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Compiti delle vacanze per gli allievi delle future classi 1^

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Academic year: 2022

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Compiti delle vacanze per gli allievi delle future classi 1^

a.s. 2020-21

Per i compiti delle vacanze estive ti chiediamo di concentrarti sulle 3 discipline oggetto delle prove INVALSI: italiano, matematica, inglese e sulle scienze, disciplina fondamentale del liceo scientifico. Oltre che in libreria, puoi acquistare i testi scolastici proposti online su vari siti, mettendo il titolo o, ancora meglio, il numero di ISBN nel riquadro della ricerca.

MATEMATICA: Per prepararti ad affrontare il Liceo Scientifico, ti invitiamo a lavorare sulle “schede di matematica verso la scuola superiore” del volume di C. Testa e altri, MATH! CHECK 0, Edizioni SEI, edizione cartacea:

ISBN 9788805074242 € 7,50.

INGLESE: Per la lingua straniera ti proponiamo un percorso di ripasso delle strutture grammaticali studiate fin qui e necessarie per partire bene in prima liceo, attraverso una grammatica inclusiva: il volume Performer B1.

Inclusive grammar per le scuole superiori. Updated with inclusive tutor con contenuto digitale, Zanichelli 2018, ISBN 9788808668653, € 12,80. Ti chiediamo di svolgere le unità: 1-30.

Per ITALIANO e per SCIENZE ti proponiamo gli esercizi che trovi nel fascicoletto allegato qui di seguito.

Durante i primi giorni di scuola, lavorerai con i tuoi nuovi compagni e gli insegnanti sul materiale che avrai prodotto nell’estate.

Buon lavoro, e buone vacanze!

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Per aiutarti ti consigliamo due video https://www.youtube.com/watch?v=Lusc3TXancw e https://www.youtube.com/watch?v=Yioxb3KtSyE.

Il primo racconta l’importanza che hanno avuto gli erbari nel riconoscimento e nello studio delle piante, il secondo la procedura per la costruzione di un erbario.

In questo secondo video ci sono anche le indicazioni per il riconoscimento delle piante con le chiavi dicotomiche. Ti indichiamo questo link in cui ci sono le cose che ti servirebbero per questo tipo di classificazione. http://dbiodbs.units.it/carso/chiavi_pub21?sc=610

Non ti chiediamo di riconoscere le tue piante in questo modo – anche se puoi provarci: è complicato ma di grande soddisfazione – bensì usando una app gratuita come inaturalist o plantNet (ce ne sono anche altre con cui è sufficiente inquadrare con il cellulare la pianta e l’app fornisce la classificazione).

In sintesi cosa devi fare?

1) Scegli da un minimo di 5 a 10 piante da classificare.

2) Indica luogo e data della raccolta, fai una foto del contesto (paesaggio).

3) Fotografa la tua pianta ancora in loco.

4) A questo punto identificala con l’app. CONTROLLA CHE NON SIA UNA SPECIE PROTETTA!:

(https://www.regione.piemonte.it/web/sites/default/files/media/documenti/2019- 03/specie%20botaniche%20protezione%20assoluta.pdf ).

5) Se non è una specie protetta, ora puoi eradicarla.

6) Seguendo le indicazioni del secondo video, studia la tua pianta, non importa se non usi i termini corretti, descrivila a parole tue aiutandoti con il glossario allegato o con il video (fotografa ogni aspetto come vedi nell’esempio, puoi anche fare un piccolo video della tua sezione ed analisi).

7) Mettila a seccare come vedi nel video e sotto pressione con una pressa o con dei libri.

8) Monta la tua pianta su un foglio da disegno ed etichettala dando il nome la data e il luogo del ritrovamento.

9) Fotografa la tua pianta montata e prepara per ciascuna un power point o un altro documento

multimediale con tutti gli aspetti che hai identificato ovvero: il nome botanico e il nome comune, il luogo e la data ritrovamento, la tipologia di ambiente in cui hai raccolto, le foto dell’ambiente e del tuo campione con la descrizione accurata delle varie componenti della pianta.

Al rientro a scuola ciascun insegnante di scienze ti darà un link a cui inviare il tuo lavoro.

Non preoccuparti se non conosci termini e nomi delle piante, quello che devi dimostrare è capacità di analisi e d’osservazione e capacità di seguire delle istruzioni.

Di seguito troverai un glossario sull'anatomia delle piante che ti aiuterà nella descrizione.

Se ti piace disegnare, puoi disegnare qualche particolare delle tue piante.

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GLOSSARIO

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Leggere un libro non è uscire dal mondo, ma entrare nel mondo attraverso un altro ingresso.

(Fabrizio Caramagna) Care ragazze e cari ragazzi,

i docenti di lettere vi danno il loro benvenuto al Liceo. State per affrontare un nuovo percorso di studi con il quale arricchirete le vostre conoscenze, imparerete nuove metodologie di studio, userete strumenti digitali, lavorerete in gruppo e crescerete come persone. Questo percorso vi aiuterà a diventare persone adulte e vi permetterà di fare scelte per il vostro futuro. I libri saranno i vostri compagni di viaggio, la lettura e la scrittura vi permetteranno di conoscere molti mondi e di formare il vostro pensiero.

La lingua è dunque indispensabile per esprimersi, per interagire, per leggere e per scrivere adeguatamente e argomentare.

“Per non spegnere del tutto il motore”, vi proponiamo alcune brevi letture e attività attraverso le quali potrete fare un viaggio con le parole e con i pensieri e ripassare qualche argomento di grammatica italiana.

Buon lavoro!

Qui di seguito trovi un fascioletto con i seguenti racconti:

• Anton Cechov, Uno scherzetto

• Katherine Mansfield, Soffia il vento

• Herman Hesse, Sul ghiaccio

• Massimo Grillandi, Un vero amico

leggi e svolgi le attività proposte. Poi affiancherai a questa attività gli esercizi che ti proponiamo più sotto.

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Esercizi di comprensione di lettura

Anton Cˇechov Uno scherzetto Katherine Mansfield Soffia il vento Hermann Hesse Sul ghiaccio Massimo Grillandi Un vero amico

Le inquietudini

dell’anima

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NTON

C ˇ

ECHOV

Uno scherzetto

Noto soprattutto per i drammi Il gabbiano, Zio Vanja, Le tre sorelle e Il giardino dei ciliegi, che costituiscono un importante punto di riferimento per la drammaturgia moderna, Anton Pavlovicˇ Cˇ echov (1860-1901) è autore di racconti in cui la sostanziale povertà di intreccio e scarsità d’azio- ne lasciano spazio all’interesse dello scrittore russo nel tratteggiare esperienze psicologiche o stati d’animo fatti di poco (un ricordo, un gesto, un’atmosfera). Una visione pessimistica della realtà, destinata a diventare sempre più amara con il passare degli anni, traspare in questi racconti, popo- lati da uomini e donne qualunque, che potremmo incontrare ogni giorno, delusi e frustrati nei desi- deri più intimi, incapaci di comunicare e di vivere con pienezza grandi sentimenti.

Anche in Uno scherzetto possiamo ritrovare questi temi: dalla mancata realizzazione di sé all’amo- re vissuto come amaro e doloroso rimpianto, fino all’impossibilità di giungere a certezze definitive.

La realtà, anzi, sembra farsi sempre più labile e sfuggente per i due personaggi: travolti dallo scor- rere del tempo e dall’inafferrabilità della vita, né il narratore-protagonista né Nadja, sua compagna di giochi in un pomeriggio invernale, riusciranno a realizzare pienamente se stessi, capaci solo di fissare per sempre nella memoria l’attimo di un’avventura in slitta, contemplata con nostalgia come un’occasione perduta.

