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CAPITOLO 1 Uno sguardo alla realtà che ci circonda

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Academic year: 2021

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CAPITOLO 1

Uno sguardo alla realtà che ci circonda

1. Premessa 2. Globalizzazione

3. Rapporto tra globalizzazione e CSR

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5 1. Premessa

Coi tempi che corrono sembra banale, se non addirittura ridicolo, parlare di “responsabilità sociale d’impresa”. Con le innumerevoli preoccupazioni con cui siamo chiamati a fare i conti quotidianamente, a chi può interessare come si comporta un’impresa sul piano sociale? In qualsiasi momento, se noi decidessimo di accendere la televisione o sfogliare le pagine di un quotidiano saremmo travolti da notizie che mostrano come la società del XXI° secolo, la nostra società, la società tanto auspicata dai nostri avi, stia andando a rotoli. Mali che pensavamo aver debellato in passato (razzismo, intolleranza religiosa,..) fanno da cornice ad una situazione preoccupante da tempo (povertà, degrado ambientale,..), ulteriormente aggravata dalla crisi economico-finanziaria che da alcuni anni l’intero mondo sta vivendo. Sempre più spesso si sente parlare di: attività che chiudono; imprese che attuano tagli al personale per cercare di sopravvivere ad una concorrenza spietata e a un prelievo fiscale esorbitante; imprenditori che afflitti dai debiti decidono di compiere il gesto estremo di togliersi la vita; madri e padri disperati che, senza lavoro e senza speranze per il futuro, assassinano i propri cari e poi si uccidono.

In questo drammatico contesto è utile ricordare che uscire dalla crisi è possibile. La responsabilità sociale delle imprese rappresenta uno strumento da valorizzare per cercare di risolvere, o per lo meno attenuare, i mali della società. Essa riscopre valori (onestà, correttezza, libertà, rispetto della vita, solidarietà,..) che sembravano persi a causa dell’affermarsi di una logica prettamente materialista (il benessere materiale e il piacere sono i valori più importanti in assoluto) e di breve periodo (il tutto e subito) diffusasi a seguito dello straordinario sviluppo economico e sociale della seconda metà del XX secolo. Durante questo periodo, caratterizzato da un forte ottimismo per il futuro, gli operatori economici nello svolgere le proprie attività non si preoccupavano delle eventuali conseguenze che esse avrebbero avuto sull’ambiente; ciò ha determinato un forte spreco di risorse naturali e la produzione di ingenti prodotti di scarto che tornando nell’ambiente (nell’atmosfera, nel suolo, nelle falde acquifere) hanno prodotto fenomeni di

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6 contaminazione che, successivamente, si sono tradotti in vere e proprie forme di inquinamento1. Se da un lato le imprese attraverso i propri processi produttivi e l’offerta di nuovi prodotti e servizi (sempre più tecnologici) hanno migliorato la qualità della vita; dall’altro lato hanno generato fenomeni negativi (es: l’inquinamento,..) che hanno accresciuto ulteriormente i timori e le paure sul futuro. Spesso questi effetti negativi derivano dal fatto che, a seguito dell’accelerazione dei ritmi di vita e della pressione esercitata dagli interessi contingenti, le nuove conoscenze sono state introdotte sul mercato senza averne prima verificato le eventuali conseguenze che avrebbero potuto generare in un futuro più o meno lontano. Quindi, in un sistema socio-economico improntato su un’ottica di breve periodo, in cui si tende a massimizzare tutto e subito, viene a mancare il tempo di riflessione necessario a valutare la portata e le conseguenze dell’uso indiscriminato di certe risorse e dell’uso delle nuove scoperte scientifiche.

Come emerge dal dibattito sulla crisi, in corso già da alcuni anni, questo orientamento al breve periodo ha rappresentato il terreno fertile sul quale si sono profusi comportamenti imprenditoriali e/o manageriali “scorretti”. Essi, esasperando la concezione anglo-americana dell’impresa come contingente investimento finanziario ed il correlato noto slogan neoliberista della sola responsabilità sociale del business verso gli azionisti2, hanno attuato imprudenti politiche di massimizzazione dello shareholder value nel breve periodo; salvo, nei casi più estremi, dar luogo ad una distribuzione di utili “fittizi”. Nei casi più gravi, le risapute conseguenze di tali comportamenti, in termini di instabilità del mercato finanziario, sono andate a danneggiare:

− gli investitori più deboli, a causa della loro scarsa conoscenza e/o competenza sull’investimento;

1 Negli anni ’60 alcuni studiosi di economia dimostrarono che il Prodotto Nazionale Lordo (PNL) era una

misura insufficiente per valutare il livello di benessere di un Paese, in quanto non teneva conto del depauperamento di materie prime e di risorse naturali, quali: biodiversità, aria pulita, acqua potabile, bellezza paesaggistica naturale. Si iniziò così a parlare, in termini economici, di peggioramento della qualità della vita e fu introdotto il concetto di “costo sociale”.

