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N. 2 / Febbraio 2019
La liturgia della Parola di Dio di questo mese, mentre inizia a mostrarci Gesù che entra nel vivo della sua missione, ci apre alla vocazione, alla missione a cui siamo chiamati. Ci è chiesto di accogliere l’amore che il Padre ha offerto a noi con la venuta del Figlio e donarlo a nostra volta.
È il Signore che donandoci la fiducia ci chiama a cooperare alla sua missione.
Siamo messi di fronte alla chiamata che nasce dal battesimo e che lo Spirito del Signore ci guida a scoprire nelle normali situazioni di vita, chiedendoci il coraggio di metterla in atto.
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CHIAMATI
Don Luciano pg. 1
IL PESO DELLA MEMORIA
Elsie Wiesel pg. 2
VIA TURRI,33REGGIO EMILIA
Rita Capiluppi pg. 4
TI HO CHIAMATO PER NOME
AA.VV pg. 6
PREDICA LAICA
Andrea pg. 7
COOPERATIVA PATHOS
Ivanna pg. 8
INDICE La Parola
Chiamati Don Luciano
1Mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, 2vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. 3Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. 4Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». 5 Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti».
6Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. 7Allora fecero cenno ai compagni dell'altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare.
8Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». 9Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; 10così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone.
Gesù disse a Simone: «Non temere; d'ora in poi sarai pescatore di uomini». 11E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.
Lc 5,1-11
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I
L PESO DELLA MEMORIA di Elsie WieselMi è stato chiesto di evocare l’Olocausto e le sue implicazioni per il XXI secolo. Per me ciò rappresenta un compito urgente, e tuttavia impossibile. Nonostante tutto ciò che è stato scritto, e nonostante ciò che io stesso ho potuto dire nelle mie testimonianze, si tratta di un evento che concerne l’indicibile. Simile al Shem Hameforash il «Nome ineffabile», lo avvolgiamo di silenzio per meglio compenetrarcene.
Certo, grazie alle importanti pubblicazioni di certi grandi storici, teologi, pensatori e letterati, conosciamo i fatti salienti: le date, le cifre, le statistiche. Ma Auschwitz si situa al di sopra dei fatti; Treblinka sfida tanto la conoscenza quanto il linguaggio.
Indubbiamente sappiamo ciò che gli assassini hanno fatto alle loro vittime, ma non sapremo mai ciò che le vittime provarono nelle tenebre che precedettero la loro morte. Tra le verità nate da questo evento ci sono quelle che i morti hanno portato in cielo, divenuto il loro cimitero. E i morti tacciono. E nessuno ha il diritto di parlare in loro nome. Dico bene: nessuno. Che sia per ragioni politiche, o economiche, o ebraiche, o altro ancora. I morti tacciono: rispettiamo il loro silenzio.
Come il profeta Geremia, alcuni di noi non cessano di ripetere: «Anì ha-ghever» (“Io sono l’uomo che ha visto l’afflizione”, Lam 3,1). Noi eravamo là, al cuore delle fiamme notturne, eppure non riusciamo a comprendere ciò che ci era successo. Com’è potuto accadere che un popolo civilizzato, colto e fiero dei suoi pensatori, dei suoi poeti, dei suoi artisti, dei suoi musicisti, abbia potuto produrre un sistema integralmente dedito al culto del potere e della morte? Come un Hitler ha potuto essere possibile? Come Auschwitz ha potuto fare irruzione nella Storia fino a diventare un mostruoso buco nero, una creazione parallela a quella del mondo esterno, un luogo dove gli assassini sono venuti per uccidere e le vittime per morire?
Leggo tutto ciò che viene pubblicato sull’Olocausto, e più leggo, meno capisco. Non capisco gli assassini, e non capisco nemmeno le loro vittime. Le due categorie manifestavano una demenza quasi assoluta. Cosa significa la logica oscura, dura e implacabile dei vecchi malinconici che mormoravano preghiere ardenti che Dio non ascoltava? E quei bambini terrorizzati che non piangevano nemmeno più? E quelle donne giovani e belle che scuotevano la testa come per dire no alla vita? Folli e prìncipi dall’aria smarrita che formavano cortei ammutoliti diretti, sotto un cielo di piombo, verso un altare in fiamme – chi oserebbe dire «io capisco»?
Certi documenti, redatti dagli assassini stessi, insistono sulla loro stessa incapacità di capire. Perché quegli ebrei non si dispersero? Perché non si diedero alla fuga, anche a costo di farsi massacrare nelle strade e tra i campi?
Perché andavano a morire con tanta rassegnazione? A Babi Yar, dove sono stato, ho visto… Babi Yar – un tempo ne ero convinto – doveva trovarsi lontano, molto lontano da Kiev. Ma non è così. Babi Yar era a Kiev. C’era una strada che conduceva verso quella gola, e trentatremila uomini, donne, bambini, nel settembre del ’41, poco tempo dopo l’arrivo dei tedeschi, trentatremila persone che formavano una sorta di processione infinita percorrevano quella strada. Ora, c’era gente che abitava in delle case, in quella strada.