È un sereno meriggio1d’inverno... Il gelo è rigido, la neve scricchiola e a Nà- den’ka2, che mi ha preso per il braccio, si coprono di una brina argentea i ric- cioli sulle tempie e la lanugine3 sul labbro superiore. Siamo sulla cima di una montagnola. Dai nostri piedi fino al piano si stende una superficie levigata4, in cui il sole si mira come in uno specchio. Accanto a noi è una piccola slitta fode- rata di panno vermiglio5. «Andiamo giù, Nadeˇzda Petrovna6!» imploro io. «Una sola volta! Vi assicuro, arriveremo sani e salvi».

Ma Nàden’ka ha paura. Lo spazio che corre dalle sue piccole calosce7fino ai piedi della montagnola di ghiaccio le sembra spaventoso, un abisso d’insonda- bile profondità. Quando guarda in giù, si sente morire e le si mozza il respiro, non appena le propongo di sedersi nella slitta: e che cosa accadrà quando si arri- schierà di volare in quell’abisso! Morirà, impazzirà.

«Vi supplico!» dico io. «Non dovete aver paura! Non capite che è debolezza, viltà?»

Finalmente Nàden’ka cede, e dal suo volto vedo che cede con la paura di rischiare la vita. L’aiuto, pallida, tremante a sedersi nella slitta; le cingo con il braccio la vita, e con lei mi precipito nell’abisso.

La slitta vola come un proiettile. L’aria tagliata frusta i nostri visi, ulula, fischia nelle orecchie, tira, punge dolorosamente di rabbia, sembra voglia strappare la testa dalle spalle. La violenza del vento non dà forza di respirare. Pare che il diavolo stesso ci abbia afferrati con le sue zampe e urlando ci trascini all’infer- no. Gli oggetti intorno si confondono in una unica striscia lunga che corre ver- tiginosamente... Ecco, ecco, ancora un istante, e sarà, sembra, la nostra rovina!

«Vi amo, Nadja!» dico sottovoce.

Alunno:......Classe:...Data:...

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1. meriggio:mezzogiorno.

2. Nàden’ka:diminutivo di Nadja.

3. lanugine:leggera peluria.

4. levigata:piatta e liscia.

5. vermiglio:rosso brillante.

6. Petrovna:figlia di Pietro; in Russia, ognuno possiede tre nomi:

il nome proprio, il patronimico (formato aggiungendo un suffisso al nome del padre) e il nome della famiglia.

7. calosce:soprascarpe impermeabili.

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Alunno:......Classe:...Data:...

La slitta comincia a scivolare sempre più lentamente, e l’urlo del vento e il ronzio dei pattini8non sono più così spaventosi, il respiro non è più mozzato, e finalmente, siamo arrivati in basso. Nàden’ka non è né viva né morta. È pallida, respira appena... L’aiuto ad alzarsi.

«Per nulla al mondo ci tornerei un’altra volta» dice guardandomi con occhi sbarrati, pieni di terrore. «Per nulla al mondo! Per poco non morivo». Poco tem- po dopo si è rimessa e già comincia a guardarmi negli occhi con una espressio- ne interrogativa, come volesse accertarsi, se ho detto quelle tre parole vera- mente, o se le è sembrato soltanto di udirle nel frastuono del turbine. Ed io me ne sto accanto a lei, fumo e osservo attentamente il mio guanto.

Mi prende sottobraccio, e a lungo passeggiamo accanto alla montagnola.

L’enigma, evidentemente, non le dà requie9. Sono state pronunciate quelle paro- le, oppure no? Sì o no? Sì o no? È una questione d’amor proprio, d’onore, di vita, di felicità, una questione molto importante, la più importante del mondo. Nà- den’ka mi guarda in viso impaziente, triste, con uno sguardo scrutatore, non risponde a tono, aspetta che io mi metta a parlare. O come variano le espres- sioni su quel volto caro, come variano! Vedo che essa lotta con se stessa, che ha bisogno di dirmi qualcosa, di chiedermi qualcosa, ma non trova le parole, si sen- te impacciata, atterrita, la gioia la turba...

«Sapete che cosa?» dice senza guardarmi in viso.

«Che cosa?» domando io.

«Facciamolo ancora una volta... scendiamo in slitta».

Ci arrampichiamo per la scala sulla vetta del pendio. Di nuovo aiuto Nà- den’ka pallida, tremante ad accomodarsi nella slitta, di nuovo voliamo nel ter- ribile abisso, di nuovo urla il vento e ronzano i pattini, e di nuovo quando la slit- ta ha raggiunto la sua massima velocità io dico sottovoce nel frastuono:

«Vi amo, Nàden’ka!»

Quando la slitta si ferma, Nàden’ka abbraccia con uno sguardo la montagno- la sul dorso della quale siamo or ora discesi, poi scruta a lungo il mio viso, ascol- ta la mia voce indifferente e spassionata10, e tutta, tutta, perfino il suo manicot- to e il cappuccio, tutta la sua figurina esprime una estrema perplessità. Sul suo viso sta scritto: “Che succede? Chi ha pronunciato quelle parole? Lui, oppure mi è parso soltanto sentirle?”

Questa incertezza la rende inquieta, la impazientisce. La povera fanciulla non risponde alle domande, si fa scura in viso. È sul punto di scoppiare in lacrime.

«Dobbiamo forse tornare a casa?» domando io.

«Ma, a me... a me piace questo scendere in slitta» dice arrossendo. «Non potremmo forse scendere un’altra volta?»

Le “piace” questo scendere, e tuttavia, mentre si siede nella slitta, è pallida come le prime volte, respira appena dal terrore, trema.

Facciamo la discesa una terza volta, e mi accorgo, come mi guarda in viso, fis- sa le mie labbra. Ma io accosto alle labbra un fazzoletto, tossisco e, quando rag- giungiamo la metà della discesa, faccio in tempo a sussurrare: «Vi amo, Nadja!»

L’enigma rimane tale! Nàden’ka tace, pensa a qualcosa... La riaccompagno a casa, essa cerca di camminare più adagio, rallenta i passi e aspetta sempre che

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8. pattini:lamine d’acciaio che consentono alla slitta di scivola- re sulla neve e sul ghiaccio.

9. requie:pace.

10. spassionata:priva di emozioni.

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le dica di nuovo quelle parole. E vedo, quanto soffre la sua anima, come sta facendo uno sforzo su se stessa, per non dire:

«Non può essere che le abbia dette il vento! E non voglio che le abbia dette il vento!»

Il giorno dopo ricevo la mattina un biglietto: “Se oggi andate alla pista delle slitte, passate a prendermi. N.” E da quel giorno comincio ad andare quotidia- namente con Nadja alla pista e, mentre voliamo giù sulla slitta, pronuncio ogni volta sottovoce quelle stesse parole:

«Vi amo, Nadja!»

Ben presto Nàden’ka s’avvezza11a questa frase, come ci si avvezza al vino o alla morfina12. Non può più vivere senza di essa. È vero che le fa sempre molta paura volar giù dalla cima della montagna, ma ormai il terrore e il pericolo con- feriscono un fascino speciale alle parole d’amore, alle parole che come prima formano un enigma e fanno languire13 l’anima. Il sospetto cade sempre sugli stessi due: su me e sul vento... Chi dei due le faccia la dichiarazione d’amore, essa non sa, ma ormai evidentemente per lei è lo stesso; non importa da quale recipiente si beva, basta che ci si inebrii14.

Un pomeriggio mi recai da solo alla pista; mescolatomi con la folla, vedo che Nàden’ka si avvicina alla montagnola, che mi cerca con gli occhi... Poi timida- mente si arrampica su per la scaletta... È terribile far la discesa da sola, oh com’è terribile. È pallida come la neve, trema, cammina come se andasse al patibolo, ma cammina, cammina senza guardare indietro, decisamente. Ha deciso, si vede, di provare finalmente se sarà possibile udire quelle parole dolci, stupefacenti, quando non ci sono io. Vedo come pallida, la bocca aperta per lo spavento, si siede nella slitta, chiude gli occhi e, detto per sempre addio alla terra, si mette in moto... “ssss”... ronzano i pattini. Ode Nàden’ka quelle parole? Non lo so...