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7 − i portatori di altri interessi economici (in primo luogo quelli dei lavoratori), in quanto meno “negoziabili” nello stesso orizzonte temporale di breve periodo.

La conseguenza prevedibile di tali comportamenti è stata l’incapacità dell’azienda a perdurare nel tempo, cioè ad assolvere alla sua funzione principe di creazione di ricchezza.

Oggi le imprese non possono più ignorare gli impatti (diretti e/o indiretti) che la loro attività genera. In particolare, sono chiamate:

− al rispetto di uno sviluppo ambientale sostenibile;

− a considerare i diritti umani sia dei propri dipendenti sia di coloro che direttamente o indirettamente hanno rapporti con il sistema impresa.

La società civile, non più locale ma globale, richiede loro un’assunzione di responsabilità, correttezza e trasparenza. In virtù della dimensione aziendale e della tecnologia utilizzata nei processi produttivi e/o incorporata nei prodotti e nei servizi realizzati, ogni impresa esercita e si vede riconosciuto un ruolo che trascende il semplice piano economico, e si focalizza sul piano sociale e politico. Un’azienda viene considerata non solamente come l’entità che produce una parte più o meno consistente di prodotto interno lordo di un Paese, ma anche, in virtù della modalità attraverso la quale realizza il proprio processo produttivo, come responsabile della qualità della vita attuale e futura. Per questo motivo le imprese sono chiamate ad aiutare e supportare le istituzioni per uno sviluppo economico e sociale sostenibile, e quindi di lungo periodo.

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8 2. Globalizzazione

Sempre più spesso sentiamo parlare di globalizzazione, di mondo globalizzato. Ma che cos’è la globalizzazione? Non esiste, ad oggi, una definizione univoca di tale termine; ciò è dovuto alla molteplicità di punti di vista dai quali tale fenomeno può essere analizzato e valutato. In particolare, se si adotta una prospettiva prettamente economica, il termine globalizzazione viene usato per indicare la forte accelerazione del processo di integrazione tra diverse aree del mondo, cominciato all’inizio del ventesimo secolo, che ha prodotto importanti conseguenze sul mercato dei beni e dei fattori produttivi e una crescente libertà e velocità dei movimenti dei capitali. Ciò è stato reso possibile dalla rivoluzione tecnologica che la società civile ha vissuto e sta ancora vivendo; rivoluzione che ha permesso la riduzione dei costi di trasporto e una maggiore velocità nella trasmissione di voce, immagini e dati nello spazio. Se invece adottiamo una

IMPRESA

Oltre a riversare nell’ambiente prodotti e/o servizi, con il proprio

comportamento è in grado di influenzare con maggiore o minore rilevanza l’ambiente esterno.

AMBIENTE

Fornisce all’impresa input e vincoli che vanno ad influenzare le modalità e le caratteristiche della combinazione:

• materie prime; • forza lavoro;

• valori culturali ed etici; • scelte politiche e legislative; • …

Molte imprese promuovono il concetto di CSR presso i loro dipendenti affinché non sia solo un comportamento circoscritto all’ambiente aziendale, ma sia anche uno stile di vita da diffondere.

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9 prospettiva non prettamente economica, il termine globalizzazione può essere usato per indicare:

• l’annullamento delle distanze ⇒ oggigiorno, in particolare con l’avvento di Facebook ed altri social networks, ciascun individuo può sviluppare, oltre a “relazioni locali” che intrattiene con la ristretta cerchia di amici e familiari, “relazioni virtuali” che lo mettono in comunicazione con persone residenti in qualsiasi parte del mondo.

• la progressiva coscienza della visione del mondo come un tutt’uno ⇒ scelte o problematiche locali (es: sentieri di industrializzazione intrapresi in determinate regioni; guerriglie; …) producono effetti anche in Paesi distanti chilometri (es: effetto serra; gestione di un numero sempre crescente di profughi;…); per questo si avverte sempre più la necessità, o meglio l’urgenza, di intraprendere azioni generali per risolvere i mali pubblici globali.

