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Il codice del consumo e la tutela del consumatore

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Academic year: 2021

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Capitolo I

Il codice del consumo e la tutela del consumatore

1.1 Le origini storiche del movimento consumeristico

Il codice del consumo rappresenta l’ultima tappa della lunga e difficile evoluzione attraverso la quale il diritto dei consumatori è faticosamente emerso nell’ordinamento italiano: per comprendere appieno il valore giuridico e l’importanza culturale appare indispensabile rivisitare il lungo ed accidentato percorso che dalla nascita del consumerismo ha condotto al definitivo riconoscimento del consumatore come interlocutore obbligato delle imprese e alla rivendicazione, in suo favore, di tutta una serie di diritti, da quello dell’informazione fino a quello di partecipazione ai processi decisionali del consumo nel tentativo di eliminare il forte squilibrio di potere che caratterizza la posizione del professionista nel mercato.

La cronistoria della tutela del consumatore si snoda secondo un processo al tempo stesso economico, sociologico e giuridico che si può scandire in fasi.

La prima fase si colloca in Italia tra l’inizio degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta del Novecento, dove assistiamo all’individuazione di diritti in capo agli individui considerati come consumatori e non più come acquirenti, lavoratori.

La seconda fase, collocata tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni

Novanta, ha costituito il naturale sviluppo di questo indirizzo: l’intervento,

legislativo e giurisprudenziale, nei singoli settori in cui si può articolare il

rapporto di consumo. Si è quindi considerato il segmento della pubblicità,

quello del credito, quello propriamente negoziale di vendita del prodotto

o del servizio, quello del risarcimento in casi di danni derivanti da vizzi o

difetti di prodotti e servizi.

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2 La terza fase, che si colloca nell’ultimo decennio, in cui si è accreditato la status di consumatore e si sono introdotti i primi provvedimenti di tutela, si presenta più complessa.

Oggi, parlare di consumatore e tecniche di protezione dei consumatori implica molto di più.

Non solo il vocabolo “consumatore” non è più ignorato dai testi di legge, ma esso è associato a quello di “risparmiatore”.

L’ultimo periodo è contrassegnato da uno straordinario fervore legislativo e da un intenso programma di interventi, sia in ambito comunitario, sia, soprattutto, nel nostro paese.

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1.2 Il codice del consumo: reductio ad unuum della disciplina consumeristica

Al momento della sua entrata in vigore, il codice del consumo è stato salutato come una delle grandi novità in materia di tutela del consumatore.

Nonostante sia in gran parte costituito dalla semplice trasposizione delle norme previgenti riproposte, nella maggior parte dei casi, nella loro originaria formulazione e modificate soltanto per esigenze di coordinamento o di aggiornamento, la scelta operata dal legislatore, con il conferimento della delega al Governo nel 2003 per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di tutela dei consumatori, ha rappresentato un’opzione legislativa di indubbio pregio politico che assegna al nostro paese senz’altro il merito della reductio ad unuum della ipertrofica e disorganica disciplina in materia di protezione dei consumatori.

Il codice del consumo si inserisce, dunque, nel fenomeno della codificazione di settore e prende spunto da analoghe compilazioni apparse in altri Stati dell’Unione europea, come ad esempio il Code de la Consommation francese, la legge generale spagnola sulla difesa dei consumatori e degli utenti del 1984 ed il progetto belga.

1 G. ALPA, Introduzione al diritto dei consumatori I ed. Editori Laterza, 2006 pp.17-24

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3 In altri paesi europei la tutela dei consumatori è rimessa alla legislazione speciale o inserita all’interno degli impianti codicistici per le materie di rilevanza civilistica, con la conseguenza che le disposizioni relative ai processi di consumo sono in gran parte frammentarie e scarsamente coordinate tra loro.

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In Italia, nonostante il dibattito interno sull’opportunità o meno di inserire la disciplina del consumo nel codice civile, il legislatore ha preferito la strada della forma del codice di settore, inaugurando una stagione di “neo-codificazioni settoriali”, introducendo nell’ordinamento giuridico una nuova fonte di produzione legislativa.

Il codice del consumo rappresenta uno dei provvedimenti legislativi della nuova fase di codificazione relativa alla semplificazione ed al riordino normativo successiva a quella segnata dai cosiddetti testi unici.

La dottrina ha messo in rilievo come i Codici di settore, com’è appunto il codice del consumo, si differenzia dai testi unici per diversi motivi.

In primo luogo, rispetto ai testi unici, non costituiscono una semplice compilazione, ma attraverso la legge delega conferita al Governo, oltre al tradizionale potere di abrogare disposizioni che si considerano oramai obsolete, anche il potere di modificare alcuni aspetti della materia, curandone, in particolare, l’aggiornamento e l’integrazione con altri provvedimenti normativi che, nel frattempo, erano intervenuti a modificare l’assetto di riferimento.

Un’altra differenza tra i codici di settore e i testi unici è costituita dal fatto che mentre questi ultimi vengono compilati in sede governativa e poi approvati direttamente senza ulteriori consultazioni e controlli, i primi seguono un iter procedimentale che prevede sia la consultazione delle associazioni rappresentative dei soggetti titolari dei diritti e degli interessi sui quali va ad incedere la redazione del codice, e sia un controllo da parte degli organi del potere pubblico, nel nostro caso il Consiglio di Stato e

2 G. CASSANO M.E. DI GIANDOMENICO Il diritto dei consumatori, Tomo I Cedam, 2010 “pp. 50-53”

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4 l’Autorità di Garanzia della Concorrenza e del Mercato, che possono formulare i loro pareri o suggerimenti al testo che viene loro sottoposto.

In ultimo si è ritenuto che mentre il testo unico si colloca sul versante delle consolidazioni, per il fatto stesso di rispondere ad esigenze pratiche di conoscenza e di riordino della formazione nella materia interessata, il codice di settore si caratterizza per un intervento politico riformatore e comporta un più alto grado di innovatività delle sue norme. Pertanto, i codici di settore, rispetto ai testi unici, hanno o dovrebbero avere un grado di livello qualitativo dal punto di vista della normazione della redazione delle disposizioni superiore, implicando modifiche delle regole, certamente più incisive e nello stesso tempo con una finalità sistematica.

Come si è già avuto modo di osservare, il codice del consumo si inserisce nell’esperienza della codificazione di settore.

Senza dubbio, pertanto, è fonte di diritto interno, essendo intervenuto ad armonizzare e riordinare entro il territorio nazionale il coacervo di disposizioni che nel corso degli anni hanno progressivamente attuato le direttive comunitarie in materia di consumo.

Ma esso si snoda in un’ottica che non è propriamente quella della statualizzazione delle fonti del diritto, come il termine codice farebbe presagire, riconoscendo innanzi tutto il primato del diritto comunitario, ex art. 1 del codice del consumo, e ponendosi come strumento di tutela minimale, ex art 143 del codice del consumo, con conseguente operatività di altre fonti comunitarie.

In questo senso il codice di consumo spezza in qualche modo il nesso tradizionalmente intercorso tra geografia e codici

3

: infatti, la tecnica del codice di settore, laddove è coordinamento di discipline comunitarie, amplia, sotto il profilo sostanziale, la geografia del codice al di là dei confini nazionali.

