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Nella metropoli selvaggia. È esistita una Black Music a Roma?

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Academic year: 2022

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Nella metropoli selvaggia.

È esistita una Black Music a Roma?

di Jumgal Fever DJset1

Abstract

È possibile parlare per l’Italia di una diffusione della black music? È possibile farlo per la città di Roma? Tracce sparse della cultura afro-americana, o meglio delle culture, imperversano oggi ovunque nel nostro immaginario e Roma è senz’altro una dei suoi interpreti. Ma prima di tutto questo, come è arrivata questa cultura? Ha trovato terreno fertile? Questo breve saggio vuole essere solo un primo passo lungo questa ricerca. Necessariamente, si è scelto di tralasciare, per ora, alcuni aspetti importanti, come la presenza del reggae. Ripercorrere le vicende della diffusione delle forme e delle tracce di musica afro/americana nella città di Roma fra gli anni ‘70 e gli ’90 è un compito arduo per diversi motivi: la bibliografia prodotta negli anni ha subito alti e bassi a seconda delle ondate di interesse per il fenomeno, la letteratura e saggistica specializzata è stata prodotta in anni non necessariamente ancora immersi nell’esplosione del rap nell’Italia post-2007. Per muoversi in questa navigazione si è fatto ricorso alla guida di due persone particolarmente competenti: Francesco Gazzara e David Nerattini. A loro va la mia riconoscenza per l’aiuto nell’assemblare le informazioni sparse, per avermi aiutato a ricomporre un puzzle complesso ma anche per la generosità e la disponibilità amichevole con la quale hanno messo a disposizione il proprio sapere, la propria storia e i loro ricordi senza avermi mai conosciuto prima. Grazie.

Mettersi sulle tracce delle presenze – il plurale è d’obbligo – di una cultura musicale afro-americana fra gli anni ’70 e gli anni ’90 a Roma non è compito semplice. Non solo abbiamo a che fare con molte voci, peraltro quasi sempre sconnesse fra loro, ma soprattutto dobbiamo tener conto di un tessuto sociale e politico che negli anni ’70 è sul punto di esplodere. Come è noto, la politica extra- parlamentare sta attraversando un periodo vivace, sia da sinistra sia da destra, che mette la politica stessa al centro delle vite degli italiani. La cultura prodotta o riprodotta da questo tessuto sociale non può che passare attraverso questo potente filtro politico.

Eppure, la musica statunitense in Italia non è una novità: già negli anni ‘50 il Quartetto Cetra riproduceva lo stile del boogie-woogie, in alcuni brani come “Pietro Wughi il Ciabattino”, e il rock’n’roll di Bill Haley,2 e negli anni ’60 assistiamo al diffondersi dello stile rhythm’n’blues in molti dei complessi del periodo. Inoltre, Roma è la Hollywood on Tiber, che accoglie molti musicisti e autori delle sonorizzazioni e delle colonne sonore di opere cinematografiche. Proprio negli anni ’50 e ’60 il lavoro di Piero Umiliani è intensamente influenzato dalla matrice jazz così come quello di

1 Jumgal Fever Djset è un collettivo a due attivo dal 2017. Le loro selezioni in vinile di musica funk, soul, jazz e hip hop hanno preso piede nei centri sociali, nei locali e negli skatepark di Roma.

2 Ci si riferisce a “Rock Around the Clock”, riarrangiata come “L’orologio matto”. A questo proposito si rimanda almeno a A. Virgilio Savona, Gli indimenticabili Cetra (Sperling & Kupfer, 1992), e a Maurizio Ternavasio, Il Quartetto Cetra, ovvero, Piccola storia dello spettacolo leggero italiano (Lindau, 2002).

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Amedeo Tommasi, Mario Nascimbene, Carlo Savina, Armando Trovajoli, Piero Piccioni. Si tratta di compositori con una formazione classica e accademica che, dopo aver metabolizzato la sezione ritmica dello swing, si approcciano alla cultura del jazz e del blues.

Per arrivare velocemente agli anni ’70, non si dimentichi, inoltre, che proprio il Quartetto Cetra nel 1971 dedica la canzone “Angela” ad Angela Davis. Interessante inoltre, in questo contesto, il film di Nanni Loy Sistemo l’America e torno del 1974. Nel film un giovanissimo Paolo Villaggio si imbatte nelle vicende delle Pantere Nere per assolvere il compito di reclutare una giovane star del basket negli USA. Un film di chiara ispirazione, quello di Loy, che vede anche il coinvolgimento forse non casuale di Villaggio, legato a simpatie per la sinistra extra-parlamentare di quegli anni.