Come emerge anche da un’indagine del 2002 condotta da De Benedictis e Helg, nella società civile si riscontrano atteggiamenti contrastanti nei confronti della globalizzazione; in particolare: i globofili, cioè gli ottimisti, sostengono che la globalizzazione ha aumentato il benessere globale; i globofobi, cioè i pessimisti, ritengono invece che essa abbia aumentato le disuguaglianze. È importante sottolineare che entrambi gli schieramenti hanno ragione.

Anche se non si possono negare gli importanti vantaggi economici e non generati dalla globalizzazione (es: opportunità di crescita economica per i Paesi del Sud del Mondo; riduzione dei prezzi dei beni a seguito della maggiore concorrenza sul mercato; velocità delle comunicazioni;..); nel guardarci intorno, risulta evidente che la creazione di un mercato globale non ha debellato la piaga della povertà ed ha invece inasprito il problema dello sperpero delle risorse naturali del pianeta. Scendendo nel dettaglio, nel corso degli ultimi decenni a fronte di una riduzione della quota relativa della popolazione mondiale che versa in condizioni di estrema povertà, si è registrato un aumento delle disuguaglianze sia a livello

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10 globale tra diversi Paesi, sia a livello nazionale tra le diverse classi sociali. Per comprendere meglio come questa divaricazione dei salari e dei redditi tra le diverse fasce della popolazione mondiale, derivante dalla creazione di un unico mercato del lavoro e di un unico mercato del prodotto, sia stata possibile è utile fare riferimento alla “scala dei talenti”, una scala immaginaria che permette di classificare, in base al loro grado di competenze, i lavoratori in:

• lavoratori altamente specializzati ⇒ la domanda di tali lavoratori è molto elevata a fronte di un’offerta ridotta, per questo sono ritenuti scarsamente sostituibili.

• lavoratori poco specializzati ⇒ l’offerta è molto abbondante a parità di domanda, perciò questi lavoratori sono considerati altamente sostituibili.

Gli effetti che, in seguito alla mondializzazione del mercato del lavoro e del mercato del prodotto, si producono sulle categorie di lavoratori sopra individuate

lavoratori altamente

specializzati

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11 sono diversi. Con riferimento ai lavoratori altamente specializzati si registra un impatto positivo; la loro scarsa sostituibilità permette loro di possedere ed esercitare un maggior potere contrattuale nei confronti dei datori di lavoro, cosicché riescono ad accaparrarsi una quota rilevante delle maggiori entrate registrate a seguito di un aumento di domanda sul prodotto, rivendicando ed ottenendo così migliori livelli salariali. L’impatto che, invece, si riversa sui lavoratori poco specializzati risulta essere negativo a causa del ridotto potere contrattuale di cui godono. In special modo, essi si trovano a dover concorrere con i lavoratori meno specializzati di altre aree del mondo. A questo punto è opportuno fare due considerazioni. La prima concerne il fatto che il costo della globalizzazione è più alto per i lavoratori poco specializzati dei Paesi del Nord del Mondo, in quanto usufruiscono di maggiori garanzie e tutele sindacali e, a fronte anche di un costo della vita più alto, percepiscono un salario lordo maggiore rispetto a quello pagato ai loro omologhi del Sud del Mondo. La seconda considerazione riguarda l’impossibilità dei lavoratori meno specializzati del Sud del Mondo di accrescere significativamente il proprio benessere a causa del forte squilibrio di potere contrattuale con le imprese transnazionali. Sfruttando l’assenza, in questi Paesi, di un adeguato apparato normativo a tutela delle categorie più deboli di stakeholders, le multinazionali riescono ad appropriarsi di una parte esorbitante dei benefici generati dagli scambi e dalle transazioni con le economie locali.

In conclusione possiamo affermare che per garantire una distribuzione più equa del surplus creato è necessario ristabilire un equilibrio dei poteri tra imprese, istituzioni e cittadini attraverso l’individuazione di appropriate regole e nuove authorities in grado di far rispettare efficacemente politiche di antitrust globale, riducendo così il potere dei grandi oligopoli. Inoltre se le multinazionali e in generale le imprese transnazionali, attraverso politiche coordinate con le organizzazioni internazionali, anziché approfittare delle debolezze insite nelle legislazioni dei Paesi del Sud del Mondo, si impegnassero per lo sviluppo dei sistemi di Welfare, di protezione ambientale e dei diritti dei lavoratori di questi

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12 Paesi allora, per effetto della minore competizione sui costi, si ridurrebbe la pressione esercitata sulle imprese dei Paesi sviluppati; ciò andrebbe anche a vantaggio dei loro lavoratori meno specializzati. In questa realtà che si verrebbe a delineare, i Paesi in via di sviluppo continuerebbero ad avere un forte potenziale competitivo in virtù della disponibilità, al loro interno, di numerose risorse umane, sociali e naturali non utilizzate prima.