REDAZIONE
don Daniele Andrea Gianfranco
Ivan Ivanna Lorena Maria Grazia
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E quando sono stato a Kiev, ho posto la domanda al presidente dell’Ucraina: «Mi dica se una sola porta si è aperta per far entrare un bambino, dicendogli: “Sbrigati!”».
Allora si sentivano le mitragliatrici crepitare, si sentivano, a volte, le grida, e anche il silenzio.
Eppure, salvo qualche rara eccezione, i condannati ci andavano. Ci andavano. Ci andavano. E io ho letto un documento in cui uno degli assassini affermava di diventare pazzo. Lui diventava pazzo. È possibile che gli ebrei di Babi Yar e di Ponar e di Treblinka e di Minsk e di Pinsk e di ogni dove abbiano semplicemente voluto esprimere il loro sdegno, il loro disprezzo verso la società, come se avessero voluto dichiarare: «Ascoltate, brava gente, se questo è il vostro mondo, tenetevelo, noi non lo vogliamo»? All’epoca non sapevamo. Non sapevamo che il mondo libero sapeva. Altrimenti, credetemi, non avremmo potuto resistere.
Tratto da " Avvenire" del 24/01/19
Questa testimonianza di Elie Wiesel (1928 - 2016) è uno stralcio da Il mondo sapeva. La Shoah e il nuovo Millennio, edito da Giuntina. Il volume contiene un appassionato intervento tenuto dallo scrittore e premio Nobel per la pace del 1986 all'Università di Friburgo nel 1999.
"……Mi rifiuto di pensare che oggi la nostra civiltà democratica possa essere sporcata da progetti di leggi speciali contro i popoli nomadi. Se dovesse accadere, mi opporrò con tutte le energie che mi restano. Mi accingo a svolgere il mandato di senatrice ben conscia della mia totale inesperienza politica e confidando molto nella pazienza che tutti loro vorranno usare nei confronti di un’anziana nonna, come sono io. Tenterò di dare un modesto contributo all’attività parlamentare traendo ispirazione da ciò che ho imparato. Ho conosciuto la condizione di clandestina e di richiedente asilo; ho conosciuto il carcere; ho conosciuto il lavoro operaio, essendo stata manodopera schiava minorile in una fabbrica satellite del campo di sterminio. Non avendo mai avuto appartenenze di partito, svolgerò la mia attività di senatrice senza legami di schieramento politico e rispondendo solo alla mia coscienza.
Una sola obbedienza mi guiderà: la fedeltà ai vitali principi ed ai programmi avanzatissimi – ancora in larga parte inattuati – dettati dalla Costituzione repubblicana. Con questo spirito, ritengo che la scelta più coerente con le motivazioni della mia nomina a senatrice a vita sia quella di optare oggi per un voto di astensione sulla fiducia al Governo.
Valuterò volta per volta le proposte e le scelte del Governo, senza alcun pregiudizio, e mi schiererò pensando all’interesse del popolo italiano e tenendo fede ai valori che mi hanno guidata in tutta la vita.
Tratto dal discorso integrale di Liliana Segre al Senato per la fiducia al governo Conte - 6 giugno 2018
4 VIA TURRI
33,
REGGIO EMILIARita Capiluppi
.Queste righe nascono da un evento accaduto in via Turri 33 a Reggio Emilia nella notte fra il 10 e 11 dicembre 2018.
Una famiglia marocchina che abitava al terzo piano del palazzo durante la notte ha tentato di scendere le scale a causa del fumo che saliva dal basso. Papà, mamma e i due ragazzi di 17 e 20 anni scendono insieme cercando di aiutare la mamma che faticava nel muoversi da tempo. Il fumo rende invisibile il passaggio e le uscite. Il papà invita poi obbliga i due figli ad uscire, assicurandoli che si occuperà lui della mamma, ma non ce la farà e rimarrà imprigionato dal fumo. Soccomberà per impossibilità a respirare unito alla sua sposa. I due figli dopo un breve ricovero non riportano nessuna conseguenza respiratoria. Rimarranno orfani per sempre avendo visto la morte in faccia che ha tolto loro ciò che avevano di più prezioso al mondo: papà e mamma. La stampa, la televisione si sono buttate come avvoltoi su questi fatti. Poi è calato il sipario.
Queste riflessioni sono state scritte nelle ore immediatamente successive ai fatti.
Gli uomini ti chiamano con nomi diversi.
Tu sei l’al di là di tutto.
Nessuna intelligenza ti concepisce.
Molti uomini sulla terra ti riconoscono, tu l’al di là di tutto.
Adesso abbiamo bisogno che tu batta un colpo su questa terra.
C’è una ferita troppo grossa.
Le nostre menti, i nostri cuori, non sono capaci di pensare e contenere una sofferenza così grande.
