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Abstract Bello Difficile

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Academic year: 2021

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Abstract Bello Difficile

1.1 Cosa dicono della bellezza 1.1.1 Bello Universale

1.1.2 Kalokagathia 1.1.3 L’utilità del bello 1.1.4 Negli occhi di chi guarda 1.2 Esperienza estetica 1.2.1 Feticcio dell’oggetto 1.2.2 Emotività del soggetto 1.2.3 Sentimento ed Emozione

1.3 Bellezza come attività neurologica

1.4 Convenzione culturale 1.4.1 Soggettività 1.4.2 Matrici Sociali 1.5L’estetica dei giorni feriali

1.5.1 Suffragio universale della bellezza 1.5.2 Morte dell’ornamento 1.5.3 American Dream

1.6Dewey e l’esperienza artistica quotidiana

indice

11 1117 2022 7

26 29 32 34 39

44 44 46 53 53 57 61 65

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Casi studio

Miracolo a Milano 1951 Caravanserai Canning

Town 2011 Critical City 2007 Villaggio Matteotti 1974 Villaggio Emmaus 1949 Estonosesunsolar 2011 Vila Verde 2011 Urbans Gardens 2012 100 Creative BDW Playground

for children 2014

4.

Mi Scialo Creative Lab

4.1 Analisi

4.2 CO-design

4.3 Progetto Bibliografia 2

. Ambiente Influente

2.1Confini territoriali 2.1.1 Prossemica 2.1.2 Mappe Cognitive

2.1.3 Territori Cognitivi

2.2 Paesaggio e identità

2.2.1 Modello Kaplan

2.3Ever Green 2.3.1 Ipotesi della Savana 2.3.2 L’orto del vicino è

sempre più verde 2.3.3 Teoria della ristorazione dell’attenzione

3.

Comunità influente

3.1 Ranciere e l’estetica del dissenso

3.2 Comunità fluide

3.2.1 Democrazia Progettuale

3.2.2 Co-operare

3.2.3 Bene comune 3.3 Agopuntura urbana

71 72 78 80

83 88

92 92 94 97

103

128 136 144 154 166

108-111 118-121

124-127 140-143 146-149 156-159 162-165 170-173 176-179

182 186 194 198

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Dai a un uomo un pesce e l’avrai sfamato per un giorno, insegnagli a pescare e l’avrai sfamato per tutta la vita.

Confucio

Sono sempre stata attratta dalla bel- lezza, le ragioni non le conosco a dire il vero, ma ho sempre amato le cose belle, fatte bene: un posticino confortevole dove prendere un caf- fè, un maglione dai dettagli curati, le case colorate con le aiuole piene di fiori colorati. Ho sempre pensato che le persone dentro quelle piccole casette fossero felici. Tornare a casa la sera, il profumo di gelsomino che invade tutto, accendere una lampa- da, leggere un buon libro, sentirsi a casa, cosa c’è di meglio?

Ricordo qualche anno fa, ero in una nuova città con la mia famiglia in macchina ed avevo lo stesso entu- siasmo dei bambini portati al parco giochi, avevo il naso all’insù a guar- dare quegli edifici maestosi che mi scorrevano davanti, commentavo tutto con aria stupita, tant’è che mio fratello, come sempre, mi rimpro- verò: “La smetti di stupirti di tut- to?”. No. Io mi voglio stupire delle cose belle, voglio guardare tutto con gli occhi di chi guarda qualcosa per la prima volta, magari si vivesse

solo d’inizi quando tutto ti sorpren- de e nulla ti appartiene ancora.1 Stu- pirsi di tutto, guardare a volte le cose da un’altra angolazione permette di rimanere a galla. La bellezza ci per- mette di rimanere nelle superficie delle cose, intesa non come rifiuto di interrogarci sulle cose, ma voler rimanere sulla superficie di un ba- ratro. «There is a crack, a crack in everything. That’s how the light gets in».2

Ho cercato a lungo, il tema della mia tesi, volevo qualcosa che mi rispecchiasse, che dicesse qui den- tro c’è anche un pezzo di quella che sono, della mia esperienza di vita.

Poi un giorno sono stata colpita da un reportage nelle fogne in Roma- nia3, dove dei giovani molto poveri avevano adibito questi spazi a mura domestiche. Come si fa ad accettare una realtà così dura, rovente e senza speranza? Ci si aiuta agghindando casa, non ci saranno le aiuole piene di gelsomini, ma c’è una riprodu- zione dell’Ultima Cena accanto ad una pila di piatti sporchi, bambo- line in ceramica accatastate sopra una vecchia radio per ascoltare la musica, ed ho capito. La speranza è sempre collegata alla bellezza. Bel-

1 Niccolò Fabi, Costruire, 2006.

2 Leonard Cohen, Anthem, 1992.

3 Fotografo Paraic O’Brien, reporter Jim Wickens e Radu Ciorniciuc.

Abstract

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lezza come esigenza, come voglia di evadere, come profondità. Abbellire uno spazio vuole dire prendersi cura di sè, degli altri ed è il primo segno di rinascita. Così ho trovato il mio tema. La bellezza salverà il mondo, diceva Dostoevskij ne L’Idiota La mia esperienza di vita è testi- mone di luoghi in cui ancora oggi il significato di bellezza è legato ad un concezione superficiale e di or- namento. Si pensa che non sia un diritto nascere, crescere e vivere in luoghi belli, ma possa essere un lus- so per pochi. La bellezza è qualcosa che non tutti meritano di conoscere ed avere nella propria ordinaria vita.

Si pensa che questo valore apparten- ga solo ai centri storici e alle case con pareti tappezzate di quadri d’au- tore, con sedie di design dove pran- zare la domenica in un grande tavolo di marmo con su posate in argento.

Non siamo stati educati al fatto che la bellezza sia una necessità per tutti, il desiderio di voler provare piacere sia congenito in ognuno di noi. Im- parando a conviverci, impareremmo a rispettare di più il prossimo, non deturperemmo il paesaggio e non la- sceremmo quintali di immondizia a prendere il sole in riva al mare. Non lasceremmo ai nostri figli case con muratura e ferri a vista, non cree- remmo superfetazioni per ottenere qualche metro quadrato in più in casa. Innato è il bisogno per tutti gli esseri umani di una bellezza neces- saria. Non semplice cosmesi, ma di

un tipo di bellezza riconducibile al significato più intrinseco di questa parola, nato in Grecia qualche seco- lo fa, dove al concetto di bellezza era sempre collegato il concetto di bon- tà e di costituzione di valori sociali da parte della comunità. Gli spazi che ci circondano sono fondamenta- li per la nostra salute psicofisica, più si vive bene all’interno di un luogo, più il nostro stile di vita si eleva e migliore sarà la capacità di relazio- narsi con il prossimo. La quotidiani- tà è alla base del viver bene, l’espe- rienza estetica non deve essere rele- gata a momenti sporadici o a luoghi come musei o teatri. La bellezza è parte della nostra vita, poterne gode- re giorno per giorno è un diritto, non un lusso. È questo il ruolo del desi- gn, non portare nella comunità effi- mera bellezza, ma assumersi come portatore di valori sociali. Il terreno fertile su cui questi cambiamenti s’innestano spesso è creato dall’in- tervento di designer che attraverso la progettazione di alcuni spazi creano le condizioni possibili per la nascita spontanea di una comunità, poiché le interazioni tra le persone e la loro qualità non sono progettabili o rea- lizzabili. Obiettivo di questo lavoro è quello di tentar di dare prova, at- traverso studi psicologici, dell’im- portanza delle esperienze estetiche all’interno della nostra quotidianità come mezzo per l’accrescimento del benessere individuale e della ricostituzione di comunità solide,

in luoghi dove vige solo degrado e abusivismo. La sensazione di pia- cere innesca delle attività neurolo- giche uguali in tutti gli esseri uma- ni, in questo senso la bellezza può definirsi come ereditaria. Riportare bellezza in luoghi degradati deve es- sere strumento di riscatto sociale per la comunità attiva. Attraverso l’in- tervento del social design, si pone la base per la nascita di una comunità con un forte senso civico e voglia di migliorare le proprie condizioni di vita, attraverso piccoli gesti nella quotidianità. Le considerazioni ri- portate nella fase di ricerca verranno poi inserite all’interno di un proget- to di agopuntura urbana nella zona sud di Reggio Calabria, mia città natale. La prima fase di analisi del contesto prevede l’applicazione del- le teorie del secondo capitolo, cioè uno studio sul verde, l’acqua e i ma- teriali dello stato in essere, e capire attraverso un’indagine demoscopica come questi elementi influiscono sulla vita dei residenti. In un secon- do momento proporre una sessione di co-design per ricollegarci al terzo capitolo in cui si creeranno le con- dizioni per creare un dibattito tra la comunità, che diventa protagonista, e proporre a nuove soluzioni proget- tuali. L’obiettivo è quello di propor- re soluzioni alla portata di tutti per migliorare anche in minima parte il loro quotidiano. Gli interventi di agopuntura urbana si pongono non come progetti risolutori ma come

possibili faretti di luce da inserire in ambienti bui che possano destare dal sonno la comunità. Così facendo si crea un effetto domino che apporti nuova luce agli spazi ordinari. Desi- dero far comprendere quanto sia im- portante educare la gente alla bellez- za, che non bisogna attendere anni e anni per riqualificazioni o grandi in- terventi, a volta fallimentari, per mi- gliorare la condizione di un luogo.