Tale codificazione di settore, costituisce un ponte tra il diritto nazionale e quello comunitario, come espresso dall’art. 1 del codice del consumo che chiarisce come la finalità di riordino e armonizzazione, funzionale ad

3 G. CASSANO – M. E. DI GIANDOMENICO, Op. Cit., Cedam, 2010, pag. 62

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5 assicurare un elevato livello di tutela dei consumatori, avviene nel rispetto della Costituzione ed in conformità ai principi contenuti nei tratti istitutivi delle Comunità europee.

1.3 Il consumatore secondo il codice del consumo e la giurisprudenza costituzionale

Il significato da attribuire alla nozione di consumatore è una problematica che da tempo forma oggetto di un ampio dibattito sia dottrinale che giurisprudenziale ed è una questione che manifesta tutta la sua importanza tenuto conto che si tratta di definire quali sono le caratteristiche fondamentali del soggetto che risulta essere destinatario di molteplici interventi legislativi, di matrice comunitaria, volti ad introdurre, in differenti settori, una specifica disciplina di protezione in suo favore.

L’art. 3, comma 1 lettera a), del codice del consumo, che riproduce in modo specifico il contenuto dell’art. 1469-bis, comma 2, c. c., stabilisce che per consumatore o utente si intende “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”.

L’attenzione ricade sulla attribuzione della qualità di consumatore soltanto alla persona fisica continuando, così, a non trovare seguito il prevalente orientamento della dottrina che ne propone ,invece, un’applicazione più ampia, ovvero estesa agli enti ed alle persone giuridiche per le ipotesi in cui questi soggetti dovessero venire a trovarsi in una situazione di debolezza nei confronti di un professionista.

La definizione di consumatore di cui l’art. 3 del codice del consumo non è, tuttavia, l’unica offerta dal codice.

Così, nell’ambito della disciplina delle informazioni ai consumatori l’art 5

del codice del consumo stabilisce che per consumatore si intende “ogni

persona fisica alla quale sono dirette le informazioni commerciali” ed in

tema di pratiche commerciali, pubblicità e altre comunicazioni

commerciali l’art. 18 del codice del consumo si riferisce a “qualsiasi

persona fisica che nelle pratiche commerciali oggetto del presente titolo,

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6 agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale”.

Ritornando alla definizione di consumatore formulata dall’ art. 3 del codice del consumo, la scelta del legislatore di limitare l’ambito di operatività della normativa di protezione alle sole persone fisiche, escludendo gli enti e le persone giuridiche, è stata giudicata dalla Corte costituzionale non irragionevole con l’ordinanza del 22 novembre 2002, n.

469: la giurisprudenza ha infatti sbarrato la strada alla possibilità di estendere la nozione di consumatore al di là della persona fisica.

4

La corte aggiunge che di particolare rilievo ai fine dell’armonizzazione delle legislazioni è anzitutto il dato che nella normativa in numerosi paesi membri dell’Unione europea la definizione di consumatore è ristretta alle sole persone fisiche che agiscono per scopi non professionali.

La preferenza nell’accordare particolare protezione e coloro che agiscono in modo occasionale, saltuario e non professionale si dimostra non irragionevole allorché si consideri che la finalità della norma è proprio quella di tutelare i soggetti che sono presumibilmente privi della necessaria competenza per negoziare; onde la logica dell’esclusione dalla disciplina in esame di categorie di soggetti, quali quelle dei professionisti, dei piccoli imprenditori, degli artigiani, che proprio per l’attività abitualmente svolta hanno cognizioni idonee per contrattare su un piano di parità

5

.

1.3.1 La nozione di consumatore nella giurisprudenza comunitaria e nazionale

Secondo la Corte di Giustizia la definizione di consumatore deve essere interpretata come riferita esclusivamente alle persone fisiche come evidenziato nella pronuncia del 22 novembre 2001:

La nozione si “consumatore”, come definita dall’art. 2, lett. b), della direttiva del Consiglio 5 aprile 1993, 93/13/CEE, concernete le clausole

4 M. DONA, Il codice del consumo: regole e significati, G. Giappichelli Editore, 2005, Torino “ p.29”

5 G. CASSANO - M.E DI GIANDOMENICO, op. cit., Cedam, 2010 “ p. 91”

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7 abusive nei contratti stipulati con i consumatori, deve essere interpretata nel senso che si riferisce esclusivamente alle persone fisiche.

Secondo tale impostazione, è da qualificarsi consumatore unicamente la persona fisica che agisce per il soddisfacimento di esigenze di natura personale o familiare.

Viene, dunque, ad essere utilizzato unicamente un parametro oggettivo che tiene conto della natura e delle finalità obiettive dell’atto e dei beni negoziati, senza dare rilievo all’intenzione soggettiva del contraente e ai motivi che lo hanno indotto a stipulare.

La prima volta in cui la Corte di giustizia delle Comunità Europee ha affrontato il tema è stato nel 1991, in relazione all’applicazione della Convenzione di Bruxelles del 1968 avente ad oggetto la deroga alla competenza territoriale del giudice in caso di controversie tra consumatore e professionista.

In seguito, la corte si è pronunciata sulla nozione di consumatore contenuta nell’appena richiamata Convenzione prospettandone un’interpretazione restrittiva.

La nozione di consumatore deve essere interpretata restrittivamente, avendo riguardo al ruolo di tale persona in un contratto determinato, rispetto alla natura ed alle finalità di quest’ultimo.

Soltanto i contratti conclusi al fine di soddisfare esigenze di consumo privato di un individuo rientrano nelle disposizioni ti tutela del consumatore in quanto parte considerata economicamente più debole.

La Corte di Cassazione, seguendo l’impostazione comunitaria, sostiene anch’essa un’interpretazione restrittiva della nozione di consumatore adottando il parametro oggettivo dello scopo dell’atto, secondo quanto precedentemente chiarito.

Per escludere la qualifica di consumatore, la Suprema Corte ritiene

sufficiente la mera sussistenza di un collegamento funzionale tra il

contratto e la professione eventualmente svolta dalla controparte del

professionista.

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8 Deve essere considerato consumatore la persona fisica che, anche se svolge attività imprenditoriale o professionale, conclude un qualche contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di tale attività, mentre deve essere considerato professionista tanto la persona fisica quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che, invece, utilizza il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale. Perché ricorra la figura del professionista non è necessario che il contratto sia posto in essere nell’esercizio dell’attività propria dell’impresa o della professione, essendo sufficiente che venga posto in essere per uno scopo connesso all’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale.

6

Questo orientamento viene ribadito anche in più recenti pronunce:

secondo l’orientamento giurisprudenziale italiano prevalente deve essere considerato consumatore e beneficia della disciplina di cui all’articolo 1469 bis c. c. e segg. (attualmente Decreto Legislativo n. 2006 del 2005, articolo 3 e 33 e segg.) la persona fisiche che, anche se svolge attività imprenditoriale o professionale, conclude un qualche contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di dette attività; mentre deve essere considerato “professionista” tanto la persona fisica quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che invece utilizza il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale e professionale, ricomprendendosi in tale nozione anche atti posti in essere per uno scopo connesso all’esercizio dell’impresa.

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Non solo, in particolare, non riveste la qualità di consumatore, e non può quindi invocare a proprio favore la norma dell’art. 1469 bis c.c. la parte contrattuale che abbia stipulato il contratto per pubblicizzare la propria attività commerciale sulle pagine degli elenchi telefonici dal commissionario.