3. Relazione tra globalizzazione e CSR

La globalizzazione e il progresso scientifico non sono riusciti a risolvere in modo soddisfacente la questione della sostenibilità sociale ed ambientale dello sviluppo; lo dimostra il fatto che nonostante un aumento medio del benessere collettivo e una riduzione della quota relativa degli indigenti, persiste ancora una consistente fascia di popolazione mondiale che versa in condizioni di estrema povertà e inoltre sono aumentate le disuguaglianze tra le diverse aree del pianeta. In particolare la globalizzazione (attraverso la delocalizzazione produttiva; la crescente velocità di circolazione dei capitali, delle merci e dei lavoratori; e la costituzione di un unico mercato del lavoro e di un unico mercato del prodotto), pur apportando benefici ad importanti fasce della popolazione mondiale, non è riuscita ancora a promuovere l’inclusione e l’accesso al mercato di un’importante quota della popolazione mondiale bloccata dalla trappola della povertà. Con tale termine si indica un complesso di condizioni (es: mancanza di rappresentatività; scarso accesso all’istruzione;..), che solo se vengono rimosse contemporaneamente permettono l’accesso ai potenziali benefici di cui godono le fasce più benestanti della popolazione. Scendendo nel dettaglio, la teoria della convergenza condizionata individua tre fattori su cui è necessaria un’azione simultanea:

• capitale fisico e infrastrutture; • scolarizzazione della forza lavoro; • qualità delle istituzioni.

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13 Questo è importante perché se, ad esempio, il miglioramento del livello di istruzione della popolazione non viene accompagnato da un incremento della qualità delle istituzioni, anziché registrare un aumento dello sviluppo, si ha la fuga dei cervelli verso altri Stati che sono in grado di valorizzare meglio, rispetto al Paese d’origine, questi talenti. In una realtà più integrata, dove risulta più agevole tanto per le persone quanto per i capitali spostarsi da un luogo ad un altro, è importante creare nella propria nazione le condizioni in grado di mantenere e attirare questi fattori produttivi.

Tra gli studiosi è sempre maggiore la consapevolezza, successivamente avvalorata da un rapporto della Banca Mondiale, che è un problema di governance quello che impedisce l’effettiva attuazione di soluzioni al problema della povertà. In questo contesto, l’approccio alla responsabilità sociale può essere visto come una terza frontiera dei sistemi di welfare, in grado di risolvere le inefficienze del mercato. Per comprendere meglio come ciò sia possibile, è utile procedere ad una breve analisi degli approcci all’economia del benessere. Secondo i liberali, ciascun individuo perseguendo il proprio utile realizza allo stesso tempo quello della società nel suo complesso. Ciò non è vero. Questa “utopia”, infatti, fallisce a causa delle numerose violazioni del modello di concorrenza perfetta presenti nella realtà: informazione imperfetta; esternalità negative e/o positive; esistenza di beni non rivali e non escludibili (un esempio di bene pubblico è la difesa nazionale); rendite monopolistiche e oligopolistiche;…. A questo punto entra in gioco il I° teorema dell’economia del benessere che si fonda sulla logica del “pianificatore sociale”. Entrando più nel dettaglio, questo approccio ritiene che spetta alle istituzioni pubbliche, dopo un’attenta analisi del problema, individuare i correttivi opportuni (tassazione o incentivazione) per modificare il sistema dei prezzi relativi in modo da allineare l’obiettivo del privato con quello dell’ottimo sociale. L’esempio classico di questa forma di intervento è rappresentato dalla tassa di Pigou.

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14 Questa frontiera del benessere ha però dei limiti. Essa infatti presuppone che il pianificatore (cioè l’amministrazione pubblica) sia:

• perfettamente informato ⇒ l’informazione, come sappiamo, è una risorsa scarsa sul mercato; per cui molte relazioni economiche si svolgono in condizioni di asimmetria informativa.