Degli interventi di agopuntura, dei rammendi possono salvare dal bara- tro la quotidianità di tante famiglie nate e cresciute in luoghi dimenticati da Dio, dove degrado e povertà sono delle costanti.

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La prima cosa che facciamo oggi quando vogliamo documentarci su qualsiasi cosa, perfino per trovare la malattia alla quale corrispondono i nostri sintomi, è digitare goffamen- te una parola su Google. Ed eccoci qui, a digitare la parola bellezza. Il primo link rimanda al suo significa- to letterale sulla Treccani, e poi tro- vo articoli come “Beauty - consigli per la tua bellezza”, “Consigli per la cura dei tuoi capelli, pelle e nail art”.

Ci risiamo, anni di lotte femministe per diritto al voto, abolizione del glass ceiling e ancora oggi la bel- lezza viene percepita da molti come qualcosa di futile, superficiale, che piace tanto alle donne. La bellezza dei Greci, non semplice cosmesi, è ancora un concetto troppo elitario che i più grandi filosofi hanno cer- cato di indagare, ma su cui ancora oggi ci si interroga. Poiché cercare di definire la bellezza sarebbe un po’

come cercare un ago in un pagliaio, il file rouge di questo paragrafo sarà il dialogo Ippia Maggiore di Plato- ne, una digressione sul significato della bellezza. Le quattro definizioni indagate e poi di seguito confutate, divengono le tematiche affrontate qui e con cui fare un excursus sul tema. L’intento è quello di capire an- che durante la storia come altri auto- ri si siano mossi su queste posizioni e giudicare, a parere mio, se quelle

1.1. Cosa ci dicono della bellezza

1.

bello difficile

Potrei essere piuttosto incazzato per quello che mi è successo, ma è difficile restare arrabbiati quando c’è tanta bellezza nel mondo. A volte è come se la vedessi tutta insieme ed è troppa. Il cuore mi si riempie come un palloncino che sta per scoppiare. E poi mi ricordo di rilassarmi, e smetto di cercare di tenermela stretta. E dopo scorre attraverso me come pioggia, e io non posso provare altro che gratitudine, per ogni singolo momento della mia stupida, piccola, vita. Non avete la minima idea di cosa sto parlando, ne sono sicuro, ma non preoccupatevi: un giorno l’avrete!

American Beauty (Sam Mendes, 1999)

posizioni assunte da Socrate possa- no essere smentite o meno. Questo scritto non ha le pretese di spiegare cosa sia il bello, ma definire cosa non sia la bellezza. Partendo da ciò che sicuramente non è, potremo poi definirla.

Il mezzodì viene dalla notte, passando per l’aurora e proprio per questo bisogna prendersi cura della confusione affinché non ne scaturiscano errori. (Baumgarten 1750:17 in Franzini; Mazzocout-miss 2003: intr. IX).

1.1.1 Bello Universale

Il significato della bellezza è un tema indagato da sempre e che na- sconde molte insidie. Come la teolo- gia, non esistono delle risposte tan- gibili. In una bisogna affidarsi alla fede, nell’altra alla sensazione. Non sono forse la stessa cosa? Molte reli- gioni infatti tendono ad accomunare Dio all’idea di bellezza e perfezione.

La bellezza è in tutte le cose, la bellezza è universale. Come tutte le cose che presentano confini labi- li, raccoglie attorno a sé un’aura di studiosi e non pronti a darne la de- finizione più esatta. Ma esiste dav- vero una definizione più corretta?

Esiste davvero una spiegazione più oggettiva di un’altra? Ad esempio, i canoni di bellezza femminile che

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“SOCRATE: E sia: senza dubbio le cose stanno così. Su, Ippia, imparo tra me e me ciò che dici. Egli mi interro- gherà pressapoco così : «Su Socrate, rispondimi: tutte queste cose che tu dici essere belle sarebbero belle dal momento che esiste il bello in sé?». Io dunque gli risponderò che se una bel- la fanciulla è una cosa bella, esiste ciò per cui queste cose sarebbero belle?

IPPIA: Credi dunque che egli ten- terà ancora di confutarti provando che non è bello ciò che dici o for- se, qualora tentasse di farlo, non si renderebbe ridicolo?” (Platone) vengono riconosciuti in età elleni-

ca, sicuramente sono molto diversi dai canoni estetici di oggi: labbra a canotto, sopracciglia folte e sederi pieni che sfidano le leggi della fisi- ca grazie alla chirurgia. Se un anti- co greco vedesse oggi ad esempio Kim Kardashian icona di bellez- za contemporanea, probabilmente inorridirebbe, così come un nostro contemporaneo, tendenzialmente, non sarebbe at-

tratto dai canoni di perfezione at- tribuiti alle anti- che dee, poiché troppo distanti dal modello di bellezza con- tenmporaneo.

La continuità diviene la ci- fra distintiva e caratterizzante della bellezza, definiamo una capacità sor- prendente di non sorpren-

derci, ciò che rientra nei canoni del momento. Se volessimo già provare ad introdurre il concetto di espe- rienza estetica dopo qualche riga la definiremmo come qualcosa che ha che fare con l’assenza di qualcosa di inatteso, di strano, di sregolato cor- relato ai gusti che mutano e che sono frutto di influenze sociali e culturali.

Quando si riflette sull’origine del

concetto di bellezza, come definirla e da dove possa derivare, molti pen- seranno alla proporzione dei templi greci e del Partenone, alla simme- tria, al mondo ellenico in generale e alle sue geometrie. Vi sono infatti delle caratteristiche dell’arte greca in grado di trasmetterci delle sensa- zioni che ci permettono di godere di quella che è la «fanciullezza dell’u- manità» (Marx 1939: 40 in Franzini;

Mazzocut-Mis:

76). Marx non a caso ritiene che noi continuiamo a subire il fasci- no dell’arte gre- ca, benché non corrisponda al linguaggio delle nostre strutture.

Se si parla di antica bellezza, di classicità, il primo riferi- mento mentale è proprio questo mondo. Ma la bellezza non è un’idea che riguarda la misurazione, non ha nulla a che fare con il cal- colo e la geometria, altrimenti di- verrebbe facile trovare una formula che spieghi quali oggetti siano belli e quali no. Entreremmo nella sfera del giudizio della ragione, ma è stato provato nei vari secoli che la bellez- za si contrappone alla logica. Molti studiosi hanno provato ad instituire

una disciplina, con fondamento lo- gico che studiasse la bellezza ed er- roneamente a quanto si possa pensa- re non nacque nel periodo ellenico, seppure estetica derivi da una parola greca. I greci adoperavano infatti il termine come sostantivo. A partire dalla parola aisthesis, che significa sensazione, fu coniato l’aggettivo aestethikè, estetico, sensibile, che Aristotele contrappone a noeta, cioè alla proprietà specifica degli ogget- ti, il pensiero. Questa disciplina non compie un percorso finalistico, non tende cioè a una verità sovratempo- rale, ma si estende in un dialogo tra verità locali che si confrontano, rial- lacciando concetti antichi con quelli moderni. Nel 1735, il filosofo tede- sco Alexander Gottlieb Baumgarten ritiene che la logica sia una scienza che dirige nel conoscere la verità, la facoltà conoscitiva superiore.

