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PARTE PRIMA Dono e modelli culturali della disabilità

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Academic year: 2021

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PARTE PRIMA

Dono e modelli culturali della disabilità

Capitolo 1

Cerchi dell’etica, reciprocità e dono

1. Io/Noi-centrismo

Se, dunque, l’antropologia studia il senso comune, per come precedentemente definito, nonché il rapporto dialettico fra agentività e struttura sociale che consente di non incorrere nel rischio di esaurire l’una nell’altra, vorrei adesso far ritorno a quei gruppi umani e relativi attori sociali di cui intendo occuparmi in questa prospettiva e che ho proposto di riconsiderare secondo la nozione di «cerchi dell’etica» di Alberto Cacopardo (A.A. 2007/2008, 171-209). Come ben sintetizza Roberta Medda Windischer, infatti, «una metafora ricorrente nei dibattiti sull’appartenenza alla società è quella di vita vissuta all’interno di una serie di cerchi concentrici, in cui al centro risiede l’Io e nel cerchio più esterno risiede l’umanità. Tra il centro abitato dall’Io e l’ultimo cerchio in cui risiede l’umanità sono collocati il cerchio della famiglia, del vicinato, della religione, del gruppo etnico, e il cerchio della nazione» (2013, 36). Ma già questa connessione all’Io individuale proprio di realtà societarie come la nostra non sempre rispecchia la modalità di interpretare l’appartenenza a raggruppamenti di volta in volta inglobantisi. In effetti, alla voce “Etnocentrismi” dell’Enciclopedia Einaudi, Edmond Leach suggerisce che se «ogni essere umano, qualunque sia la sua identità culturale, ha la sensazione di trovarsi al centro di un universo privato», d’altro canto «in quella parte del mondo occidentale contemporaneo che è dominata dall’etica dell’individualismo competitivo questo egocentrismo è segnalato da un uso estremamente frequente di asserzioni espresse alla prima persona singolare: “Io faccio questo…”, “Io faccio quello…”», mentre «in società con una diversa tradizione culturale l’individuo è spesso molto più portato ad identificarsi con i membri del suo gruppo: “Noi facciamo questo…”, “Noi facciamo quello…”» (1978, 955). Leach, dunque, ai fini della sua analisi dell’etnocentrismo, predilige quei frangenti in cui comunque «il “noi” tende a sostituire l’“io” come centro d’autoidentificazione» (ivi, 955),

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osservando come «in una forma o in un’altra, indizi d’etnocentrismo sono rinvenibili in tutte le società umane» (ivi, 956)1.

Sebbene, in effetti, il termine «etnocentrismo», come argomenta Francesco Remotti, sia composto dai due elementi semantici di «etnicità» e «centralità», è innanzitutto opportuno osservare che esso da un lato si richiama anche a forme di rappresentazione non sempre riconducibili a quella dei cerchi concentrici da noi presa in esame, dall’altro, in una prospettiva riflessiva, viene oggi a sancire come «etnocentrici non sono soltanto gli altri, etnocentrici siamo pure noi (le comunità accademiche chiuse quanto i villaggi di contadini). È il ‘noi’ in quanto tale (non importa se nostro o degli altri) a essere autocentrico» (1993b, 9), per cui «è probabilmente opportuno sostituire la nozione di etnocentrismo con quella di noi-centrismo (o meglio, considerare la prima come una variante della seconda)» (ivi, 10). In effetti, Vittorio Lanternari suggerisce che il fenomeno dell’etnocentrismo sia frammentario piuttosto che omogeneo, manifestandosi in contesti e con atteggiamenti alquanto vari in una articolata «morfologia degli etnocentrismi» (1983, 13-129). Non sono cioè soltanto le realtà «tradizionali» ed «etniche» da sempre studiate dagli antropologi, indebitamente assunte come portatrici di chiusura etnocentrica da un processo di attribuzione identitaria esso stesso paradossalmente in primis etnocentrico, ma anche le cosiddette società «moderne», ove ad esempio la divisione sociale per classe, casta, genere, razza, età e, perché no, disabilità, può comportare il costituirsi, secondo una diversa rilevanza, di altrettanti «centri d’autoidentificazione collettiva» (Leach 1978, 956).

Da un lato, dunque, abbiamo un etnocentrismo che possiamo definire con le parole di Remotti quale

atteggiamento pregiudiziale, caratterizzato da: a) una differenziazione qualitativa (non meramente quantitativa) tra la cultura di appartenenza e quella degli altri gruppi; b) una rivendicazione più o meno accentuata, esplicita e convinta delle qualità autenticamente umane della propria cultura; c) una classificazione-relegazione degli altri in un’unica categoria, o in un numero molto ristretto di categorie, a cui non si riconoscono gli attributi che caratterizzano la vera umanità (1993b, 1).

Esso, dunque, in ultima analisi, non costituisce tanto una «classificazione» di forme di umanità variegate quanto una «valutazione», nonché un’«autoattribuzione», di umanità. Ecco allora che tale rivendicazione viene spesso attuata da gruppi di varia entità, ciascuno dei quali si configura in una specifica arena di interazioni e scambi oltre la quale i summenzionati connotati di umanità che lo definiscono vanno sempre più scemando via via che ci si allontana da esso.

Da un altro lato, tuttavia, tale punto di partenza molto vincolato all’idea di «etnicità» si svincola da essa includendo, in un’accezione ampia e metaforica, gruppi sociali ben più vari e di varia dimensione, laddove, riprendendo il discorso precedentemente accennato, in specifici contesti societari la suddetta rivendicazione di «autentica umanità», ad esempio, può inerire il genere maschile nei confronti di quello femminile, il mondo adulto rispetto a quello giovanile                                                                                                                

1  Egli mantiene tuttavia un radicamento della trasversalità di questo processo non tanto nell’universale costituirsi di ogni comunità umana in «gruppo-di-noi» rispetto agli altri, ma in «un’estensione dell’egocentrismo che si trova alle autentiche radici della coscienza umana» (ivi, 969). In tal senso, dunque, un qualcosa di «innato» in quanto «essenziale» sembra per l’autore soggiacere al fenomeno dell’etnocentrismo.

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o infantile, con una conseguente separazione sociale e un distanziamento valoriale rispettivamente di donne e bambini2. Ecco allora che lo stesso Remotti riconsidera, in accezione più ampia e comprensiva, la definizione data di etnocentrismo:

Per un verso si osserva il riemergere di aspetti molto simili in contesti del tutto eterogenei, aspetti che possono essere sintetizzati in questo modo: a) rivendicazione di umanità da parte di un qualche gruppo; b) separazione nei confronti di ‘altri’, portatori di forme inferiori di umanità. Per un altro verso si nota che sono estremamente diversi ed eterogenei i soggetti che compiono le operazioni a (rivendicazione) e b (separazione). In ogni caso i soggetti non coincidono necessariamente ed esclusivamente con gruppi etnici (1993b, 6).

Possiamo quindi infine chiederci quanto il ricorso a questo concetto per descrivere una tale molteplicità di «soggetti etnocentristi» rimanga adeguato. In tal senso, è certo possibile mantenere la pregnanza del termine rendendolo però rappresentativo di tutti i gruppi (popolazioni come classi sociali, istituzioni come gruppi di età) semplicemente sostituendo all’«etno» il «noi». William Graham Sumner, che per primo ha elaborato la nozione di etnocentrismo, utilizza in effetti le espressioni di «gruppo-di-noi» (we-group) che si distingue per solidarietà e condivisione interne, come pure per conflittualità e separazione con l’esterno, rispetto ai «gruppi-di-altri» (others-groups) (1906, in Remotti 1993b, 7)3.

A questo punto, l’analisi ritorna a quell’accentramento sul noi menzionato anche da Leach che connota ogni realtà umana. Ma c’è qualcos’altro, un ulteriore dilemma che Remotti pone nel momento in cui l’etnocentrismo assume valenze critiche e criticabili contrapponendo l’autentico al surrogato, la solidarietà al conflitto: «è possibile liberarsi dall’etnocentrismo?» (1993b, 8). La risposta a primo acchito sembra essere che esso non solo rappresenta la modalità con cui ogni gruppo si distingue dagli altri, ma costituisce «una universale caratteristica umana» (Leach 1978, 955), inerente tanto alla “tradizione” quanto alla “modernità”. Forse, però, potremmo formulare un’ulteriore domanda, che può consentirci di risalire alla radice del problema fino a superarlo: l’etnocentrismo è un fenomeno da considerarsi come esclusivamente negativo? In effetti, Remotti argomentando su «ragione» e «chiusura» come attributi assoluti ed esclusivi assegnati il primo alla nostra società e il secondo alle altre società, arriva a sostenere che l’etnocentrismo, nella sua inevitabilità, «assume una funzione e un valore positivi e insostituibili» (1993b, 9).