• benevolente (cioè abbia effettivamente la volontà di raggiungere l’ottimo sociale) ⇒ a causa della presenza, nella realtà dei fatti, di situazioni di conflitti d’interesse o della divergenza tra obiettivi formali delle istituzioni e

TASSA DI PIGOU

Il pianificatore aumenta il costo di produrre emissioni inquinanti di un’impresa al fine di ridurre le sue emissioni e di portarle dal livello di ottimo privato a quello più basso di ottimo sociale. p CmA + T G CmA pA K B T=CMAE C F E CMAE 0 Q Q* QA

Come è possibile vedere dal grafico sopra riportato, il punto B è inefficiente per la società perché non tiene conto dell’esternalità negativa prodotta dall’impresa A, come invece fa K. Un modo per correggere questa esternalità è rappresentato dalla creazione da parte dello Stato di un’imposta che rende il costo di produzione dell’impresa più elevato. Se l’imposta è uguale all’esternalità KC, tutta la curva CmA trasla verso l’alto. In questo modo il nuovo costo

dell’impresa è dato dalla curva CmA+T, mentre il nuovo punto d’equilibrio è dato da K. Si

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15 obiettivi di chi agisce al loro interno3, l’agire dei rappresentanti delle istituzioni differisce dall’agire del pianificatore benevolente.

Si giunge così al secondo approccio all’economia del benessere, quello della “riforma delle regole”. Partendo dal presupposto che gli individui perseguono i propri interessi, spesso divergenti da quelli orientati al benessere sociale, tale approccio intende costruire un sistema di regole in grado di limitare al massimo i danni che gli agenti economici, con il loro operare, possono arrecare alla collettività. Anche questo approccio, però, da solo non è in grado di raggiungere gli obiettivi della sostenibilità sociale e ambientale dello sviluppo. Gli scandali finanziari che si sono verificati negli ultimi anni hanno dimostrato, infatti, l’impossibilità di un sistema economico di funzionare basandosi esclusivamente su meccanismi di incentivazione e punizione che inducano gli individui a modificare i loro comportamenti.

Gli insuccessi dei primi due approcci portano così alla terza frontiera dell’economia del benessere, quella della “responsabilità sociale” che riconosce ai cittadini socialmente responsabili un ruolo determinante nel correggere le azioni di imprese ed istituzioni. Questi cittadini, scegliendo i loro consumi o l’allocazione dei propri risparmi in base al valore sociale dei prodotti oltre che, ovviamente, ai tradizionali criteri di prezzo-qualità per i consumi e rischio-rendimento per i risparmi, fanno capire alle imprese il ruolo competitivo dell’essere socialmente responsabile. Le imprese quindi, per poter conquistare questi consumatori, sono indotte ad aumentare il loro grado di responsabilità sociale. Attraverso esempi di consumo socialmente responsabile, come il commercio equo e solidale, la società civile agisce in difesa di quella categoria di lavoratori, i cosiddetti “lavoratori poco specializzati”, più minacciata dalla globalizzazione. Aumentando il potere contrattuale dei lavoratori poco specializzati del Sud del Mondo contribuisce a ridurre efficacemente quel gap di condizioni salariali e di tutele che rende i lavoratori poco specializzati del Nord

3 Problemi quali l’elevato debito pubblico e l’insostenibilità ambientale dello sviluppo spesso nascono dal

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16 del Mondo meno competitivi. In questo modo si sta andando verso un riequilibrio delle tutele del lavoro verso l’alto, e non verso il basso. Anche se le quote dei consumi socialmente responsabili sono piuttosto basse (qualche anno fa si aggiravano attorno al 2%), esse hanno un rilevante impatto sistemico in grado di generare una vasta gamma di comportamenti imitativi nelle imprese che vanno a beneficio dell’intero sistema economico. La rilevanza degli effetti indiretti dipende soprattutto dal fatto che una piccola variazione della propria quota di mercato, in una realtà fortemente concorrenziale come quella attuale, è fondamentale per la sopravvivenza delle imprese. Per avere un impatto sistemico più consistente è necessario che l’impulso dal basso della responsabilità sociale sia rafforzato:

• dalla creazione di nuove regole da parte delle istituzioni, in linea con la spinta esercitata dai consumatori e risparmiatori socialmente responsabili; • dalla consapevolezza delle imprese che scelte di responsabilità sociale

intelligenti, anche se in un primo momento si traducono in maggiori costi, permettono di accrescere la propria quota di mercato (estendendola ai consumatori e risparmiatori equosolidali) e possono avere impatti significativi sulla produttività dei lavoratori.