Vedo soltanto come si alza debole, sfinita, dalla slitta. E dal suo volto si capisce che essa stessa non sa se abbia o no udito qualcosa. Il terrore, mentre scivola- va, le ha tolto la facoltà di udire, di distinguere i suoni, di capire...

Ma ecco che viene il mese primaverile di marzo... il sole si fa più carezzevo- le15. La nostra montagnola di ghiaccio diventa più scura, smette di luccicare e finalmente si scioglie. Smettiamo di andare in slitta. Per la povera Nàden’ka non c’è più possibilità di sentire quelle parole, eppoi chi le può ormai pronunciare?

Il vento non si ode più e io mi accingo a partire per Pietroburgo, per lungo tem- po, probabilmente per sempre.

Una volta, due o tre giorni prima della partenza, me ne sto seduto, al crepu- scolo16, nel giardino, che uno steccato alto sormontato da chiodi separa dal cor- tile, dove vive Nàden’ka... Fa ancora piuttosto freddo, sotto il concime c’è anco- ra la neve, gli alberi sono morti, ma c’è già odor di primavera e, mentre si preparano a dormire, le cornacchie gracchiano rumorosamente. Mi avvicino allo steccato e guardo a lungo attraverso una fessura. Vedo Nadja che esce sulla soglia e vol- ge uno sguardo mesto, nostalgico al cielo... Il vento primaverile le soffia diritto nel viso pallido, abbattuto... Le ricorda quell’altro vento, che allora ci urlava in viso sulla montagna, quando udiva quelle parole, e il suo volto si fa triste, triste,

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11. s’avvezza:si abitua.

12. morfina:farmaco che, usato in piccole dosi, combatte il dolo- re; può creare assuefazione e dipendenza.

13. languire:sprofondare in uno stato di piacevole debolezza.

14. ci si inebrii:ci si abbandoni a un senso di pienezza e piace- re.

15. carezzevole:piacevole.

16. crepuscolo:tramonto.

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Alunno:......Classe:...Data:...

e lungo la guancia scende lenta una lacrima... E la povera fanciulla protende tutte e due le braccia, come volesse pregare il vento di recarle ancora una vol- ta quelle parole. Ed io, dopo avere atteso che il vento soffi di nuovo, dico sot- tovoce: «Vi amo, Nadja!»

Dio mio, che succede ora! Lancia un grido, sorride con tutto il viso e proten- de incontro al vento le braccia, beata, felice, così bella.

E io torno a far le valigie...

Questo è accaduto molto tempo fa. Ora Nàden’ka è già maritata; l’hanno data in sposa, o s’è data lei stessa, non importa, al segretario della Camera di tutela nobiliare, e ormai ha già tre bambini. Ma il ricordo di quando andavamo in slit- ta e il vento le recava le parole “vi amo, Nàden’ka”, non si è spento; per lei è il ricordo più felice, più commovente e splendido della sua vita...

Mentre io ora che mi sono fatto più vecchio, non riesco più a capire perché dicessi quelle parole, a che scopo scherzassi...

(A. Cˇechov, Racconti a teatro, trad. di G. Faccioli, Firenze, Sansoni, 1966) 115

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1 Come viene caratterizzato il personaggio di Nadja? Quali azioni compie? Quali stati d’animo e pensieri le sono attribuiti dal narratore?

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2 Quale ti sembra essere il tema centrale di questo racconto?

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3 In quale arco temporale si svolge la vicenda narrata? Vi sono nel testo indicazioni precise che possono aiu- tare il lettore a ricostruire il tempo reale degli avvenimenti?

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4 Il racconto è costituito da una macrosequenza, che costituisce il corpo principale, e da una breve sequen- za conclusiva. Rintraccia queste due parti e segnale nel testo.

5 Ti sembra che si venga a creare una situazione di suspense? In quale punto e con quali elementi viene otte- nuta?

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Esercizi

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6 Che tipo di narratore è presente nel racconto? Come viene caratterizzato?

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7 Con quale tecnica vengono riportati i pensieri della ragazza?

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8 Come è descritto lo spazio in questo racconto?

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9 Individua gli stacchi temporali che scandiscono, nel ricordo del protagonista, il passaggio dal passato al presente.

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GIUDIZIO ...

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K

ATHERINE

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ANSFIELD

Soffia il vento

Scrittrice neozelandese, Katherine Mansfield (1888-1923), il cui vero nome era Kathleen Beau- champ, si trasferì giovanissima a Londra per motivi di studio. Nei suoi racconti migliori (Preludio, 1918, Felicità e altri racconti, 1920, le raccolte La festa in giardino, 1922, e Il nido delle colom- be, 1923) rappresentò, con grande capacità di penetrazione psicologica, intense figure femminili.

Morì a soli trentaquattro anni.

Situazioni semplici, intrecci che sembrano fatti di niente, si caricano in Katherine Mansfield di signi- ficati rivelatori attraverso i quali la scrittrice sa cogliere per rapide intuizioni il senso del continuo mutare della vita, la labilità delle sensazioni, fugaci come lo scorrere stesso del tempo che trasfor- ma ogni cosa. Nei suoi racconti non vi sono sentimenti duraturi, ma impressioni fuggitive, succes- sioni di stati d’animo ora di tristezza ora di rara felicità. Tutto cambia rapidamente: la gioia e l’an- goscia sono instabili, mutevoli come l’animo umano.

Anche questo racconto breve è tutto incentrato sulla fugacità delle emozioni e sulla diversa perce- zione che, a seconda del momento psicologico, il personaggio ha della realtà: così il soffiare del ven- to che dà inizio alla storia ne segna anche il ritmo narrativo, travolgendo con il suo impeto i perso- naggi stessi e diventando simbolo dei turbamenti e delle inquietudini della giovinezza. La figura di Matilda, la protagonista della vicenda, si costruisce attraverso le azioni che compie e i sentimenti che le accompagnano, ed è il suo punto di vista a filtrare, attraverso un costante ricorso al monolo- go interiore e al discorso indiretto libero, pensieri, sentimenti e stati d’animo nel momento del loro contraddittorio manifestarsi.

A un tratto, orribilmente, si sveglia. Che cosa è successo? Qualcosa di orri- bile. No, non è successo nulla. È soltanto il vento che scuote la casa, fa trema- re le finestre, sbatte sul tetto, con violenza, un pezzo di lamiera e le fa vibrare il letto. Le foglie svolazzano davanti alla sua finestra, arrivano e ripartono; giù nel viale un giornale completo oscilla nell’aria come un aquilone sperduto e va a infilzarsi su un pino. Fa freddo. L’estate è finita – è autunno – tutto è orren- do. I carri passano con fracasso, traballando di qua e di là; due cinesi trotterel- lano sotto i loro gioghi1di legno con le ceste sovraccariche di verdura – codini e bluse azzurre si agitano al vento. Un cane bianco passa su tre zampe davanti al cancello, guaendo. È tutto finito! Che cosa? Oh, tutto! E lei comincia a farsi le trecce con dita tremanti, senza osare di guardarsi allo specchio. La mamma sta parlando con la nonna nell’anticamera.

«Una idiota perfetta! Immagina un po’, lasciare della roba stesa fuori con un tempo simile!... Adesso la mia tovaglietta da tè più bella, quella di pizzo di Tene- rife, è semplicemente a brandelli. Che cos’è quest’odore incredibile? È il por- ridge2che brucia. Oh cielo – questo vento!»