8

Si discostano, invece dall’interpretazione della Corte di giustizia delle Comunità Europee e dei giudici di legittimità italiani, le corti di merito

6 Cass. civ. , 25.7.01, n. 10127

7 Cass. s. u. , 20 3.08, n 7444

8 Cass. civ. , ord. 5.6.09 n. 13033

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9 che risultano essere più propense ad offrire una interpretazione estensiva della nozione di consumatore.

In particolare, queste ultime sembrano fare propria la tesi, di derivazione transalpina, la quale ritiene che la figura del consumatore si caratterizzi non per gli atti posti in essere, ma piuttosto per la debolezza contrattuale che è insita nel suo agire.

In tal senso, è stato evidenziato come non sempre tutti i soggetti esclusi dalla categoria dei consumatori siano in grado di porsi allo stesso modo di fronte a determinati contratti, in particolar modo per quelli che non sono strettamente attinenti alla professione esercitata, che servono per svolgere la professione. Questi, infatti, pur agendo per scopi professionali e nello svolgimento di un’attività d’impresa, si trovano di frequente, nei confronti della controparte contrattuale, nella stessa situazione di squilibrio economico-informativo che costituisce la ratio della disciplina speciale posta a tutela del consumatore.

1.4 La figura del professionista prevista dall’art. 3 del codice del consumo

Secondo l’ art. 3, comma 1, lett. c), del codice del consumo, che riproduce in modo specifico il contenuto dell’art. 1469-bis, comma 2, c. c ., il professionista è “la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, ovvero un suo intermediario”.

La definizione di professionista risulta speculare rispetto a quella di consumatore, designando la diretta controparte del soggetto destinatario di tutela, inoltre con il d. lgs. del 23 ottobre 2007, n. 221 la nozione di professionista è stata precisata tramite il richiamo alle attività sia commerciali che artigianali.

Il professionista, a differenza del consumatore, può essere sia

imprenditore individuale che collettivo, tra questi ultimi devono

annoverarsi, pertanto, sia le società di capitali che gli altri enti aventi

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10 personalità giuridica, nonché gli enti di fatto, anche no profit, nei limiti dell’attività professionale strumentale eventualmente svolta.

Anche agli enti pubblici può essere ricondotta la qualità di professionista purché svolgano un’attività d’impresa.

Come quella di consumatore, anche la definizione di professionista si accentra sull’ agere: il richiamo alternativo alla natura professionale, commerciale, artigianale o imprenditoriale dell’attività esercitata ha patrocinato l’opinione accolta dalla giurisprudenza di merito, secondo cui l’attività debba essere in ogni caso connotata dalla abitualità, intesa come non occasionalità.

Nella disciplina concernente la tutela del consumatore, ai sensi degli art.

1469-bis ss. c.c. introdotti dalla l. 6 febbraio 1996, n. 52, il termine

“professionista” va inteso nel senso che comprende chiunque non occasionalmente svolga attività di prestazione di servizi e cessione di beni, con una stabile struttura organizzativa, ancorché senza fini di lucro.

9

1.5 Finalità ed oggetto del codice del consumo

L’art 1 del codice del consumatore riprende l’art. 1, legge 30 luglio 1998, n. 281

10

, nella parte in cui si richiama i principi comunitari. La legge del 1998, la cosiddetta “legge quadro dei diritti dei consumatori e degli utenti” è una delle poche disposizioni riprodotte all’interno del codice a non essere recepimento di una direttiva comunitarie.

11

L’art. 1 del Codice del consumo, stabilisce che “nel rispetto della Costituzione ed in conformità ai principi contenuti nei trattati istitutivi delle Comunità europee, nel trattato dell’Unione europea, nella normativa comunitaria con particolare riguardo all’art. 153 del Trattato istitutivo

9 Trib. Palermo, 18.9.00

10Art.1, legge 30 luglio 1998 n. 281, abrogata dal d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, affermava: “In conformità ai principi contenuti nei trattati istitutivi delle Comunità europee e nel trattato sull'Unione europea nonché nella normativa comunitaria derivata, sono riconosciuti e garantiti i diritti e gli interessi individuali e collettivi dei consumatori e degli utenti, ne è promossa la tutela in sede nazionale e locale, anche in forma collettiva e associativa, sono favorite le iniziative rivolte a perseguire tali finalità, anche attraverso la disciplina dei rapporti tra le associazioni dei consumatori e degli utenti e le pubbliche amministrazioni.”

11 M. DONA Op. cit,.G. Giappichelli Editore, Torino, 2005 “p. 24”

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11 della Comunità economica europea, nonché nei trattati internazionali, il presente codice armonizza e riordina le normative concernenti i processi di acquisto e consumo, al fine di assicurare un elevato livello di tutela dei consumatori e degli utenti”.

Da questa disposizione emerge chiaramente che la maggior parte delle norme in materia consumeristica sono entrate a fare parte dell’ordinamento italiano attraverso leggi di attuazione di direttive comunitarie. Per quanto concerne invece la legislazione di derivazione nazionale, solo in via puramente interpretativa, è possibile ricavare del dettato costituzionale spunti positivi su cui basare un sia pur generico regime di protezione costituzionale a tutela dei diritti e degli interessi del consumatore.

Quest’ ultimo, infatti, va incluso tra i destinatari di quei diritti che vengono sanciti all’art. 2 della costituzione: “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo, sia come individuo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiedente l’adempimento dei doveri inderogabili do solidarietà politica, economica e sociale”.

La tutela rivolta dalla norma costituzionale alla persona genericamente considerata si atteggia a strumento di protezione specificatamente destinato al consumatore tutte le volte in cui le prestazioni offerte dal professionista o i beni e servizi immessi sul mercato siano suscettibili di ledere il cosiddetto “nucleo duro” dei diritti intangibili e inviolabili protetti dall’art. 2 della costituzione.

Lo stesso art. 46 della costituzione può leggersi alla luce della tutela del

consumatore e dell’utente in quanto tale norma prevede che “ai fini della

elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze di

produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare,

nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alle gestione delle aziende”.

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Capitolo II

Dal Dovere di far conoscere al dovere di far comprendere: L’evoluzione del principio di trasparenza nei rapporti tra impresa e consumatori

2.1 Tecniche di protezione dei consumatori in ambito contrattuale:

dal controllo sulle modalità di conclusione del contratto al sindacato sull’equilibrio dello scambio.

Un discorso sulle tecniche di protezione dei consumatori in ambito contrattuale si giustifica in quanto, proprio in questo settore, il legislatore comunitario, a partire dalla metà degli anni ottanta, ha introdotto una serie di regole nuove finalizzate alla tutela del consumatore e ignote al diritto dei Codici. Il diritto dei contratti dei consumatori ha anzi rappresentato una sorta di laboratorio di sperimentazione e di ricerca di discipline chiamate a soddisfare le esigenze che l’ordinamento comunitario si proponeva di assolvere.

Il diritto dei consumatori rappresentava del resto il settore più adatto per la ricerca di un compromesso e proprio per questa ragione si prestava a ospitare tentativi diversi di regolamentazione.

Le tecniche di protezione del consumatore, progressivamente sperimentate dal legislatore comunitario, si riducono essenzialmente a due tipologie: la più nota e ricorrente tende a recuperare l’effettività del consenso attraverso istituti nuovi ovvero rivisitazioni più o meno radicali di istituti tradizionali; l’altra consiste in controllo sull’equilibrio dello scambio.

Si tratta di modalità di intervento molto diverse.