4. Da dove nasce la domanda di responsabilità sociale delle imprese

Il tema della responsabilità sociale dell’impresa (la cosiddetta Corporate Social Responsibility) esplode, in particolar modo, a partire dagli anni ’80 e ’90 del XX secolo nei Paesi dell’occidente avanzato. A questo punto ci possiamo domandare: quali sono stati i fattori che hanno determinato la nascita di tale fenomeno? Tra i vari fattori, i più importanti sono:

− forte sviluppo degli enti non profit;

− perdita del radicamento spaziale da parte delle imprese; − responsabilità sociale del consumatore-cittadino;

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17 − privatizzazione delle decisioni economiche rilevanti;

− conflitti d’interesse nell’esercizio delle cariche pubbliche da parte dei membri della business comunity;

− scandali finanziari.

Per quanto riguarda il primo punto, è utile partire dalla constatazione che nell’ultimo quarto di secolo si è registrato un forte sviluppo delle organizzazioni della società civile, il cui modus agendi è conforme ai principi e alle pratiche della responsabilità sociale delle imprese. Ciò ha determinato una graduale penetrazione della logica di azione del non profit in quella dell’impresa profit; la quale ha così scoperto che si può essere efficienti e creare valore anche se la funzione obiettivo che si cerca di massimizzare include tra i suoi argomenti, oltre al profitto, anche variabili riguardanti finalità di interesse collettivo. Anzi, per l’impresa che riesce a soddisfare interessi plurimi, risulta più agevole perdurare sul mercato.

Il secondo fattore, cioè la perdita del radicamento spaziale da parte delle imprese, è una diretta conseguenza dell’avvento della globalizzazione. Come sappiamo uno dei problemi più delicati del fare impresa è rappresentato dalla questione della “localizzazione”, cioè della scelta del luogo più consono per lo svolgimento dell’attività aziendale. Il soggetto economico, durante la fase di start-up, è chiamato ad affrontare questa complessa questione congiuntamente ad altre difficili problematiche riguardanti la dimensione, i finanziamenti e la forma giuridica da adottare, al fine di prevenire l’insorgere di futuri stati di crisi. Tra l’azienda e l’ambiente (scomponibile in ambiente generale “insieme degli elementi economici, politici, giuridici, culturali e sociali” e mercato “ambiente in cui si svolgono le operazioni di gestione”) esiste un rapporto di reciproco interscambio; cioè: l’azienda, alla ricerca costante della gratificazione desiderata, deve essere in grado di offrire un flusso di utilità e benefici in favore della collettività circostante; l’ambiente deve assicurare nel tempo all’azienda soddisfacenti condizioni di vita e di affermazione. Alla luce di questo rapporto di reciproco interscambio, fatto di minacce da contrastare con tempestività ed

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18 efficacia ed opportunità da sfruttare adeguatamente, si comprende l’importanza vitale per l’azienda di assumere la scelta localizzativa secondo un’ottica di lungo termine che tenga conto dei futuri andamenti gestionali. Se così non fosse, a causa della rigidità del problema localizzativo, la sopravvivenza dell’azienda è messa a repentaglio dal sostenimento di ingenti costi dovuti ad un eventuale cambio di ubicazione (processo molto lungo) o all’adattamento forzato all’ambiente prescelto. Il soggetto economico nel selezionare il luogo più consono ove collocare la propria attività produttiva deve tener conto della diversa composizione del paniere di fattori ubicazionali (materie prime e prodotti; spese di trasporto; forza lavoro; economie di agglomerazione; incentivi pubblici; componente extra-economica) offerti dalle diverse aree territoriali e scegliere quella che, nei limiti delle proprie possibilità e preferenze, risulta essere più conveniente.

Sotto certi aspetti, grazie all’evoluzione tecnologica degli ultimi anni, si è ridotta l’incidenza nel processo localizzativo di alcune variabili ubicazionali. A titolo esemplificativo merita citare il caso delle fonti energetiche: durante la rivoluzione industriale, a causa degli ingenti costi di trasporto del carbone, le industrie pesanti orientavano la propria scelta localizzativa nei pressi dei giacimenti di questa fonte energetica; oggi, su questo piano, è stata acquisita una maggior elasticità localizzativa grazie al diffondersi degli impianti di distribuzione dell’energia elettrica e dei sistemi di trasporto/trasformazione in energia dei combustibili fossili. La scelta localizzativa continua però ad essere fortemente condizionata, soprattutto per le piccole imprese, dal grado di sviluppo del sistema viario e dall’efficienza delle infrastrutture (le aziende, se collocate nei pressi di località dotate di un sistema evoluto di trasporti, sono più facilmente raggiungibili da parte della clientela). Oggi, l’abbattimento delle barriere spaziali generato dall’avvento della globalizzazione ha reso possibile per le imprese la delocalizzazione delle proprie attività in territori anche geograficamente lontani in cui abbondano, a costo più o meno ridotto, i fattori produttivi di cui l’organizzazione necessita. Come ha affermato Peter Drucker,