Alle dieci ha lezione di musica. A questo pensiero il tempo in minore3del pez- zo di Beethoven4comincia a suonare nella sua testa, quei trilli lunghi e terribi- li come piccoli tamburi rullanti... Marie Swainson esce di corsa nel giardino accanto per cogliere i “crisanti”5prima che si rovinino. La sottana le vola più in su della vita; tenta di darle dei colpi per tenerla giù, di ficcarsela tra le gambe

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1. gioghi:barre di legno appoggiate alle spalle per facilitare il trasporto di carichi pesanti.

2. porridge:zuppa di cereali, tipica della colazione anglosassone.

3. il tempo in minore:il movimento la cui tonalità è basata su una scala minore.

4. Beethoven:Ludwig van Beethoven, il celebre musicista tede- sco (1770-1827).

5. “crisanti”:voce dialettale per crisantemi.

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mentre si china, ma è tutto inutile – eccola che vola di nuovo. Tutti gli alberi e cespugli le si agitano intorno. Coglie i fiori più presto che può, ma è proprio fuo- ri di sé. Non bada a quello che fa – strappa le piante con le radici e le piega e le attorciglia pestando i piedi e imprecando.

«Per amor del cielo, tenete chiuso il portone! Passate dalla parte di dietro»

grida qualcuno. E poi sente Bogey:

«Mamma, ti vogliono al telefono. Telefono, mamma! È il macellaio».

Come è orrida la vita – rivoltante, semplicemente rivoltante... E adesso l’ela- stico del cappello è saltato. Naturale. Metterà il vecchio tam-o’shanter6e sgat- taiolerà dalla porta di dietro. Ma la mamma ha visto.

«Matilda, Matilda! Torna indietro im-me-dia-tamente! Che cosa diavolo ti sei messa in testa? Sembra un copriteiera. E perché hai quella criniera di capelli sulla fronte?»

«Non posso tornare indietro, mamma. Farò tardi alla lezione».

«Torna indietro immediatamente!»

Non tornerà indietro. Non tornerà indietro. Odia la mamma. «Va’ al diavolo»

grida, correndo lungo la strada.

A ondate, a nuvole, a grandi mulinelli rotondi, la polvere le viene addosso pungente, e con la polvere frammenti di paglia, di fieno e di letame. Dagli albe- ri dei giardini viene un gran frastuono, e dal fondo della strada, davanti al can- cello di Mr. Bullen, Matilda sente il mare singhiozzare: «Ah!... Ah!... Ah-h!» Ma il salotto di Mr. Bullen è silenzioso come una caverna. Le finestre sono chiuse, le persiane abbassate a metà, e lei non è in ritardo. La ragazza-prima-di-lei ha appena cominciato a suonare A un iceberg di MacDowell. Mr. Bullen le lancia un’occhiata e un mezzo sorriso.

«Si sieda lì, nell’angolo del divano, signorinetta».

Che uomo curioso. Non è che rida veramente di te... ma c’è qualcosa... Oh, che pace, qui! Ama questa stanza. Odora di broccato e di fumo stantio7e di cri- santemi… ce n’è un grande vaso pieno sulla mensola del caminetto, dietro alla fotografia impallidita di Rubinstein8... à mon ami Robert Bullen9... Sopra il pia- noforte nero e luccicante è appesa “Solitudine” – una tragica donna bruna drap- peggiata di bianco, seduta su uno scoglio, le gambe accavallate, il mento nelle mani.

«No, no!» dice Mr. Bullen, e si china sull’altra ragazza, le passa le braccia sopra le spalle e le suona il brano. Quella stupida – arrossisce! Che ridicolo!

Adesso la ragazza-prima-di-lei se n’è andata; il portone sbatte. Mr. Bullen ritorna e passeggia avanti e indietro, senza fare nessun rumore, aspettandola.

Che cosa straordinaria. Le dita le tremano tanto che non riesce a sciogliere il nodo della cartella di musica. È il vento... E il cuore le batte così forte che le pare debba sollevare su e giù la camicetta. Mr. Bullen non dice una parola. Il liso10sedile rosso dinanzi al pianoforte è abbastanza largo perché ci siedano due persone fianco a fianco. Mr. Bullen si siede vicino a lei.

«Devo cominciare con le scale»? domanda lei, premendosi le mani l’una con- tro l’altra. «Avevo anche qualche arpeggio».

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6. tam-o’shanter:il berretto scozzese di forma piatta sormon- tato da una guarnizione in lana.

7. stantio:sgradevole per il ristagno in un luogo chiuso.

8. Rubinstein:Arthur Rubinstein, pianista polacco (1887-1982).

9. à mon amiRobert Bullen:in francese «al mio amico Robert Bullen».

10. liso:consumato.

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Ma lui non risponde. Non crede nemmeno che senta… e poi a un tratto la sua mano fresca con l’anello si protende e apre Beethoven.

«Sentiamo un pochetto del vecchio maestro» dice.

Ma perché parla in un modo così gentile – così tremendamente gentile – come se si conoscessero da anni e anni e sapessero tutto l’uno dell’altra?

Volta la pagina lentamente. Lei osserva la sua mano, è una mano molto ben fatta e pare sempre appena lavata.

«Ecco qua» dice Mr. Bullen.

Oh, quella voce gentile – Oh, quel tempo in minore. Ecco che arrivano i pic- coli tamburi...

«Devo fare il ritornello?»

«Sì, cara bambina».

La sua voce è troppo, troppo gentile. Le semiminime e le crome11danzano su e giù per il pentagramma come bambini negri su una staccionata. Perché mai lui è così... Non vuol piangere – non c’è ragione di piangere...

«Che c’è, cara bambina?»

Mr. Bullen le prende le mani. La sua spalla è li – proprio vicino alla sua testa.

Lei si appoggia appena un pochino, la guancia contro l’elastico tweed.

«La vita è così orribile» mormora, ma non le sembra affatto che sia orribile.

Lui dice qualcosa come «aspettare» e «segnare il passo» e «quella cosa prezio- sa che è una donna», ma lei non sente. Si sta così comodi... in eterno...

A un tratto la porta si apre ed ecco irrompere Marie Swainson, in anticipo di ore e ore.

«Attacchi l’allegretto 16 un po’ più fretta» dice Mr. Bullen, che si alza e si mette di nuovo a passeggiare su e giù.

«Sieda nell’angolo del divano, signorinetta» dice a Marie.

Il vento, il vento. Fa paura stare qui in camera da sola. Il letto, lo specchio, la brocca e la catinella bianche luccicano come il cielo di fuori. È il letto che fa paura. Guardalo là, che dorme profondamente... La mamma s’immagina forse per un momento che lei rammenderà tutte quelle calze attorcigliate come un groviglio di serpi sopra l’imbottitura? Non lo farà. No, mamma. Non vedo per- ché dovrei... Il vento – il vento! C’è uno strano odore di fuliggine che soffia giù dal camino. Nessuno ha scritto poesie per il vento? «Porto fiori freschi alle foglie e piovaschi…» Che sciocchezze!

«Sei tu, Bogey?»

«Vieni a fare una passeggiata sul lungomare, Matilda. Non resisto più».

«Benone. Mi metto il cappotto. È una giornata spaventosa!» Il cappotto di Bogey è identico al suo. Agganciandosi il colletto si guarda nello specchio. Ha il viso bianco, hanno tutti e due gli stessi occhi eccitati e le stesse labbra calde.

Ah, loro li conoscono bene quei due nello specchio. Arrivederci, cari; torniamo presto.

«Così va meglio, eh?»

«Aggànciati» dice Bogey.

Non riescono ad andare così in fretta come vorrebbero. A testa bassa, con le gambe che si sfiorano, attraversano a grandi passi la città come una sola perso-

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11. Le semiminime e le crome:note che hanno una diversa durata.