Ma allora la continuità è trovata? La soluzione è già nei solchi delle simpatie per la sinistra extra-parlamentare per le Pantere Nere? Niente affatto. Il matrimonio sembra breve negli anni ‘70.

La diffusione della musica funk, disco e a tratti soul (la parte più borghese della musica nera) trova terreno fertile nelle discoteche romane ma non di certo nei corridoi delle sezioni della sinistra radicale italiana. Quella musica è molto lontana dalla sinistra, legata al suono del progressive rock e della musica dei cantautori. Da un lato, discoteca e selezioni musicali ritmiche che stanno accogliendo i suoni provenienti dall’America e, dall’altro lato, le sezioni politiche della sinistra.

Come vediamo, l’accoglienza in determinati luoghi decreta una frattura che nel contesto italiano diviene subito politica. Non si tratta di luoghi neutrali, si tratta di spazi attraversati da una società densa di prospettive politiche ben radicate. A contatto con l’ambiente della discoteca, in questa fase la musica afro-americana si accosta agli ambienti della destra. Nelle discoteche dei quartieri della borghesia romana, vicini alle idee dell’estrema destra eversiva negli anni ‘70 si possono ascoltare i ritmi del funk e della disco in arrivo dagli Stati Uniti.

Attenzione: ciò che arriva alle orecchie di questi – inconsapevoli – giovani borghesi romani non è una trasmissione musicale superficiale. Proprio a Roma è presente una circolazione di dischi funk poco accomodante e caratterizzata da una ricerca raffinata. Roma si dimostra ricettiva verso certi suoni. Il DJ però per sua natura necessita di un determinato spazio e la società italiana non ha ancora prodotto gli ambienti di fruizione musicale complessi che conoscerà negli anni ‘90. Per ora, discoteca e DJ da un lato passano musica black, dall’altro i compagni delle sezioni seguono il progressive e il cantautorato. La matrice afro-americana (nonché le sue conseguenze e le sue battaglie che stanno attraversando gli USA) sono in una paradossale situazione capovolta.3

Nel frattempo, inoltre, sono proprio i compositori della musica per il cinema e la televisione a produrre musica che potremmo chiamare senza dubbio funk: i già citati Umiliani, Piccioni, Trovajoli Tommasi sono alle prese con la riproduzione del funk filtrato dai film americani degli anni

‘70 (si pensi, a titolo di esempio, a Shaft di G. Parks). Insomma, per una pura non-intenzionalità certe sonorità funk sono comunque presenti a Roma e la loro diffusione rappresenta un secondo canale, per la nostra ricognizione, rispetto alla discoteca, ovvero il cinema e la televisione. Su queste tracce possiamo osservare le note della musica “black” uscire dagli schermi televisivi.

La fine degli anni ‘70 è caratterizzata, negli USA, dalla diffusione della breakdance e della musica rap. Sono gli anni di “The Message” di Grandmaster Flash e alcuni canali televisivi – sono ormai gli anni del colore – trasmettono immagini e suoni della spettacolare America del momento.

Nel 1979, presso il canale Odeon, va in onda Tutto quanto fa spettacolo in cui si possono osservare i

3 Chiaramente si tratta di una ricostruzione schematica e funzionale alla comprensione del concetto per il lettore. Non si trascuri che nel fin dal 1969 era attivo il Collettivo CR di Torino, forse il primo collettivo della sinistra radicale a produrre degli studi sulle Black Panthers. Si segnala, inoltre, un importante contributo, di stampo marxista, pubblicato nel 1971:Alberto Martinelli e Alessandro Cavalli, a c. di, Il Black Panther Party (Torino: Einaudi, 1971).

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ballerini di breakdance. Proprio questa forma di danza diventa un veicolo interessante per suoni – anche – afro-americani. Nel 1983, a soli quattro anni di distanza, si registrano dei saggi di questo ballo, come allo stadio Olimpico a cura della palestra di Giacomo Molinari che vede la presenza di un giovanissimo Crash Kid, solo in seguito noto come principale esponente del breaking.4 Intanto, dalla televisione filtrano mosse e ritmi di quello stesso scenario: nel 1982 Rai 2 manda in onda Jeffrey Daniel degli Shalamar e nel 1983 il programma tv L’Orecchiocchio dà spazio alla crew di breakdance Magnificent Force, che proprio l’autore televisivo Massimiliano Verni ha conosciuto a New York.