La prima mostra ancora fiducia del consenso come tecnica utile a

realizzare contrattazioni equilibrate e quindi come elemento intorno al

quale organizzare il sistema degli scambi.

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13 Storicamente, la prima tecnica di protezione del consumatore che il sistema ha sperimentato con la direttiva 85/577/CEE del 1985 è stato il c.d “diritto di recesso” dai contratti negoziati fuori dai locali commerciali:

al consumatore veniva riconosciuta la possibilità di “recedere” (di pensare, di pentirsi) entro un certo termine dall’avvenuta conclusione del contratto e a prescindere dall’eventuale esecuzione, senza subire conseguenze di ordine negativo; all’imprese veniva fatto carico di informare il consumatore dell’esistenza di questo suo diritto e ogni possibile intesa dispositiva di esso era nulla.

Il nostro sistema nazionale conosceva un sistema di protezione simile in materia di acquisto di prodotti finanziari fuori sede, per i quali era ammessa, entro un breve termine di “sospensione” degli effetti del contratto, la possibilità di revocare la proposta e sciogliersi così dall’impegno.

La “sospensione” degli effetti e la possibilità di revocare una proposta oramai accettata rappresentavano, rimedi di difficile inquadramento nel sistema del contratto disciplinato dal codice civile, che non ammetteva una possibilità di ripensamento (jus poenitendi) successiva al momento della conclusione e si basava anzi sulla regola opposta, dell’irreversibilità del consenso, scandita dalla formula della forza di legge del contratto (art.

1372 c.c.).

La discussione sulla natura del nuovo istituto era inevitabilmente

destinata a non raggiungere soluzioni sicure: il “recesso” del consumatore

non era equiparabile con il “recesso” previsto dal codice, né era

ammissibile ad una possibile revoca della proposta. Si trattava, in altre

parole, di un istituto nuovo, destinato ad operare in base ad un diverso

sistema procedimentale di formazione dell’accordo, non riconducibile agli

schemi ordinari. Si doveva prendere atto, dunque, della radicale

trasformazione del diritto dei contratti, iniziata attraverso l’attività del

legislatore comunitario, limitata al settore del diritto dei consumatori, ma

capace di incidere in radice su aspetti fondamentali del sistema, quali

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14 appunto le regole relative alla conclusione e alla produzione degli effetti del contratto.

Per comprendere le linee del nuovo sistema si doveva muovere dalla constatazione che il nuovo diritto riconosciuto al consumatore, consistendo in una regola diseguale, prevista in favore dell’una e non dell’altra parte del contratto, implicava il superamento del principio della parità formale dei contraenti, centrale nell’impostazione del codice e appena inciso da talune disposizioni, non a caso relative alle condizioni generali del contratto (art. 1341-1342 c.c.).

Il superamento della parità formale si poneva dunque come un momento centrale della disciplina comunitaria ed era chiara la finalità di iniziare ad incidere sulle legislazioni nazionali nel segno di una sempre maggiore considerazione degli aspetti inerenti all’uguaglianza sostanziale.

Parallelamente all’istituto del recesso, hanno trovato progressiva diffusione ulteriori strumenti di protezione operanti questa volta sul contenuto del contratto, che, da una lato, doveva allargarsi a comprendere una serie di informazioni, dall’altro richiedeva comunque di essere espresso in modo chiaro e comprensibile. Ipotesi esemplari, per quanto riguarda sia la necessità di taluni contenuti, sia la c.d.

“trasparenza” delle clausole, si incontrano nella disciplina dei contratti bancari e finanziari nonché, sempre per l’aspetto relativo alla

“trasparenza”, nella disciplina dei contratti dei consumatori in generale.

Rispetto alla fase appena descritta, caratterizzata dal tentativo di incentrare sul recupero dell’effettività e delle pienezza del consenso la tutela del consumatore, un periodo diverso, più incline ad occuparsi direttamente dell’equilibrio della contrattazione, si è aperto con la direttiva 93/13.

Al centro di essa era appunto il principio dell’ “eccessivo squilibrio” dei

diritti e degli obblighi derivanti dal contratto: le clausole capaci di

determinare uno squilibrio di questa natura a carico del consumatore

dovevano ritenersi nulle, rimanendo valido il contratto.

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15 La direttiva chiariva peraltro che la valutazione dell’eccessivo squilibrio non poteva direttamente riguardare l’adeguatezza del corrispettivo e la determinazione dell’oggetto; lo squilibrio doveva in altre parole inerire all’aspetto normativo e non all’aspetto economico.

Ma, a prescindere dalla difficoltà di delineare l’area di squilibrio normativo rispetto a quello economico, porre un problema di sindacato dell’eccessivo squilibrio, sia pure limitatamente al piano normativo, presupponeva non solo il superamento del dogma della parità formale dei contraenti, ma anche l’abbandono dell’idea del puro e semplice ricorso al consenso come fonte ideale di contrattazioni giuste e insindacabili.

All’origine del discorso rimaneva il superamento del dogma della parità formale, ma questa seconda tecnica implicava un’ acquisizione ulteriore, in cui era la stessa idea di economia ad essere posta in discussione: non si trattava solo di ripristinare un consenso effettivo; era il sistema in sé che veniva indicato come capace di produrre eccessivo squilibrio e pertanto bisognoso di correttivi.

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2.2 Norme per la trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari: adozione della legge n. 154 del 1992.

In ambito bancario la trasparenza viene in rilievo con riferimento al fenomeno contrattuale e designa la chiarezza del contenuto del contratto, nonché la completezza delle regole che vanno a formare l’assetto negoziale. L’attenzione verso il tema della trasparenza contrattuale emerge, pertanto nel contesto della riflessione dedicata alla problematica della disparità nell’ambito del rapporto sinallagmatico e della tutela del contraente debole.

Per coglierne il fondamento è necessario muovere dalla premessa su cui si regge la disciplina generale del contratto contenuta nel codice civile, basata sul principio di parità formale e sostanziale tra i contraenti, e sulla piena libertà di ciascuno si essi nel concorrere a determinare il contenuto

12 A . M GAMBINO, Rimedi e tecniche di protezione del consumatore, G.

Giappichelli, “p. 187-218”

(16)

16 del contratto, nonché sul rispetto dei principi di buona fede e correttezza sia in ambito precontrattuale, quanto nella successiva fase contrattuale.

L’osservazione della realtà, tuttavia, dimostra come, nel rapporto tra banca e cliente la parità in senso sostanziale non possa sempre essere realizzata in quanto spesso uno dei due contraenti (la banca), si trova in posizione di forza rispetto alla controparte.

L’altro contraente non è in grado di incidere sul regolamento contrattuale, trovandosi nella situazione di dover semplicemente scegliere tra l’accettazione del contratto ovvero la possibilità di rinunciare al perfezionamento del vincolo contrattuale.

La trasparenza bancaria, intesa come informazione chiara e completa circa il contenuto dei diritti e degli obblighi previsti nel contratto, diretta ad obbligare il contraente forte a fornire l’acquisto al contraente debole della consapevolezza delle conseguenze che derivano dalla stipulazione del contratto, viene considerata, pertanto, quale correttivo diretto ad evitare o mitigare le conseguenze negative cui potenzialmente conducano tali situazioni di disparità sostanziale.

Risulta evidente come l’intervento di natura regolamentare in materia di trasparenza costituisca un compromesso tra dovere di far conoscere e dovere di fare comprendere, attraverso l’individuazione, in capo alle banche, di una serie di oneri diretti a consentire una piena circolazione delle informazioni e una maggiore intelligibilità delle stesse (cd. “oneri di informativa”).