Bisogna allora presupporre un’altra logica e ipotizzare che si possa ave- re una scienza che diriga la facoltà conoscitiva inferiore o scienza del conoscere sensitivo. Le rappresen- tazioni noetiche sono da conoscersi mediante la facoltà conoscitiva su- periore, oggetto della logica, mentre le rappresentazioni estetiche sono oggetto della scienza estetica, ovve- ro dell’estetica. (Baumgarten 1750 in Franzini; Mazzocout-miss 2003) Kant inizia a pensare che l’estetica non si possa ritenere una scienza, poiché alla base vi è l’intuizione e non la logica. La bellezza sta nell’in-

teriorità del soggetto e non nell’og- getto. Il giudizio è connesso a un piacere soggettivo dal quale non trae alcuna conoscenza scientifica. Kant parla quindi di estetica trascendenta- le, come scienza a priori della sensi- bilità che si organizza intorno a due forme pure di intuizione sensibile, cioè spazio e tempo. Si inizia ad elaborare il concetto di giudizio del gusto, le cui principali fonti regola- mentatrici sono empiriche e dunque non possono essere deter-minate da leggi a priori (cfr. Kant 1781 tr. t.).

Gustare una cosa significa che l’og- getto al quale faccio riferimento non è gustabile anche da te, perché è in- terno a me e non è condivisibile con la tua esperienza estetica: il gusto è il senso interno par excellence e affi- dare la bellezza al gusto significa la- vorare sulla sua soggettivizzazione.

Saranno d’ora in poi principalmente le sensazioni e non più la natura al centro degli studi sulla bellezza ce- dendo il passo all’uomo e alla sua interiorità. Un piacere considerato come qualità di una cosa. Noi non vediamo la bellezza come tale, noi percepiamo la piacevolezza, il pia- cere e la gioia sensuale. Soggetti- vamente il piacere è un’esperienza psicologica, oggettivamente è ciò che chiamiamo bellezza. Il bisogno che ha la psiche della bellezza è fon- damentale. Tutti i popoli hanno dei loro modi di abbellimento: l’abbelli- mento dei corpi, degli utensili, delle movenze nella danza, del modo di

(8)

esprimersi con la poesia e con il can- to. È con Theodor Lipps che l’esteti- ca perde la connotazione di scienza autonoma e diviene una disciplina psicologica. Il bello non è una pro- prietà dell’oggetto come il verde o il blu, piuttosto la conformità di un og- getto alla natura del soggetto che va- luta esteticamente. Possiamo godere di tre tipi di piacere. In primo luogo posso godere di una cosa o di un oggetto. Posso inoltre godere di me stesso e ad esempio della mia abilità, della mia forza. Infine posso godere di me stesso in un oggetto sensibi- le distinto da me. Di questo tipo è il godimento estetico. Quest’ultimo particolare godimento si realizza at- traverso una partecipazione emotiva alla natura dell’oggetto contemplato e viene definito empatia. Con empa- tia si intende quell’atto per mezzo del quale il soggetto si trasferisce nell’oggetto, per ritrovarsi in esso e per provare in tal modo quanto di sé stesso ignorava (cfr. Lipps 1906 in Fran-zini; Mazzcout-Mis 2003).

Quando orniamo casa nostra di sup- pellettili e souvenir, non stiamo solo decorando lo spazio, ma in molti di quegli oggetti che riteniamo belli ri- poniamo noi stessi, perché abbiamo stabilito un’empatia con essi dopo averli acquistati in un momento molto importante della nostra vita, con qualcuno di altrettanto impor- tante, oppure perché forma, colore o odore rievocano sensazioni piace- voli che abbiamo già provato. Nel-

la nostra memoria quell’oggetto è iscritto ad una particolare esperien- za e ci fa sorridere ogni qual volta entriamo in contatto.

La vita è uno scambio continuo tra interno ed esterno e non potreb- be sussistere qualora tale scambio venisse a mancare.

Per bellezza s’intende l’intera con- formazione reciproca dei vari com- ponenti della realtà. L’esperienza estetica non può essere limitata a quella artistica ma si amplia in- cludendo tutti gli oggetti e tutti gli atti che intensificano e ampliano la nostra esperienza. L’errore sarebbe infatti ritenere che i confini dell’uo- mo coincidano con la superficie della sua epidermide. La bellezza entra a far parte della quotidianità, ad esempio nell’età dell’industria- lizzazione, come parte integrante della civiltà. Nuovi vagoni dei tre- ni, nuovi autobus, le facciate degli edifici residenziali, segnano un pro- gresso nella forma e nei colori, un migliore adattamento alle necessità.

L’occhio inizia lentamente ad abi- tuarsi adattandosi alle forme che sono tipiche dei prodotti industriali.

Quello che appariva lontano dai ca- noni della bellezza classica, rigido, turpe e macchinoso, attraverso nuo- vi occhi inizia a far parte del gusto della quotidianità. Ogni giorno la nostra percezione del bello gira per il mondo, ci accompagna in macchi- na, nei negozi, in cucina. Nell’arco della giornata è un continuo sottile

rispondere esteticamente al mondo.

Vediamo le sue immagini, sentiamo i suoi odori e impercettibilmente ci aggiustiamo al suo volto. In questi aggiustamenti subliminali è nasco- sto l’inconscio. Siamo inconsci del- le nostre risposte estetiche. Diventa- re coscienti significa non solo risve- gliare i nostri sentimenti e i nostri ricordi, ma soprattutto risvegliare le nostre risposte personali al bello e al brutto. L’anima ha sempre a che fare con la bellezza e le nostre risposte estetiche sono la prova dell’attiva percezione dell’anima al mondo. Il nostro senso del bello e del brutto ci porta fuori, nella polis, coinvolgen- dosi attraverso un atto di disgusto o di desideroso trasporto. L’abitudine ci porta a rimanere indifferenti al canone in auge dell’epoca, che non ci suscita più stupore né piacere, ma se vedessimo qualcosa che è in netto contrasto con quei canoni a cui siamo abituati ci recherebbe di- sgusto. Qui nasce la bruttezza. Eco (2004) riporta una parte del trattato Sull’educazione delle donne dello scrittore Choderlos de Laclos che a mio avviso calza perfettamente con i temi trattati sin ora.

«D’altra parte se ci si vuol convivere che la Bellezza agisce solo perché richiama l’idea del piacere e che essa è rappresentata per noi dell’insieme dei tratti che noi siamo più abituati a vedere, basterà cambiare paese. trapor- tate ad esempio un Francese in Guinea:

inizialmente l’aspetto delle negre lo respingerà perché i loro tratti per lui insoliti non gli evocheranno nessun ricordi voluttoso, ma dal momento in cui farà l’abitudine ad essi, cesserà di essere respinto e così pur continuando a scegliere quelle tra loro più vici- ne ai canoni della Bellezza europea comincerà a ritrovare il gusto per la freschezza, l’altezza e la forza che sono ovunque segni di Bellezza; ben presto poi con l’aumentare dell’assuefazione egli finirà col preferire le caratteristiche estetiche che vede tutti i giorni a quelle di cui non serba più che un flebile ri- cordo e preferirà allora un naso schiac- ciato, grosse labbra, ecc.; nascono in tal modo le molteplici interpretazioni della Bellezza e le apparenti contraddizioni nei gusti degli uomini»

(De Laclos 1783 in Eco 2004: 304).

(9)

Nel saggio Sullo studio della poe- sia greca, Friedrich Schlegel (1797 tr. it.) afferma che la bellezza tra- sformatasi in ideale utopico diviene sintomo dolente di un’assenza, men- tre il vuoto da essa lasciato viene occupato dal brutto. Anche le cose brutte si compongono nell’armonia del mondo, per via di proporzione e contrasto. La bellezza nasce anche da questi contrasti e anche i mostri hanno una ragione e una dignità nel concetto del creato. Dall’antichità al medioevo, il brutto viene visto come un’antitesi del bello, una di- sarmonia, una violazione delle re- gole di quella proporzione su cui si fonda la bellezza sia fisica che morale. Il Romanticismo porta con sé una sensibilità nuova, che ha per oggetto una bellezza metamorfica.