Non solo: Gianni Minà dà spazio agli stessi Magnificent presso il teatro Tenda Mancini nel 1984.

Perché questo aspetto è interessante per noi? Perché ci permette di osservare come questo canale di trasmissione consenta di ricevere certe sonorità, stili e ritmi alle generazioni che, da lì a breve, daranno vita alla scena hip hop romana. Non si trascuri, infatti, che proprio in questi anni escono il documentario Wild Style (C. Ahearn, 1983), il film Beat Street (S. Lathan, 1984), Afrika Bambaataa compie un tour mondiale e anche a Roma viene accolta la mostra di Fab 5 Freddy presso la Galleria La Medusa.5

Questo passaggio è importante per la nostra osservazione perché la comparsa, in questa forma ancora disarticolata, dell’hip hop sembra rappresentare il primo elemento che permette di separare la disco e il funk dalle discoteche degli anni ‘70 e da quel contesto sociale di frequentazione. Attenzione dunque: il primo rap arriva in Italia sulle note di “Rapper’s Delight” della Sugar Hill Gang, pezzo che utilizza il noto brano disco degli Chic, “Good Times”. A un primo ascolto questo brano è una semplice versione modificata di un brano disco, dunque un pezzo facilmente riconducibile all’ambiente della discoteca di cui sopra. Ma questa presenza estranea, il rap, è importante per almeno due punti di osservazione: da un lato la discoteca, dall’altro la strada come luogo di aggregazione non ancora codificato e strutturato.

Vediamo il primo aspetto. Si è già accennato al fatto che la diffusione della disco e del funk presso le discoteche romane abbia coniugato l’esigenza dell’intrattenimento con un vero e proprio interesse da parte dei DJ romani verso determinati suoni. Figure interessanti in questo senso sono i fratelli Piero e Paolo Micione e Marco Trani. Quest’ultimo è di notevole attrattiva per noi non solo per la sua figura ma anche per il suo ruolo di riferimento per Ice One, noto DJ romano già negli anni

’80. La strada illustrata dai DJ romani al più giovane Ice One gli consente infatti di collegarsi al ballo della breakdance e poi allo stile dei graffiti. Si badi che a questa altezza cronologica la consapevolezza del legame fra questi stili non è però presente in Italia (ed è scarsamente codificata persino negli USA). Proprio l’interesse di Ice One, però, fa di lui un precoce precorritore di questa strada, al punto di divenire una delle vere e proprie fonti per i suoni dell’hip hop. Questo aspetto, anche a parere dei testimoni dell’epoca, va interpretato in senso forte: questa figura pare aver rappresentato il tramite reale per certe sonorità, dando la possibilità concreta ai nuovi arrivati di mettere le mani su determinati strumenti e su certe informazioni provenienti da questa cultura statunitense.

Da un lato, dunque, presenza in canali televisivi, dall’altro figure proprie dell’ambiente della discoteca come avamposti di una certa sonorità afro-americana negli anni ’80. La versione della disco apparsa nel ‘79 con l’accompagnamento del rap ne ha fatto qualcosa di diverso all’orecchio

4 Napal Ben Matundu, Crash Kid: A Hip Hop Legacy (Drago Arts & Communication, 2019), p. 20.

5 La quale si svolge, in effetti, nel 1979. A questo proposito si rimanda a Francesco Carpenè, «“The Fabulous Five” e

“Arte Di Frontiera”: l’ingresso del writing nelle gallerie d’arte» (Tesi di laurea triennale, Venezia, Università IUAV di Venezia, 2013),

https://www.academia.edu/10280750/_The_Fabulous_Five_e_Arte_di_Frontiera_lingresso_del_writing_nelle_gallerie_

darte.

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dell’ascoltatore distratto, ma non basta: i suoni della breakdance portano con sé la musica electro.

Suoni di questo tipo impongono la presenza di una strumentazione imponente per essere riprodotti:

in questa fase di produzione analogica la presenza di uno studio e di un produttore sono necessarie.