Sembra quasi una crudeltà.
Ma tu c’entri?
O non c’entri?
E se c’entri da che parte stai?
Tu l’al di là di tutto, non possiamo pensarti
crudele. Non possiamo pensare che tu mandi queste cose sulla terra.
E poi a chi le dovresti mandare?
A chi?
Scegli a chi mandare le disgrazie?
Ai più piccoli e poveri?Ma chi sei?
No.
Tu con queste cose non c’entri nulla. Sì, non c’entri nulla con il dolore innocente.
Ma ci stai ascoltando, tu l’al di là di tutto? Se hai una qualche parvenza di volto giralo verso questa terra e chinati verso via Turri 33.
Chinati e lenisci le ferite squarciate. C’è un costato che sanguina. Abbiamo bisogno di vedere, se tu ci sei, che tu agisci nella storia.
Da bambina frequentavo il catechismo della parrocchia insieme a tanti bambini della mia età. I catechisti ci invitavano a cantare una canzone che in queste notti di pensieri, di cieli reggiani insolitamente stellati, di aria tersa e limpida – che stride con l’aria cupa, densa che ha reso invisibile il passaggio verso l’esterno e le stelle per un papà e una mamma – mi risuona dentro.
Faceva così: “Dio non ha mani, ha soltanto le nostre mani per arrivare a tutti. Dio non ha piedi, ha soltanto i nostri piedi per arrivare a tutti. E allora vai, non avere paura…….”.
5 Forse che c’entriamo noi?
Forse che queste due braccia, queste due gambe, questo cuore capace di sentire la sofferenza altrui, lo dobbiamo dilatare perché diventi la casa di chi è provato? Forse che le nostre braccia debbano abbracciare chi è rimasto senza abbracci del papà e della mamma? Forse che le nostre gambe debbano camminare di fianco a chi ha provato a soccorrere la mamma fino all’ultimo istante, ma la morte ha avuto il sopravvento?
Tu l’al di là di tutto, fai che le nostre gambe non si paralizzino nell’indifferenza che ci colpirà fra pochi giorni quando calerà il sipario su questa tragedia e noi saremo presi dalla frenesia degli acquisti e dei cenoni delle feste.
Fa che il nostro cuore non diventi arido quando i giornali saranno presi da altri fatti che avranno il sopravvento e noi ci scorderemo dei due ragazzi rimasti orfani per sempre.
Fai che il nostro ventre non diventi sterile di fronte al “...Ci penseranno poi le assistenti sociali….Sono così brave a Reggio Emilia!….”.
Fai che il nostro ventre sia capace di generare nuova vita, di mettere al mondo e nel mondo legami, relazioni, affetti, umanità.
Che il nostro ventre di donne non diventi sterile, ma generi vita, come quella vita generata che fra pochi giorni nel nostro mondo occidentale celebreremo.
Perchè come quella ragazza di una provincia ai confini dell’Impero Romano anche le ragazze e le donne di Reggio -islamiche, atee o cristiane – generino vita e relazioni per chi ha perso per sempre chi lo ha generato.
Reggio Emilia, notte di Santa Lucia 2018
IL LIBRICINO DEL SILENZIO
" L'uomo che sa apprezzare il silenzio conosce l'emozione
lo stupore, la meraviglia. E attraverso di essi arricchisce la sua immaginazione.
Sapersi incantare, saper ritrovare il senso profondo del gratuito, del non calcolabile, saper gioire di ogni forma di bellezza, conserva giovani dentro, come ci mostra d'esempio di poeti ed
artisti...come fa istintivamente il bambino".
Il libriccino del silenzio Alberto Masciari
Questo prezioso libro è un valido aiuto per riscoprire l'importanza di rivalutare la bellezza e la ricchezza del silenzio come spazio di recupero e intimità con la nostra interiorità. Il frastuono che ci circonda, l'iperattività che caratterizza questi nostri tempi ci impediscono spesso di fermarci a riflettere per interiorizzare le esperienze vissute, gli incontri fatti,riconoscere il mutare dei tempi.
Non si tratta di sterile inattività,ma piuttosto di tempo prezioso per ritrovare la sintonia con noi stessi e con gli altri. Per chi crede ,il silenzio è il luogo della preghiera,del dialogo intimo con Colui che non si dimentica mai di esserci Padre,il luogo del ringraziamento e della lode. Questo importante aspetto è evidenziato e ben esemplificato anche in importanti scritti di Enzo Bianchi e altri lucidi testimoni dei nostri tempi, primo fra tutti Papa Francesco.
Maria Grazia.
6
T
I HO CHIAMATO PER NOME Isaia, 43 Inizia con Diaconia di questo mese una serie di testimonianze sulla migrazione.Non parleremo né di profughi né di clandestini né di richiedenti asilo. Parleranno invece i ragazzi arrivati dall’Africa, giovani che hanno tutti un nome. Ci racconteranno la loro esperienza di ragazzi in un mondo nuovo.