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na piena d’ardore, lungo lo zig-zag d’asfalto dove cresce il finocchio selvatico e giù fino al lungomare. È buio – sta diventando buio proprio ora. Il vento è così forte che devono lottare per fenderlo, barcollando come due vecchi ubriaconi.

Tutte le povere piccole pahutukawa12sul lungomare sono curve fino a terra.

«Avanti! Avanti! Avviciniamoci!»

Laggiù, vicino al frangiflutti13, il mare è molto grosso. Si tolgono il cappello, e a lei i capelli volano sulla bocca, sanno di sale. Il mare è così grosso che le onde non si frangono affatto, sbattono contro l’irta muraglia di pietra e risucchiano i gradini algosi14e grondanti. Spruzzi impalpabili volano da una parte all’altra del lungomare. I due sono coperti di gocce, dentro la bocca lei sente il gusto del bagnato e del gelo.

Bogey sta cambiando la voce, quando parla corre su e giù dagli acuti al bas- so profondo. È buffo – fa ridere – eppure s’intona proprio a questa giornata. Il vento porta le loro voci – le frasi volano via come nastri sottili.

«Più presto! Più presto!»

Si sta facendo molto scuro. Nel porto le carboniere15mostrano due luci, una in alto, sull’albero, e una a poppa.

«Guarda, Bogey, guarda laggiù!»

Un grande piroscafo nero che si lascia dietro un lungo anello di fumo, con gli oblò illuminati, con luci dappertutto, sta salpando verso il mare aperto. Il ven- to non lo ferma, e lui taglia le onde e si dirige verso il varco tra gli scogli appun- titi che conduce a... È la luce che lo fa sembrare così terribilmente bello e miste- rioso. Loro sono a bordo, appoggiati al parapetto, si tengono a braccetto.

«... Chi sono?»

«... Fratello e sorella».

«Guarda, Bogey, ecco la città. Non sembra piccola? Ecco l’orologio della posta che batte le ore per l’ultima volta. Ecco il lungomare dove abbiamo passeggia- to quel giorno di vento. Ti ricordi? Ho pianto durante la lezione di musica, quel giorno – quanti anni fa! Addio, isoletta, addio…»

Ora il buio stende un’ala sull’acqua agitata. Non li vedono più quei due. Addio, addio. Non dimenticate... Ma la nave se n’è andata, ormai.

Il vento – il vento.

(K. Mansfield, Sole e luna e altri racconti, Milano, Adelphi, 1997)

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12. pahutukawa:alberi tipici della Nuova Zelanda.

13. frangiflutti:sbarramento di protezione della costa.

14. algosi:coperti di alghe.

15. carboniere:navi che trasportano il carbone.

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1 Come viene presentato il personaggio di Matilda?

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2 Analizza l’episodio centrale del racconto: la lezione di pianoforte. Da chi è vista la scena? Quali sensazioni prova Matilda? Perché, secondo te, si mette a piangere?

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3 Analizza la conclusione del racconto: ti sembra che vi sia sintonia tra Bogey e Matilda?

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4 L’uso del discorso indiretto libero e del monologo interiore è determinante in questo racconto: quali effet- ti produce sul lettore il ricorso a tali tecniche?

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5 Che funzione ha il vento in questo racconto? Potremmo definirlo il vero protagonista del testo?

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6 Ricostruisci le figure di Mr. Bullen e di Bogey attraverso i dettagli presenti nel testo.

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7 Spiega con le tue parole questo passaggio del testo: «“La vita è così orribile” mormora [Matilda], ma non le sembra affatto che sia orribile».

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Esercizi

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H

ERMANN

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ESSE

Sul ghiaccio

In questo racconto dai toni autobiografici, lo scrittore tedesco Hermann Hesse (1877-1962), auto- re di romanzi importanti nella letteratura del Novecento, quali Siddharta (1922), Il lupo nella step- pa (1927), Narciso e Boccadoro (1930) e Il gioco delle perle di vetro (1943), rievoca il momen- to dell’adolescenza in cui ha sentito per la prima volta una viva attrazione per l’universo femminile.

Un bacio non ottenuto è il tema di una vicenda che – come si conviene alla migliore tradizione del racconto psicologico – risulta costituita di pochi eventi, interamente costruita sulle emozioni anco- ra confuse di un adolescente che si avvicina al mondo dei grandi e sulle sensazioni che, a distanza di molti anni, il ricordo di quella stagione della vita riesce ancora a suscitare nel narratore.

In quel tempo vedevo ancora il mondo con altri occhi. Avevo dodici anni e mezzo ed ero ancora completamente preso nel mondo colorato e rigoglioso del- le gioie e fantasticherie fanciullesche. Fu allora che nel mio animo stupito spun- tò per la prima volta, timido e avido, il tenue chiarore della giovinezza più dol- ce e tenera.

Era un inverno lungo, rigido, e il nostro bel fiume della Foresta Nera1si gelò per settimane. Non posso dimenticare la sensazione strana, di paura ed estasi2 insieme, che mi colse quando nel primo mattino di gelo mi avventurai sul fiu- me: era profondo, e il ghiaccio era così trasparente che si poteva vedere sotto di sé, come attraverso un velo sottile, l’acqua verde, il fondo di sabbia e ciotto- li, gli intrecci fantastici delle piante acquatiche e, di tanto in tanto, il dorso scu- ro di un pesce.

Passavo pomeriggi interi sul ghiaccio con i miei compagni, le guance accal- date e le mani bluastre, il cuore inturgidito3dai movimenti vigorosi e ritmati del pattinaggio, colmo della meravigliosa e spensierata capacità di godimento del- la fanciullezza. Ci esercitavamo nella corsa, nel salto in lungo, nel salto in alto, giocavamo ad acchiapparci, e quelli che ancora portavano legati agli stivali gli antiquati pattini di osso non correvano affatto peggio degli altri. Uno di noi tut- tavia, il figlio di un industriale, aveva un paio di “Halifax”, che erano fissati alla scarpa senza legacci o cinghie e si potevano mettere e togliere in pochi attimi.

Da allora la parola Halifax comparve per anni sulla lista dei regali che desidera- vo per Natale, ma inutilmente; e quando dodici anni più tardi, volendo acqui- stare un paio di pattini veramente buoni, chiesi se in negozio avessero gli Hali- fax, con mio grande dolore vidi crollare un ideale e una certezza fanciullesca quando mi sentii assicurare con un sorriso che Halifax era un sistema antiqua- to, da tempo superato.

Di preferenza pattinavo da solo, spesso fino all’imbrunire. Correvo via velo- ce, imparavo a fermarmi e a voltare a qualsiasi velocità e in qualsiasi punto, mi libravo in ampie volute4, in equilibrio su una gamba, con la sensazione di volare. Molti dei miei compagni utilizzavano i pomeriggi sul ghiaccio per cor- rer dietro alle ragazze e corteggiarle. Per me le ragazze non esistevano. Men - tre altri compivano azioni cavalleresche, giravano intorno ad esse desiderosi

Alunno:......Classe:...Data:...

1. Foresta Nera:regione della Germania sud-occidentale.

2. estasi:incanto, felicità quasi sovrumana.

3. inturgidito:come gonfiato dalla maggior rapidità della circo- lazione del sangue.

4. mi libravo in ampie volute:prendevo quasi il volo forman- do ampie spirali.

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e timidi oppure, audaci e disinvolti, le invitavano a pattinare in coppia, io gusta- vo solo il piacere incontrastato del guizzare via. Per quelli che conducevano le ragazzine non provavo che pena o scherno. Dalle confessioni di alcuni ami- ci credevo infatti di sapere quanto i loro piaceri galanti fossero in fondo rela- tivi.