Le figure che direttamente mantengono contatti consolidati con l’ambiente d’oltreoceano sono, fra le altre, Piero Colasanti sul fronte della discografia e dell’editoria, e sul piano dell’importazione il negozio Goody Music, filiale romana della catena statunitense Sam Goody.6

Quest’ultimo aspetto ci consente di osservare l’ambiente urbano. Ammettiamo che il lettore proceda in un’ipotetica passeggiata romana da Piazzale Flaminio, a pochi metri dal suddetto Goody Music. La sua passeggiata proseguirà in Via del Corso, sede di un secondo luogo di interesse: il negozio di abbigliamento Babilonia. In questi anni, l’intuizione dei proprietari conduce alla presenza di una consolle in sede, ai cui piatti troviamo spesso proprio Ice One. La posizione centrale del negozio lo rende una meta accessibile per giovani interessati, ammettiamolo, ai servizi televisivi cui abbiamo fatto cenno. In questo stesso luogo potrà ritrovarne l’immaginario, riprodotto sia negli stili di abbigliamento sia nei suoni, vista la presenza sicura di un DJ. Si prosegua ora il nostro itinerario, in direzione di Piazza Venezia, dove incontreremo alla nostra sinistra la Galleria Colonna (oggi Galleria Alberto Sordi). Questo luogo è sede, negli anni ‘80 e ’90, per la propria caratteristica pavimentazione, dei tentativi (riusciti) di riprodurre i passi della breakdance. Sono anni di aggregazione anche vivace, tanto da far parlare di sé diverse testate interessate a documentare un fenomeno di costume giovanile. Il nostro itinerario presso il centro romano si sta facendo a questo punto denso. Le persone che il nostro lettore incontrerà sono di età piuttosto giovane. Vediamoli da vicino.

In questa fase storica si registra già una presenza consapevole intorno alla breakdance, che sta costruendo sue connessioni con le scene di altre città italiane e non solo. Accanto ai ragazzi e alle ragazze romane, osserviamo arrivare una generazione costituita dai figli dei diplomatici della Repubblica Democratica del Congo. Questa componente, peraltro coetanea dei suoi omologhi romani, è un tramite importante per l’osservazione e la trasmissione di alcuni codici specifici della cultura, ormai riconosciuta come uniforme, dell’hip hop. Sul piano della ricezione di questa forma ormai più consapevole di musica, arte e ballo è necessario guardare ancora alle strutture e agli ambienti e alla loro ricezione. Da un lato, l’ambiente propriamente musicale, dall’altro quello – che abbiamo momentaneamente perso di vista – del contesto politico. Vediamo quest’ultimo.

Siamo di fronte alle prime occupazioni da parte della sinistra, in particolare il Forte Prenestino.

È qui che si svolge un importante capitolo di transizione. Come è noto, larga parte della scena hip hop e degli anni ‘90 si svolgerà anche in questi luoghi. Un aspetto interessante è che sarà proprio il tentativo delle nuove generazioni, o di una parte di esse, di portare in questi luoghi l’hip hop a risanare la frattura con questa parte politica. L’ingresso delle sottoculture, provenienti dall'Inghilterra e dagli USA, non trova immediatamente un terreno confortevole negli spazi occupati. Il percorso di accettazione da parte dell’Autonomia Operaia di queste sottoculture è lungo e tortuoso. Abbiamo visto come il rap della fine degli anni ‘70 apparisse una variante di una musica avversa – la disco, appunto – agli ambienti della sinistra radicale. È in questa fessura che passa il lavoro fatto presso Radio Onda Rossa da alcune persone che, preso contatto con la scena hip hop degli anni ’80, vogliono renderlo un veicolo per concetti importanti e urgenti. Se il linguaggio del writing viene, ad esempio, interpretato in questo senso dalla crew – tutta al femminile – 00199, il rap diviene importante per Militant A e Castro X, esponenti dei futuri Onda Rossa Posse e poi, rispettivamente, di Assalti

6 Il negozio diverrà in seguito autonomo e indipendente dalla catena americana.

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Frontali e AK47. Il fenomeno delle posse, troppo noto per essere ripercorso qui,7 è certamente il tramite per l’assimilazione di certi linguaggi e la trasformazione di essi in un prodotto locale. Sono gli anni in cui il meccanismo descritto sopra si rovescia parzialmente: non sono più gli spettatori a vedere sugli schermi alcuni frammenti di culture afro-americane ma sono i media a riportare il fenomeno che prende piede fra le generazioni più giovani. Non solo i media però: il fenomeno è interessante e attira l’attenzione di studi accademici quali quello del filosofo e sociologo George Lapassade,8 il quale arriva alla Sapienza occupata con un seguito di ballerini e rapper da Parigi. Nel 1989, inoltre, compare la prima tesi – divenuta un libro in seguito – di Francesco Adinolfi, allievo di Alessandro Portelli.9

Le sorti dell’hip hop degli anni ‘90 sono assai variegate e sono state ampiamente documentate e raccontate: è tempo per noi di lasciare infatti questo versante per proseguire il nostro sguardo sulla musica black – ammesso che ve ne fosse una – a Roma in questo periodo.