Adesso sto bene, ho trovato brave persone
Mohamed
La prima persona che ho conosciuto a Reggio si chiama Luca. È Luca che mi ha portato all’hotel Italia di via Bligny dove sono rimasto un mese. Prima, io, che sono Mohamed, avevo visto solo persone che non sapevo come si chiamavano. Il primo di tutti è stato un medico, che mi ha visitato sulla nave che mi portava in Sicilia. Sulla nave mi hanno dato il primo pasto: riso, fatto come lo facciamo in Africa. In Sicilia sono rimasto solo un giorno, ricordo che mi hanno dato i biscotti. In pullman sono arrivato a Bologna e dopo un altro giorno a Reggio Emilia. Subito in via Veneri, poi via Bligny. Un mese e ancora un cambio, all’hotel Galaxy di Massenzatico.
Lì ho conosciuto tante altre persone. Una in particolare, Patrizia, che mi ha insegnato a suonare la chitarra. In Nigeria, il mio paese, io suonavo già ma non avevo studiato molto la musica. Ero capace di suonare le tastiere, e anche il flauto, però Patrizia mi ha insegnato tante cose. Mi ha insegnato anche a cantare. Insieme a lei e ad altri ragazzi africani come me abbiamo cantato in chiesa. Una canzone in particolare mi piaceva molto. Si chiama “Apri il nostro cuore, Signore”.
Era dicembre, nel 2016, quando ho iniziato la scuola di italiano. Quella della Dimora e anche quella di Mariella e Mauro, con altri ragazzi africani. In Nigeria lavoravo come saldatore e qui a Reggio per sei settimane sono stato a lezione da Stefano, che mi ha insegnato altri modi che non conoscevo per saldare. Però non c’era ancora un lavoro per me. Mi sembrava di impazzire a restare senza fare niente. Ero molto contento quando il padrone del Galaxy chiedeva a me e al mio amico Endurance, che è nigeriano come me, di apparecchiare le tavole per la colazione, il pranzo e la cena. Era tutto quello che potevamo fare.
Sono rimasto in albergo fino 21 giugno del 2017. Lo ricordo bene quel giorno perché è stato il mio primo giorno in un appartamento. In via don Pasquino Borghi, dove vivo anche adesso, con altri cinque ragazzi africani. Siamo sempre andati d’accordo. Poi un giorno in strada ho incontrato un ragazzo che si chiama Isaac. Non è nigeriano, lui è ghanese. Lavorava a Roteglia e mi ha detto che forse poteva esserci un posto anche per me. Dopo un po’ di tempo mi hanno chiamato e sono andato anch’io a lavorare. Era il 7 ottobre 2017, il mio primo giorno di lavoro in Italia. Mi sono trovato bene, il capo è una brava persona. In Nigeria ho studiato per diventare qualcosa che in Italia si chiama ingegnere civile, so fare i progetti. Adesso in Italia faccio tutti i tipi di saldature. Alla mattina mi alzavo prima delle 5 per prendere il treno alla stazione di Ospizio, poi scendevo a Veggia, prendevo un autobus fino a Roteglia e camminavo 5 minuti per arrivare alla fabbrica. Al ritorno con l’autobus preferivo andare alla stazione di Sassuolo, perché è più grande e si trova qualcuno per parlare, gente italiana e africana.
Il mio contratto è scaduto prima di Natale e così nei giorni in cui ero senza lavoro ho risolto un problema di salute. Quando sono arrivato dall’Africa ero malato alla schiena e alla fine dell’anno sono stato operato all’ospedale di Reggio Emilia. Adesso sto bene e devo dire grazie perché in Nigeria non potevano curarmi. Se fossi stato in Africa non avrei avuto una vita lunga.
Spero che mi richiamino presto per tornare a lavorare a Roteglia. Ho 28 anni e devo andare in commissione per avere il permesso di restare in Italia. Davanti a me ho tante idee: lavorare, sposarmi, fare venire la mia mamma a vivere con me. La mia vita adesso è qui.
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P
REDICA LAICA AndreaDopo poche note di un arrangiamento bellissimo in cui prevalevano il violino e il basso, la voce di De André attaccava il testo del “Pescatore”, storia di una persona che dava pane e vino a chi gli chiedeva aiuto, senza chiedergli chi fosse e cosa avesse fatto per dover scappare. Iniziava così, esattamente 40 anni fa, il concerto al palasport di Reggio Emilia del cantautore genovese insieme alla Pfm, il gruppo di rock progressiv che cambiò la storia della nostra musica sdoganando i capolavori di De André anche presso quel pubblico che richiedeva atmosfere e suoni più elettrici.
