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La mancata comparizione innanzi al mediatore - Judicium

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Academic year: 2022

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www.judicium.it Mauro Bove

La mancata comparizione innanzi al mediatore

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Obbligo di cooperare? – 3. Il giustificato motivo. – 4.

Conseguenze nella procedura di mediazione. – 5. Conseguenze nel processo.

1. Premessa.

L’art. 8, 5° comma, del d.lgs. n. 28 del 2010 dispone: «Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile».

È evidente quanto questa previsione, insieme ad altre contenute nello stesso d.lgs., sia il segno dell’aspirazione del legislatore a fare della mediazione uno strumento che, in una certa misura, contribuisca ad alleggerire il carico di lavoro del servizio della giustizia statale e, quindi, a risolvere le sue inefficienze. La stessa logica emerge certamente nella previsione, in diverse materie, del previo tentativo di conciliazione come condizione di procedibilità della domanda (art. 5, 1°

comma), nella previsione di conseguenze negative nell’ambito del processo statale sul riparto delle spese per colui che non accetta una proposta di conciliazione che, alla luce dell’esito processuale, appare equa (art. 13), ma, in fondo anche, nell’imposizione agli avvocati di un obbligo d’informativa sulla necessità (nei citati casi di cui all’art. 5) o sulla possibilità di esperire tentativi di conciliazione, nonché nell’attribuzione al giudice della facoltà di invitare le parti, nella pendenza del processo, a procedere alla mediazione, invito che, se accolto dalle parti stesse, porta ad un differimento di udienza per consentire l’esperimento della procedura (art. 5, 2° comma).

Ora, è di tutta evidenza come la mediazione possa effettivamente rappresentare uno strumento per favorire, indirettamente, l’acquisizione di una maggiore efficienza della giustizia statale. Ed è anche di tutta evidenza come la realizzazione di questo obiettivo sia essenziale anche alla luce della Carta costituzionale, che, nel disporre al secondo comma dell’art. 111 che la legge assicura la ragionevole durata del processo, vuole perseguire proprio il detto obiettivo, al fine di garantire l’effettività del diritto di azione (art. 24, 1° comma, Cost.).

Ma, se appare assolutamente opportuna la disciplina della mediazione in una legge generale che risolva possibili inconvenienti derivanti dalla sola applicabilità al fenomeno del codice civile (es.: attribuzione di affetti sostanziali alla domanda di mediazione o attribuzione al verbale di conciliazione dell’efficacia esecutiva, previa omologazione del giudice statale), un po’ meno opportune sembrano, almeno a mio parere, disposizioni impositive, che in qualche misura

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www.judicium.it costringano i privati a percorrere la via della mediazione, senza che essi abbiano fatto una scelta consapevole in tal senso, ossia la scelta di tentare la soluzione della loro controversia mediante le tecniche della negoziazione e non del giudizio, insomma mediante la composizione degli interessi e non attraverso l’accertamento del torto e della ragione.

Ebbene la stringata, ma significativa, disposizione che qui si commenta è segno proprio di questa volontà impositiva del legislatore, disposizione che, inoltre, in collegamento ad altre previsioni dello stesso d.lgs., potrebbe provocare problemi pratici non irrilevanti.

2. Obbligo di cooperare?

L’art. 8, 5° comma, ha in pratica l’effetto di anticipare, se così possiamo dire, la qualificabilità in termini di comportamento processuale delle parti ai sensi dell’art. 116, 2° comma, c.p.c. a scelte comportamentali che si pongono prima e fuori del processo. In altre parole, se il giudice può in linea generale ricavare argomenti di prova dal contegno che le parti hanno durante il corso del processo, qui si immagina che la scelta di una parte di non partecipare, senza un giustificato motivo, al procedimento di mediazione, che si colloca evidentemente al di fuori del processo, sia ugualmente qualificabile, appunto, come comportamento processuale dal quale il giudice della causa può ricavare quegli stessi argomenti di prova.

Insomma, il litigante che non coopera al tentativo di conciliazione potrebbe pagarne le conseguenze, fino al limite di perdere la causa di fronte al giudice in conseguenza della sua mancata partecipazione al detto tentativo. Il percorso di mediazione può portare alla conciliazione o meno, ma le parti devono almeno partecipare, vale a dire tentarci. E chi non partecipa ne pagherà qualche conseguenza.