Un giorno, mentre l’inverno già volgeva alla fine, mi giunse notizia di una novità nel nostro ambiente di scuola: il “nordista”5, recentemente, aveva di nuo- vo baciato Emma Meier mentre si toglievano i pattini. D’improvviso la notizia mi fece montare il sangue alla testa. Baciato! Era ben altra cosa rispetto ai discor- si scipiti6 e alle timide strette di mano che di solito venivano esaltati come le massime delizie del pattinare a coppie. Baciato! Era un suono che proveniva da un mondo estraneo, celato, immaginato con timore, aveva il profumo invitante del frutto proibito, aveva un che di segreto, poetico, innominabile, faceva par- te di quell’ambito dolce-oscuro, paurosamente affascinante, da noi tutti passa- to sotto silenzio ma tuttavia presagito, illuminato a tratti dalle mitiche avventu- re amorose dei donnaioli che erano stati espulsi dalla scuola. Il “nordista” era uno scolaro quattordicenne di Amburgo capitato Dio sa come tra noi, che io ammiravo e la cui fama, che prosperava lontano dalla scuola, spesso non mi face- va dormire. E Emma Meier era certo la ragazza più carina di Gerbersau, bion- da, agile, fiera e della mia stessa età.

A partire da quel giorno cominciai a rimuginare progetti e problemi. Bacia- re una ragazza superava di gran lunga tutti i miei precedenti ideali, sia come cosa in sé e sia perché senza dubbio era vietato e interdetto dalle regole della scuola. Mi resi presto conto che il solenne servizio amoroso della pista ghiac- ciata era l’unica buona occasione per farlo. Per prima cosa cercai quindi, per quanto possibile, di rendere il mio aspetto più acconcio al corteggiamento. Dedi- cai tempo e cura ai miei capelli, controllai minuziosamente la pulizia dei miei vestiti, mi calcai con garbo il berretto di pelo sulla fronte e pregai le mie sorel- le di darmi il loro foulard di seta rosa. Nello stesso tempo sul ghiaccio, comin- ciai a salutare cortesemente le ragazze che potevano essere prese in conside- razione, e credetti di vedere che quell’omaggio insolito veniva notato con sorpresa ma non senza piacere.

Molto più difficile fu il primo approccio, perché in vita mia non avevo mai

“invitato al ballo” una ragazza. Cercai di spiare i miei amici mentre eseguivano quel solenne cerimoniale. Alcuni si limitavano a fare un inchino e a porgere la mano, altri balbettavano qualcosa di incomprensibile, i più si servivano dell’ele- gante formula: «Posso avere l’onore?» Questa formula mi impressionò molto e mi esercitai a casa, in camera mia, facendo l’inchino davanti alla stufa e pronun- ciando le parole solenni.

Era giunto il giorno del primo, difficile passo. Già il giorno precedente ave- vo avuto intenzione di iniziare il corteggiamento, ma ero tornato a casa scorag- giato, senza avere osato niente. Quel giorno mi ero prefisso di fare immancabil- mente ciò che temevo e insieme desideravo. Con il batticuore, angosciato a morte come un criminale, andai verso la pista di ghiaccio; credo mi tremassero le mani mentre mi mettevo i pattini. Poi mi gettai nella mischia con ampi movi- menti circolari, cercando di mantenere un po’ della mia abituale espressione di

5. il “nordista”:come si chiarirà nelle righe seguenti, è un ragaz- zo originario di Amburgo.

6. scipiti:insulsi, banali.

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sicurezza e naturalezza. Percorsi due volte la pista in tutta la sua lunghezza, al massimo della velocità, e l’aria frizzante e i movimenti vigorosi mi fecero bene.

D’improvviso, proprio sotto il ponte, mi scontrai in pieno con qualcuno e bar- collai per qualche passo, sgomento. Sul ghiaccio era seduta la bella Emma, che evidentemente cercava di reprimere il dolore, e mi guardava piena di rimpro- vero. Il mondo, davanti ai miei occhi, girava vorticosamente.

«Aiutatemi a tirarmi su!» disse alle sue amiche. Allora, con il viso in fiamme, mi tolsi il berretto, mi inginocchiai accanto a lei e la aiutai ad alzarsi.

Rimanemmo uno di fronte all’altra, impauriti e sbalorditi, e nessuno di noi parlò. La pelliccia, i capelli e il volto della bella ragazza, così estranei e vicini, mi stordivano. Pensai invano a un modo per scusarmi, ancora con il berretto stretto in mano. E d’improvviso, mentre un velo mi offuscava la vista, feci mec- canicamente un profondo inchino e balbettai: «Posso avere l’onore?»

Lei non rispose, però prese le mie mani tra le sue dita sottili il cui calore riu- scii a sentire attraverso i guanti, e si avviò con me. Mi pareva di essere in uno strano sogno. Una sensazione di felicità, vergogna, calore, desiderio e imbaraz- zo quasi mi toglieva il fiato. Pattinammo per un buon quarto d’ora. Poi, in una piazzola, liberò piano le piccole mani, disse «Grazie tante» e proseguì da sola, mentre io mi toglievo troppo tardi il berretto di pelliccia e rimanevo lì per un po’, immobile. Solo più tardi mi resi conto che per tutto quel tempo non aveva detto una sola parola.

Il ghiaccio si sciolse e io non potei ripetere il mio tentativo. Fu la mia prima avventura amorosa. Tuttavia passarono ancora diversi anni prima che il mio sogno si avverasse e la mia bocca potesse sfiorare una rossa bocca di fanciulla.

(H. Hesse, Racconti, trad. di M. Bistolfi, Milano, Mondadori, 1993)

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1 Il testo si può dividere in tre parti fondamentali. Rintracciale e, di ognuna, fornisci in tre righe una sintesi.

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Esercizi

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2 Scegli quale di queste definizioni è, secondo te, più adatta a indicare il tema del racconto:

il racconto tratta di un evento che ha modificato profondamente l’atteggiamento del protagonista nei confronti del mondo femminile.

il racconto è la ricostruzione psicologica dello stato d’animo del protagonista.

il racconto analizza un momento di maturazione del protagonista.

Motiva la tua risposta.

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3 Chi è il protagonista del racconto?

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4 Quali altri personaggi compaiono nella storia? Hanno un ruolo importante?

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5 In quale luogo e in quale tempo si svolge il fatto?

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6 Che tipo di narratore è presente e con quale funzione?

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7 Quale distanza separa il narratore dall’esperienza narrata?

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8 Chi presenta il protagonista del racconto?

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9 Il protagonista è un personaggio “statico” o “dinamico”? Perché?

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10 Nel racconto sono dominanti le sequenze di tipo ...

in quanto l’attenzione del narratore è volta soprattutto a delineare ...

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11 Nel racconto è presente un’unica breve sequenza descrittiva. Sottolineala e indicane la funzione.

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12 Analizzando lo stile di questo racconto potrai notare che l’autore ha fatto ricorso a un’aggettivazione mol- to ricca e precisa. Sottolinea gli aggettivi presenti, spesso usati a coppia, e precisane la funzione.

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GIUDIZIO ...

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ASSIMO

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Un vero amico

In questo racconto dello scrittore Massimo Grillandi (1921-87) il protagonista ripercorre le tap- pe di un’amicizia che lo ha condizionato tanto da condurlo a un punto di esasperazione senza ritor- no, che si potrà concludere solo con l’eliminazione fisica dell’“amico” stesso, la cui presenza è dive- nuta così tirannica da ostacolare la libera espressione della personalità. Con una tecnica precisa, il narratore registra i momenti di un conflitto che si acuisce in modo drammatico con il passare del tempo, fino alla decisione di sopprimere il compagno d’infanzia, diventato ormai un’ombra inquie- tante.