Possiamo innanzitutto affermare, con riferimento alle parole di Clifford Geertz, che se «il pensiero umano è profondamente sociale: nelle sue origini, nelle sue funzioni, nelle sue forme, nelle sue applicazioni» (1998, 319) e «in fondo il pensare è un’attività pubblica - il suo habitat naturale è il cortile di casa, la piazza del mercato e quella del municipio» (ibid.), allora quel noi, tanto esecrabile in una contrapposizione escludente dell’altro, diventa purtuttavia fondamento di espressione del pensiero e di organizzazione della vita comunitaria. Nel                                                                                                                

2  Gli studi di Doris Bonnet sulla rappresentazione del concepimento, della nascita e dello svezzamento del bambino fra i Mossi del Burkina-Faso ne sono un esempio: almeno fino agli anni ’80, quando la studiosa condusse le sue ricerche, il bambino era qui considerato non ancora appartenente al mondo umano fino al compimento dello svezzamento, che avveniva verso i tre anni, e all’attribuzione del giusto nome che ne sanciva l’ingresso definitivo; nel caso in cui, tuttavia, questi presentasse una serie di manifestazioni patologiche, che ne segnavano la permanenza nella condizione di non-umano per la prosecuzione di un contatto col mondo dei geni e degli antenati da cui si riteneva provenisse, veniva talvolta rinviato ad esso tramite la pratica dell’infanticidio (1994, 93-110).

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contempo, la supposta chiusura storicamente attribuita alle alterità tradizionali ha visto al contrario quest’ultime capaci di «aperture» e mutamenti, disponibili all’accoglienza e alla comunicazione, cosa che ci consente finalmente di affiancare al «noi-centrismo» l’«allo-centrismo». Nelle parole di Remotti:

Ma è allora indispensabile dar luogo a una vera e propria antropologia del ‘noi’, la quale ponga in luce il suo carattere situazionale, oltre che fondamentale, elabori una tipologia dei vari ‘noi’, e soprattutto faccia intravedere come i ‘noi’ siano fatti non soltanto di identità, ma di identità e di alterità insieme, come siano attraversati da correnti di alterità (dall’esogamia ai commerci, dall’antropofagia alla stessa antropologia), come chiusura e apertura, ‘noi-centrismo’ e ‘allocentrismo’ si combinino in modi vari, complessi e problematici per dare forma a, e nello stesso tempo alimentare, aree di comunicazione e di scambio (1993b, 10).

Ecco allora configurarsi la possibilità del dialogo e del cambiamento anche fra noi-centrismo diversi e all’interno di uno stesso, nella dialettica con l’allocentrismo. Una dialettica che rende anche possibile reintrodurre quell’“io” in precedenza abbandonato. Come suggerisce Roberto De Vita, infatti,

l’incontro con un Tu rimanda necessariamente ad un interrogarsi sull’Io. L’alterità è il veicolo della nostra dilatazione, perché comprendendo l’Altro che è in me e che è fuori di me io dilato me stesso rimanendo altro dall’Altro che ho compreso. Nella relazione Io-Noi, dietro ogni Noi ci sono infiniti Io che si nascondono. Più un soggetto o un popolo è ricco di una sua identità culturale più sarà in grado di accogliere e confrontarsi con la diversità senza doversi difendere. Si innesca una reazione complessa a doppia contingenza (1998, 17).

Tale osservazione, sebbene riferita all’alterità culturale in contesto migratorio, risulta proficua anche per la mia prospettiva d’analisi sull’esperienza di disabilità, unitamente all’idea di una variegata e talvolta sorprendente combinazione di “noi-centrismo” e “allo-centrismo”. Intendo, infatti, fare un ricorso equamente bilanciato, o talvolta sbilanciato, ai due poli dell’“io” e del “noi”, che rispecchi l’eventuale oscillazione degli attori dei gruppi da me indagati dall’uno all’altro, consentendomi in tal modo, come vedremo, di riconfigurare i gruppi stessi. Questo fenomeno a mio avviso rispecchia due elementi fondamentali in parte già menzionati: il rapporto fra individuale/dividuale e quello fra agentività/società.

L’uno concerne il fatto che in ogni realtà societaria, sebbene secondo pregnanze, processi e forme diversi, elementi dividuali ed individuali definiscono entrambi il vissuto umano nel contesto dato: se i primi consentono di trovare l’interdipendenza sociale anche dove essa sembra ormai soffocata dal costante riferimento a un individuo libero, unico ed uguale ai suoi consimili, i secondi permettono di riscontrare l’evenienza di scelte che fuoriescono dal percorso sancito da quei gruppi di appartenenza che sembrano richiamare i propri membri ad un’esclusiva logica dividuale (Nussbaum 2001a; 2002; Cutolo 2005; 2007).

L’altro elemento riguarda l’importanza di mantenere sempre il focus sulla dialettica fra agentività e struttura, laddove questo termine, che traduce quello inglese di agency nell’uso che ne fanno gli studiosi quale «modo per parlare della capacità umana di agire» (Ahearn 2001, 18), può venire ad indicare una proprietà individuale, come sovra-individuale (si pensi, ad esempio, a istituzioni pubbliche, famiglie, realtà associazionistiche che possono in qualche modo far luce su strutture e rappresentazioni quali genere, razza, classe e, come suggerisce Lennard Davis, disabilità (1995)), nonché sub-individuale (Laura Ahearn riporta come esempi

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i dialoghi interiori e le soggettività frammentate (2001)). Gli esponenti della teoria della pratica, inoltre, nel tentativo di dare una spiegazione della dialettica fra «riproduzione sociale» e «trasformazione sociale» ricorrono alla nozione di agentività non tanto nell’accezione di «azione» o «libero arbitrio», ma quale tipo di azione «agentivo», «voluto dall’agente», per indicare proprio come al contempo la società viene a vincolare ed influenzare l’azione umana e quest’ultima a sua volta costituisce e modifica la struttura sociale nella costante negoziazione interazionale (Ahern 2001, 18-23; Herzfeld 2006).

2. Sistemi a scatole cinesi: dal cerchio di appartenenza al cerchio dell’etica

Quanto detto, c’introduce a quel sistema di articolazione identitaria a scatole cinesi che, come osserva Cacopardo, ricorre nella letteratura delle scienze umane, e antropologiche nello specifico (A.A. 2007/2008). Ecco, allora, che gruppi umani coesi (societari come pure interni ad una stessa società) possono essere rappresentati come «cerchi dell’etica», o anche «orizzonti dell’etica», che seguono un andamento concentrico.

Questo modello risalta in una delle monografie etnografiche fondative della storia della disciplina antropologica, nonché di quel suo ambito che si interessa ai sistemi di organizzazione sociale e politica: I Nuer (The Nuer) di Edward E. Evans-Pritchard del 1940 (2002). L’antropologo britannico, infatti, individuò per questa “tribù” del Sudan, presso cui soggiornò negli anni Trenta, una ripartizione sociale segmentaria connessa alla presenza del lignaggio come struttura di discendenza parentale4. Si tratta di una società eminentemente di allevatori (sebbene sia praticata anche l’agricoltura, ma limitatamente alle possibilità ambientali) che vive lungo il Nilo, la cui vita è scandita dall’alternarsi di stagione delle piogge e stagione secca. L’organizzazione lignatica del gruppo coincide con una segmentazione territoriale per cerchi concentrici, ad individuare categorie socio-spaziali l’una inglobante l’altra. Il fulcro è costituito dalla «capanna», che rappresenta una famiglia nucleare; più capanne sono riunite all’interno di un recinto a formare un «casale», al cui interno sono solo parenti stretti; svariati casali contigui costituiscono un «villaggio», che a sua volta, unitamente ad altri villaggi, forma un «distretto»; i distretti si raggruppano in «sezioni secondarie» le quali, insieme ad altre, costituiscono le varie «tribù»; esse, a proprio turno, si raccolgono in una «nazione», che con altre nazioni, configura il «governo».