La bellezza è cioè quell’intreccio di sentimento e azione, soggettività e oggettività, che si esprime nella vita e nella natura. Tuttavia sempre più spesso alla bellezza canonica si sostituiscono immagini cupe e terri- bili reclamate da un gusto che si rifà al grottesco, all’eccessivo, che va al di là dei limiti. Il tipico, l’anomalo e il caratteristico acquisiscono sem- pre più importanza. Nella prefazione di “Hugo” di Cromwell del 1827, il grottesco diventerà forma espressiva, grafica e decorativa dell’età romanti- ca. I mostri venivano ritenuti come il prodotto di volontà divina, non sono quindi contro natura, ma contro la natura a cui siamo abituati. Stabilita

l’impossibilità dell’esistenza di un carattere universale della bellezza, se quest’ultima scaturisce dal soggetto e dai suoi occhi interiori che guar- dano l’oggetto, allora non potrà esi- stere una bruttezza universale. Ogni cultura accanto a una propria conce- zione del bello ha sempre affiancato la propria idea del brutto. Di solito è difficile stabilire se quello che ha raf- figurato fosse realmente considerato brutto: agli occhi di un occidentale contemporaneo certe maschere di altre civiltà sembrano rappresentare esseri orribili e deformi, mentre per i nativi potevano essere raffigurazioni di valori positivi. Un caso emblema- tico di questa tendenza, è la figura di Arcimboldo, pittore del Cinquecen- to. Le sue composizioni sorprendenti e i suoi ritratti, sono realizzati con oggetti, vegetali e frutti, dimostran- do che anche una carota può essere bella, ma al tempo stesso ritrarre una bellezza che è tale non in virtù di una regola oggettiva, ma solo grazie al consenso del pubblico e delle corti.

Cade la distinzione tra proporzione e sproporzione, tra forma e informe, visibile e invisibile: la rappresenta- zione dell’informe, dell’invisibile, trascende le opposizioni tra bello e brutto, vero o falso. La rappresenta- zione della bellezza cresce di com- plessità, si rifà all’immaginazione dell’intelletto, dandosi nuove regole.

Come hanno fatto alcuni artisti che hanno trattato temi orribili, volgen- dosi verso e permettendo all’anima

di abbandonare la bruttezza per en- trare nella bellezza, questo concetto può essere applicato alla vita di tutti i giorni. Vi è qualcosa, un oggetto, una persona, uno spazio ritenuto “brutto”

secondo gli usi e i costumi del perio- do che la società ripudia in quanto diverso e lontano, ma se quella cosa trasmette a noi sensazioni piacevoli, dovute a diversi fattori squisitamen- te personali, non si eleva rispetto alla bruttezza collettiva attribuitagli?

Non diventa forse per noi stessi un oggetto bello? Mi torna alla mente un articolo che ho letto su una scuo- la del quartiere della Magliana, sul primo numero del magazine “Perife- rie, diario del rammento delle nostre città”. Era stata presa l’iniziativa di portare ogni mese gli studenti a vi- sitare il centro storico di Roma, i pa- lazzi nobiliari, il verde, le boutique di lusso, dove tutto è curato, ordina- to e canonicamente definibile come bello. Quando si stava tornando al quartiere, uno studente disse:

Poveracci i bambini che vivono in quei palazzi vecchi e brutti, con strade strette in cui non c’è spazio per giocare. (Lo- renzoni 2014:35).

Non si tratta dunque di ritrovare una bellezza perduta, come nei centri storici, ma di scovare le bellezze proprie delle periferie, nascoste in- nanzitutto tra le composite popola- zioni che le vivono.

1.1.2 Kalokagathìa

Aggettivi come bello e carino li usiamo sovente per indicare qual- cosa che ci piace. Nel corso delle diverse epoche storiche si è spesso associato il bello a ciò che è buono.

Nella nostra esperienza quotidiana tendiamo a definire buono ciò che vorremmo per noi come un piat- to gustoso, un amore travolgente o una onesta eredità. Ogni caso de- sidereremmo possedere quel bene.

Durante l’età Ellenica ritroviamo la bellezza quasi sempre associata ad altre qualità. Nelle nozze di Cadmo e Armonia si parla del bello come qualcosa di caro, e del brutto come qualcosa di non caro. Il governo ellenico doveva osservare quattro dogmi principali, tra cui il più giu- sto è il più bello. Su queste regole si fonda il senso comune greco della bellezza, in accordo con una visione del mondo che interpreta l’ordine e l’armonia come ciò che pone un limite allo sbadigliante caos dalla cui gola è scaturito, sempre secon- do Esiodo, il mondo. Ad introdurre questi concetti e questi valori sono stati i Sofisti ad Atene nel V secolo a.C., riferendosi alla sfera intellet- tuale, in particolar modo per quan- to riguardava la carriera oratoria e politica. Un uomo doveva essere bello e buono moralmente, doveva avere una certa sensibilità. L’ideale di uomo perfetto incarnava valori come la virtù e la giustizia. Fin dalle

(10)

origini della società europea la bel- lezza non ha avuto il significato di ornamento o moda, ma ha a che fare con una dimensione estetica intrin- secamente legata a quella politica e culturale. Sul piano della produzio- ne artistica, contrariamente a quan- to spesso si crede, la scultura greca non idealizza un corpo astratto, ma ricerca piuttosto una bellezza ideale operando una sintesi di corpi reali, nella quale si esprime una bellezza psicofisica che armonizza l’anima e il corpo, ovvero la bellezza delle forme e la bontà dell’animo: è que- sto l’ideale della Kalokagathía, la cui espressione più alta sono i versi di Saffo e le sculture di Prassitele.

L’impressionante quantità di opere d’arte che ornavano gli spazi pub- blici delle città dell’antica Grecia è esempio tangibile di quanto nel mondo ellenico fosse importante vi- vere in spazi dove il bello regnava.

Anche nei luoghi della polis nati per la condivisione, la bellezza era una res pubblica, non era qualcosa di segreto da custodire, ma un bene da condividere che portava con sé tanti altri valori. Il bello non può coin- cidere con il bene in quanto entità diverse, ma attraverso l’introduzio- ne della bellezza nella quotidianità si innesca un effetto domino dove il bello è propulsore di altri valori come il bene. La definizione della bellezza non può prescindere dal ruolo che essa riveste nella società, se non altro perché il gusto è indivi

duale e collettivo. La bellezza sem- bra avere il potere straordinario ed etico in essenza di fare passare gli esseri umani da una contemplazione di sé ad una contemplazione di altro da sé. L’oggetto bello attrae e sem- bra far passare gli esseri umani da una condizione di egoismo ad una condizione di altruismo. La scultura e la pittura greca compiono rispetto

all’arte egizia un progresso enorme, in qualche modo favorito dal lega- me tra arte e senso comune. Gli egizi non consideravano nella loro archi- tettura e nelle loro rappresentazioni pittoriche l’esigenza della vista, che veniva subordinata a canoni stabi- liti in maniera astratta e rispettati rigidamente. L’arte non solo rap- presentava una costante nella vita dei cittadini, ma era anche stretta- mente collegata alla religione, alla politica, all’etica e ad altri aspetti della vita quotidiana. Le opere d’ar- te erano fondamentali e seguivano lo sviluppo dei cambiamenti sociali e culturali della popolazione, favo- rendo la nascita di un senso comune.

Durante il Settecento, molti studio- si parlano del ruolo del sentimento estetico generato dalla poesia e dalla pittura che causa tra gli uomini un sentire comune, come vero progres- so nell’arte. La bellezza assume una utilità sociale.

“SOCRATE: Se dunque il bello è causa del bene, il bene scaturisce dal bello e per questo, a quanto pare, prendiamo sul serio l’intelligenza e tutto quanto c’è di bello, perché ciò che essi producono e generano, cioè il bene, è degno di essere perseguito e forse, in base a quello che scopriamo, il bello ha l’aspetto di padre del bene.

IPPIA: Certo è così , parli bene, Socrate.

SOCRATE: Dunque dico bene anche questo, cioè che il padre non è il figlio e il figlio non è il padre?

I

PPIA: Certo, dici bene.

SOCRATE: E la causa non è l’effetto né l’effetto è la causa.

IPPIA: Dici il vero.