Il primo punto problematico è allora chiedersi quale sia il campo di applicazione della disposizione in commento. E dalla risposta che si vuole dare a questa domanda dipende anche il senso, se così possiamo dire, sistematico di essa.

Ora, non è ovviamente possibile dubitare del fatto che la detta disposizione si applica certamente in quei casi in cui le parti sono obbligate al tentativo di conciliazione, per legge o per contratto.

Esse sono obbligate per legge nelle materie in cui il tentativo di conciliazione è imposto come condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Esse sono obbligate per contratto quando, ai sensi dell’art. 5, 5° comma, d.lgs. n. 28/2010, «il contratto, lo statuto ovvero l’atto costitutivo dell’ente prevedono una clausola di mediazione o conciliazione».

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www.judicium.it Ma direi che in una qualche misura esse sono obbligate anche nel caso della c.d. conciliazione delegata, posto che questa, pur previamente stimolata dall’invito del giudice, è concretamente resa possibile solo nel caso che le parti aderiscano all’invito. Ed, allora, se può essere discutibile ravvisare in questa adesione una sorta di contratto1 con cui le parti si vincolano alla mediazione, tuttavia credo che sia possibile vedere in questa vicenda l’assunzione di un impegno, il cui mancato rispetto rappresenterebbe una violazione dell’obbligo di lealtà di cui all’art. 88 c.p.c.

Se alle dette ipotesi si applica certamente il quinto comma dell’art. 8, possiamo dire lo stesso per quei casi in cui non vi è per le parti alcun obbligo od impegno a partecipare al tentativo? In altri termini: la norma in commento sanziona la mancata cooperazione di chi si era obbligato appunto a cooperare al tentativo oppure essa è da sé fonte autonoma di un obbligo di cooperare?

Personalmente preferirei sposare la prima soluzione, perché sono convinto del fatto che in questa materia si dovrebbe lasciare più spazio possibile alla libertà dei privati. Ma non credo che questa opzione interpretativa risponda alle intenzioni del legislatore ed, anzi, mi sembra che la previsione sia formulata in maniera così generale da non poter consentire una scelta come quella che a me sarebbe sembrata più opportuna.

Che piaccia o meno, si deve, quindi, ritenere che il quinto comma dell’art. 8 costruisca in sé un obbligo di cooperare al tentativo di conciliazione, a prescindere dal fatto che detto obbligo possa anche fondarsi aliunde, sulla base di un contratto o di altra previsione di legge.

3. Il giustificato motivo.

L’obbligo di cooperare viene meno se la persona invitata alla procedura adduca un giustificato motivo della sua mancata partecipazione. Qui si pongono due problemi: 1) quale può essere un giustificato motivo per non partecipare? 2) La parte invitata ha comunque l’obbligo di comunicarlo?

Per rispondere alla prima domanda, innanzitutto, io direi che bisogna distinguere a seconda che le parti si siano obbligate o impegnate ad esperire il tentativo di conciliazione ovvero che non vi sia alcun impegno esplicito precostituito.

1 La via arbitrale può essere scelta dalle parti prima dell’insorgere della lite ovvero dopo. Nel primo caso si ha la stipula di una clausola compromissoria (riferentesi ad una serie di controversie future che possono insorgere in collegamento ad un determinato rapporto contrattuale), mentre nel secondo caso si ha la stipula di un compromesso (riferentesi ad una determinata lite appunto già nata). Ora, se il d.lgs. n. 28/2010 prevede la figura della clausola di mediazione, in analogia alla clausola compromissoria, la mancanza di ogni previsione esplicita per la mediazione di una figura analoga a ciò che è il compromesso per l’arbitrato non mi sembra che possa impedire, tuttavia, la stipula di un contratto con cui le parti si vincolano ad un tentativo di conciliazione dopo che la lite è già nata.