Eravamo nel 1979 e la maggior parte delle canzoni era stata scritta già da diversi anni; il
“Pescatore”, per esempio, porta la data del 1970. Quei testi avevano un effetto dirompente, non solo mettendo alla berlina il qualunquismo e il perbenismo di una società che continuava a vivere sull’onda lunga di un miracolo economico ritenuto infinito, ma anche ponendo gli italiani di fronte a un bivio: vivere come se determinati temi etici e morali dovessero rimanere relegati su un sfondo irraggiungibile (con l’effetto di rinviare a un futuro indefinito la soluzione del problema della giustizia sociale) oppure calare nel quotidiano un impegno che non prevede deleghe, pronti a sporcarsi le mani e le idee con quei drammi irrisolti che vanno sotto il nome di povertà e ignoranza?
Il concerto del gennaio del 1979 ebbe un successo strepitoso; ancora oggi sono in vendita i due Cd registrati dal vivo che ripropongono una buona parte delle canzoni di De André e Pfm.
Le parole del cantautore rappresentano uno splendido esempio di “predica laica”, una sorta di dizionario del vivere che si adatta tanto all’uomo di fede quanto a chi semplicemente crede in valori irrinunciabili senza declinarli in senso religioso. “Il testamento di Tito”, anch’esso proposto in quel concerto, ci sbatteva in faccia versi come “Non dire falsa testimonianza / e aiutali a uccidere un uomo. / Lo sanno a memoria il diritto divino, / e scordano sempre il perdono”. A 40 anni da quella serata e a 20 dalla morte di De André, l’invito a un esame di coscienza non ha perso nulla della propria forza.
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OOPERATIVAPATHOS:
LO SGUARDO SOTTILE IvannaProsegue il nostro incontro con gli amici della locride nelle giornate di fine novembre.
…..È così come da programma, abbiamo incontrato a Caulonia la presidente e alcuni operatori della cooperativa sociale "Pathos" che in greco significa sofferenza, dolore, angoscia a ben simboleggiare qual è stato il cammino della cooperativa.
Pathos nasce 11 anni fa sul tracciato di un'altra cooperativa che aveva chiuso i battenti e che forniva servizi di assistenza agli anziani, ai tossicodipendenti, ai minori e gestiva centri diurni per disabili. Anche su indicazione del vescovo Bregantini, alcuni responsabili sono stati indirizzati al consorzio Goel (in ebraico: vendicatore) per stringere un patto di collaborazione.
Inizialmente la cooperativa si è spesa sull'accoglienza di minori allontanati dalle famiglie. I dati sulla qualità del servizio sono costituiti da strutture piccole a modello familiare, progetti personalizzati per ognuno, accompagnamenti di figure educative qualificate nei percorsi individuali. Si può affermare, senza tema di smentita, che i minori sono "conosciuti" da tutti e in tutto, e questo facilita la loro crescita personale e sociale.
Quest'impresa, che ha riscosso un successo indiscutibile, tuttavia oggi sta andando in crisi a causa dei costi più elevati di gestione le cui rendicontazioni vanno a pregiudicare i finanziamenti futuri:
una struttura più grande offre l'indubbio vantaggio di una maggior efficienza in termini di rapporto costi/numero persone, anche se questo a discapito della qualità del rapporto umano.
Altro campo d'intervento della cooperativa è l'accoglienza ai migranti provenienti dal Nordafrica.
Per la presidente M.Paola Sorace, ma anche per noi che condividiamo l'integrazione dei migranti, costituisce l'unica modalità di "sopravvivenza" del territorio. In una regione come la Calabria che registra il più alto tasso di emigrazione in Italia, i migranti che arrivano sono una reale opportunità di mantenere vivo un territorio che i giovani in massa abbandonano per cercare e trovare lavoro altrove. La piaga è costituita non solo dalla scarsità di attività lavorative, ma anche dal fatto che, come da noi, quelle esistenti nessuno le vuole più esercitare.
L'emergenza Nordafrica, sempre secondo la presidente M.Paola va vista non in senso restrittivo e riduttivo come un problema, ma a 360°, come una opportunità per mantenere vivo un territorio che altrimenti si avvierebbe all'abbandono e al declino non solo paesaggistico ma anche e soprattutto umano, culturale e sociale.
Come si adopera la cooperativa per promuovere l'integrazione dei migranti in terra di Calabria?
Innanzitutto le strutture di accoglienza sono costituite da appartamenti dove convivono pochissime persone. Alla presa in carico dei migranti viene proposto un test d'ingresso utile al collocamento nel livello d'istruzione. Ovviamente quelli che hanno studiato nel loro Paese come Abdullay - l'operatore che abbiamo incontrato insieme a M.Paola e ad Emiliana - sono agevolati.
Per ognuno c'è un percorso in cui ci si avvale di vari professionisti fra cui avvocati, insegnanti, mediatori culturali, psicologi ect…al termine del quale la persona è avviata al mondo del lavoro, secondo le attitudini che ha evidenziato. In questo percorso trovano ampio spazio la realizzazione di laboratori che ben si prestano da tramite. Per fare un esempio: cogliendo la musica come linguaggio facilitante l'integrazione, si è creato in collaborazione con la parrocchia, un coro multietnico di 40 persone, ma nonostante il maestro sia il medesimo, non è riuscito a far partecipare nessuno del coro parrocchiale all'attività del coro multietnico. Il laboratorio però è importante, oltre che per i ragazzi, perché lancia un messaggio chiaro a Caulonia e alla Chiesa stessa.