Da questo breve excursus emerge un modello che - come vedremo - è applicabile a tanti sistemi sociali anche culturalmente diversi e/o storicamente distanti fra loro. Resta il fatto che, per quanto concerne i Nuer, i rapporti che connotano questa società sono di tipo segmentario ed eventuali situazioni di attrito comportano opposizioni complementari: se, ad esempio, due distretti sono in conflitto, i rispettivi villaggi al loro interno, anche se precedentemente in lite, trovano un nuovo accordo e appoggiano ciascuno il villaggio di comune appartenenza nella                                                                                                                

4  La nozione di “tribù”, all’epoca designata dall’autore come «nazione», gruppo sociale ben definito, è stata oggi rivista in tutta la sua variabilità descrittiva, per cui può solo connotare una “comunità acefala”, distinta dalla “banda”, in quanto non vive di caccia e raccolta, ma senza confini definiti, per cui tribù diverse possono intersecarsi tra di loro (cfr. Evans-Pritchard 2002; Service 1983; Lewellen 1987).

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contrapposizione all’altro. Poiché, inoltre, tale suddivisione segue una linea di discendenza lignatica, che implica una segmentazione parentale, ogni gruppo territoriale ha un lignaggio dominante, che spesso rappresenta una minoranza, non ha nessun privilegio, né segno di distinzione, ma solo il prestigio di essere titolare di un determinato luogo. Certo è che i Nuer emergono dalla trattazione di Evans-Pritchard come un popolo molto conflittuale, che procede secondo un marcato senso dell’«onore»; ma la frequenza e l’intensità del conflitto variano, in maniera reciprocamente inversa, con la vicinanza/distanza territoriale. Tra villaggi vicini, ad esempio, i conflitti sono intensi ma poco frequenti; viceversa, tra distretti lontani si creano conflitti più frequenti e sorgono le faide (in cui si possono risolvere le controversie sia con omicidi che con compensazioni, solitamente preferite). A tutto ciò corrisponde anche una differenziazione nell’uso delle armi: nei conflitti tra villaggi si può utilizzare solo il bastone (non le lance) e non si verificano faide, perché non ci si possono permettere conflitti prolungati; la faida, invece, come suddetto, è ammissibile a livello di distretti; fra tribù, infine, può regnare la guerra e non vige nessuna regola.

Insomma, riprendendo l’analisi di Leach sul rapporto fra regole di esogamia vigenti in quasi tutte le società umane e la forma segmentaria che le relazioni parentali possono assumere in alcuni gruppi di dimensioni più ridotte, risalta come

i sottogruppi, che sono segmenti dell’intero, variano di misura, ma ciascuno di tali segmenti è esso stesso segmento allo stesso modo. I membri di ciascun segmento e sottosegmento pensano di essere discendenti di un antenato comune; più vicino è l’antenato, più stretto è il legame tra i discendenti. Ma i segmenti e sottosegmenti sono poi congiunti trasversalmente da vincoli di matrimonio, sicché l’insieme prende la forma di una comunità endogama (1978, 957).

Ciò ci porta a rilevare come, appunto, il primo livello di identificazione di ciascun membro del gruppo sia quello dei parenti più stretti, cioè del segmento esogamo di appartenenza; in seconda istanza vi è la più ampia società endogama, che include il gruppo suddetto e tutti coloro con cui esso può stringere alleanze matrimoniali. Certo è che, come argomenta Leach, «l’autoidentificazione che mi unisce alla “mia famiglia” è quasi sempre molto più efficace di quella che mi lega alla “mia nazione” o alla “mia comunità etnica”» (ivi, 957). Insomma, la condivisione di una «comune essenza corporea» è più forte che non quella di un «mitico fondatore»: si è sempre esseri umani in egual maniera e si rientra in una comune linea di discendenza, ma permane una qualche distanza che distingue il gruppo esogamo di appartenenza dagli altri. Infine, al di là di questo limite, si prefigura quell’ulteriore cerchio esterno che è rappresentato da quelle «persone ancora più estranee» che si trovano «oltre i confini dell’umanità» e rispetto alle quali, come abbiamo appena osservato per i Nuer, nessuna norma vige e tutto è permesso (ivi, 958). Se, infine, l’autore suggerisce che un tale modello segmentario sia riconducibile ad un’ampia varietà di organizzazioni umane che vanno ben oltre l’idea di «solidarietà meccanica» di Emile Durkheim (1999), includendo tanto bande di cacciatori e raccoglitori quanto società tribali, tanto l’organizzazione di una fabbrica moderna quanto la strutturazione gerarchica della società indiana, egli così descrive infine il delinearsi al suo interno della relazione con l’alterità:

il tratto essenziale di tali sistemi è costituito dal fatto che, a ogni particolare livello d’autoidentificazione, “noi” siamo in grado di riconoscere la nostra esistenza come gruppo aggregato attraverso la percezione di un contrasto. “Noi” e “gli altri” costituiamo una coppia di gruppi, omologhi ma contrapposti. Riconosciamo chi sono i “noi” in base a criteri negativi; noi

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non siamo come “gli altri”. Ma ciascuno di tali gruppi-di-“noi” racchiude un certo numero di sottosegmenti a proposito dei quali si può dire la stessa cosa, per quanto su una scala più ridotta e a un più circoscritto livello d’autoidentificazione. (ivi, 957-958)

In questa prospettiva, insomma, si può dire che vi è sempre un po’ di “alterità” in ogni richiamo a un “noi” identitario; o meglio, in queste realtà societarie, ogni noi racchiude un certo numero di “noi” che si delineano come tali rispetto ad altrettanti “altri”.

Riassumendo, dunque, con le parole Evans-Pritchard sull’organizzazione socio-politica Nuer, per come da lui stesso rilevata,

la definizione di una tribù si basa, dunque, su: 1) un nome comune e distinto; 2) un sentimento comune 3) un territorio comune e distinto; 4) un obbligo morale di unirsi per la guerra; 5) un obbligo morale di superare le faide e le altre dispute con l’arbitraggio. A questi cinque punti si possono aggiungere tre altre caratteristiche […]; 6) una tribù è una struttura segmentaria e tra i suoi segmenti esiste opposizione; 7) in ogni tribù c’è un clan dominante e la relazione tra la struttura dominante di questo clan e il sistema territoriale della tribù ha molta importanza strutturale; 8) una tribù è una unità in un sistema di tribù; 9) le classi d’età sono organizzate tribalmente. […] Le tribù adiacenti sono opposte le une alle altre e si combattono tra loro. (2002, 175)

È riguardo a questa complessa scansione, territoriale, parentale e morale insieme, che Cacopardo introduce la sua teoria dei «cerchi dell’etica», per cui vi sono contesti societari come quello Nuer in cui le norme relazionali procedono per cerchi concentrici: in questo sistema, infatti, si passa dal «cerchio del bastone», più centrale, reso coeso da regole stringenti e ove l’omicidio non dovrebbe mai avvenire, al «cerchio della faida», che implica una regolazione di conti anche di lunga durata, poi al «cerchio della costituzione», che sancisce un insieme di norme fondamentali condivise a livello delle sezioni secondarie, fino al «regno della guerra», laddove oltre un certo limite non si applica più nessuna regola. Ciò detto, è comunque opportuno ricordare con Cacopardo che tra i Nuer la norma fondamentale rimane quella dell’uguaglianza, secondo la metafora della fratellanza che accomuna tutte le società acefale, così come, successivamente – cosa che avremo modo di approfondire in seguito – quelle democratiche (un esempio fra tutti, il motto della rivoluzione francese Liberté, Egalité, Fraternité). Secondo i Nuer, infatti, tutti sono «signori della terra», non c’è nessuno al di sopra, sono tutti uguali e tutti importanti.