Questo è il ragionamento che ha portato all’adozione della legge n. 154 del 1992, concernente le norme per la trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari, poi confluita nel testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia.

La legge n. 154 del 1992, ha introdotto una disciplina generale dei

contratti bancari e finanziari che prevede una serie di obblighi di

comportamento volti ad assicurare adeguata trasparenza alle condizioni

contrattuali praticate dalle banche e dagli altri intermediari finanziari.

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17 Infatti, per consentire ai terzi contraenti valutazioni e scelte consapevoli, le banche e gli intermediari finanziari rendono noti in modo chiaro al cliente i tassi di interesse, i prezzi e le altre condizioni economiche relative alle operazioni e ai servizi offerti.

Il Testo Unico Bancario è uno dei più importanti strumenti di tutela dell’utente bancario, che spesso è proprio un consumatore. Gli articoli del TUB che tutelano in particolare il contraente c. d “debole” sono quelli contenuti nel Titolo VI, riguardanti la trasparenza delle condizioni contrattuali, che vanno dal 115 al 126

13

.

L’ art. 116 regola l’obbligo di pubblicità.

La norma prevede un obbligo di informazione sulle condizioni economiche dei contratti da attuarsi attraverso la pubblicità delle stesse nei locali aperti al pubblico e quindi rivolta a tutti i potenziali fruitori dei prodotti bancari e finanziari. Sostanzialmente si persegue l’obiettivo di rendere noti al cliente, prima che divengano vincolanti, le clausole del contratto, il piano complessivo dei vantaggi e degli svantaggi, di cui il contratto sarà espressione, in modo da garantire al cliente da eventuali sorprese negoziali.

La pubblicità peraltro non esaurisce i doveri di informazione dell’intermediario.

Alla stessa si affiancano i doveri di informazione che sorgono prima della stipula del contratto, nonché quelli nel corso dello svolgimento del rapporto. La preoccupazione volta ad una completa e compiuta informazione del cliente appare, dunque, presente in ogni fase del rapporto, caratterizzando non solo la fase della pubblicità, ma anche quella negoziale e di attuazione del rapporto stesso.

L’articolo 117, disciplina i contratti relativi alla prestazione dei servizi bancari e finanziari.

I contratti sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnata ai clienti (art. 117, 1°comma ).

13 G. CASSANO - M. E DI GIANDOMENICO, Op. cit., Cedam, 2010, pag. 1040

(18)

18 Il CICR può prevedere che, per motivate ragioni tecniche, particolari contratti possano essere stipulati in altra forma (art.117, 2°comma).

L’inosservanza della forma prescritta comporta la nullità del contratto

14

. Resta però aperta e di difficile soluzione la questione della natura giuridica della forma per i contratti bancarie finanziari

15

.

Per effetto del successivo art. 127, 2° comma, le nullità previste dal Tub, e quindi anche quelle sancite dal comma in esame, possono essere fatte valere solo dal cliente (cd. nullità relativa), mentre per l’art. 1325 c. c la forma costituisce un requisito essenziale del contratto solo quando è a pena di nullità, la quale può essere fatta valere da chiunque ne abbia interesse ed è rilevabile anche d’ufficio dal giudice (cd. nullità assoluta).

Sarebbe perciò difficile spiegare in base alla norma codicistica, che un contratto privo di requisito essenziale conservi validità per una delle parti e che tale grave lacuna non possa essere rilevata di ufficio dal giudice.

Perché l’intento del legislatore non resti lettera morta, è necessario che gli operatori si dotino dei necessari strumenti di compliance, un esempio dei quali anche nella rinnovata concezione di trasparenza, giunge dal mercato dei prodotti bancari e finanziari.

Infatti, è stato osservato, come questo ultimo settore abbia in diverse occasioni rappresentato una sorta di fucina nella quale sono stati forgiati nuovi presidi di tutela del consumatore, i quali, sono stati trasfusi nel più generale ambito dei rapporti interprivatistici.

Diventa opportuno esaminare alcuni recenti interventi di natura regolamentare, tesi a consentire il rispetto del canone della trasparenza

16

.

14 L’articolo in esame disciplina i contratti relativi alla prestazione dei servizi bancarie finanziari.

Pur essendo stato trasfuso in un unico articolo la disciplina in origine contenuta negli art. 3, 4, 5, della l. 154/1992, la norma del Tub risulta più completa rispetto al suo antecedente storico, infatti, l’art. 3 con riferimento alla redazione del contratto ed alla consegna di un esemplare al cliente, non prevedeva alcun tipo di sanzione per l’ipotesi di inosservanza degli obblighi prescritti.

15 A. SPEMA, commento (art.116), in Testo unico bancario commentario, Giuffrè , 2011 “p. 957-963”

16 DE JURE Dal dovere di far conoscere al dovere di far comprendere , in banca borsa e titoli di credito 2011

(19)

19 2.3 La tutela del utente bancario e dell’investitore

Se si eccettua l’ambito del credito al consumo, le misure di tutela del consumatore nel settore dei servizi finanziari si sono affacciate nei programmi di protezione del consumatore elaborati in sede comunitaria solo alcuni anni or sono.

Considerando che l’ambito del credito al consumo è assai circoscritto, rispetto all’universo dei rapporti che il consumatore istituisce con le imprese che svolgono la loro attività nei mercati finanziari, le banche, le imprese di investimento, e considerando che di fronte agli operatori il consumatore è in una posizione di sudditanza psicologica e di conclamata inferiorità sia dal punto di vista della competenza tecnica sia dal punto di vista delle informazioni acquisibili, dobbiamo porci l’interrogativo sulle ragioni del ritardo

17

.

Le difficoltà dell’intervento sono dovute ad una molteplicità di ragioni.

Tra le molte si possono indicare:

- il substrato giuridico; nella gran parte dei sistemi giuridici propri dei paesi aderenti alla Unione gli interessi dei consumatori nei settori in esame sono considerati marginali, o perché la normativa è contenuta in codici di commercio o in leggi speciali che nascono con finalità diverse rispetto a quella primaria di tutela del consumatore;

-il fattore tecnologico; i servizi finanziari oramai richiedono, per la loro formulazione, la creazione, la distribuzione, i contatti con il consumatore, l’impiego di tecnologie sofisticate, che rivoluzionano i metodi tradizionali, anche nel segmento finale del rapporto istituito con il consumatore.

Soltanto con l’introduzione di alcuni capisaldi della tutela degli investitori, come il Testo Unico della finanza (d. lgs. n. 58/1998), i Regolamenti della Consob, la MIFID, ossia alla Direttiva sui mercati degli strumenti finanziari, avremo una prima reale strategia di difesa del investitore.

Importantissimo strumento di tutela processuale degli investitori è l’art.

23, comma 6, TUF, secondo cui “nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nella svolgimento dei servizi di investimento e di quelli

17 G.ALPA, Op. Cit., Editori Laterza, 2006,” p. 203”

(20)

20 accessori, spetta ai soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta”.

Si realizza un’inversione dell’onere della prova e si sovverte la regola generale per cui è l’attore a dover provare il fatto costitutivo del diritto che fa valere, mentre è il convenuto a dover provare i fatti che fondano le sue eccezioni.

In ambito delle controversie in materia finanziaria, spetta all’intermediario convenuto provare ciò che dovrebbe essere provato della parte attrice.