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Per quanto riguarda l'inserimento nel mondo del lavoro, l'orientamento dei promotori è il ritorno alle origini valorizzando agricoltura, turismo e cultura (vedi ad esempio i borghi stupendi della Calabria). Facendo le scelte giuste è quindi possibile creare opportunità occupazionali e preparare adeguatamente le nuove leve ad affrontarli.
Ma anche su questo grava una pesante ipoteca costituita dai provvedimenti legislativi di recente emanazione che spaziano dal diritto di accoglienza solo per che gode della protezione umanitaria, alla sussistenza di centri di accoglienza che ospitano dalle 3000 alle 4000 persone dove i tempi di permanenza si sono prolungati a 180 giorni e dove è difficile far convivere persone di nazionalità, cultura e religioni diverse e che, nella relazione, come approccio all'altro iniziano con il litigio.
Questi provvedimenti che i sindaci a seconda della loro sensibilità politica mettono in atto, stanno già generando clandestinità dando alla questione migranti un risvolto veramente problematico, molto lontano dalla considerazione "illuminata" che dovrebbe avere.
I migranti che bene o male prima rientravano in un sistema, ora graveranno sul territorio, facili prede della microcriminalità (se va bene..?!).
M.Paola si congeda sottolineando che, trattando con gli ultimi, almeno, non ricevono minacce e pressioni dalla 'ngrangheta: là come qua, quando non c'è di mezzo la possibilità di fare soldi, il potere non la fa da padrone.
Un sintetico parere personale: l'esperienza condotta da Pathos mi rafforza nel credere che là dove c'è attenzione per la persona, per il suo cammino, per tutte le persone indistintamente è possibile anche il riscatto, oltre che delle persone stesse, di una certa terra come la Calabria da tempo afflitte da un cancro che sembra sempre più inguaribile.
GOEL PER IL RISCATTO DELLA CALABRIA E NON SOLO
Al pomeriggio siamo a Gioiosa Ionica nella sede del Consorzio Goel e incontriamo il presidente Vincenzo Linarello, che la nostra città ha avuto l'onore di ospitare in manifestazioni pubbliche contro l'ndrangheta.
Vincenzo ci parla innanzitutto dell'ultima iniziativa che hanno concluso, cioè l'acquisto di un immobile che apparteneva alle scuole di Siderno e dell'immane sforzo per mettere insieme il capitale necessario. Immobile che tuttavia è da ristrutturare e da adeguare alle esigenze di utilizzo, tutto nell'ambito della legalità e del rispetto ambientale: uno degli obiettivi del Consorzio è, appunto, utilizzare e offrire prodotti biologici. È una scelta che anche sotto il profilo etico non smentisce l'orientamento del consorzio: essere per la gente. Ci parla inoltre delle strategie che stanno mettendo in atto per far fronte alle vessazioni dell' 'ndrangheta. L'attentato del 31 ottobre 2015, se da un lato ha provocato danni per 100.000 euro per impedire la raccolta degli agrumi, dall'altro ha suscitato nella popolazione una grande protesta a cui hanno fatto seguito notevoli donazioni.
È in questo clima di solidarietà che, terminata la raccolta che è avvenuta ugualmente, è stata organizzata la festa della RIPARTENZA che ha mandato un chiaro messaggio ai mafiosi: "Più ci colpite, più ci aiutate".
Questa strategia, che si è rivelata vincente, è stata messa in atto anche dopo gli altri due attacchi:
abbattimento di un oliveto e altri atti vandalici all'ostello della Locride appena ristrutturato e non ancora inaugurato.
Dopo quest'ultimo attacco l'ndrangheta, inspiegabilmente, tace, forse nella consapevolezza che Goel si rafforza grazie alla solidarietà che gli viene mostrata.
È così che si è arrivati all'acquisto dell'immobile di Siderno che offrirà servizi e opportunità lavorative a parecchi.
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Linarello ci illustra, poi, il progetto GOEL BIO, facente capo ad una cooperativa composta da aziende agricole che si oppongono all'ndrangheta e costruiscono uno sviluppo equo e sostenibile del territorio. Ai produttori di Goel viene corrisposto un prezzo equo per i prodotti agricoli che consente di garantire il rispetto dei diritti dei lavoratori. I prodotti sono biologici e valorizzano le tipicità locali: agrumi, olio di oliva, conserve di frutta e verdura. In particolare ci illustra come sono riusciti a sfruttare la produzione di piccoli agrumi che prima venivano scartati per le ovvie esigenze di mercato: vengono impiegati nella produzione di cosmetici miscelandoli con gli oli essenziali che restano dalla spremitura delle olive che prima era difficile smaltire. È nata così la linea bio- eco - dermocosmesi con il marchio "GOEL BIO COSMETHICAL". Da lì l'alleanza con YAMAMAY il marchio di indumenti intimi che prevede - nei punti vendita - l'abbinamento di prodotti dei due marchi.