Questo ci riporta alla ricorrenza del modello dei cerchi concentrici in altre realtà storico-culturali. In effetti, al di là che si tratti di società più o meno stratificate, egualitarie o gerarchiche, tale sistema sembra aver connotato e continuare a connotare la rappresentazione cosmologica di molte popolazioni. Remotti, nell’argomentare sull’etno-centrismo rivisto come noi-centrismo, ne riporta alcuni esempi di applicazione, a partire dalle Storie di Erodoto, ove viene menzionato il collocarsi dei Persiani al centro di un sistema che vede poi dislocarsi gli altri popoli a distanze che aumentano col diminuire della loro condivisione di quei requisiti che connotano i primi come «di gran lunga i migliori degli uomini» (Erodoto

Storie, I, 134, 2, in Remotti 1993b, 3); passando per lo schema in cui si articolano società stratificate, «dove la costruzione di un palazzo regale nel centro geometrico di una città vuole rappresentare la centralità cosmica di coloro che vi abitano» (Remotti 1993b, 4); per arrivare all’esemplificazione di Michael Harbsmeier della geografia classica araba «la quale divideva

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il mondo in sette zone climatiche, di cui la quarta, posta al centro, coincideva con la cultura araba, culla della vera religione» (ibid.). Quest’ultimo, inoltre, si sofferma anche sulla cultura cinese e sul sistema a quadrangoli concentrici con cui essa rappresentava il mondo circostante. In effetti, nell’intento di diversificare la stessa alterità, le popolazioni le più varie venivano ad essere definite in base alla collocazione (distanza spaziale e direzione per raggiungerle) rispetto a quel Regno di Mezzo rappresentato dalla Cina. Ecco allora che «i popoli del mondo erano così rappresentati in quadrangoli concentrici, che suddividevano schematicamente l’umanità in nove categorie: il Regno di Mezzo (ovvero le nove province) e gli otto tipi di barbari, “selvaggi” e “domestici”, “crudi” e “cotti”, a sud, nord, est e ovest rispetto al centro» (Harbsmeier 1985, in Remotti 1993b, 4).

D’altro canto, facendo adesso ritorno a Cacopardo, l’antropologo, nell’introdurci alla sua analisi dei cerchi dell’etica rispetto alla società Kalasha da lui indagata, si richiama ad ulteriori studi in cui viene esposto un simile andamento concentrico (che si aggiungono a quello emblematico sui Nuer). Da un lato, egli ripropone la terminologia adottata da Emile Benveniste nell’analizzare la semantica dei termini di organizzazione sociale degli antichi indoeuropei, laddove l’autore constata che «la società è considerata non più secondo la natura e la gerarchia delle classi, ma secondo la sua estensione in qualche modo nazionale, secondo i cerchi di appartenenza che la contengono» (1976a, 226). Tali cerchi, dunque, designano di volta in volta l’appartenenza dei membri della società alla casa o alla famiglia; al clan o all’insieme di più famiglie, alla comunità, al villaggio, al quartiere; alla tribù o alla discendenza, alla collettività di esseri umani; al paese, infine. Si tratta, in fin dei conti, di quelle «istituzioni» – nell’accezione più ampia del termine, cui ricorre Benveniste, inerente «non solo le istituzioni classiche del diritto, del governo, della religione, ma anche quelle, meno appariscenti, che si intravvedono nelle tecniche, nei modi di vita, nei rapporti sociali, nei processi di parola e di pensiero» (1976a, 4-5) – di cui si compone l’antica società indoeuropea (sebbene qui l’interesse si focalizzi sugli aspetti prettamente etimologici e di variazione semantica delle lingue prese in esame, piuttosto che su quelli storici e sociologici) e che si configurano come «cerchi di appartenenza». D’altronde, il richiamo ad un simile sistema di riconoscimento identitario è riscontrabile anche nell’attuale società globale, come suggerisce l’argomentazione di Edgar Morin su quella appartenenza terrestre che infine accomuna tutti gli uomini del pianeta, quali «cosmopoliti», cioè «cittadini del mondo», nonché in concreto «figli della Terra» (2002; Morin, Kern, 1994). In tal senso il sociologo francese, insieme alla collega Anne Brigitte Kern, osserva che

la carta d’identità terrestre del nuovo cittadino del mondo comporta una raccolta d’identità concentriche, che parte dall’identità familiare, locale, regionale, nazionale. L’identità occidentale, anche quando avrà integrato in sé, come è auspicabile, componenti che derivano da altre civiltà, dovrà essere concepita come una componente dell’identità terrestre, e non come questa identità (1994, 123).

Nel richiamo, dunque, ad un senso di appartenenza comune della specie homo sapiens alla Terra-Patria (come annuncia nello stesso titolo del testo in esame) gli autori non escludono riconoscimenti identitari locali e diversificati, anzi suppongono che ciascuno di noi, a partire da quello più intimo della famiglia, giunga infine a quello nazionale… o, perché no, terrestre! In questa prospettiva, per Morin e Kern «la società/comunità planetaria dovrebbe essere il compimento stesso dell’unità/diversità umana» (ivi, 123).

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È con questo bagaglio, dunque, che Cacopardo estrapola dalla sua descrizione etnografica di un rito funebre kalasha, con tutte le norme procedurali che lo scandiscono, la «definizione di un sistema di appartenenze» che procede secondo il summenzionato andamento di cerchi dell’etica concentrici5. Egli, infatti, spiega che «nella partecipazione al rito e nella circolazione di opere che esso comporta, il protocollo attribuisce una serie di incombenze e privilegi, di debiti e di crediti, ad una serie di gruppi concentrici, definiti a partire dalla persona che è morta» (Cacopardo A.A. 2007/2008, 199). È dunque nel farsi del rito stesso, tanto nella pratica quanto nella norma che lo connotano, che vengono a delinearsi quei «gruppi sociologici ego-centricamente costituiti che vanno dalla famiglia ristretta, ai parenti più prossimi, al lignaggio, al villaggio, alla comunità di valle, all’intera etnia Kalasha» (ivi, 200). Gruppi sociologici le cui interazioni sono regolate da svariati ordini di norme – politiche come giuridiche, rituali come matrimoniali, economiche come morali – che vengono nel loro complesso «a organizzare la propria efficacia in base a cerchi di appartenenza» (ivi, 206). Il diritto, dunque, come la circolazione di beni, rispondono sempre al comune principio dell’appartenenza di ciascuno al gruppo più ampio e ai sottogruppi concentrici da cui esso è costituito, congiuntamente ad una scansione morale delle relazioni che s’intessono al loro interno e fra gli uni e gli altri. I modelli di comportamento che soggiacciono ai rapporti sociali insomma, come il sistema di rappresentazioni in cui essi si collocano, vengono a coniugarsi con tutto un apparato etico che ne regola l’espressione.

Per vagliare, dunque, le forme di interazioni intercorrenti fra i cerchi di appartenenza individuati nella società Kalasha (a partire dal suddetto rito funebre, fino ad ogni altro apparato sociale) Cacopardo si richiama al saggio di Marshall Sahlins La sociologia dello scambio primitivo (On the sociology of primitive exchange) del 1965 (1980c, 189-271), in cui l’antropologo statunitense torna a proporre un modello a cerchi concentrici, simile a quello tratteggiato da Evans-Pritchard, connesso a possibili forme di reciprocità esistenti all’interno di società acefale. Egli, infatti, nell’analizzare gli «scambi» o «transazioni» intercorrenti fra cerchi di appartenenza più o meno distanti, perviene ad una tripartizione delle forme di reciprocità che li connota – laddove essa rappresenta «un rapporto tra, l’azione e reazione di due parti» (ivi, 192) –, distinguendo fra «reciprocità generalizzata», «reciprocità bilanciata» e «reciprocità negativa»6.

Per quanto concerne la prima, Sahlins deriva il termine «generalizzata» (sebbene in accezione diversa) da quello utilizzato da Claude Lévi-Strauss, nei suoi studi sulle relazioni di parentela, per distinguere gli scambi matrimoniali «generalizzati», appunto, in quanto intercorrenti fra svariati gruppi della società, dagli scambi «ristretti», che coinvolgono invece solo due raggruppamenti, estendendo così il circuito di reciprocità all’intero contesto (1984). La                                                                                                                

5 Per una lettura per esteso del diario di campo dell’autore inerente la sua partecipazione al rito funebre preso in esame si rimanda al testo di Cacopardo (A.A. 2007/2008, 192-199).