Abbiamo visto come il funk, la disco, avessero trovato diffusione nelle discoteche degli anni

‘70 e ‘80, ma non basta. Negli anni ‘80 i codici musicali del soul, del funk, del jazz venivano infatti filtrati da un altro canale, quello tutto inglese del modism. Nato negli anni ’60 in Inghilterra, la cultura mod conosce un revival negli anni ’80 in Inghilterra. Anche queste pagine sono state ampiamente documentate e studiate, ma proprio dallo scavare di quegli anni emergono due protagonisti assoluti:

Eddie Piller e il suo socio Gilles Peterson. Sono loro infatti a dare vita, nel 1987 all’etichetta discografica Acid Jazz. Cosa succede a Roma in quegli anni? In parte lo sappiamo, lo abbiamo appena visto, ma attenzione, si faccia una variazione: invece di imbatterci nella Galleria Colonna con i breakers, viriamo la nostra passeggiata in quel di Piazza Capranica, vicino al Pantheon. Nei primi anni ’80 questo è un luogo di aggregazione della scena mod romana, giovane ma in grado, di lì a pochi anni, di trovare i propri omologhi in altri paesi e abbastanza in forze da formare band di buon calibro musicale. In questo caso la matrice di musica afro-americana viene dai progetti di Paul Weller, prima i Jam – ancora molto legati all’attitudine punk-rock – e poi soprattutto i suoi Style Council.

Nel 1984 nascono, proprio da un concerto degli Style Council, gli Underground Arrows e i Pub. Lo scenario che queste band trovano davanti è quello di una Roma in cui gli stili si mischiano, nei locali e negli spazi occupati già ricordati, in forme impolitiche e spontanee. Forse proprio questo mescolamento consente, in forme almeno analoghe al fermento londinese di Piller e Peterson, di dare vita a gruppi nuovi: i Downtowners, gruppo di reggae/ska original ma anche ai Mobsters di Roberto Corsi (futuro direttore artistico del Circolo degli Artisti nel momento del suo apice, alla metà degli anni ’90).

Siamo ormai di nuovo alla fine degli anni ’80: in questa fase di grande fermento arrivano proprio da Londra gli Incognito, il James Taylor Quartet e, si badi bene, i Jamiroquai. In questa fase, l’attenzione discografica si alza, anche grazie al progetto Jamiroquai, “gestito” da Eddie Piller, al punto che BMG Ricordi entra nella partita. Roma non è da meno rispetto ai londinesi: la cassetta dei Beating System e il disco dei Babyra Soul si distinguono dagli altri. Vediamo i primi: in questa fase si ricompongono il quadro dell’esperienza di molti dei ragazzi arrivati a Roma dai paesi africani.

Consideriamo il caso di Kevin Etienne – cugino di Valerie Etienne – rapper in forza ai Beating

7 Rimandiamo almeno al documentario di Paolo Fazzini, All’assalto. Le radici del rap in italiano (Home Movies Doc, 2015).

8 Del quale si rimanda almeno a Georges Lapassade e Philippe Rousselot, RAP. Il furore del dire (Bepress, 2009).

9 Francesco Adinolfi, Suoni dal ghetto: la musica rap dalla strada alle hit-parade (Costa & Nolan, 1989). Per un’ulteriore lettura circa la scena rap romana si veda anche Vincenzo Patanè Garsia, Hip hop. Sangue e oro. Vent’anni di cultura rap a Roma (Arcana, 2002).