SOCRATE: Per Zeus, carissimo, allora neppure il bello è il bene, né il bene è il bello, o ti pare possibile in base a quanto detto prima?” (Platone IV secolo a.C.: 5)

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1.1.3 L’utilità del bello

Perché un fiore è bello? Perché così attira gli insetti, che fanno girare il polline e consente alla pianta di ri- prodursi. Si dice che l’utilità di un oggetto che risponda bene al suo scopo, sia la causa della bellezza.

Cartesio vede le passioni ma qualcosa dedita a disporre l’a- nima a volere ciò che la natu- ra indica come utile. Hanno quindi un fine pratico, che non raggiunge mai un’autonomia c o n o s c i t i v a . (Cartesio 1649 in Franzini;

Mazzocut-Mis 2003) Il grugni- to di un maiale e la forma del suo capo adatto a scavare, devo- no essere con- siderati belli, mentre la coda di un pavone,

così colorata e piena di sfumature, lo fa diventare brutto poiché priva di utilità ai fini del volo. Consideriamo quindi più bello un maiale, poiché ogni parte del suo corpo è ricondotta a un fine, o più bello il pavone per-

ché ci aggrada di più la vista della sua coda? Piccole creature oceani- che che vivono in profondità dove la luce non può arrivare, presentano colorazioni vivaci e disegni simme- trici che non potranno mai essere percepiti nel loro habitat. Tali dise- gni non hanno alcuna utilità, si tratta

di un semplice aspetto fine a sé stesso. Quando osserviamo una bella bocca o dei begli occhi, il primo pensie- ro che scatta in noi non è quello della loro attitu- dine al mangiare o al vedere, ma bensì scatena in noi un piacere fine a sé stesso.

Una cosa uti- le sicuramente produce in noi soddisfazione e approvazione, ma non bellez- za. Queste per- cezioni ci porta- no a rapportarci alle cose in due modi. Il primo è quello utilitaristi- co che guarda alle cose nella loro funzione pratica, per quello che ci possono dare: se ho sete, non mi importa la forma del bicchiere, mi basta poterlo usare. Nel rapporto

finalizzato all’uso, le cose sono un oggetto passivo e noi siamo sogget- to attivo. Il secondo modo è quello della fruizione estetica, in cui ci po- niamo in atteggiamento di osserva- zione e ascolto alle cose, per quello che ci appaiono sul piano fenomeni- co. Esso ci serve ad esempio per sce- gliere fra vari bicchieri, a parità di costo e di utilità, un bicchiere bello o il più bello. In questo caso le cose sono il soggetto principale e attivo del rapporto e noi ricettori passivi della forma, ma attenti, di quello che essa può dirci. Siamo circondati da un mondo di artefatti progettati per realizzare i nostri desideri: se queste sono fatte con precisione e cura, noi le valutiamo come cose belle, perché ci aiutano a realizzare e appagare i nostri desideri. L’utensile esprime un desiderio e allo stesso tempo por- ta alla sua soddisfazione e in questa misura può essere esso stesso og- getto di desiderio. Le incorniciature di stucco non interagiscono affatto con lo stato identitario di una fine- stra, che può svolgere la sua utilità da sola. Le incorniciature sembra- no però dare una dignità maggiore alla finestra. Parte importante della casa, lo spazio par excellence dell’e- sistenza umana quotidiana, sembra quasi esibire l’idea secondo la quale gli esseri umani hanno bisogno di soddisfare sia richieste necessarie, come avere luce e aria nelle case, ma anche richieste superflue. La su- perficialità, se non interferisce con

la necessità e se esplicita qualcosa di importante dello statuto umani- tario, può essere necessaria. Come un’opera d’arte, se tutte le cose utili sono belle, allora l’arte smetterebbe di suscitare piacere, poiché priva di qualunque fine utilitaristico. Niente colpisce l’anima quanto i momen- ti di bellezza e sentiamo che questi momenti sono terapeutici nel senso più vero: ci rendono consapevoli dell’anima e ci portano a prenderci cura del suo valore. Siamo stati toc- cati dalla bellezza. Perché l’amore torni al mondo, è prima necessario che vi torni la bellezza, altrimenti ameremmo il mondo solo per va- lore morale: pulirlo, conservarne la natura, strutturalo di meno. Se l’a- more dipende dalla bellezza, allora la bellezza viene prima. Possiamo affermare che i fautori dell’estetica del funzionalismo, direbbero sicura- mente che la Sedia per visite brevi (1945) di Bruno Munari sia brutta poiché non svolge la funzione per cui nasce, data la sua eccessiva in- clinazione. I grandi critici di design ritengono invece questo oggetto fol- le e al contempo geniale. La sedia da elemento di arredo diviene elemento di provocazione, si riempie di signi- ficato e ci invita a riflettere. Si passa dall’utilità di permettere il riposo, alla necessità di trasmettere un mes- saggio. Se i meno esperti di design comprendessero l’intento di Munari e quello che vuole dirci con un og- getto che fa parte del quotidiano, la

“SOCRATE: E una bella pentola? Non è forse una cosa bella?

IPPIA: […] se la pentola è stata fatta da un bravo vasaio, è liscia, rotonda e ben cotta, come lo sono alcune belle pentole a due anse…Infatti come potremmo dire che ciò che è bello non è bello?

IPPIA: In nessun modo, Socrate.

SOCRATE: Dunque, dirà, quando uno mette sul fuoco la pentola di cui parlava- mo poco fa, quella bella, piena di buon passato, è appropriato a essa un mestolo d’oro o uno di legno di fico?

IPPIA: Ma se vuoi, rispondigli che è quello fatto di legno di fico […] L’utile è la cosa più bella di tutte. Definiamo begli occhi, che possono vedere, non quelli la cui utilità viene negata.

L’utilità delle cose finalizzata a brutte azioni, smette di essere bella?”. (Plato- ne)

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considererebbero ancora brutta poi- ché priva di utilità?

1.1.4 Negli occhi di chi guarda Abbiamo parlato a lungo del signi- ficato della parola kalón, che può essere impropriamente tradotta con il termine bello. Questo ci deve mettere sull’avviso: kalón è ciò che piace, che suscita ammirazione at- traverso lo sguardo. L’oggetto bello è un oggetto in virtù della sua for- ma dinnanzi ai sensi e tra questi in particolare l’occhio e orecchio. Tra gli elementi che l’uomo ritiene belli nella fisionomia, vi è proprio l’orga- no computo al dovere, poiché espri- me le qualità dello spirito. Le qualità puramente sensibili della bellezza, come il colore e la variazione, sono quasi tutte individuabili attraverso la vista. William Hogart nel suo li- bro Analisi della Bellezza del 1753, individua sei principi che incidono indipendentemente sul concetto di bellezza e ognuno di questi è basato sul principale senso a cui affidiamo la ricerca della bellezza. Il primo principio è la corrispondenza, dove si parla dello sguardo come gran giudice della bellezza. Quest’ultimo è però collegato alla mente. Se un oggetto solo d’ornamento come una colonna a spirale, non presenta al- tre caratteristiche legate al rapporto con il buon funzionamento del tutto come la solidità, l’occhio non potrà giudicarlo bello. Il secondo princi-

pio, quello della varietà, ritiene che le forme e i colori delle piante, le ali delle farfalle e le conchiglie, serva- no solo a far godere l’occhio, come il quarto principio, quello della sem- plicità. Tutti i sensi sono soddisfatti di fronte a tale varietà, poiché qua- lora la vista si trovasse di fronte a un muro spoglio o l’udito ad ascoltare una sola nota continua, perdereb- bero di interesse a causa della loro monotonia. La bellezza risiede negli occhi di chi guarda, ma la bellezza è una qualità specifica della situazio- ne che include l’osservatore e l’og- getto. È qualcosa che realizziamo in collaborazione con il mondo e a volte include altri sensi, che inne- scano ricordi, portando alla memo- ria emozioni assopite dal tempo. Il soggetto guarda dentro di sé con il suo occhio interiore e non al di fuo- ri. Ma come godiamo della bellez- za quando per molteplici ragioni la visione di quel determinato oggetto ci è negata? Cosa penserebbe un ipovedente davanti al Baldacchino di Bernini, definito universalmente come un’opera in grado di suscitare estasi in chi lo guarda? Basterebbero a quest’ultimo gli altri sensi, come il tatto, per poter immaginare le fit- te decorazioni delle colonne tortili, l’olfatto per l’incenso e il profumo dei fiori che adornano San Pietro, per godere appieno di cotanta bel- lezza? Se la bellezza sta negli occhi di chi guarda, cos’è la bellezza agli occhi di chi non può guardare? Quel-

lo che empiricamente tutti possiamo sostenere è che facciamo esperienza dell’ambiente costruito in un modo molto più multisensoriale di quanto ipotizzato. Progetti esclusivamente visivi non colgono nel segno. Studi condotti su bambini piccoli fanno luce su questo argomento. I bambi- ni piccoli, non

capiscono cosa sia un oggetto finché non pos- sono afferrarlo con le loro mani e metterlo in bocca e questi atti sensoria- li e percettivi di formare una comprensione concettuale del- le cose compor- tano un colle- gamento neuro- nale tra queste modalità senso- riali (Mallgrave 2013 tr. ir.). Gli oggettivisti so- stengono che la bellezza non è

nell’occhio di chi guarda, ma è bensì soltanto a causa delle proprietà for- mali dell’oggetto che essa appare.