6 Cacopardo riporta la critica rivolta a Sahlins da Robert C. Hunt riguardo all’improprio ricorso al termine «scambio» (exchange) per le due forme di reciprocità generalizzata e negativa che, come ci apprestiamo ad analizzare, si configurano piuttosto unidirezionali (A.A. 2007/2008). Tuttavia, egli suggerisce come, non solo Sahlins ricorra in egual maniera al termine «transazione» (transaction) che più si avvicina a quello di «trasferimento» (transfer) suggerito da Hunt, ma, in fin dei conti, egli disponga una teoria non tanto dello scambio bensì della reciprocità, laddove Marcel Mauss, nel suo famoso Saggio sul dono del 1924 (2000b, 155-292), ne aveva vagliato solo l’evenienza nella forma bilanciata. D’altro canto, anche Herzfeld, nel rivedere una simile critica mossa da John Davis all’antropologo statunitense, pone l’accento sulla confusione fra scambio e reciprocità che ha condotto l’autore «a fraintendere il riconoscimento di M. Sahlins delle economie basate su differenti ideologie di reciprocità» (2006, 127).

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«reciprocità generalizzata» configurata da Sahlins si riferisce a un flusso di beni unidirezionale, senza alcuna pretesa di contraccambio, tutt’al più con una vaga aspettativa che sovente rimane più in potenza che in atto: dare senza ricevere. Si tratta di quel «puro dono» menzionato da Bronislaw Malinowski che, già nel suo Argonauti del Pacifico occidentale del 1922 (1978b), ne individua il carattere parziale rispetto alle numerose altre forme che la transazione può assumere, secondo un andamento mai di cesura netta, ma piuttosto di sfumatura l’una nell’altra, nel passaggio dal dono disinteressato allo scambio sempre più rigoroso fra equivalenti fino al baratto. L’autore arriva a portare ad esempio paradigmatico, oltre a ciò che riguarda la più immediata condivisione di cibo in ambito familiare, il darsi totale della madre rispetto al figlio nel periodo di allattamento. In tal senso, Cacopardo propende per una designazione più immediata, anche in assonanza col polo opposto della «reciprocità negativa», che vede, dunque, questo polo connotarsi come quello della «reciprocità positiva» (terminologia a cui ci atteremo anche nel presente lavoro). Certo è che, anche se in questo frangente «il lato materiale della transazione è rimosso da quello sociale», tuttavia «l’aspettativa di reciprocità è indefinita» (Sahlins 1980c, 198). In effetti, nel momento in cui un beneficiario riceve qualcosa da un donatore, permane implicito l’obbligo di contraccambiare qualora il secondo si trovi in condizioni di necessità e il primo possa farvi fronte. In sintesi, il contraccambio può aver luogo subito, nell’immediato, come pure essere procrastinato nel tempo fino a non avvenire mai7.

Quella «negativa», dunque, si colloca all’estremità opposta di un continuum della reciprocità, a rappresentare il tentativo di ottenere qualcosa senza dare niente, laddove il raggiungimento                                                                                                                

7 Per inciso, questa dimensione temporale del dono è, peraltro, quella che, nella lettura che ne fa Pierre Bourdieu, introduce un elemento di disconoscimento dello schema oggettivo soggiacente allo scambio (2003). Vi è cioè, secondo il sociologo francese, un momento in cui la percezione oggettiva della reversibilità del dono, cui dovrebbe corrispondere un contro-dono, si dissolve in una percezione, altrettanto oggettiva, di possibile irreversibilità nella successione dei doni. È proprio tale proroga a rendere atto del fatto che «il funzionamento dello scambio di doni presuppone il disconoscimento della verità del “meccanismo” oggettivo dello scambio» (Bourdieu 2003, 283). Doni scambiati, dunque, grazie al mancato riconoscimento della pratica stessa, laddove questa, che può anche non andare a buon fine, trova la propria ragion d’essere nella risposta come pure nell’assenza di risposta che attiva. L’autore, in tal modo, critica posizioni legate ad una interpretazione esclusivamente oggettivista e di reciprocità sincronica dello scambio di doni, come quella avanzata da Claude Lévi-Strauss. Quest’ultimo, infatti, nel dissociarsi dalla lettura prettamente fenomenologica di Mauss, connessa all’esperienza concreta del dono, si focalizza sul principio comune dell’obbligo di dare, ricevere e contraccambiare soggiacente al ciclo di reciprocità, quale oggetto costruito osservabile dall’esterno (Lévi-Strauss 2000). Tuttavia, argomenta Bourdieu, «anche se la reversibilità è la verità oggettiva degli atti discreti e vissuti come tali che l’esperienza comune colloca sotto il nome di scambi di doni, essa non è la verità completa di una pratica che non potrebbe esistere se si percepisse in accordo al modello. La struttura temporale dello scambio di doni, che l’oggettivismo ignora e abolisce, è ciò che rende possibile la coesistenza di due verità opposte e che definisce il dono nella sua piena verità: si osserva infatti che in tutte le società, a rischio di costituire un’offesa, il contro-dono deve essere differito e differente, dato che la restituzione immediata di un oggetto esattamente identico equivale molto chiaramente a un rifiuto (per esempio, alla restituzione dell’oggetto)» (ibid.). Secondo il nostro sociologo, dunque, il dono non è un do ut des, come vorrebbe il modello teorico del circuito di reciprocità, per cui è sincronico al controdono, né un prestito, la cui restituzione è preventivamente garantita da un atto giuridico. Esso, al contrario, per essere tale presuppone solo una parziale conoscenza dello schema soggiacente alla pratica dello scambio, laddove è infine nel disconoscimento della sua realtà e nel rifiuto di riconoscerne la logica, tramite la distanza temporale indeterminata che si interpone fra dono e contro-dono (il quale può avvenire come non avvenire mai, o se avviene avvenire a sua volta come dono originario), che la pratica donativa può risultare davvero libera e altruistica. Insomma, ribadisce in sintesi l’autore: «l’intervallo di tempo che separa il dono e il contro-dono è ciò che permette di percepire come irreversibile una struttura di scambio sempre minacciata di apparire a se stessa e agli altri come reversibile, cioè al contempo obbligata e

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dell’utile è il motore che dà luogo alla transazione stessa. Mercanteggiamento, furto, gioco d’azzardo ne sono diffusi esempi etnografici. È quanto accade per le scorrerie a cavallo attuate dai popoli nativi dell’America del Nord nelle grandi pianure da essi abitate, come pure per i furti reciproci di animali ad opera di pastori sardi o cretesi (Sahlins 1980c; Herzfeld 2006). È questo, infatti, «il tipo più impersonale di scambio» (Sahlins 1980c, 199), che viene in tal senso, per l’autore, a collocarsi sul versante più economico rispetto al precedente che, invece, emergeva come fondamentalmente personale: «i partecipanti si fronteggiano come interessi antagonisti, ognuno teso a massimizzare il proprio tornaconto a spese altrui» (ibid.). Ecco allora che, come argomenta Herzfeld rispetto al quadro che della reciprocità ci restituisce Sahlins, «il furto non è sempre un atto di scambio – può essere, invero, la negazione della stessa possibilità di scambio – ma nelle ideologie sulla reciprocità alimenta sogni (e talvolta azioni) di punizione, il che costituisce la forma paradigmatica di ciò che Sahlins chiama “reciprocità negativa”» (2006, 127). Ben lungi dall’essere la nozione di scambio il fulcro della riflessione sahlinsiana, lo è invece quella di reciprocità, la quale, diversamente dalla prima, consente di prefigurare la propria comparsa anche in situazioni di assenza di scambio, ma non per questo, appunto, di reciprocità: reciprocità negativa, infatti, implica un «sogno di punizione», che può farsi atto solo nel momento in cui un flusso unidirezionale per scaltrezza e/o violenza venga ricambiato con un flusso parimenti connotato. D’altro canto, questa teoria della reciprocità sembra far parte della stessa cosmologia nativa di molte popolazioni in cui, come per le summenzionate, se «le reciproche razzie di animali sono la norma, sono gli attacchi non-reciproci, in senso stretto, alle famiglie ricche e alle istituzioni statali ad essere generalmente rappresentati come violenza» (ivi, 134). Ciò appare tanto evidente altrove come nelle nostre realtà societarie, laddove Herzfeld riporta l’evenienza paradigmatica di un imputato che nel difendersi con le parole “è la società che mi ha spinto a farlo” dà luogo, così dicendo, a un atto di restituzione.

