiva all’idea di un figlio che cresceva forte e sicuro, e se ne sentiva protetta. D’altronde la società non è mai stata benevola con i deboli, e sin troppo sbrigativa con gli innocenti. Com’era successo a lei quando, rimasta orfana, fu affidata alle cure amorevoli degli zii, nonostante la sua istintiva riluttanza.

Per ripararsi dalla pioggerellina, corsero verso l’auto che distava una decina di metri dal portone di casa, non ci fu bisogno di aprire l’ombrello.

Dino, appellandosi al tempo grigio e piovigginoso, ci aveva provato. Per lui sarebbe stato meglio cambiare programma; gli sembrava poco rilevante una promessa di partecipazione a una serata di lettura di poesie; coerenza e incoerenza godevano di margini ampi a casa sua, e il sentirsi (in parte) poeta era solo una questione di atteggiamento positivo, più che sforzo convinto di voler cambiare le condizioni materiali dell’esistenza. Nel piccolo e nel concreto dei fatti tale atteggiamento gli dava una parvenza di benessere come a uno che sforzandosi di sorridere, sorride.

C’erano anche queste riflessioni a distanziarlo da Caterina. La sua relazione con lei non aveva niente di chiaro; irrise il momento di caparbietà che l’aveva spinto a insistere; nel darle quell’opportunità di scelta, di chiamarlo, aveva fatto scattare intorno a sé la trappola di un malessere a lui sconosciuto, a dir poco ingombrante.

L’auto era partita, e già si destreggiava in mezzo al traffico. La visibilità era imperfetta, tipica dei giorni uggiosi. Le goccioline di pioggia rimanevano sospese in aria. Il tergicristalli andava a intermittenza.

Dino, assorto in questi pensieri si lisciava con due dita i baffi. Viveva tuttavia anche uno stato di benessere; nervosamente si umettò le labbra, per un istante avvertì un odore noto di lei. Si era lavato troppo in fretta. Desiderò baciarla e la baciò.

Caterina, al volante della sua auto, ricambiò con poca passione, l’asfalto viscido non le consentiva distrazioni.

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Fu comunque questione di un attimo di esitazione e del peso del braccio di Dino sul suo; il volante sterzò, una sbandata, e l’auto si trovò in testacoda.

Fine prima parte.

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