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www.judicium.it Nello stipulare la clausola di mediazione le parti possono anche pattuire di effettuare il tentativo di fronte ad un certo organismo. Esse possono individuare il tipo di organismo ed anche, eventualmente, ancorare la scelta ad un certo territorio. Così, ad esempio, le parti possono pattuire che il tentativo di conciliazione sarà effettuato di fronte ad un organismo accreditato situato nella piazza di Milano. Oppure possono pattuire che esso sarà effettuato di fronte ad un certo tipo di organismo: quello del consiglio dell’ordine degli avvocati ovvero quello del consiglio di altro ordine professionale o ancora quello della camera di commercio ovvero quello di altro specifico ente accreditato. Ed a questa indicazione le parti possono anche aggiungere una previsione di

“competenza” territoriale, oppure non aggiungere nulla.

Lo stesso può accadere quando le parti aderiscono all’invito del giudice che vuole tentare la c.d. conciliazione delegata.

Ebbene, è ovvio che la parte invitata a partecipare ad una procedura di mediazione di fronte ad un organismo diverso, per tipologia e/o per territorio, da quello pattuito può partecipare ugualmente al tentativo e, se questa è la sua scelta, è possibile anche ravvisare nel caso una sorta di modifica tacita dell’accordo precedente, sia perché evidentemente ogni accordo può, in linea di principio, essere modificato sia perché, in modo specifico, l’art. 5, 5° comma, dispone che in ogni caso «le parti possono concordare, successivamente al contratto o allo statuto o all’atto costitutivo, l’individuazione di un diverso organismo iscritto». Ma, mi sembra che sia altrettanto ovvio come, se non è questa la scelta della parte, qui emerga quel giustificato motivo per la mancata partecipazione di cui parla il quinto comma dell’art. 8. Anzi, direi che questo è il vero modo per dare una qualche effettività ad un accordo tra le parti sull’organismo da adire.

Se non c’è un previo accordo delle parti, la risposta alla domanda posta potrebbe essere non facile. La legge non offre alcun appiglio e quello di “giustificato motivo” è il classico concetto giuridico indeterminato che starà poi ai giudici interpretare e soprattutto applicare, costruendo una casistica. Al momento noi possiamo solo immaginare delle linee generali che appaiano ragionevoli.

In attesa delle risposte della prassi, io direi che almeno due casi dovrebbero essere considerati certi.

Il primo: mi sembra che sia giustificata la mancata partecipazione al procedimento di mediazione di colui che, ad esempio, per un affare ancorato alla piazza di Milano sia invitato a partecipare ad un tentativo di mediazione di fronte ad un organismo situato a Catania. La legge non contiene diposizioni di competenza territoriale ed ha lasciato le parti libere di scegliere l’organismo che preferiscono. Così nulla impedisce che le parti situate a Milano per un affare tutto ancorato a detta piazza di accordino per esperire una procedura di mediazione di fronte ad un organismo situato a Catania. Ma, in mancanza di accordo, l’invito presso un organismo palesemente distante

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www.judicium.it dalla piazza dell’affare appare evidentemente vessatorio e, quindi, la controparte può ben, giustificatamente, declinare l’invito2.

Il secondo: è del tutto giustificata la mancata comparizione di chi non ha ricevuto la comunicazione della domanda di conciliazione. A questo proposito si ricorda che l’art. 3, 3°

comma, dice che gli atti della procedura non sono soggetti a formalità e l’art. 8 dispone che la domanda e la data del primo incontro sono comunicate all’altra parte con ogni mezzo idoneo ad assicurare la ricezione. In mancanza di previsioni regolamentari dell’organismo adito, l’istante può utilizzare la notificazione, ma può utilizzare anche altri mezzi (raccomandata, fax, posta elettronica, consegna a mano). Tuttavia, egli può sempre correre il rischio che la controparte, di fronte al giudice del processo instaurato dopo il tentativo di conciliazione, metta in dubbio l’avvenuta conoscenza della mediazione pendente, eventualità in cui all’istante spetterà provare che quella conoscenza sia stata ragionevolmente acquisita.

Ancor più dubbia è la risposta alla seconda domanda: la parte invitata ha l’obbligo di comunicare il motivo per cui non partecipa?