Nel punto mediano del continuum, infine, si colloca quella che Sahlins definisce la «reciprocità bilanciata», consistente in uno scambio alla pari che prevede una contropartita equivalente: dare qualcosa in cambio di qualcos’altro. Ciò avviene in molte transazioni commerciali, come pure coniugali (laddove, tuttavia, nella pratica esogamica, uno sbilanciamento latente sembra di volta in volta permanere proprio a garanzia del mantenimento dell’alleanza intercorsa, in attesa che il flusso inverta il proprio corso), nonché per suggellare amicizie o trattati di pace. Secondo l’autore, dunque, si tratta di una reciprocità meno personale di quella generalizzata e più economica, laddove «l’aspetto materiale della transazione è non meno decisivo di quello sociale: interviene un calcolo più o meno preciso, dovendo i beni dati essere reintegrati in tempi brevi» (1980c, 198-199).

Se, dunque, nel complesso, «lo spirito dello scambio oscilla dalla premura disinteressata per l’altra parte all’egoismo, passando attraverso la mutualità» (ivi, 197), si tratta, tuttavia, di un continuum che, pur nell’immediatezza dei suoi tre punti cardine appena delineati, vede poi collocarsi i vari eventi di reciprocità secondo un andamento di rado così nettamente scandito, ma piuttosto continuativo e sfumato.

Resta adesso da appurare come questo spettro di reciprocità si combini al modello dei cerchi di appartenenza. In effetti, secondo l’analisi di Sahlins, «le diverse reciprocità, dal dono spontaneamente concesso al raggiro, equivalgono a uno spettro di socievolezza, dal sacrificio in favore di un altro al profitto personale a spese altrui» (ivi, 200). In tal senso, il principio della reciprocità appena descritto segue il «grado di distanza sociale» fra i contraenti, nonché

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dunque l’andamento dei cerchi di appartenenza concentrici. Esso assume così, nell’interpretazione che Sahlins ricava dai numerosi esempi etnografici di volta in volta presi in esame, una forma più forte al centro, fino ad essere generalizzata; di sempre minor intensità nel procedere verso l’esterno, laddove viene ad estrinsecarsi in maniera più o meno bilanciata; di segno anche opposto, facendosi negativa, una volta fuori dal cerchio più ampio. In altre parole: più vicina è la parentela, più la reciprocità è positiva; più i rapporti parentali si diradano, più essa si configura come bilanciata; infine, al di fuori di ogni legame parentale e linguistico, la reciprocità si fa negativa e finanche il furto è lecito.

Oltre alla prossimità parentale, principio generale di regolazione delle società acefale, Sahlins individua un insieme di ulteriori fattori che influenzano la distribuzione della reciprocità: il rango, innanzitutto, che comporta in primis l’obbligo di dare senza contraccambio agli altri membri della società d’appartenenza, laddove esso costituisce un «privilegio», droit du seigneur, e implica delle «responsabilità», noblesse oblige; il differenziale di ricchezza, inoltre, il quale, sovente interconnesso al precedente, comporta che chi è abbiente dia i propri beni ai poveri, secondo un flusso unidirezionale che si estende oltre la «sfera tradizionale di spartizione»; la natura dei beni, infine, che palesa una propria pregnanza nel mantenimento, nonché nell’estensione, del grado di socievolezza, laddove per quanto concerne il cibo è opportuna quella «maggiore propensione al sacrificio», all’ospitalità e all’accoglienza, che solitamente non accade per beni di altro genere (con cui per altro il primo, all’interno della comunità, non può essere scambiato)8.

A partire dunque da questo modello, Cacopardo compie due operazioni che gli consentono di delineare la sua nozione di cerchio o orizzonte dell’etica (e risulteranno significative anche ai fini della nostra indagine): da un lato, egli ne vaglia la corrispondenza rispetto ai dati da lui stesso rilevati in contesto Kalasha, a partire dalla descrizione dello spettro di socievolezza e delle relative transazioni intercorse fra i diversi partecipanti al rito funebre summenzionato; da un altro, si sofferma parimenti sulle norme morali che, a partire dalla scansione di tale evento, sembrano infine contribuire alla definizione del modello stesso preso nella sua più ampia pertinenza teorica.

Per quanto riguarda, dunque, il primo aspetto, egli osserva per i Kalasha una diversa rispondenza fra spettro di reciprocità e distanza sociologica dei membri del gruppo, che si palesa quasi opposta a quella descritta da Sahlins per altre società. In effetti, argomenta il nostro antropologo, «il principio del chik [funerale], […], prevede che proprio in ragione della maggiore distanza sociologica occorra intensificare la positività dello scambio, allo scopo di costituire e cementare una contiguità che le condizioni sociologiche non consentono di dare per scontata» (Cacopardo A.A. 2007/2008, 203): in questo contesto, dunque, «la norma ha lo scopo immediato di favorire il senso di comune appartenenza dell’intera etnia» (ivi, 204). Certo è, come poi sottolinea Cacopardo, che ciò vale per uno specifico chik, laddove l’insieme dei funerali tenutisi in un periodo di tempo più lungo comporta infine un bilanciamento di flussi equivalenti (come del resto abbiamo già accennato per l’esogamia).                                                                                                                

8 Risulta in proposito significativa la riflessione proposta da Matteo Aria e Adriano Favole, in occasione della quinta edizione del festival Pistoia – Dialoghi sull’Uomo sul tema “Condividere il mondo. Per un’ecologia dei beni comuni”, all’interno del loro intervento La condivisione non è un dono! (2015), inerente il rapporto e la distinzione fra dono e condivisione, laddove appunto il cibo risulta essere uno dei beni condivisi e condivisibili per eccellenza (Pistoia, 24-25 maggio 2014). Riprenderemo tale constatazione in seguito, a proposito delle forme di relazioni sociali che l’eventuale condivisione di un pasto può sottendere e palesare.

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Resta però il fatto che ciò che intercorre, in termini di oneri e crediti, fra i partecipanti a un chik si fa metafora di come dovrebbero configurarsi le relazioni fra Kalasha: una generosità che si estende dai prossimi più vicini, quelli del villaggio, ai prossimi più lontani, dell’intero gruppo di appartenenza, implica un impegno a dare loro che ritornerà nel momento in cui, al bisogno, saranno loro a dare a te. È questa generosità amplificata verso i margini dei cerchi di appartenenza che consente di ridurre la distanza a favore del senso di prossimità. Ecco la poetica di questo precetto: «l’operazione è quella di prescrivere una socialità più intima di quella che si potrebbe dare per scontata: trattare il villaggio come la casa, il popolo intero come il villaggio. Il precetto è analogo a quello che dice: ama il prossimo tuo come te stesso. Ma dice una cosa meno estrema: ama il meno prossimo come il più prossimo» (ivi, 205). Tale socialità più intima, declinata in questi termini, rimane comunque circoscritta a quel limite ultimo che designa il passaggio dal gruppo che si riconosce in un’identità condivisa all’alterità assoluta, dalla condivisione di norme alla loro totale assenza, ove furto, raggiro e ostilità sono leciti e la reciprocità si fa, stavolta in concordanza col modello di Sahlins, negativa. O meglio, più esattamente, la reciprocità può farsi anche bilanciata o comunque collocarsi in una fascia intermedia del continuum, ma ciò che varia è il principio secondo cui ciò avviene: non più per una norma condivisa, ma a secondo dell’opportunità che di volta in volta si presenta nella situazione data. È un modello, dunque, quello descritto dall’antropologo statunitense, che in ultima analisi, ben lungi dal mostrare la sua eventuale incongruenza come inadeguatezza, costituisce secondo Cacopardo una ipotesi guida che, di volta in volta, è opportuno parametrare alla realtà in esame per vagliare se e quanto se ne discosti.

Venendo adesso al secondo aspetto summenzionato, è opportuno proseguire nella riflessione sul confine fra interno ed esterno al gruppo, confine che appunto «circoscrive l’ambito di applicazione di un intero sistema di norme» (ibid.). Norme che, come già in precedenza menzionato, concernono ogni aspetto della vita sociale, tanto materiale quanto simbolico, tanto economico e giuridico, quanto politico e rituale, nonché infine, ed in primis, etico. Già Sahlins, rimarca Cacopardo, aveva individuato il delinearsi di un simile andamento normativo in rispondenza al principio dei cerchi concentrici:

Emerge un’altra differenza rispetto a noi: la tendenza della moralità, al pari della reciprocità, a essere organizzata settorialmente nelle società primitive. Caratteristicamente, le norme sono relative e contingenti invece che assolute e universali. Un determinato atto non è buono o malvagio in sé: dipende da chi è l’“Alter”. L’appropriazione dei beni altrui o dell’altrui donna, che è peccaminosa (“furto”, “adulterio”) in seno alla propria comunità, può essere non soltanto perdonata ma positivamente ripagata dall’ammirazione dei propri simili, se è perpetrata nei confronti di un estraneo. [...] Lo schema di cui ci occupiamo è almeno tripartito: sociale, etico ed economico (Sahlins 1980c, 202-204).