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System. Questa band più delle altre rappresenta bene quello che sarà codificato dopo poco, grazie al nome dell’etichetta Acid Jazz.10 Proprio da questa humus emergeranno poco dopo i più maturi Gazzara. Dall’altro lato i Babyra Soul, della cantante Barbara Ottaviani, vengono prodotti dal DJ romano Giancarlino. Quest’ultimo è una figura chiave per comprendere come ormai, alla metà degli anni ’90, le sonorità acid jazz e una totale consapevolezza e destrezza nella selezione di un certo suono fossero presenti nei locali della capitale.11

In questo contesto, sebbene a Roma il momento sia altamente fecondo, non si arriva ad alcuna

“svolta” verso il mainstream, nonostante la discesa in campo della Ricordi e soprattutto nonostante il fermento culturale presente nella capitale. In questa fase, alla metà dei 90, l’acid jazz diviene qualcosa di ben distinto, anche per volere delle etichette, e il connubio con il rap tende all’allentarsi fino all’allontanamento. Alcune tracce di una versione sistematizzata – seppur artisticamente meritoria – adattata al mercato nazionale, di acid jazz si possono rintracciare nel lavoro di Marina Rei. In questa fase l’hip hop raggiunge i suoi massimi livelli e proprio la medesima etichetta, la Irma Records di Bologna ha nel proprio catalogo esponenti delle varie voci che avevano caratterizzato il fermento della prima fase degli anni ’90.

Con la fine degli anni ’90, invece, si conclude l’interesse di questo breve intervento. È tempo di dare una risposta al nostro titolo: è possibile parlare di una black music a Roma fra gli anni 70 e gli anni 90? E perché queste date? Gli anni a cavallo fra i ‘70 e i ‘90 sono densi di cambiamento, possiedono il fermento degli anni che storicamente segnano un passaggio. Come vediamo anche da queste poche righe, ritroviamo tante voci a caratterizzare questa fase. L’osservazione dello stesso fenomeno, degli stessi anni, produce però due effetti diversi negli occhi di chi guarda. Negli anni di cui abbiamo parlato i testimoni non trattano certo nei termini di una “diffusione della black music”:

parlano piuttosto di un’aggregazione spontanea, della quale si ricorda il fermento nato a cavallo fra la fine degli anni ’80 e la prima metà degli anni ’90. Chi nel 2020 osserva questo micro 1968 desidera però codificarlo, interrogarlo e sistematizzarlo, senza alcun intento di omologarlo o chiuderlo nella forma di un museo di antiquariato. Piuttosto, si tratta del desiderio, da un lato, di preservare quanto accaduto e, proprio in questo tentativo, di cercare una bussola per chi vuole ripercorrere i passi delle generazioni precedenti, maestre di nessuno ma inconsapevolmente generose con tutti.

10 Non mancavano, d’altro canto, esempi noti da oltreoceano: si pensi solo ai Roots o alla fortunata serie di Guru, Jazz Matazz.

11 A questo proposito rimandiamo almeno a Francesco Gazzara, Storia dell’acid jazz. I gruppi, gli ambienti e gli stili del movimento che ha cambiato l’immaginario musicale del nostro tempo (Meridiano Zero, 2017).

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Bibliografia

Adinolfi, Francesco. Suoni dal ghetto: la musica rap dalla strada alle hit-parade. Costa & Nolan, 1989.

Ben Matundu, Napal. Crash Kid: A Hip Hop Legacy. Drago Arts & Communication, 2019.

Carpenè, Francesco. «“The Fabulous Five” e “Arte Di Frontiera”: l’ingresso del writing nelle gallerie d’arte». Tesi di laurea triennale, Università IUAV di Venezia, 2013.

https://www.academia.edu/10280750/_The_Fabulous_Five_e_Arte_di_Frontiera_lingresso_

del_writing_nelle_gallerie_darte.

Fazzini, Paolo. All’assalto. Le radici del rap in italiano. Home Movies Doc, 2015.

Garsia, Vincenzo Patanè. Hip hop. Sangue e oro. Vent’anni di cultura rap a Roma. Arcana, 2002.

Gazzara, Francesco. Storia dell’acid jazz. I gruppi, gli ambienti e gli stili del movimento che ha cambiato l’immaginario musicale del nostro tempo. Meridiano Zero, 2017.

Lapassade, Georges, e Philippe Rousselot. RAP. Il furore del dire. Bepress, 2009.

Martinelli, Alberto, e Alessandro Cavalli, a c. di. Il Black Panther Party. Torino: Einaudi, 1971.

Savona, A. Virgilio. Gli indimenticabili Cetra. Sperling & Kupfer, 1992.

Ternavasio, Maurizio. Il Quartetto Cetra, ovvero, Piccola storia dello spettacolo leggero italiano.

Lindau, 2002.

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