Glauco è sempre stato il migliore dei miei amici, e io sono un uomo che sen- te molto i vincoli dell’amicizia. Cosa sarebbe la vita se all’occorrenza non si sapes- se a chi chiedere un consiglio, il conforto di un incontro che valga a dipanare le idee, a chiarirle? L’amore è certo più importante dell’amicizia, ma su un altro piano. Dicevo proprio l’altro giorno a Marcello: «Vedi, con le donne ti puoi con- fidare, possono farti compagnia, servono a dare uno scopo alla vita. Ci vogliono e come se ci vogliono, però soltanto a un amico ti puoi appoggiare, perché è un uomo come te, la pensa in gran parte a tuo modo, ha i tuoi stessi problemi. Si trova insomma in una trincea dalla quale combattete un nemico comune». E non è che Marcello mi abbia dato torto, anzi ha rincarato la dose: «Sono d’ac- cordo con te sull’importanza dell’amicizia; essa è uno dei fondamenti della socie- tà e quando l’amicizia vien meno tutte le altre virtù, mi sembra che lo dica anche Platone, scadono e decadono. La famiglia e la religione non sono altro che ami- cizie speciali: la prima a livello intimo, la seconda sul piano soprannaturale». Il mio pensiero non andava così avanti; ma insomma l’idea centrale mi seduceva e quindi, in nome dell’amicizia, dovetti dar ragione a Marcello. Questo per dire quanto sono devoto a certi sentimenti.

Con Glauco però non so fino a che punto potrò arrivare. L’ho detto: è sem- pre stato il mio più caro amico, avrei dato l’anima per lui; ma ora sono arrivato a quello che i fisici chiamano “punto di rottura”, un altro grammo, una moleco- la ancora e poi succede l’irreparabile. Conobbi Glauco alle elementari. Lui era un paio di classi avanti a me e tutti sanno come, fra bambini, certe cose abbia- no importanza. Era più alto, più forte, sapeva cose che io nemmeno sognavo. A lui ricorrevo per i compiti, per farmi spiegare (con gli studi non sono mai anda- to forte) quelle nozioni che il maestro ci propinava con una velocità che a me sembrava vertiginosa. E Glauco paziente a illuminarmi, a darmi idee anche per i temi di italiano. Credo proprio che qualcuno me lo abbia addirittura svolto lui.

Glauco era sempre pronto buono servizievole. Se qualche ragazzino della mia età cercava di attaccare briga, egli interveniva. Gli scapaccioni glieli dava lui. La povera mamma diceva sempre, quando le chiedevo qualcosa o volevo andare in qualche parte: «Glauco ci va, lo fa anche lui questo?» Se il mio amico era della partita, la risposta era sempre uguale: «Vai, vai pure» o «Fai come lui». Non c’era da sbagliare.

Quando siamo cresciuti, tutto è continuato alla stessa maniera. Sempre Glau- co per casa, più e meglio di un fratello. A tavola nelle nostre famiglie, c’era sem- pre un coperto in più. Se lui o io volevamo rimanere a pranzo, e ciò spessissi- mo accadeva, non dovevamo fare cerimonie. Bastava una telefonata. Alle superiori,

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la stessa musica. Lui più avanti di me, più bravo in tutto e io a arrancargli die- tro. Il latino, tanto per dirne una, me lo ha insegnato lui. Aveva un metodo per- sonale, che adesso non ricordo, e in poco tempo traducevo a meraviglia. Per il greco, la medesima faccenda. A un certo punto, convenimmo che imparare la storia era proprio un gioco, se uno più che formulare domande, si mette a discu- tere di fatti, a compiere raffronti. Glauco era bravissimo anche in ciò. Ti costrin- geva a intuire quello che non sapevi. Non te ne accorgevi e intanto imparavi. Un fenomeno era, non se ne trovava l’uguale.

Poi Glauco aveva idee chiare su tutto. Dovevo frequentare chi voleva lui.

«Con Marco è meglio che non facciamo comunella. È manesco, e poi il padre...

Un cattivo soggetto, ti assicuro; però non lo andare a dire, mi raccomando».

Figurarsi, parola di Glauco per me era ancora Vangelo. Così, ebbi gli amici che lui preferiva, scartai quelli che non gli andavano a genio. Come tutti i ragazzi, facevamo un poco di sport. Non tanto, giusto per compiere un filo di esercizio, per non sentirsi dare dei mollaccioni. Anche questa era un’idea di Glauco. Pri- ma lo studio e poi il gioco. «Nella vita, dovremo aprirci la strada col cervello, mica coi calci». Però io, a dirla con sincerità, avevo una gran voglia di fare il cal- ciatore. Conoscevo tutti quelli di serie A. Sognavo di diventare uno come loro, mi esaltavo al pensiero di giocare in un grande stadio, davanti a migliaia di per- sone che gridavano il mio nome. Ebbene, Glauco distrusse tutto ciò. «È roba che non va, devi pensare alle cose serie. Per giocare, giochiamo, ma solo per divertimento. Del resto, che credi: su mille ne arriva uno, vuoi essere proprio tu quel tale?» E va bene, niente più sogni di gloria calcistica. Quattro calci al pallone ogni tanto, così per sgranchirsi, ma basta.

Piuttosto, un poco di piscina. Il nuoto, era sempre Glauco a dirlo, fa svilup- pare in armonia l’organismo, mantiene sani. Anche Cicerone afferma... Non ricor- do bene cosa statuisse il buon Arpinate1: i classici poco li ho potuti digerire, ma so che a prezzo di formidabili raffreddori, imparai a nuotare pur avendo, e l’ho tuttora, un sacro terrore dell’acqua. Per il compleanno, anziché scarpe coi tac- chetti e maglia a strisce, costrinsi i miei a regalarmi un costume da bagno, una cuffia da nuotatore.

Glauco si diplomò prima di me e si iscrisse all’università; ma non è che ci per- demmo di vista. Anzi, agli esami di maturità volle prepararmi lui. Mi preparò i temi svolti; io non volevo, intendevo sbrigarmela da solo, con le mie forze sta- volta, ma chi poteva resistere a Glauco? Mi suggerì tutte le astuzie possibili per far cadere le domande degli esaminatori sui punti che più conoscevo. «Vai sicu- ro», badava a dirmi. E fui bocciato. Cominciavo, è chiaro, a essere saturo di tan- te premure, di un’amicizia così intensa, attiva direi. A ogni modo, l’anno dopo la spuntai. Glauco mi convinse a iscrivermi alla sua facoltà. «Legge, devi studia- re legge: il mondo è degli avvocati». Io ero e sono portato per la matematica, potevo diventare un ottimo ingegnere. Volevo andare al Politecnico. Oggi sono un avvocato fallito, quelli che in tribunale chiamano “mozzorecchi”, e i giudici fanno tacere seccati: «Basta, avvocato, ho capito», e giù un’occhiata al cliente, come per dire: «Proprio tu ci dovevi capitare, si può sapere che male hai fat- to?» Ma Glauco insiste, dice che verrà il mio momento. Tutto è nelle mani degli avvocati. Già, ma di quelli come lui, con una chiacchiera che non finisce mai e una immaginazione tale da trasformare un assassino in una vittima: «Signori

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1. il buon Arpinate:Cicerone, nato ad Arpino, nel Lazio.

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giudici, è vero: il mio protetto ha ucciso il padre e la madre; abbiate pietà di un povero orfano!» Se non è così poco ci manca. Fatto è che vince tutte le cause.

Io, nemmeno una, neanche per sbaglio.