Aggiunge poi l’autore quasi a corollario: «“Almeno”, appunto: poiché esso ha anche una dimensione politica, una giuridica e una rituale» (ivi, 206). Il cerchio si chiude e reciprocità e moralità vanno di pari passo. Torniamo così a quell’orizzonte dell’etica prospettato da Cacopardo che vuol descrivere la contingenza dei valori che regolano le relazioni, laddove condivisione, negoziazione e negazione sono pertinenti solo in rapporto al gruppo di riferimento e a quel margine estremo che sancisce ciò che è interno e ciò che è esterno al «regno della norma». Ogni ripartizione, ogni cerchio di appartenenza che scandisce lo spettro

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di socievolezza del gruppo stesso, infine, acquista anch’esso il connotato di cerchio dell’etica relativamente a quei principi condivisi che sanciscono comunque una diversa coesione all’interno di ciascuno di essi rispetto al livello di volta in volta più esterno. Ciò comporta norme etiche e di comportamento diversificate, come per i summenzionati cerchi Nuer del bastone, della faida, della costituzione e della guerra, in una pluralità di delimitazioni.

Ma c’è di più: Cacopardo nota che il confine segnato dal cerchio dell’etica che definisce la società Kalasha oggi è mutato rispetto al passato e continua a mutare, in quanto è andato contraendosi fino all’attuale «enclavizzazione estrema», nonché al connesso incremento identitario culturale, e tende a sfilaccicarsi con una variabile inclusione di alcuni membri relativamente al rapporto in questione e ai fini contestuali. A tutto ciò si aggiunge il configurarsi di nuovi cerchi di appartenenza prima inesistenti né presumibili. Insomma, «un Kalasha di oggi, che ha il problema di distinguere gli austriaci dagli australiani e i giapponesi dai cinesi, non è, evidentemente, nella situazione dei suoi antenati. Dove si collochi di fatto il suo orizzonte dell’etica, dipende da cose non molto dissimili da quelle che condizionano l’orizzonte dell’etica di qualcuno che nasce in Sud Tirolo» (Cacopardo, A.A. 2007/2008, 208). In altre parole, i cerchi si trasformano col mutare della società, che si tratti del piccolo gruppo o del contesto nazionale, nonché sovra-nazionale, che lo ingloba e anche l’orizzonte dell’etica più estremo deve essere ogni volta riconsiderato in relazione a quell’Alter anch’esso passibile di mutamento.

3. Dono-reciprocità andata e ritorno

Come Fabio Dei e Matteo Aria osservano, Marshall Sahlins è figlio di quei decenni successivi alla comparsa del Saggio sul dono di Marcel Mauss del 1924 (2000b), in cui la nozione di «dono», che aveva catalizzato l’attenzione dell’antropologo francese, è offuscata da quella soggiacente, e certo co-presente, di «reciprocità» (2008; Dei 2012).

Da un lato, infatti, negli anni Trenta e Quaranta, in pieno clima funzionalista, i lavori di Malinowski e dei suoi allievi incentrano le loro analisi sull’efficienza dei sistemi economici altri e, dunque, sull’articolazione e la compiutezza dei processi di scambio messi in atto nei contesti nativi indagati: è la reciprocità, come «logica complessiva che regola il corpo sociale», a consentire l’organizzazione e il mantenimento delle economie cosiddette primitive, laddove anche ad esse vengono finalmente riconosciuti principi di funzionamento razionali (Dei 2012, 191). Questa prospettiva trova seguito in lavori successivi, all’interno del sentito dibattito, sviluppatosi a cavallo della metà del secolo scorso, tra «formalisti» e «sostantivisti»9. Sarà Karl Polanyi uno dei maggiori propugnatori di questo secondo                                                                                                                

9 I formalisti (o marginalisti) sostenevano l’applicabilità della teoria economica classica della domanda e dell’offerta, nonché dell’inseguimento dell’utile da parte dell’homo œconomicus, ad ogni società, secondo regole economiche stabilite intese come universali; i sostantivisti (oggi antiutilitaristi), invece, si proponevano di indagare le diverse economie tramite le stesse logiche locali che vi soggiacevano e le specifiche regole, culturalmente e storicamente connotate, a cui rispondevano (Herzfeld 2006; Aria, Dei 2008; Dei 2012; Busoni 2001). Da un lato, dunque, si riteneva che i concetti economici classici potessero servire anche per l’interpretazione di economie non occidentali, da un altro, si affermava la necessità di indagare ogni economia con corrispettivi strumenti analitici.

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approccio: egli, in una visione integrata del comportamento economico e delle relazioni sociali al cui interno si configura, individua nella reciprocità una delle tre forme di espressione di tale connubio (le altre due sono la redistribuzione e il mercato), laddove il configurarsi di legami e interazioni fra membri del gruppo, piuttosto che lo scambio del bene in sé, rappresenta la sua vera ragion d’essere (1978; 2000).

Da un altro lato, in questo stesso periodo storico, compare un’ulteriore interpretazione del testo maussiano che si affermerà per vari decenni a venire: la nozione di reciprocità per come configurata nell’approccio strutturalista di Lévi-Strauss (1984; 2000b). Egli, infatti, oltre a farvi ricorso all’interno della sua teorizzazione summenzionata riguardo al costituirsi dei rapporti di parentela, viene a consegnarcene una propria assunzione nel riesame critico introduttivo al testo del maestro. A suo avviso, infatti, è necessario pervenire alla logica profonda, a quella «struttura generativa», simbolica ed inconscia insieme, comune e soggiacente ad ogni evento di scambio. In tal senso, egli reputa che Mauss, pur nell’intento di pervenire a un tale risultato, si sia arrestato alla soglia; soglia oltre la quale è invece possibile, nella prospettiva di Lévi-Strauss, individuare le regole più semplici trasversali agli stessi processi di reciprocità, «regole precise secondo le quali si formano, in un tipo qualunque di società, cicli di reciprocità, le cui leggi meccaniche sono ormai conosciute, permettendo l’uso del ragionamento deduttivo in un campo che sembrava sottoposto all’arbitrio più completo» (2000, XL). È dunque la «struttura mentale soggiacente» alla reciprocità che interessa Lévi-Strauss, dove il limite del maestro è stato invece proprio quello di fermarsi alla «forma cosciente» che essa ha assunto nelle sue diverse declinazioni storiche e culturali (Aria 2008a). La logica simbolica e strutturalista levistraussiana soppianta così quella fenomenologica e concreta di Mauss, segnando profondamente le interpretazioni antropologiche del fenomeno nei primi due decenni della seconda metà del Novecento.

Sahlins, dunque, si inserisce a questo punto storico, in un contesto intellettuale in cui la reciprocità piuttosto che il dono è un paradigma condiviso all’interno delle scienze antropologiche e sociali in genere (nonché di quel sotto-settore che si occupa di economie). È all’interno di questo approccio che si colloca la trattazione del 1965, precedentemente analizzata, di una ipotetica tripartizione della reciprocità nelle società arcaiche e «primitive», capace di rendere conto di ogni sua espressione (Sahlins 1980c, 189-271). Ma la riflessione di Sahlins sul tema non si ferma qui ed «è solo dopo aver trascorso due anni a Parigi che “scopre” il Saggio sul dono ed esplora il conteso enigma dello hau» (Aria 2008a, 197). Nel suo saggio del 1970 Lo spirito del dono, così, rende finalmente onore alla peculiarità dell’Essai di Mauss insito in quella forma di «animismo» per cui, all’interno di «prestazioni totali sociali», «le cose hanno rapporti in certa misura personali e le persone in certa misura cosali» (Sahlins 1980b, 186). È il rapporto che s’instaura fra persone e cose a farsi fulcro della proposta maussiana sul dono e a fornirci nuove coordinate per concepire il processo di scambio stesso, laddove «ogni scambio, incorporando un dato coefficiente di socievolezza, è incomprensibile nei suoi termini materiali a prescindere dai suoi termini sociali» (ivi, 188). È allora adesso opportuno fare un passo indietro e riprendere quel saggio che così marcatamente avrebbe segnato gli studi antropologici successivi, ampliando sempre più il suo richiamo sulle più varie discipline umane. Ecco finalmente che dono, prestazione sociale totale ed hau possono adesso trovare la propria collocazione. L’Essai sur le don uscì nella                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          