Fa solo un cenno al progetto dell'ostello della locride che abbiamo visitato al mattino con il responsabile Michele de Santis. Rientra negli obiettivi di valorizzazione del territorio e di potenziamento del turismo che è ancora piuttosto disorganizzato. L'ostello - che è un buon hotel a 3 stelle con capienza di 45 persone - accoglie gruppi scolastici, ma chiunque sia interessato a un turismo ecologico - ambientale, culturale,
enogastronomico bio, sociale, religioso e sui temi della legalità. Linarello intuisce che il bisogno urgente della Calabria è mutare le prospettive culturali; per questo partecipa a conferenze e incontri in luoghi ritenuti strategici, dove l'ndrangheta è più potente, come ad esempio a Vibo. La gente deve rendersi conto che certe prassi, che sono di ordinaria amministrazione, non sono "peccati veniali", ma gravissimi. Se ad esempio diventa primario colui che non è il più competente e poi muoiono delle persone, la sua nomina non è solo un'azione clientelare, ma un omicidio plurimo.
Sottolinea le responsabilità della Chiesa che non ha dato criteri seri sul peccato sociale e che si mantiene su un annuncio ambiguo.
L'accidia morale dell'intelligenza è, invece, il più grande peccato, per cui è indiscutibile l'obbligo di dare alla gente i criteri per poter scegliere e operare. Purtroppo la nostra Chiesa non ha questa capacità di inculturare. È un'ignavia che porta conseguenze disastrose. Chi insegna l'etica?
Nessuno. La Chiesa ha questa possibilità: il pulpito.
Linarello afferma con chiarezza che alla Chiesa compete un annuncio in forma incarnata e usa un'espressione fortissima "far vedere il sangue che cola". Sostiene che noi possiamo arrivare a
"buttare sangue" con braccia e cuore, ma non col cervello ed è quello che dobbiamo imparare a fare. Al "buttare sangue" col cervello fa seguito l'affidamento alla creatività dello Spirito Santo che suggerisce altre idee per affrontare il problema. Ma prima di tutto è indispensabile imparare dai fallimenti. Conclude soffermandosi sui passaggi fondamentali per dare una svolta a una realtà incancrenita come può essere quella dell'ndrangheta:
1. ascolto non pregiudiziale 2. fede pregiudiziale
3. follia creativa
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1. Presuppone una capacità d'ASCOLTO vera dove non si pensa a quello che si deve dire, ma si ascolta solo, e si cerca di condividere tutto con chi parla e non solo a livello emotivo. Da un siffatto ascolto se ne esce però devastati, perciò con ci si puà fermare lì: la bilancia penderebbe tutta da un lato. Dall'altro è necessaria la fede pregiudiziale.
2. È una FEDE che si assume senza SE e senza MA. È centrata sullo spoiler, cioè l'anticipo di quello che succede. La nostra fede ci dà Cristo risorto. Siccome è risorto, cambieremo la Calabria.
Non dobbiamo avere bisogno di spiegazioni: è un dato di fatto. La bilancia ora è in pari, ma non c'è movimento.
3. il movimento si determina con la FOLLIA CREATIVA che permette di affrontare il problema iniziale in modo nuovo, diverso e adeguato.
Usciamo da questo incontro con la certezza che Linarello ha aperto veramente uno spiraglio sulla prospettiva di cambiamento della realtà in una terra bellissima, ma martoriata.
Un ultimo particolare: Linarello è venuto a cena con noi e con la comunità di Mirto e Donisi all'oratorio di quest'ultima parrocchia.
NEWS
24 Gen 2019 - Minacce di morte al socio di GOEL Bio titolare del ristorante “La Collinetta”
“Se non paghi 50mila euro sei morto.
Ti brucio il ristorante, i figli e tutti i tuoi”: quattro diverse lettere con messaggi simili sono state recapitate nelle scorse settimane ai familiari ed allo chef Giuseppe Trimboli, socio di GOEL Bio e proprietario del ristorante “La Collinetta” a Martone (RC). Immediata la denuncia alle forze dell’ordine.
Il ristorante “La Collinetta” è un’eccellenza riconosciuta che ha fatto di Martone, Comune con circa 600 abitanti della Locride, una tappa obbligata per i buongustai di tutta Italia: non a caso, il ristorante è stato premiato per il secondo anno consecutivo con la chiocciola “Slow Food” per l’impegno nella valorizzazione delle materie prime del territorio. L’azienda è socia di GOEL Bio, la cooperativa che riunisce i produttori agricoli che si oppongono alla
‘ndrangheta. A GOEL Bio “La Collinetta” conferisce l’olio extravergine di oliva biologico di propria produzione; inoltre, il ristorante è parte del circuito di turismo responsabile de I Viaggi del GOEL che testimonia una Calabria che lavora e produce sviluppo sostenibile.