Qui si deve considerare che la procedura si mette in moto prima di sapere se entrambe le parti parteciperanno. L’istante deposita la domanda di mediazione presso l’organismo, il quale nomina il mediatore e fissa il primo incontro tra le parti. Successivamente domanda e data dell’incontro sono comunicate alla controparte. Insomma, prima di sapere cosa farà la parte invitata, c’è già una procedura pendente ed un mediatore nominato.

Ora, è indubbio che la valutazione intorno alla giustificazione o meno dell’assenza, e quindi all’applicabilità dell’art. 116, 2° comma, c.p.c., spetta essenzialmente al giudice del processo, valutazione che il giudice fa su ciò che la parte in giudizio afferma in quel momento, restando del tutto irrilevante che essa si sia sentita in dovere o meno di giustificarsi nella procedura di mediazione. Né eventuali valutazioni in tal senso del mediatore avranno per lui alcun valore.

Quindi io direi che non c’è un obbligo di giustificarsi. Immaginare la configurabilità di questo obbligo sarebbe evidentemente assurdo quando la parte invitata non ha in realtà ricevuto l’invito.

Ma esso non è configurabile neanche quando, al contrario, essa ha avuto conoscenza dell’invito.

Del resto, se veramente sussiste un giustificato motivo, perché la parte invitata in modo vessatorio dovrebbe attivarsi, sostenendo anche delle spese3, per giustificarsi? La partita la giocherà tutta e solo nel processo e lì darà le sue giustificazioni.

2 Nel caso concreto un giustificato motivo di assenza potrebbe derivare anche dalla scelta di un certo tipo di organismo, anche se territorialmente individuato in modo ragionevole. Non si può escludere che per una certa tipologia di cause sia più opportuna la scelta di un certo organismo e non di altri. Ma qui entriamo in un campo fluido, nel quale in astratto si può dire ben poco, dovendosi vedere le caratteristiche del caso concreto.

3 Magari rivolgendosi pure ad un avvocato per stare più tranquilla.

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www.judicium.it Tuttavia, se la parte invitata non è obbligata a giustificarsi, non è detto che a lei convenga sempre non giustificarsi. Qui emerge un’altra difficile domanda: il mediatore deve sen’altro chiudere la mediazione, preso atto della “contumacia” della parte invitata?

4. Conseguenze nella procedura di mediazione.

La legge disciplina la “contumacia” solo al fine di indicare al giudice del processo la possibilità di trarne argomenti di prova per definire in modo aggiudicativo la controversia. Ma essa non dice nulla in ordine alle conseguenze da trarre nell’ambito della procedura di mediazione. In altri termini, la legge non prevede che la mediazione debba senz’altro chiudersi in mancanza della cooperazione di una parte, né dice che, al contrario, essa debba procedere ugualmente ove magari il mediatore valuti ingiustificata l’assenza della parte invitata.

La vicenda che analizziamo si trova, allora, a dover fare i conti con due disposizioni del d.lgs.

n. 28/2010, dall’applicazione delle quali potrebbero emergere problemi pratici assai spinosi.

La prima, contenuta nell’art. 11, secondo la quale il mediatore può formulare una proposta di conciliazione anche se le parti non gliene fanno concorde richiesta, quindi, in pratica, quando lo ritenga opportuno; con la conseguenza che o le parti la accettano secondo quanto previsto nel secondo comma del citato art. 11 oppure essa avrà nel successivo processo sulla stessa controversia le conseguenze che in materia di spese sono fissate nell’art. 13 del medesimo d.lgs.

La seconda, contenuta nell’art. 4, che così recita: «In caso di più domande relative alla stessa controversia, la mediazione si svolge davanti all’organismo presso il quale è stata presentata la prima domanda».

Cominciando dalla prima questione, a fronte di un inavveduto legislatore si spera che i regolamenti dei vari organismi ci mettano una pezza, prevedendo che il mediatore debba senz’altro chiudere la procedura verbalizzando la mancata partecipazione della parte invitata. Poi si potrà anche prevedere che il mediatore indichi qualcosa di più: il motivo che ha addotto la parte invitata per non partecipare ovvero il mancato invio di ogni giustificazione. Ma, comunque, ciò che accade in questa sede conterebbe poco, anzi direi nulla, di fronte al giudice. Non avrebbe senso se il mediatore indicasse la sua valutazione della situazione, perché starà solo al giudice svolgere una simile valutazione. Oltretutto, non vedo come si potrebbe impedire alla parte invitata di allegare nel processo una serie di motivi non spesi nel procedimento di mediazione. In altri termini, non è ipotizzabile alcuna preclusione, ben potendo l’interessato allegare in giudizio fatti giustificativi della sua mancata cooperazione al tentativo di conciliazione non spesi di fronte al mediatore.