Abitualmente non osserviamo né in qualche modo interroghiamo sulle cose ordinarie, di fronte a qualcosa che sia fuori dall’ordinario affrontia- mo lo straordinario con meraviglia,

se riuscissimo a vedere da un’altra angolazione tutto quello che risulta ordinario, i nostri sensi ne giovereb- bero. Il compito è quello di guardare l’ordinario con l’occhio straordina- rio del divino, scovare la bellezza in luoghi dove abbiamo sempre guar- dato e con modalità di esplorazione

multisensoriali.

ll nostro occhio interiore è il deus ex machi- na e se noi ci ap- pelliamo verrà a salvarci attra- verso la catarsi.

Bisognerebbe però abbattere i cliché secon- do cui l’organo preposto alla bellezza sia la vista. Lasciarsi sedurre da suoni soavi e delica- ti, ad esempio ci permette di ricordare le no- stre descrizioni della bellezza percepita da altri sensi. È possibile raggiungere una consapevolezza improvvisa dei suoni che ci circondano, in modo particolare quando evocano il pas- sato o richiamano un sentimento nostalgico: il suono di una macchina da scrivere, la pioggia su un tetto in lamiera, il vento fra gli alberi. Non

“SOCRATE: «Dunque», dirà, «voi avete scelto questi piaceri tra gli altri per un motivo diverso da quello di essere pia- ceri, in quanto vedete che in entrambi c’è qualcosa di diverso dagli altri, e non è guardando a questa differenza che voi dite che sono belli?

Infatti il piacere procurato dalla vista non è bello per questo, cioè perché sca- turisce dalla vista, poiché, se fosse que- sta la causa per cui quel piacere è bello, non potrebbe mai essere bello l’altro piacere, quello provocato dall’udito: eb- bene, il piacere procurato dalla vista non è bello in quanto tale». Non dovremo dirgli che parla correttamente?

IPPIA: Sì , dovremo dirlo.” (Platone IV secolo a.C.: 11).

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dobbiamo quindi sempre appellar- ci ad una tangibilità delle cose che percepiamo con i sensi e vediamo nel mondo intorno a noi, esistendo infatti innumerevoli altri modi per recepire la bellezza.

«E come potrai sapere», dice, «quale di- scorso sia stato composto bene o no o qualsiasi altra azione sia bella o no, se non conosci il bello? Credo di sapere cosa vuol dire il proverbio: le cose belle sono difficili». (Platone)

Nel Saggio sull’intelletto umano del 1690, John Locke definisce la no- stra anima un foglio bianco o tabula rasa su cui tramite atti di esperien- za giungono i materiali del pensa- re, attraverso due specifiche fonti conoscitive. La prima di esse è la sensazione, origine essenziale del- le nostre idee. Su questa base che è passiva e soltanto ricettiva, si eserci- ta l’attività della seconda fonte co- noscitiva, la riflessione (cfr. Locke 1690 in Franzini; Mazzocut-Mis 2003). Può esistere una conoscenza, certo non perfetta, ma autonoma e fondata, chiara pur non distinta, che ha nel sensibile il suo radicamento.

Non siamo forse, il risultato della nostre esperienze? Nasciamo tabula rasa, crediamo a tutto ciò che ci vie- ne detto da bambini e ci stupiamo di tutto. Guardiamo con occhi nuovi il mondo, poiché non lo abbiamo mai

visto. La formazione delle nostre idee dipende dalle esperienze che abbiamo vissuto, da come ci han- no educato, da quello che ci hanno fanno ascoltare, leggere o vedere.

Questo ci rende unici ed irripetibili, come un secondo DNA, una struttu- ra a doppia elica fatta di esperienze e apprendimento che il tempo ci ha permesso di stratificare dentro di noi. Maggiori saranno gli ambienti culturali che avremo frequentato, maggiore la probabilità sarà di vede- re sempre con gli occhi del fanciulli- no il mondo. Avremo molti più input a cui siamo stati sottoposti, per inter- rogarci, studiare e riflettere. Minori saranno gli input e più saremo come piccole barchette in mezzo al mare, spostate di qua e di là senza neanche rendercene conto da diverse cor- renti, politiche, sociali e culturali.

Alla bellezza sicuramente possiamo essere educati attraverso la cultura, che ci spinge ad avvicinarci al bello di qualunque forma e tipo, dalla mu- sica alla poesia, all’arte, al design e non lasciarlo più andare, anche sen- za volerlo. Il bello s’impossessa di noi, dei nostri muscoli, della nostre membra e della nostra testa, diven- tando un nostro prolungamento. La novità è un elemento indispensabile che agisce sulla volontà del bello e spinge la nostra curiosità verso l’e- sperienza estetica. La bellezza ha a che fare con la promessa e in parti- colare con il futuro, in un senso pre- ciso secondo il quale fare esperienza

di una cosa bella, significa essere spinti a passare giorni, mesi e anni futuri in relazione con la la bellezza che vogliamo scoprire, interrogare e ottenere. Ci spinge a circondarci delle cose belle, cioè di possibilità importanti di sviluppo e di felicità, aumentando la qualità della nostra esistenza quotidiana. Quando cam- miniamo per le strade di una città che riteniamo bellissima, è naturale, quasi imperativo, non gettare per ter- ra la carta della caramella che si sta mangiando. La bellezza della città ci fa provare l’esperienza dell’aumen- to sensibile della qualità della nostra esistenza, cioè ci fa arrivare a un non ritorno. Ciò sta a significare che non vogliamo ritornare alla qualità precedente della nostra vita, perché nell’ipotesi meno ottimistica e meno ambiziosa vogliamo un presente che ci faccia provare l’esperienza sen- sibile che la bellezza presente ci fa provare. Nell’ipotesi più ambiziosa e ottimista invece, vogliamo un fu- turo che ci faccia provare un’espe- rienza sensibile ancora più positiva, significativa e densa di senso di accoglienza e di appartenenza, che la bellezza futura alla quale lavore- remo ci farà provare.La bellezza è stata sempre e sarà essenziale per noi, perché l’umanità sembra carat- terizzata in essenza da una cosa che unisce la dimensione del bisogno con la dimensione del cambiamento.

Crispin Sartwell in Six name of Be- auty nel 2004, individua sei parole

per definire la bellezza. Tutte queste possono essere ricondotte al concet- to di illuminazione, come la parola ebraica Yapha, ossia splendore, fio- ritura. E non è forse la bellezza, il presupposto per risplendere e rina- scere come una fenice dalle cene- ri? Secondo la Kundalini Yoga, nel torace ha luogo il chakra del cuore.

Se questo non viene alla vita, se il cuore non si apre e la gazzella non si desta, noi rimaniamo sordi e ciechi semplicemente perché l’organo che percepisce la bellezza non è stato ri- svegliato. Come fare ciò? Qualcuno cantava «io di risposte non ne ho mai avute e mai ne avrò, di domande ne ho quante ne vuoi».1 Io non so cosa sia la bellezza, so solo che è qual- cosa che mi ha sempre rapito il cer- vello, non per cercare di definirla o trovarne una formula, ma per capire come diffonderla e insegnare ad ap- prezzarla, come farla diventare pro- tagonista nella vita di tutti, nella vita di chi non ha niente e lotta per un futuro migliore. Io non so dire cosa sia la bellezza, so che è una cosa dif- ficile e la sfida sta proprio nel capire come portarla dove non è mai stata avvistata, né dentro né fuori i corpi.