GOEL, come sempre, non si farà certo intimidire da queste minacce di stampo mafioso ed esprime massima fiducia nel lavoro delle forze dell’ordine e della magistratura, con l’auspicio che gli autori dell’intimidazione vengano rapidamente individuati e puniti. Tutta la comunità di GOEL è a fianco del proprio socio Pino Trimboli e della sua famiglia, pronti a mobilitare tutta l’ampia rete nazionale e internazionale per reagire in tutti i modi possibili a difesa di Pino e della sua attività.
Vincenzo Linarello, presidente di GOEL – Gruppo Cooperativo, ribadisce: «Chi progetta ed esegue queste intimidazioni da infame odia la Calabria e qualsiasi tentativo di sviluppo vero: a chi giova far chiudere un ristorante così a Martone e nella Locride? La ‘ndrangheta o chi compie questi atti chiaramente mafiosi vuole solo la rovina del nostro territorio».
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Ci sono proposti gli esempi di due grandi figure come Geremia (Ger 1,4-5) e Isaia (Is 6,5-8), due profeti chiamati dal Signore per una grande missione; ci viene messa davanti la richiesta di Gesù a Pietro di avere fiducia e coraggio, di “prendere il largo e a gettare le reti” (Lc 5,4-6).
Lo sappiamo che quando ci viene chiesto un compito importante che impegna la vita, la prima reazione è la paura e la scusa dell’inesperienza. Il timore, la paura, la titubanza sono reazioni dell’istinto umano che avvertiamo di fronte a richieste importanti.
L’insegnamento che ci viene dalla Parola di Dio di queste domeniche ci fa capire che la grandezza e la saggezza di Dio compensa tutte le nostre fragilità. È vero ci si può sentire inadeguati e lo si è realmente, ma Dio ha scelto profeti come Geremia e Isaia, apostoli come Pietro e tanti santi non tra chi si sente potente e sapiente, ma tra chi si apre alla fede e alla carità.
Ognuno di noi incarna un progetto di Dio, ognuno di noi, secondo i doni che scopre di avere, è chiamato a testimoniare la Parola di Dio. Saremo poveri, deboli, peccatori, ma la fede ci spinge ad avere coraggio, a prendere il largo e a gettare le reti, non sulla fiducia nelle nostre forze, ma sulla fiducia nel Signore.
A Geremia viene ordinato di non mostrare paura.
“Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi, àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò;
non spaventarti di fronte a loro,
altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro.” (Ger 1,17)
Non siamo chiamati a proporre i nostri progetti, a dire o fare le cose che piacciono a noi, ma “tutto ciò che ti ordinerò”. Sarebbe solo la presunzione e l’egoismo a primeggiare se non ascoltassimo la voce dello Spirito.
La tentazione umana di essere noi a decidere di sapere ciò che è giusto e non ascoltare la voce del Signore è l’inganno del demonio.
Invece è necessario fare attenzione a ciò che dice la voce del Signore e agire di conseguenza senza paura.
“Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti”. (Ger 1,19)
La grandezza di Dio sta nell’affidare alle nostre fragilità il compito di portare agli uomini il vangelo e la nostra grandezza nel dargli fiducia.
Isaia chiamato dal Signore dimostra tutto lo spavento e dice: “Io sono un uomo dalle labbra impure”. Pietro poco fiducioso e scoraggiato, alla richiesta di Gesù risponde: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla”. Resta il ‘però’ della fede che gli fa dire: “ma sulla tua parola getterò le reti”. È la decisione che lo accomuna ad Isaia che dopo essere stato purificato risponde: “Eccomi, manda me!”.
Siamo umanamente portati a misurare le nostre forze, le capacità l’efficienza, mentre al Signore piace la nostra fragilità.
Un padre buono chiederà mai ad un figlio un compito pesante che sa non sarà mai capace di sopportare senza il suo aiuto?
Il Signore, dopo avere visto la fatica e la delusione di Pietro e dei suoi compagni, chiede di non lasciare la barca ferma e ancorata alla riva, ma di salire sulla barca e prendere il largo.
Allo stesso modo chiede ad ognuno di noi di mettergli a disposizione la barca della sua vita, di uscire dalle paure che ci paralizzano, di superare le fatiche aprendoci alla parola del Signore che invita a prendere il largo e gettare le reti sulla sua fiducia, e il risultato sarà sorprendente: “Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano.”
Prendi il largo, non arrenderti, è un atto di amore e di fiducia nel Signore e “Non temere; d'ora in poi sarai pescatore di uomini.”
Mi sembra che Gesù dica a Pietro che ora hai faticato, avrai ancora da faticare ma c’è un poi, un futuro da riempire con la tua fragilità che se messa nelle mani del Signore porterà risultati sorprendenti.
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