Se vi sono previsioni regolamentari di questo tipo, il mediatore non può fare altro che chiudere la procedura a fronte della “contumacia”. Se, per avventura, egli non dovesse limitarsi a

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www.judicium.it ciò, travalicando i limiti del suo compito e magari, sulla base di una sua valutazione di slealtà della parte invitata, dovesse giungere a formulare una proposta di conciliazione, eventuali danni che dovesse subire da questa vicenda la parte “contumace” sarebbero imputabili all’organismo, il quale poi evidentemente si rifarebbe sullo sconsiderato mediatore.

Se, invece, il regolamento dell’organismo non prevede nulla, la situazione diventa dubbia. È del tutto ragionevole immaginare che un mediatore accorto non possa fare altro che chiudere la partita, se in campo c’è un solo concorrente. Anche una generica esigenza di imparzialità del mediatore dovrebbe spingere in questo senso.

Ma una simile conclusione non è per nulla scontata. L’art. 3, 2° comma, prevede che i meccanismi di nomina del mediatore debbano assicurarne l’imparzialità. E l’art. 14, nel disciplinare gli obblighi del mediatore non dice nulla sul caso che ci occupa ed anzi, trattando della proposta di conciliazione, in esso si legge solo che il mediatore deve formularla ovviamente nel rispetto dell’ordine pubblico e delle norme imperative.

Insomma, non è escluso che il mediatore, pur nell’assenza di una parte, si senta in diritto di formulare una proposta di mediazione inviandola per iscritto anche alla parte “contumace”. Magari perché egli ritiene che la mancata cooperazione di questa sia sleale o comunque non meriti giustificazione. Si pensi al caso in cui, avendo le parti stipulato una clausola di mediazione che prevedeva il tentativo di fronte ad un certo organismo, una di esse, insorta la lite, attivi il tentativo proprio di fronte a quel certo organismo: qui è facile che il mediatore ravvisi una slealtà nella parte che, invitata, non partecipa e magari senza neanche dire il perché.

Una situazione di questo tipo non è qualificata in termini giuridici da alcuna norma di legge.

A ciò si aggiunga che alla proposta, formulata e non accettata, si applica oggettivamente l’art. 13, senza che ci si possa porre un problema di validità. Si tenga presente che la mediazione non è un procedimento in senso tecnico, non potendo a questo applicarsi i principi che valgono per il procedimento in generale e per il processo in particolare. In questo l’atto finale della serie è invalido, non solo per vizi suoi, ma anche se si sono verificate delle nullità degli atti antecedenti che si sono andate a ripercuotere appunto su di esso. Ma il c.d. procedimento di mediazione non può produrre nullità che si ripercuotano, in ipotesi, sull’atto finale. Di conseguenza, se questo atto finale è la proposta non accettata, essa non è qualificabile come rituale o irrituale, ma solo come equa o iniqua. E quanto sia equa o iniqua è valutabile oggettivamente raffrontando il suo contenuto col contenuto della sentenza che definisce il processo sulla stessa controversia.

Insomma, detto in termini più semplici, se il mediatore formula una proposta, si determinano nel processo le conseguenze delineate nell’art. 13, a prescindere dal fatto che quella proposta potesse o meno essere formulata.

Qui emerge in tutta evidenza un grave problema, che deriva, non certo dal quinto comma dell’art. 8, quanto piuttosto dalla sciagurata previsione dell’art. 11 che permette al mediatore di

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www.judicium.it formulare una proposta anche in mancanza di richiesta delle parti. Ed è in virtù di questo, possibile, inconveniente che a me sembra consigliabile che la parte invitata comunichi in ogni caso le ragioni della sua mancata partecipazione. Ancorché non obbligata a ciò, è bene che la parte invitata si giustifichi per pararsi da possibili scelte sbrigative del mediatore, scelte che il mediatore per assurdo può fare anche a fronte di una giustificazione, ma che è più difficile che faccia se l’assenza è giustificata, a meno che non immaginiamo casi di follia.