Solo il servizio militare ci separò e, devo confessarlo, respirai, ma per modo di dire. Dovunque venivo trasferito, mi inseguivano le sue lettere, zeppe di con- sigli, di ammonimenti. Ne ricordo una, ero al fronte, gelato fino al collo, sepol- to nella neve, a pancia vuota, con i soldati che mi guardavano inebetiti: «Pensa al Natale dell’anno scorso. Ricordi che bel calduccio, che pranzo ci preparò la mamma?» È vero, le nostre famiglie lo avevano fatto insieme quel Natale, ma era opportuno ricordarmelo in quel momento? Glauco aveva aderenze, amici- zie forti, riuscì a farmi trasferire nel suo reggimento. Continuò così a tiranneg- giarmi in nome dell’amicizia, del mio bene e del grado superiore. Rimpiansi il fronte, lo assicuro.

Dopo congedati, come tutti i giovani, cominciammo a frequentare delle ragaz- ze. Ma era lui a sceglierle, lui a impormele. Erano tutte amiche delle fidanzate che, a mano a mano, egli veniva cambiando. In amore, Glauco era volubile. «Ci vuole esperienza», diceva. E io che dovevo sempre rompere i fidanzamenti sul più bello, per adeguarmi alle nuove situazioni che Glauco veniva creando. Io che mi affeziono così facile. E poi le figure per niente simpatiche che dovevo fare con queste ragazze e con le loro famiglie. Glauco, oltretutto, nello scegliere i pretesti per le rotture non aveva la mano felice. Un paio di fratelli ce la fecero vedere brutta. Di uno ancora porto il segno; ma lui aveva la sua filosofia, e io dovevo farla mia. Finì che sposai la donna che Glauco, in pratica, aveva scelto per me: «Vedrai che Maria ti farà felice. È una buona ragazza. Proprio quella che ci vuole per te».

Dagli oggi e dagli domani, mi trovai all’altare. Poi fu l’inferno. Violenta attac- cabrighe spendacciona, mia moglie me ne ha combinate di ogni colore. Oggi sono in corrispondenza con un collega di Monaco, per vedere se ci esce il divor- zio; ma ci vuole un fiume di soldi. La professione va male, l’ho detto. Tutto pos- so fare meno che l’avvocato. Ho perfino intaccato quel po’ di roba che mi ave- va lasciato mio padre, sono sull’orlo della rovina. Maria da tempo è da sua madre.

Molti ridono di me e io li capisco. Questa mattina Glauco mi ha telefonato, dice che ha un buon affare in vista e che lo riserva per me. Dovrei liquidare ogni cosa e investire in certi titoli. «Azioni sottocosto, puoi stare sicuro: parola di amico».

In questo momento ho deciso. Sì, vendo tutto, però ci pago un sicario.

M. Grillandi, in Racconti italiani contemporanei, a cura di L. Fenici Piazza, Milano, B. Mondadori, 1974 85

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1 Nel racconto fabula e intreccio non sono coincidenti: sottolinea nel testo in blu i punti in cui puoi ritrovare parti prolettiche e in rosso quelle narrate in flashback.

2 Scegli quale di queste definizioni è, secondo te, più adatta a indicare il tema del racconto:

il racconto tratta di un rapporto di amicizia giunto al punto di rottura.

il racconto è la ricostruzione psicologica dello stato d’animo del protagonista.

il racconto analizza i sentimenti di odio del protagonista nei confronti di Glauco.

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Esercizi

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Motiva la tua risposta.

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3 Quali tappe scandiscono la progressiva degenerazione del rapporto di amicizia tra il protagonista e Glauco?

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4 A chi appartiene la voce narrante?

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5 Come viene caratterizzata nel testo la figura di Glauco?

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6 È possibile precisare con chiarezza in quale luogo e in quale tempo si svolge il racconto?

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7 Il racconto si presenta come uno sfogo diretto a un destinatario muto. Come si chiama questa tecnica?

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8 Da quale punto di vista è narrata la storia? Con quali conseguenze?

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9 A tuo parere, è possibile interpretare la figura di Glauco come quella di un “doppio” che riesce ad altera- re l’equilibrio del protagonista? Motiva la tua risposta.

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Coniuga il passato remoto attivo dei seguenti verbi: accorgersi, accorrere, apparire, avvalersi, cadere, chiedere, combattere, contenere, crescere, estrarre, giungere, incutere, indire, infondere, irrompere, mantenere, mettere, perdere, piovere, produrre, provvedere, rendere, resistere, ripetere, risplendere, sconfiggere, tacere, trarre, uccidere, valere, venire, vincere, volere.

COMPETENZA DI PUNTEGGIATURA

Ristabilisci la punteggiatura (punti fermi, virgole, punti e virgole eccetera) nel seguente brano del capitolo ottavo dei Promessi sposi.

Renzo s’affacciò alla porta e la sospinse bel bello la porta di fatto s’aprí e la luna entrando per lo spiraglio illuminò la faccia pallida e la barba d’argento del padre Cristoforo che stava quivi ritto in aspettativa visto che non ci mancava nessuno Dio sia benedetto disse e fece lor cenno ch’entrassero accanto a lui stava un altro cappuccino ed era il laico sagrestano ch’egli con preghiere e con ragioni aveva persuaso a vegliar con lui a lasciar socchiusa la porta e a starci in sentinella per accogliere que’ poveri minacciati e non si richiedeva meno dell’autorità del padre della sua fama di santo per ottener dal laico una condiscendenza incomoda pericolosa e irregolare entrati che furono il padre Cristoforo riaccostò la porta adagio adagio allora il sagrestano non poté più reggere e chiamato il padre da una parte gli andava sussurrando all’orecchio …

COMPETENZA SINTATTICA

Individua le funzioni dei termini sottolineati.

1) Quel vecchio signore è un buon insegnante di scherma: fa lezione quotidiana a molti ragazzi.

2) L’ho detto come battuta.

3) Da giovane io ero molto timida.

4) Il ladro fu inseguito per le vie del centro.

5) Mio figlio cresce robusto.

(28)

2 7) Ho parlato nell’interesse di Marco e lui agisce contro di me.

8) Una grande consolazione è stato per me il tuo sms.

9) Appena tornato in Italia, volle andare a Roma.

10) Sarò da te a mezzogiorno.

11) Rimase due giorni a letto.

12) Il ragazzo fu colpito da un sasso.

13) Parto per Milano con tre valigie.

14) Ho mangiato degli ottimi spaghetti con il pomodoro.

15) Spaccò tutto con il martello.

16) «Ragazzi, lavorate in silenzio».

17) Arrivò al bar un uomo con la voce rauca.

18) Arrivò al bar un uomo. Con la voce rauca disse che il bosco stava bruciando.

19) Non fa altro che parlare di sport.

20) Quella casetta dalle persiane verdi è la mia.

21) I pavimenti della villa erano di marmo pregiato.

22) Salì le scale di corsa.

23) Ho condito gli spaghetti con il pesto.

24) Morì combattendo per la libertà.

25) Sono preoccupato per il ritardo di Elena.

26) Per scommessa si gettò nel fiume, ma per il gran freddo tornò subito a riva.

27) Il mio cane da guardia è morto per avvelenamento.

28) Dentro l’uovo di cioccolata ho trovato una scatolina con un anello d’argento.

29) Mi hanno interrogato sulla Seconda guerra mondiale.

30) Giovanni discende da un’antica famiglia.

31) Lo Stretto di Messina divide la Sicilia dal continente.

COMPETENZA MORFO-SINTATTICA

1. Analizza la seguente frase, individuando le diverse parti del discorso. Inserisci nella tabella le parole classificandole secondo le indicazioni date. Scrivi in STAMPATELLO MAIUSCOLO.

Lo zio Giovanni, che è il fratello di mia madre, ha sempre fabbricato gli zoccoli nel laboratorio del suo paese; io quest’estate gli ho dato volentieri una mano, non volendo nessuna ricompensa, e non l’ho lasciato insoddisfatto.

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