Il legislatore del TUF ha inteso ritenere in via presuntiva che la condotta dell’intermediario, citato in giudizio dal cliente danneggiato, non sia stata conforme al canone di diligenza richiesto dal tipo di attività esercitata. In questo modo ha eliminato, da un lato, la necessità per il cliente di provare l’assenza di diligenza in capo all’intermediario e, dall’altro ha gravato l’intermediario dell’onere di provare il contrario, ossia di aver agito usando la specifica diligenza richiesta. In sostanza il legislatore del TUF ha voluto rendere più agevole il diritto del cliente di ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza di cattive gestioni dei propri risparmi.

Si presume in sostanza che una parte, l’odierna attrice, sia debole e quindi meritevole di un certo tipo di tutela sul piano processuale ed un’altra, la Banca convenuta, un soggetto specializzato e quindi consapevole dei rischi dell’attività che svolge, sia in una posizione di vantaggio.

Il concetto di diligenza, ivi espresso, non è riconducibile a quello sancito dall’art 1710 c.c. in tema di mandato, o, meglio, quest’ ultimo concetto non pare più idoneo a qualificare con l’esattezza dell’adempimento in esame. L’intermediario, ottenuto un quadro informativo completo da parte del cliente, deve orientare le sue scelte, discostandosi, se necessario, dalle disposizioni ricevute, qualora l’operazione si presenti eccessivamente rischiosa o impegni il cliente e il suo patrimonio.

Il concetto di diligenza in esame consiste, pertanto, nella conoscenza e

nel rispetto sul piano esecutivo delle regole di tipo tecnico, che

disciplinano lo svolgimento dell’attività di investimento.

(21)

21 È la diligenza professionale che comporta il rispetto del patrimonio di esperienze e di competenze tecniche tipico del settore di attività considerato: la peritia artis.

La ricostruzione dello standard di diligenza professionale va ricondotto esclusivamente alle regole tecniche che presiedono i servizi di investimento. Esse consistono nel dovere degli intermediari di acquisire le informazioni necessarie dai clienti, dovere di assicurare ai clienti equo trattamento, obblighi informativi, correttezza.

Sul piano esecutivo, la diligenza dell’intermediario si coglie nell’astenersi dall’effettuare operazioni non adeguate per tipologia , oggetto, frequenza o dimensione alle effettive esigenze del cliente.

Ai sensi dell’art 21 del d. lgs. n. 58 del 24 febbraio 1998, nella prestazione di servizi di investimento ed accessori i soggetti abilitati devono:

- comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati;

- acquisire le informazioni necessarie dai clienti, ed operare in modo che essi siano sempre informati;

- organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse e, in situazioni di conflitto, agire in modo da assicurare comunque ai clienti trasparenza e equo trattamento;

- disporre di risorse e di procedure anche di controllo interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi;

- svolgere una gestione indipendente, sana e prudente e adottare misure idonee a salvaguardare i diritti dei clienti sui beni affidati;

Il concetto di diligenza, sancito dall’art. 21 del TUF, si riferisce, naturalmente, non alla diligenza del buon padre di famiglia”; bensì, alla “diligenza del buon professionista”, particolarmente qualificata.

È opportuno fare riferimento anche ad un altro importante

strumento di tutela dell’utente bancario, che spesso è proprio un

consumatore.

(22)

22 La direttiva MIFID

18

, dall’acronimo inglese che sta per Markets in Financial Instruments Directive, in vigore dall’ 1 novembre 2007 e sostituisce la precedente legislazione comunitaria in materia, basata sulla Direttiva n. 93/22/CEE riguardante i “Servizi di investimento nel settore degli strumenti finanziari” (Investiment Services Directive- ISD), entrata in vigore il 10 maggio del 1993.

Le ragioni che hanno portato a sostituire la Direttiva ISD, così come indicato sia dalla Commissione Europea nelle motivazioni portate a supporto della proposta di adozione della MIFID , sia nei considerando iniziali del testo definitivo della MIFID stessa, sono legate all’evoluzione del mercato finanziario europeo, che ha visto aumentare il numero degli investitori che operano nei mercati finanziari e la complessità della gamma di servizi e strumenti che viene loro offerta.

Alla luce di tali sviluppi è stato, pertanto, ritenuto necessario adeguare il quadro giuridico comunitario per disciplinare tutte le attività destinate agli investitori.

I punti salienti della direttiva sono sostanzialmente i seguenti:

-la direttiva Mifid ha, in un certo senso, rivoluzionato il mondo dei consulenti finanziari. Infatti, è stata introdotta la possibilità, per le persone fisiche, di prestare servizi di consulenza finanziaria, dopo che questi si siano iscritti ad un albo redatto e tenuto da un organismo di tutela e controllo, appositamente costituito, che avrà fra le altre cose, il potere di sospendere o addirittura radiare chi commette gravi infrazioni.

- la nuova disciplina della best esecution, valida per tutte le tipologie di strumenti finanziari (azioni, obbligazioni, derivati), che prevede che si debba garantire al cliente il raggiungimento del miglior risultato possibile (best esecution), inteso come insieme di fattori ( ad es. prezzo,

18 La direttiva risponde all'esigenza di creare un terreno competitivo uniforme (level playing field) tra tutti gli intermediari finanziari dell'Unione europea, senza però pregiudicare la necessaria protezione degli investitori e la libertà di svolgimento dei servizi di investimento in tutta la Comunità.

(23)

23 costi, velocità), selezionando ex ante un novero di sedi di esecuzione ( mercati, sistemi multilaterali) e scegliendo, ordine per ordine, quella

“migliore”.

L’intermediario dovrà in oltre essere in grado di dimostrare al cliente, ex post, l’effettivo ottenimento del miglior risultato possibile.

- una nuova classificazione della clientela

19

, l’utenza sarà suddivisa in tre categorie, e a seconda della protezione da applicare loro:

a) controparti qualificate, cioè i così detti clienti istituzionali, ai quali non si applica la “best esecution” , ovvero l’obbligo dell’intermediario di fornire la migliore negoziazione possibile, si tratta di una nuova categoria, la quale sostanzialmente rappresenta un sottotipo dei clienti professionali;

b) clienti professionali, cioè coloro che posseggono l’esperienza, la conoscenza e la competenza necessaria per prendere le proprie decisioni in materia di investimenti e per valutare correttamente i rischi che in tal modo possono assumersi, questi avranno una tutela ridotta rispetto agli obblighi previsti per la prestazione di servizi di investimento;

c) clienti al dettaglio, i quali avranno la massima garanzia prevista dal MIFID, in quanto sono i clienti ritenuti privi delle specifiche competenze professionali necessarie per orientare in maniera consapevole le proprie decisioni in materia di investimento ;

- l’introduzione di obblighi di trasparenza verso il pubblico pre e post negoziazione in capo alle sedi di esecuzione e di obblighi di comunicazione all’Autorità nazionale da parte degli intermediari per tutti gli scambi su strumenti finanziari quotati

20

.

19 Nella strutturazione normativa antecedente la clientela veniva distinta tra operatori qualificati che, in quanto investitori professionali disponevano di un minimo grado di tutela e gli operatori al dettaglio, titolari di tutte le tutele previste dalla legge e dalla regolamentazione di settore.

20 G. CASSANO – M.E DI GIANDOMENICO op. cit. Tomo II, Cedam, Torino 2010 “p.1085”

(24)

24 2.4 L’incidenza della normativa secondaria sulla fisionomia del principio di trasparenza: in particolare il ruolo esercitato dalla Banca d’Italia.