Venendo al secondo problema, il punto è capire il rapporto tra il quinto comma dell’art. 8 e il primo comma dell’art. 4, che, quasi riecheggiando l’art. 39 c.p.c. sulla litispendenza, dice che, ove siano iniziate due procedure di mediazione, quella iniziata per prima attrae l’altra, ossia la mediazione si svolge davanti all’organismo presso il quale è stata presentata la prima domanda.

Il quesito che sorge a questo proposito è il seguente: la norma sulla prevenzione vale anche quando vi è nella procedura iniziata per prima un giusto motivo che giustifica la mancata partecipazione della parte invitata?

Poniamo un caso evidente: in presenza di una clausola di conciliazione nella quale le parti hanno pattuito di esperire un tentativo di conciliazione di fronte ad un certo tipo di organismo, magari anche indicando il luogo (ad esempio: l’organismo di conciliazione della camera di commercio di Milano), Tizio, a seguito dell’insorgenza della lite, presenta la domanda di mediazione presso un diverso tipo di organismo (ad esempio quello dell’ordine degli avvocati di Milano) o magari presso lo stesso tipo, ma in luogo diverso (indicato nella clausola l’organismo della camera di commercio di Milano, l’istante si rivolge ad esempio alla camera di commercio di Firenze). A fronte di questa mossa, la controparte Caio, dopo aver scelto, e in modo del tutto legittimo, di non partecipare al procedimento di mediazione così instaurato, ne instaura immediatamente un altro di fronte all’organismo che era indicato nella clausola di mediazione.

Ora, stando all’art. 4, 1° comma, la seconda procedura dovrebbe essere attratta dalla prima.

Ma a mio parere le cose non sono così semplici ed in parte la soluzione del problema dipende dalle previsioni dei regolamenti.

Poniamo che in entrambi i regolamenti interessati si preveda che il mediatore, in caso di

“contumacia” della parte invitata, debba comunque chiudere la procedura, che sia o meno giustificata l’assenza, e che in entrambe le procedure la parte invitata resti “contumace” (Caio nella prima e Tizio nella seconda). In tal caso è evidente come in realtà nessuna procedura “si svolga”, come recita l’art. 4, 1° comma, per cui nessuna procedura attira l’altra, dovendosi chiudere entrambe. Starà poi al giudice del processo valutare la vicenda applicando l’art. 116, 2° comma, contro quella parte la cui assenza non era, a suo parere, giustificata.

Ove, poi, nella seconda procedura la parte invitata compaia, allora sarà senz’altro questa a proseguire con la possibilità che si arrivi ad una proposta, che avrà il valore eventuale di cui all’art.

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www.judicium.it Se, invece, nei regolamenti non è previsto che il mediatore debba semplicemente limitarsi a chiudere la procedura per la “contumacia” della parte invitata, allora può succedere di tutto. Ancora una volta emerge la problematicità di una disposizione come quella di cui all’art. 11, ai sensi della quale il mediatore può formulare una proposta anche senza la richiesta di entrambe le parti.

Il mediatore investito per primo potrebbe procedere, convinto, a torto o a ragione, della slealtà della parte assente. Ma anche il mediatore adito per secondo potrebbe ugualmente procedere, ritenendo, per un verso, che la parte assente non abbia un giustificato motivo per la sua assenza e, per altro verso, che non sia applicabile l’art. 4, 1° comma, perché a suo parere il mediatore investito per primo sarebbe “incompetente”, per ragioni territoriali o per altre ragioni. Certo, detta norma non distingue e sembra prevedere la chiusura della seconda procedura, a prescindere da ogni altra valutazione, per il solo fatto che la procedura iniziata per prima si svolga. Ma, per un verso, una simile interpretazione potrebbe anche essere dubbia e, per altro verso, in ogni caso non vi è modo per rendere effettiva una simile disposizione, perché, quand’anche il mediatore investito per secondo non dovesse erroneamente spogliarsi dell’affare, non per questo una sua eventuale proposta o una conciliazione da lui raggiunta sarebbe invalida. Invero, finita la procedura, se si è raggiunta la conciliazione, questa è valida o meno a prescindere da eventuali, presunti, vizi della procedura. E se, poi, è stata solo formulata una proposta, questa sarà equa o iniqua in base a ciò che emergerà nella causa di fronte al giudice, per cui ad essa saranno ricollegabili gli effetti dell’art. 13 su base puramente oggettiva.