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prima metà degli anni Venti ad accendere e scombinare il dibattito scientifico delle scienze umane negli anni a venire fino ai tempi attuali (e chissà per i futuri). Al suo interno Marcel Mauss indaga tutta una serie di fenomeni, sincronicamente e diacronicamente connessi dal comune denominatore della nozione di dono, secondo un andamento di «comparazione universale», che, come suggerisce Dei, sebbene si collochi nella scia del pensiero evoluzionista (Herzfeld 2006), non ne mantiene tuttavia il rigido andamento sequenziale di accumulo di dati rilevati, ma procede piuttosto per «accostamento di casi cruciali, ciascuno dei quali contribuisce con un tratto a comporre un modello ideale di “dono” che non esiste in realtà» (Dei 2012, 190). Tratti che si compongono infine in un modello in qualche modo altrettanto ideale, quello che il maestro francese definisce «fenomeno sociale totale», in quanto in nessuna sua specifica manifestazione esso riesce mai ad esaurirne completamente la potenziale varietà. In questi fatti sociali totali

trovano espressione, a un tempo e di colpo, ogni specie di istituzioni: religiose, giuridiche e morali – queste ultime politiche e familiari allo stesso tempo –, nonché economiche, con le forme particolari della produzione e del consumo, o piuttosto della prestazione e della distribuzione che esse presuppongono, senza contare i fenomeni estetici ai quali mettono capo questi fatti e i fenomeni morfologici che queste istituzioni rivelano (Mauss 2000b, 157).

Mauss trova esempi paradigmatici di tali prestazioni nel kula dei Trobriandesi delle isole Trobrinad della Nuova Guinea, indagato da Bronislaw Malinowski (1978a), e nel potlach dei Kwakiutl del nord-ovest degli Stati Uniti e del Canada, analizzato da Franz Boas (2001). Il primo consiste in una cerimonia in cui vengono scambiate fra gli isolani dell’arcipelago delle conchiglie in qualche modo preziose per loro, in quanto difficili da avere: o rosse a costituire collane o bianche a formare bracciali, esse sono gioielli destinati ai soli leader locali, che tuttavia possono nel tempo cambiare di proprietà. Possiamo dire che se nella nostra società più un oggetto è caricato di storia, più è antico insomma, più vale, presso i trobriandesi gli oggetti di conchiglie summenzionati valgono di più quanto più hanno circolato fra i capi locali (laddove ne viene costruita anche la genealogia dei possedenti). I leader sono persone di grande prestigio (tenute, per mantenerlo, a dare piuttosto che ad avere), sancito dal circolo di questi oggetti, che vengono così scambiati con pari figure delle isole vicine secondo un preciso senso orario o antiorario relativo al capo e all’oggetto in questione rispetto agli altri10. La regola che accomunava questo circuito era quella del dono secondo un sistema di scambio codificato in ogni dettaglio. Il secondo, il potlach, è un cerimoniale in cui avviene la distribuzione e la distruzione di oggetti (a partire dalle coperte, che rappresentano l’unità monetaria locale, fino alle canoe, dalle piastre di rame al cibo) allo scopo di acquisire prestigio sociale. Consiste in una forma rituale di sperpero, di offerta vanagloriosa, della durata anche di due settimane consecutive, che prevede poi un contro-potlach secondo una scansione temporale ben programmata. Esso è pertinenza dei capi, dei membri più ricchi e prestigiosi, laddove, però, colui che perde in questa competizione agonistica perde tutto, “perde la faccia” come pure il proprio seguito: se nel dare viene dimostrata la propria potenza, l’impossibilità di contraccambiare, nonché di rifiutare, porta alla rovina. Ma tale rivalità tra

                                                                                                               

10 Se, ad esempio, le collane rosse potevano essere date solo dal capo A al capo B in senso orario, B poteva dare a sua volta solo i bracciali bianchi ad A in senso antiorario (Malinowski 1978a).

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capi per la conquista del prestigio giunge al culmine con la distruzione stessa degli oggetti11. Anche qui, come nel caso precedente, il dipanarsi di queste feste è scandito da un apparato mitico-rituale ben preciso, con l’utilizzo di maschere e l’intonazione di canti degli antenati mitici.

Ma cosa accomuna questi eventi? Secondo Mauss essi consentono di meglio contestualizzare la sua teoria del dono, laddove nel loro svolgersi non si configurano solo come scambio di beni, e dunque come fenomeni economici per come da noi intesi, ma anche come fenomeni religiosi e politici, di genere e generazionali al contempo. Nel kula come nel potlach è difficile separare la sfera religiosa da quella giuridica, la sfera morale da quella estetica: esse concorrono tutte parimenti alla loro realizzazione e, in tal mondo, li rendono piccoli fatti tramite cui si può tuttavia pervenire ad una conoscenza più ampia della stessa società che li pone in essere. Sono, appunto, nelle parole dell’etnologo francese, fenomeni sociali totali. In essi, d’altronde, le economie locali si manifestano massimamente per le loro caratteristiche di «dono» piuttosto che di quel mercato, basato sulla dinamica fra domanda ed offerta, caratteristico del contesto europeo. Ecco allora che in altre società gli scambi di beni materiali come pure di servizi avvengono attraverso la sequenza di reciprocità che il dono innesca, secondo una scansione tripartita di obbligazioni: dare, ricevere e contraccambiare. In tal senso, spiega Mauss, egli ha inteso soffermarsi soltanto su «uno dei tratti, profondo ma isolato: il carattere volontario, per così dire, apparentemente libero e gratuito, e tuttavia obbligato e interessato, di queste prestazioni. Esse hanno rivestito quasi sempre la forma del dono, del regalo offerto generosamente, anche quando nel gesto che accompagna la transazione, non c’è che finzione, formalismo e menzogna sociale e, al fondo, obbligo e interesse economico» (Mauss 2000b, 157-158).

Se, dunque, fatto sociale totale e dono sono gli elementi concettuali sui quali Mauss articola la propria teoria, vi è un’ultima nozione – che come vedremo è stata molto controversa – a cui egli dà particolare rilievo all’interno dell’Essai, in quanto consente a suo avviso di motivare cosa spinge e obbliga, in ultima analisi, chi riceve a ricambiare senza che vi sia una prescrizione contrattuale, ma al contrario nella piena libertà di scelta. Si tratta, a suo avviso, dello hau – lo «spirito della cosa» donata – un’intrinseca proprietà spirituale che i Maori della Nuova Zelanda attribuiscono ai taonga – oggetti cerimoniali legati alla persona, al suo clan, alla foresta – che circolano all’interno della società secondo un sistema di scambio ben codificato. Proprietà che, nell’intento di far ritorno al contesto d’origine, implica l’obbligo di chi riceve il dono di contraccambiare con un contro-dono, col rischio altrimenti di essere distrutto da quella stessa forza spirituale che esso veicola. In altre parole, come argomenta Mauss,

ciò che obbliga, nel regalo ricevuto e scambiato, è che la cosa ricevuta non è inerte. Anche se abbandonata dal donatore, è ancora qualcosa di lui. […] In fondo, è lo hau che desidera tornare al luogo della sua nascita […]. È il taonga o il suo hau – che d’altra parte è esso stesso una specie di individuo – che si attacca a tutti coloro che ne beneficiano, fino a che questi ultimi non rendano, prendendolo dai propri taonga, dai propri beni, o dal proprio lavoro o dal proprio                                                                                                                

11 Tale componente distruttiva, se inizialmente fu interpretata da Boas come una competizione per l’ottenimento del prestigio, nel tentativo di offrire una spiegazione che restituisse lo statuto di razionalità economica anche a fenomeni che all’epoca ne erano esclusi in quanto propri di società considerate “primitive” (2001), in seguito ulteriori studi ne hanno vagliato anche il connotato di preservazione economico-sociale di fronte alla perturbazione scatenata dall’arrivo del mercato capitalistico (Pavanello 2008).

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