Il settore finanziario ha costituito un banco di prova necessario del principio di trasparenza, poiché il precario equilibrio economico, ha intensamente sollecitato interventi normativi diretti a ripristinare la fiducia degli investitori nelle banche che le vicende degli ultimi anni, da ultimo la crisi finanziaria, hanno pesantemente incrinato.

Con provvedimento del 4 marzo 2003, assunto su proposta della Banca d’

Italia e sentito l’ufficio Cambi, il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio ha deliberato le regole che disciplinano la trasparenza delle condizioni contrattuali delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari.

Le finalità della disciplina sono esplicitate nei “considerando” del preambolo, e cioè:

(i) l’esigenza di offrire alla clientela, senza alcuna distinzione tra categorie di clienti, una informazione chiara ed esauriente sulle condizioni e sulle caratteristiche delle operazioni e sui servizi offerti;

(ii) l’esigenza di migliorare la concorrenza (nel senso di efficienza e competitività) del sistema finanziario mediante la comparabilità delle diverse offerte;

(iii) l’esigenza di adeguare la normativa alla evoluzione dell’operatività degli intermediari e della tecnologia;

(iv) l’esigenza di unificare la disciplina della trasparenza nei mercati finanziari.

La deliberazione si apre con le definizioni, riprese dalla corrispondente disciplina del t.u. bancario, dei termini di “intermediario” (nel senso delle banche e degli intermediari finanziari).

Pone criteri generali, che sono poi principi guida dell’attività del intermediari: indica cioè le modalità con cui debbono essere portate a conoscenza della clientela le informazione elencate nelle disposizioni successive.

Tali modalità riguardano:

(25)

25 -la forma della comunicazione utilizzata;

-la chiarezza e la completezza delle informazioni, -le caratteristiche dei rapporti e dei destinatari.

Si tratta di principi guida che hanno ad oggetto modalità di natura procedimentale e di natura sostanziale; le prime concernono i criteri con cui si deve effettuare la comunicazione, cioè il veicolo dell’informazione e le tecniche di trasmissione; le seconde concernono la qualità delle informazioni, le quali debbono essere chiare e complete tenuto conto della natura dei rapporti a cui si riferiscono e dei destinatari a cui sono dirette.

In queste formule, se si dovesse dare peso alla terminologia, si racchiudono importanti novità.

Mentre il principio di chiarezza può essere facilmente ricondotto alla disciplina usuale della trasparenza, intesa come intelligibilità del messaggio, il principio di completezza è proprio di documenti che non hanno una semplice funzione informativa, ma anche certificativi, come i bilanci, i prospetti finanziari.

Ecco perché l’informazione completa implica che non sia sufficiente comunicare al destinatario informazioni chiare, ma che sia necessario inviargli informazioni qualitativamente apprezzabili perché non frammentate, non saltuarie, non parziali, non tardive.

I criteri-guida stabiliscono anche che le informazioni non debbono essere uniformi ma calibrate tenendo conto della natura del rapporto e dello status del cliente. Ciò implica che vi potranno essere regole identiche per tutti i rapporti e tutte le categorie della clientela, e regole che invece dovranno essere diversificate.

Con provvedimento del 25 luglio 2003 il Governatore della Banca d’Italia ha emanato le istruzioni per le banche, in virtù delle disposizioni normative enunciate nel preambolo della delibera del CICR.

Le istruzioni rendono più specifiche, dettagliate, precise, le direttive

impartite dall’organo interministeriale.

(26)

26 E da questa premessa che nasce il recente intervento di natura regolamentare della Banca d’Italia, la quale, ha adottato nel luglio del 2009 delle Istituzioni concernenti norme per la trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari e la correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti, poi modificato del provvedimento del 20 giugno 2012, di recepimento della Direttiva IMEL.

La nuova disciplina sembra rappresentare quell’ equilibrato compromesso tra il dovere di far conoscere e dovere di far comprendere, cui si è appena accennato.

Esso punta al raggiungimento, in egual misura, di una piena circolazione delle informazioni e di una maggiore intelligibilità delle stesse.

La nuova normativa prosegue ponendo in capo agli stessi operatori l’obbligo di prestare la dovuta attenzione alla modalità di reazione dei documenti. Infatti i documenti informativi disciplinati dal presente provvedimento sono redatti secondo criteri e presentati con modalità che garantiscano la correttezza, la completezza e la comprensibilità delle informazioni, così da consentire al cliente di capire le caratteristiche e i costi del servizio, confrontare con facilità i prodotti, adottare decisioni ponderate e consapevoli. A tal fine, gli intermediari prestano attenzione ai seguenti profili: I) criteri di impaginazione che assicurano elevati livelli di leggibilità; II) struttura dei documenti idonea a presentare le informazioni in un ordine logico e di priorità che assecondi le necessità informative del cliente e faciliti la comprensione e il confronto delle caratteristiche dei prodotti; III) semplicità sintattica e chiarezza lessicale calibrate sul livello di alfabetizzazione finanziaria della clientela cui il prodotto è destinato, anche in relazione alle caratteristiche di quest’ultimo. I termini tecnici più importanti e ricorrenti, le sigle e le abbreviazioni sono spiegati, con un linguaggio preciso e semplice, in un glossario o in una legenda

21

.

Inoltre sempre nel presente provvedimento sono contenute anche specifiche definizioni:

21 In www.bancaditalia.it

(27)

27 -"cliente", qualsiasi soggetto, persona fisica o giuridica, che ha in essere un rapporto contrattuale o che intenda entrare in relazione con l’intermediario

-"clientela (o clienti) al dettaglio", i consumatori; le persone fisiche che svolgono attività professionale o artigianale; gli enti senza finalità di lucro;

le micro-imprese;

-"consumatore", la persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta;

L’autorità si spinge ancora oltre e, con l’obiettivo di accompagnare passo passo i soggetti vigilati verso la nuova cultura della trasparenza, delinea in maniera minuziosa i criteri di redazione che ciascun operatore deve seguire, nella predisposizione dei documenti informativi.

22

Gli intermediari mettono a disposizione dei clienti "fogli informativi"

contenenti informazioni sull’intermediario, sulle condizioni e sulle principali caratteristiche dell’operazione o del servizio offerto. È assicurata piena coerenza tra le informazioni riportate nei fogli informativi e i contenuti del contratto. I fogli informativi sono datati e tempestivamente aggiornati.

I fogli informativi contengono almeno:

- informazioni sull’intermediario (denominazione; iscrizione in albi e/o registri; indirizzo della sede legale; numero di telefono degli uffici ai quali il cliente si può rivolgere per ulteriori informazioni e/o per la conclusione del contratto; numero di fax; ove esistenti, sito internet e indirizzo di posta elettronica);

- le caratteristiche e i rischi tipici dell'operazione o del servizio;

- un elenco completo delle condizioni economiche offerte (che comprendono ogni onere economico, comunque denominato, a carico del cliente, incluse le spese connesse con le comunicazioni periodiche, di

22 G. ALPA La trasparenza delle operazioni bancarie e la tutela del risparmiatore in quaderno n. 210, 2004 “p. 81”

(28)

28 scritturazione contabile, di istruttoria, le penali, l’indicatore sintetico di costo se richiesto, ecc.).