La bellezza sprona a migliorarsi e a compiere un esercizio che mira al suo raggiungimento. Deve essere la linea guida delle nostre azioni, di un progetto, di un pensiero, di un arte- fatto. Ci deve dare la possibilità di costruire in maniera più accurata la realtà attorno a noi.

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Un uggioso venerdì sera dopo una cena con degli amici, si rassettava tutto, si lavavano stoviglie, si sparec- chiava, e si parlava di cinema, si par- lava (ahimè) di Checco Zalone. Con il mio solito tono lamentoso esordi- sco dicendo che non si può parlare di cinema e di

arte se parliamo di questo gene- re di film. Un amico di tutta risposta dice:

«Tutto il cine- ma è arte. Chi può dire che il film A sia meno arte del film B»

Io che da qual- che tempo sta- vo iniziando a documentarmi sul concetto di esperienza este-

tica ho iniziato ad esporre una serie di teorie che smentivano ciò, dopo mezz’ora di dibattito abbiamo capito che non era il caso di addentrarsi in un dibattito per cadere in un relativi- smo inimmaginabile in così tarda ora.

Decidemmo che era meglio andare a prendere una birra. Da lì mi sono apparse alla mente alcune domande a cui vorrei cercar di dar risposta in questo paragrafo: Cosa s’intende quando si parla di esperienza esteti-

ca? Quali sono i fattori che entrano in gioco durante questo processo?

Quando una esperienza può definirsi estetica? La parola esperienza ha a che fare con «la conoscenza diretta, personalmente acquisita con l’osser- vazione, l’uso o la pratica, di una de-

terminata sfera della realtà». Il termine estetico invece concerne il sentimento del bello, soprattutto nell’arte, secon- do il dizionario.

Ne deduciamo chiaramente che oggi l’estetica non è stata in grado di defini- re il suo oggetto di studio, delle volte ci si riferi- sce ai soggetti e alla loro personalità, delle volte alle qualità dell’oggetto e all’influenza che hanno su di noi. Esistono due correnti di pensiero contrapposte nella metodologia di analisi dell’e- sperienza estetica. Il primo filone, quello soggettivista vede il sogget- to, il vissuto e la sua personalità protagonisti del diretto nascere di sensazioni in rapporto con l’ogget- to esterno, il secondo vede l’oggetto e le sue caratteristiche intrinseche

come qualità che fanno scaturire in noi una qualche sensazione. L’e- sperienza estetica in entrambe le correnti risulta essere direttamente correlata con lo spazio che ci circon- da. Nella Estetica trascendentale del 1781 Kant afferma nella sua Critica della ragion pura che quando ci re- lazioniamo per la prima volta ad un oggetto abbiamo come risposta del- la nostra mente un’intuizione e tale intuizione dipende e viene visualiz- zata attraverso due forme pure a pri- ori: lo spazio come senso interno e il tempo come senso esterno. Queste due forme a priori sono condizioni necessarie ma insufficienti per l’e- stetica. L’esperienza della musica presuppone l’intuizione del tempo durante il quale i suoni si verificano, si sovrappongono e si susseguono, dello spazio in cui vibrano, del cor- po in grado di percepirli, della cul- tura da cui significano come segni e acquisiscono significato attraverso schemi riconoscibili, e dell’energia vitale in grado di rispondere emo- tivamente a loro. Al contrario, si ha un’anestesia quando vi è l’elimina- zione dell’intuizione dello spazio e del tempo, delle sensazioni corporee e del dolore fisico, di qualsiasi per- cezione ed emozione. La categoria dello spazio-tempo viene qui vista come una conditio sine qua non del- la possibilità di esperienza. Senza di essa, non solo non vi sarebbe un universo ordinato alla base della vita quotidiana ma non vi sarebbe nep-

pure un universo. Quando queste due dimensioni sono condivise con gli altri si applica il concetto di in- tersoggettività. Lo spazio costituisce il “qui” dal mio corpo ed è costituito da esso, come il tempo costituisce ed è costituito dall’ “ora” della mia coscienza e dal momento della per- cezione o sensazione. La percezione è una capacità che appartiene a tutte le specie, dal più elementare al più complesso, e coinvolge diverse ca- pacità motorie e sensoriali. Ogni or- ganismo può relazionarsi con l’am- biente in maniera cellulare, pluricel- lulare o plurindividuale e sociale. La prima connessione con l’ambiente inizia come porosità o ricettività ac- quisendo diversi gradi di diversifica- zione in ciascun individuo e specie.

Nelle unità del primo ordine, la ri- cezione avviene attraverso la mem- brana cellulare, mentre nelle unità del secondo ordine di animali più sviluppati, è abilitata da membrane come la pelle, le orecchie, gli occhi, la bocca e il naso attraverso i quali gli organismi sono esposti all’am- biente circostante. Nelle unità del terzo ordine o negli organismi so- ciali, nelle società umane si verifica nelle interazioni tra identità e ruoli all’interno delle matrici sociali, di cui parleremo meglio in seguito. Ne- gli esseri umani le capacità sensoria- li hanno molte sfaccettature, la com- plessità corporea della nostra specie è correlata anche alla complessità mentale e percettiva, in contrasto

1.2. Esperienza estetica

Questa espressione è stata spesso usa- ta per designare anche la qualità di un oggetto, una sensazione di piacere, il classicismo nell’arte, un giudizio di gu- sto, la capacità di percezione, un valore, un atteggiamento, la teoria dell’arte, la dottrina della bellezza, uno stato dello spirito, ricettività contemplativa, un’e- mozione, un’intenzione, un modo di vivere, la facoltà di sensibilità, un ramo della filosofia, un tipo di soggettività, il merito di alcune forme o un atto di espressione. (Mandoki 2017: 4).

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con la ricettività monodimensionale di organismi unicellulari. Ecco per- ché la percezione umana varia da in- dividuo a individuo, poiché entrano in gioco fattori correlati alla morfo- logia della nostra particolare specie, oltre alla nostra cultura.

«Beauty is a linguistic effect used by a particular subject to describe personal experiences and social conventions, not things that exist independently of perception. the notion of beauty is a lin- guistic categorization of a non-linguistic experience, although it can be provoked by language (in the case of literature and poetry), or provoke the production of language (the typical case, art criticism).

Beauty subsists only in the subjects who experience it, just as life only exists in live beings.1» (Mandoki 2017:7).

Prima di emettere un giudizio esteti- co su un oggetto o un’esperienza la prima relazione che si instaura con

1 Un particolare soggetto utilizza la bellez- za come effetto linguistico per descri- vere esperienze personali e convenzioni sociali, non cose che esistono indipen- dentemente dalla percezione. La nozione di bellezza è una categorizzazione lin- guistica di un’esperienza non linguistica, sebbene possa essere provocata dalla lingua (nel caso della letteratura e della poesia), o provocare la produzione della lingua (il caso tipico, la critica d’arte). La bellezza sussiste solo nei soggetti che la vivono, così come la vita esiste solo negli esseri viventi.

l’oggetto è la sensazione. Kant che, nel tentativo di distinguere diverse forme di processi mentali, definisce la sensazione come l’effetto di un oggetto sulla nostra capacità rappre- sentativa, di esserne influenzato (cfr.

Kant 1781). La sensazione influisce sul soggetto ma risulta essere total- mente corporea precedendo qual- siasi attività rappresentativa. Dei brividi lungo la schiena, una lieve sensazione di calore possono essere rilevati organicamente prima di es- sere rappresentati consapevolmente.

A qualsiasi creatura vivente appar- tengono delle sensazioni, mentre la rappresentazione implica un sistema di mediazioni culturali tra i concetti presenti nella sensazione e alcune categorie di classificazione assenti in essa, presente solo negli essere umani. La rappresentazione può es- sere suddivida attraverso tre fasi: il primo momento quando uno stimolo viene confrontato con un repertorio di esperienze precedenti, quando esiste un certo grado di memoria conscia o inconscia, a quel punto la sensazione viene strutturata per di- ventare una percezione collegandola a codici filogenetici e ontogenetici.