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19 le imprese si sono così trasformate da piramidi radicate nel territorio, con il quale sviluppano relazioni economiche, sociali e culturali, in tende del deserto che un giorno possono essere piantate in un luogo e il giorno dopo in un altro. In questo modo si è ridotto il legame stretto tra impresa e territorio; legame che si basava su controlli informali e su forme di mutuo aiuto: l’imprenditore che si fosse comportato male avrebbe dovuto rispondere alla “comunità locale”, che in molti casi sarebbe coincisa con il proprio mercato di sbocco. In un mercato sempre più globale, la produzione di profitti non necessariamente comporta la produzione di benessere diffuso; per cui non risulta più credibile la tradizionale logica di legittimazione dell’impresa, secondo la quale “la generazione di profitto è fonte di benefici sociali”. Ciò ha indotto la società a chiedere l’assunzione di una maggiore responsabilità, correttezza e trasparenza da parte delle imprese; le quali sono così chiamate a rendere conto del loro agire ai vari stakeholders, e non più solo agli shareholders, attraverso l’adozione dei vari strumenti di comunicazione a loro disposizione (es: bilancio sociale, bilancio ambientale, …).

Il terzo fattore fa riferimento alla nascita di una nuova “figura” di consumatore. Originariamente il consumatore era un ricettore passivo delle proposte provenienti dal lato della produzione; oggi invece siamo di fronte ad un consumatore critico, il quale conduce i propri acquisti considerando non solo il rapporto qualità-prezzo del prodotto, ma anche altre variabili che concernono sempre più il processo produttivo che ha portato alla realizzazione di quel prodotto: il rispetto dell’ambiente; l’utilizzo di sostanze biodegradabili; il rispetto dei dipendenti; lo sfruttamento del lavoro minorile;… Questo nuovo consumatore anche se non sempre è disposto a pagare un sovrapprezzo come contropartita della maggiore responsabilità richiesta alle imprese, è però più propenso all’acquisto e a punire con pratiche di boicottaggio le aziende “irresponsabili”4. È utile ricordare che negli ultimi vent’anni l’attivismo politico

4 Uno dei casi più eclatanti di boicottaggio vide coinvolta la multinazionale Nike, il cui titolo precipitò dai

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20 da parte dei consumatori è aumentato e ha determinato rilevanti cambiamenti nel modo di pensare e produrre un bene. Da un’indagine condotta dal Reputation Institute e da SDA Bocconi, pubblicata dal Sole 24 Ore nel giugno del 2002, è emerso che i fattori della responsabilità sociale di impresa che le persone considerano più importanti sono: il trattamento dei dipendenti; la sicurezza personale e la tutela dell’ambiente. Inoltre il campione intervistato ha dichiarato: • per il 21% di aver rifiutato, almeno una volta, di acquistare prodotti o servizi

di una determinata azienda accusata di tenere comportamenti irresponsabili; • per il 13% di aver incoraggiato altre persone ad unirsi al boicottaggio.

Altre indagini di mercato hanno inoltre messo in risalto il fatto che circa l’80 % dei consumatori europei ha dichiarato di essere favorevole ad incentivare lo sviluppo di imprese impegnate, a vario titolo, nel sociale. Questo va a giustificare il forte sviluppo registrato, negli ultimi anni, dalla finanza etica5. Alla luce di quanto esposto, possiamo affermare che in un mercato altamente competitivo come quello attuale l’immagine e la percezione che l’azienda genera con il suo comportamento possono rappresentare un valore discriminante per l’acquisto di un prodotto o di un servizio.