Si giunge, così, alla selezione da parte della stessa Authority delle informazioni più rilevanti che il professionista deve comunicare al mercato, illustrando al contempo, un preciso ordine espositivo idoneo ad agevolare la comprensione da parte del destinatario. Tutto questo nell’ottica di rendere concreta la possibilità per il consumatore di orientare le proprie scelte verso gli operatori maggiormente efficienti, inoltre è stato sancito l’obbligo per gli intermediari di pubblicizzare un indice denominato Indicatore Sintetico di Costo, volto ad esprimere il costo potenziale di alcuni servizi, come ad esempio il conto corrente.

Al riguardo, pare opportuno dare conto di una posizione dottrinale che, per contro, si è espressa in maniera critica nei confronti della nuova richiesta di standardizzazione delle informazioni, ora imposta secondo precisi canali e modalità.

Più precisamente è stato sostenuto che l’eccessiva comparabilità dei prodotti generata dagli interventi di Banca d’Italia potrebbe costituire un antecedente per l’adozione di comportamenti collusivi e, dunque, anticompetitivi da parte degli operatori.

La configurazione dell’assunto richiede, in primo luogo, di prefigurarsi la scenario che si verificherebbe qualora la comparabilità dei prodotti immessi sul mercato generasse quale esito distorto l’appiattimento dell’offerta.

Si supponga, pertanto, che nella fase iniziale tutte le imprese abbiano conoscenza del prezzo praticato dai propri competitors per un certo bene:

proprio perché agevolato dalla pubblicazione dell’ISC, effettuata nei fogli informativi del prodotto.

Il rischio paventato è che, in un momento successivo, i medesimi operatori allineino le proprie condizioni di offerta e , in particolare, la variabile prezzo.

Qualora uno scenario del genere dovesse effettivamente concretizzarsi,

non v’è dubbio che l’uniformità del costo associato a ciascun prodotto o

(29)

29 servizio attirerebbe immediatamente l’attenzione dell’Autorità preposta alla tutela della concorrenza, denunciando l’esistenza di un coordinamento. E’ infatti circostanza molto rara che i professionisti colludano proprio sul prezzo finale del prodotto: tendenzialmente essi mirano ad allinearsi su profili di minor evidenza, che per tale ragione richiedono la profusione di notevole impegno da parte dell’Autorità per poter farli emergere

23

.

23 DE JURE Op.cit., Banca borsa e titoli di credito, 2011

(30)

30

Capitolo III

La tutela del consumatore di prodotti finanziari contro le pratiche commerciali scorrette

3.1 Le pratiche commerciali scorrette

La disciplina delle pratiche commerciali scorrette è stata introdotta con il d.lgs. 2.8.2007, n. 146 (attuativo della direttiva 2005/29/CE, «direttiva sulle pratiche commerciali sleali»), che ha così modificato il Codice del consumo (d.lgs. 6.9.2005, n. 206).

Infatti, il d.lgs. n. 146 del 2007, al fine di tutelare il consumatore quale parte contrattuale più debole, ha modificato gli articoli 18 e seguenti del Codice del consumo, introducendovi la nuova disciplina sulle pratiche commerciali scorrette.

Essa concerne i rapporti tra imprese e consumatori, ed il suo ambito applicativo va al di là della valutazione della sola comunicazione pubblicitaria, fino ad includere l’insieme delle pratiche commerciali scorrette che possono arrecare pregiudizio ai consumatori poste in essere dal professionista prima, durante e dopo il rapporto contrattuale con gli stessi.

La normativa riguarda principalmente, anche se non esclusivamente, la fase che precede l’eventuale conclusione del contratto, ponendo divieti volti ad evitare l’impiego di pratiche commerciali che possono falsare in misura rilevante il comportamento economico dei consumatori, alterando sensibilmente la loro capacità di assumere una decisione consapevole, rispetto alla quale, oltre all’informazione, assume rilievo centrale l’immagine che il professionista trasmette di sé e del suo prodotto o servizio, che si esprime essenzialmente mediante la comunicazione commerciale.

Il generale, dalla normativa traspare una divisione tra pubblicità, che deve

sostanziarsi in un messaggio che veicoli un’informazione adeguata e

veritiera, strumento essenziale per favorire una effettiva e libera dinamica

(31)

31 concorrenziale, e pratiche commerciali, che riguardano le corrette modalità attraverso cui il prodotto deve essere portato all’attenzione del consumatore, un ampio insieme di attività che l’espressione legislativa

“qualsiasi azione, omissione, condotta, dichiarazione, comunicazione commerciale” vuole assolutamente atipico.

La nuova disciplina, dunque, non si sostituisce a quella previdente in tema di pubblicità, che per altro modifica, ma ad essa si aggiunge per quanto riguarda la puntuale identificazione delle pratiche commerciali scorrette:

al verificarsi di una situazione che ha una comune identità, ovvero la slealtà della pratica commerciale, sono previsti interventi puntuali, volta tutelare in materia diretta i differenti interessi coinvolti.

All’art. 20 del Codice, è contemplata la nozione generale di pratica commerciale scorretta, che è poi distinta nelle categorie della pratica commerciale ingannevole (artt. 21-23), e della pratica commerciale aggressiva (artt. 24-26).

Accanto ad un ampio divieto incentrato sulla violazione della diligenza professionale unita all’idoneità a falsare il comportamento economico del consumatore, che rappresenta la figura più ampia delle pratiche commerciali scorrette, art. 20, nella successiva bipartizione della figura vi è poi una descrizione degli elementi rispetto ai quali valutare l’ingannevolezza della pratica, artt. 21 e 22, da un lato, o la sua aggressività, artt. 24 e 25, dall’altro, quest’ultima vera novità sostanziale nel nostro sistema.

Molto appropriatamente nell’art. 21 cod. cons. si usa il termine “azioni” al

plurale. In effetti, a leggere il 1° comma possiamo distinguere ben tre

species di azioni ingannevoli: la prima si caratterizza per la comunicazione

al consumatore di informazioni non veritiere; la seconda per la

comunicazione di informazioni che, pur se vere, inducono il consumatore

in errore; la terza per la comunicazione di informazioni che a prescindere

dalla loro veridicità fanno assumere al consumatore una decisione che

altrimenti non avrebbe preso.

(32)

32 L’art . 24 cod. cons. invece, focalizza l’attenzione su condotte apparentemente riconducibili alla violenza, quale presupposto di annullabilità. Molestie, coercizione ricorso alla forza fisica, indebito condizionamento, queste le azioni che dovrebbero essere anche potenzialmente idonee a indurre un consumatore a prendere una decisione che non avrebbe effettivamente preso.

Innanzitutto, con il concetto di pratica, ai sensi dell’art. 18, cod. cons. si intende qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori”.

Il connotato di illiceità, invece, è esplicitato all’art. 20 del Codice, ai sensi del quale la scorrettezza è riconducibile solo là dove ricorra un duplice ordine di requisiti. Ai sensi dell’art. 20, co. 2, c. cons., «una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale, ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori».

La diligenza professionale è «il normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista» (art. 18, lett. h, c.

cons.)

24

In primo luogo, la condotta deve atteggiarsi come contraria alla diligenza professionale, fissando così un parametro sufficientemente preciso, ma al tempo stesso dotato della necessaria flessibilità richiesta dall’adattamento a molteplici contesti negoziali.

24 V.MELI, Le clausole generali relative alla pubblicità, in AIDA, 2008, “p. 257”

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