Fino all’assurdo di immaginare che, proseguendo entrambe le procedure, perché entrambi i mediatori ritengono opportuno andare avanti, si giunga magari a due contrastanti proposte di conciliazione. Varrà allora l’art. 13? E in quale modo il giudice potrà applicarlo, avendo di fronte, non una proposta, ma due proposte ed anche contrastanti?

5. Conseguenze nel processo.

La conseguenza della mancata comparizione nella procedura di mediazione in sé e per sé è, come più volte detto, il fatto che il giudice può trarre da questo comportamento argomenti di prova ai sensi del secondo comma dell’art. 116 c.p.c., se esso non è sorretto da un giustificato motivo.

Ovviamente, se, nonostante l’assenza, si è arrivati alla formulazione di una proposta, questa sarà valutata ai sensi dell’art. 13. Ho già rilevato come una simile eventualità non sia auspicabile.

Ma è anche vero che essa può in concreto realizzarsi e che la proposta ha il valore di cui al citato art. 13 su base puramente oggettiva.

Al di là di questa eventualità, l’assenza in sé e per sé può essere un elemento di valutazione per il giudice nell’attribuzione del torto e della ragione.

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www.judicium.it Sul giustificato motivo, in virtù del quale è possibile evitare la detta conseguenza, abbiamo già detto. E così abbiamo già detto anche del monopolio del giudice in ordine a tale valutazione, nel senso che il giudice non può certo essere influenzato da quanto eventualmente abbia detto il mediatore, se questi ha detto qualcosa.

Resta solo da specificare il senso giuridico del concetto di “argomenti di prova”. Ora, se gran parte della dottrina ritiene che qui siamo in presenza di una fonte di convincimento del giudice di grado comunque inferiore alle presunzioni ed ai mezzi di prova, spesso in giurisprudenza non emerge la stessa opinione. Seguire la prima prospettiva significa ritenere che il giudice può utilizzare gli argomenti di prova solo in modo ausiliario ed aggiuntivo, per cui egli non potrebbe fondare la sua decisione solo su di essi. Seguire la seconda prospettiva significa, invece, lasciare mano libera al giudice, fino al punto di ritenere che egli possa fondare la sua decisione anche solo sugli argomenti di prova.

È evidente quanto, in un quadro così fluido, si perda in certezza del diritto, finendo una vicenda come quella in commento per poter avere conseguenze assai diverse a seconda del mediatore e del giudice che si incontrano.

Insomma, la parte che decide di non partecipare ad una procedura di mediazione corre molti rischi, anche se magari ha tutte le ragioni per rimanere assente.

Può correre il rischio di vedersi formulare ugualmente una sgradita proposta di conciliazione, con tutte le conseguenze di cui all’art. 13. Ma, anche al di là di questa eventualità, che comunque a me sembra presentarsi come un caso limite, egli corre il rischio in ordine alla valutazione del suo comportamento. Invero, il giudice potrebbe ritenere ingiustificato il motivo della sua assenza. E, poi, traendo il giudice da una simile valutazione negativa elementi per il suo convincimento, anche al di là di quello che ragionevolmente vorrebbe il legislatore, egli potrebbe addirittura arrivare a perdere la causa essenzialmente e solo per quella sciagurata scelta.

Ecco allora che, nell’incertezza del quadro normativo, emerge lo spettro di un illiberale obbligo di cooperare comunque al tentativo di conciliazione che l’altra parte ha deciso d’intentare, anche se non vi era la necessità per legge o per contratto ed anche se il modo in cui è incardinato il tentativo potrebbe sollevare più di un dubbio.

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