Il secondo livello di percezione può essere designato come discernimen- to, sebbene correlato alla sensazio- ne che lo spinge, il discernimento va oltre l’immediatezza della pura reazione e diventa più selettivo. La sensazione corrisponde all’essere puramente corporeo, alla sua indi-

vidualità, il discernimento riguarda l’identità e dipende dall’addestra- mento e dall’esperienza.

Un ultimo livello di percezione è quello in cui i soggetti osservano formalmente le convenzioni di grup- po e le espongono in termini di ruoli particolari.

«Bees perceive light at the level of sen- sation when trying to escape from a clo- sed place, but do not discern the glass until they bump against it. however they discern between an open flower and one closed, between flowers with or without pollen and they can discern distance and direction for an appropriate place to nourish themselves or for building another honeycomb by the diameter and movement of other bees’ dance2» (Sebe- ok 1963: 448 in Mandoki 2017: 67).

All’interno del nido d’ape e nel- la divisione tra operai e regina, le api sono guidate dal rispetto della percezione collettiva. Alla base di queste teoria vi è la psicologia co-

2 Le api percepiscono la luce a livello di sensazione quando provano a fuggire da un luogo chiuso, ma non discernono il vetro finché non si urtano contro di esso.

Tuttavia discernono tra un fiore aperto e uno chiuso, tra fiori con o senza polline e possono discernere la distanza e la direzione per un luogo appropriato in cui nutrirsi o per costruire un altro nido d’ape dal diametro e dal movimento della danza delle altre api.

gnitiva, che ritiene che l’atto visivo non è una pura registrazione passi- va dell’ambiente fisico esterno, ma una costruzione attiva che implica processi di elaborazione e di anali- si. L’input sensoriale esterno viene modificato ed elaborato prima di poter essere percepito: viene infat- ti trasformato, ridotto, elaborato, immagazzinato, recuperato e infine utilizzato. Altri fattori che entrano in gioco in questo processo sono l’at- tenzione, la memoria, l’immagina- zione, il pensiero, l’emozione ecc.

Un tentativo iniziale di comprende- re i diversi aspetti che caratterizza- no l’esperienza estetica è quello di scomporre le componenti presenti in tale attività in due categorie: le qua- lità fisiche dell’oggetto e le caratte- ristiche del fruitore.

1.2.1 Feticcio dell’oggetto

Partendo dall’analisi delle qualità fisiche di un oggetto come stru- mento di percezione estetica, alla fine dell’Ottocento entra in scena la figura dello psicologo Gustav Fechner che può essere considerato l’iniziatore dell’estetica sperimen- tale. Egli coniuga la psicologia e l’estetica con discipline scientifiche come la fisica e la chimica, per for- nire uno strumento di misurazione al valore estetico di una configu- razione. Un’estetica quindi delle forme visive, il cui scopo è quello di stabilire quali forme (poligoni

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semplici e regolari) fossero preferi- te. Fechner ritiene che l’esperienza estetica dipenda essenzialmente dalle componenti fisiche di un og- getto come proporzioni, equilibrio, ordine, che determinano una reazio- ne di preferenza. Nella valutazione estetica sono i dati esterni, gli ele- menti formali dell’oggetto, a esse- re considerati significativi. Il suo lavoro più conosciuto riportato nel suo Trattato di Estetica del 1876 è sicuramente quello sulla preferenza dei rettangoli. In questo esperimen- to, Fechner fa valutare a trecento soggetti dieci rettangoli che devo- no indicare quale gli piace di più e quale di meno. Presi in considera- zione dieci rettangoli aventi tutti la stessa superficie, in cui il rapporto larghezza/altezza variava da 1:1 (quadrato) a 1:0,40, passando per quella particolare proporzione detta sezione aurea (pari a 1:0,618). Nei risultati è emerso che il 35 per cento dei soggetti preferisce il rettangolo definito dal rapporto di sezione au- rea tra altezza e larghezza (Fechner 1876 in Mastrandrea 2001). Il pro- blema per cui questo esperimento non regge è che tutti i rettangoli sono stati scelti almeno una volta dai partecipanti e che secondo lo psicologo tedesco la proporzione assumeva un ruolo decisivo nella scelta della preferenza, dimentican- do altri fattori dei soggetti che sicu- ramente avevano messo in gioco, inconsciamente, quali ad esempio

memoria, emotività ecc. che li por- tavano a compiere una determinata scelta anziché un’altra. Queste teo- rie hanno influenzato quasi un seco- lo dopo la teoria di Daniel Ellis Ber- lyne, psicologo canadese, definita la nuova estetica sperimentale, in cui è stata sottolineata ancora una vol- ta l’importanza delle caratteristiche oggettive dello stimolo nel produrre una preferenza estetica. Berlyne af- ferma che l’interesse verso uno sti- molo è attivato da un certo numero di proprietà possedute dallo stimolo stesso definendole “variabili collati- ve” in grado di stimolare l’attività nell’esplorazione visiva. Le varia- bili collative possono essere rag- gruppate in tre categorie: la novità, che può essere individuata a diversi livelli di conoscenza dello stimolo;

per esempio, gli stimoli possono es- sere definiti con un elevato livello di novità quando non sono mai sta- ti incontrati precedentemente o da molto tempo. Alla novità vengono associati i concetti di cambiamento, di sorpresa, di incongruità. L’incer- tezza è la seconda proprietà e ha a che fare con possibili interpreta- zioni alternative dello stimolo. La complessità, intesa come il numero di elementi presenti in una compo- sizione.

A questo punto Berlyne introduce il concetto di arousal dell’organismo inteso come l’aumento dell’attiva- zione dell’organismo quando andia- mo a contatto con il piacere prodotto

dalle qualità possedute dalle imma- gini. L’arousal è definito come una dimensione lungo la quale varia lo stato di attivazione dell’organismo, che può andare dall’attenzione allo stato di eccitazione, e costituireb- be un meccanismo di ricompensa e orienterebbe verso la preferenza dello stimolo che genera tale attiva- zione. Sono presenti anche in questa spiegazione della esperienza esteti- ca dei limiti evidenti. La teoria di Berlyne focalizza l’attenzione prin- cipalmente sull’attivazione dell’or- ganismo. I suoi esperimenti sono spesso costituiti da poligoni per po- ter avere un maggior controllo. L’a- rousal però consiste in una risposta generica che non tiene conto di tutte le diverse componenti dello stimolo e del possibile percettore e delle sue differenze individuali nella valuta- zione delle variabili collative , a cui veniva attribuito lo stesso peso per tutti i partecipanti (Berlyne 1971 in Mastrandrea 2001).

«The aesthetic object is nothing more than sensuous in all its glory, whose form, ordering it, manifests plenitude and necessity, and that carries within itself and immediately reveals the mea- ning that animates it..3» (Dufrenne 1987:

5 in Mandoki 2017: 10).

3 l’oggetto estetico esercita incessantemente una domanda su chi lo esegue o lo osser- va; attraverso questa richiesta rivela un desiderio di essere che in qualche modo garantisce il suo essere.

Si parla in questo caso di feticcio dell’oggetto estetico, vale a dire antropomorfizzazione dell’oggetto.

L’oggetto è dotato, sebbene meta- foricamente, di capacità umane di percezione, gioia, valutazione della bellezza, emotività, espressione, sen- sibilità e sensualità.

Il filosofo francese Mikel Dufren- ne compie un’analisi tra esperienza estetica e oggetto estetico. Ritiene infatti che l’oggetto estetico deve essere considerato come un prodot- to di una relazione estetica che un soggetto instaura con esso, e non il contrario, il soggetto non è il pro- dotto dell’oggetto (Dufrenne 1987 in Mandoki 2017). L’oggetto perce- pito esteticamente è effettivamente qualitativamente diverso da quello usato funzionalmente. Prendendo come esempio l’opera Fontana di Duchamp, un orinatoio diventa ope- ra d’arte esposta in famose gallerie e musei, ma dal punto di vista sim- bolico assume un significato diverso dall’urinatoio esposto nella vetrina di un negozio di sanitari, che a sua volta assume un significato diverso dall’urinatoio che troviamo in una stazione. Tutti e tre sono oggetti solo per un soggetto che li interpreta come tale a seconda del codice usato e del contesto di osservazione. L’a- nalisi di un oggetto avviene attraver- so segni e simboli che ci permettono di stabilire una relazione con esso interpretandolo. I segni e i simboli partecipano alla dimensione estetica

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