Il quarto fattore sopra individuato fa riferimento al forte processo di privatizzazione che, negli anni ’90, interessò ampi settori dell’economia europea (es: public utilities; settore bancario; telecomunicazioni;…). In quegli anni, l’Europa fu protagonista di un forte cambiamento: da un lato, vide il crollo dell’economia pianificata dei Paesi del blocco socialista; dall’altro lato, vide mettere sott’accusa, da parte di posizioni libertarie e liberiste affermatesi negli

sfruttamento minorile negli stabilimenti di India e Pakistan, effettuata da alcune associazioni di consumatori. Altri episodi simili coinvolsero:

• la Reebok; • la Nestlé;

• le imprese che nel corso degli anni sessanta e settanta sostennero l’aparthèid in Sudafrica; • …

5 La finanza etica è un modo di fare finanza rispettoso dell’ambiente e dell’uomo, tenendo conto di tutto il

ciclo di utilizzo del denaro e selezionando i soggetti finanziabili in base a principi etici. Quando si parla di “investire eticamente” il proprio denaro si intende dire tenere conto di principi etici nella scelta degli investimenti, quindi non pensare solo al rendimento, ma anche a come verranno investiti i propri risparmi.

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21 Stati Uniti e in Gran Bretagna, il modello di capitalismo renano che la contraddistingueva. Più precisamente, queste posizioni:

• sostennero che le decisioni pubbliche di politici e burocrati manovrassero la spesa pubblica nella stessa maniera egoistica, ma meno controllabile, delle decisioni di imprenditori privati;

• criticarono il modello di capitalismo renano, tipico dell’Europa continentale, in quanto contraddistinto da elevati costi dovuti a un forte intervento dello Stato in economia, sul Welfare State e su forme di concertazione sociale tra capitale e lavoro in materia di politiche economiche e sulla gestione aziendale.

Si diffuse, così, la consapevolezza della necessità di dare maggiore importanza e peso all’impresa e alla sua struttura decisionale legata alla proprietà e ai mercati finanziari. Ciò comportò un significativo spostamento delle decisioni economicamente rilevanti in direzione delle imprese.

Per molti, questa finanziarizzazione dell’economia rappresentò la manifestazione del successo dell’economia capitalista di mercato. Il modello di capitalismo anglosassone, detto anche market driven, a seguito dell’intensa globalizzazione dei mercati fu esportato anche in Paesi che non disponevano delle stesse infrastrutture istituzionali (giuridiche e sociali) tipiche dei Paesi più sviluppati. Questo processo di privatizzazione dell’economia determinò l’attribuzione di potere ad organizzazioni dotate di rilevante influenza:

• nella forma del potere di mercato ex ante;

• nell’esercizio di potere ex post all’interno delle transazioni contrattuali di lungo periodo;

• sulle decisioni politiche mediante l’esercizio di attività di lobbying.

A questo punto è utile osservare che l’esercizio di potere e di opportunismo da parte di questi soggetti, sui quali ricade il diritto di prendere le decisioni più

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22 rilevanti nei confronti di altri soggetti del mercato e della società, genera questioni di efficienza, equità e di giustizia distributiva.

Se da un lato, la domanda d’efficienza ha portato alla privatizzazione delle decisioni economiche e alla loro sottomissione al controllo di soggetti economici privati operanti sul mercato finanziario; dall’altro lato, la domanda d’equità ha generato la spinta verso la responsabilità sociale. Quindi possiamo affermare che il maggior potere ed autorità riconosciuti ai soggetti imprenditoriali nelle moderne società ad economia di mercato, deve essere controbilanciato dall’assunzione di un grado maggiore di responsabilità sociale (in Europa, ma soprattutto in Italia, le banche rivestono un ruolo importante circa il controllo e il finanziamento delle maggiori imprese. Per questo motivo, non solo la governance della banca, ma anche quella delle imprese di cui la banca è parte con capacità d’influenza superiore agli altri attori deve rispondere a tutti gli stakeholder dell’impresa).

Il quinto punto sopra citato riguarda quel male tipico delle società contemporanee che, nonostante i vari tentativi regolamentari implementati per debellarlo6, risulta essere sempre attuale. Più precisamente, il conflitto d’interesse ha subito un’evoluzione che vede, oggi, gli stessi esponenti della comunità economica rivestire importanti cariche pubbliche (l’Italia, tra tutti i Paesi occidentali, è il caso più macroscopico di conflitto d’interesse); in questo modo tali soggetti, non devono più ricorrere a scambi illeciti per indurre qualche funzionario pubblico ad agire in conflitto d’interesse, ma possono far valere direttamente i propri interessi mediante l’esercizio del potere politico. La Corporate Social Responsibility rappresenta lo strumento sul quale puntare per cercare di eliminare, o per lo meno ridurre, questo male. In questo ambito, il principio sul quale si deve far leva è la “corporate good citizenship” (buona cittadinanza d’impresa); secondo cui, un buon cittadino è un soggetto che:

6 Negli Stati Uniti il conflitto di interesse dei funzionari pubblici è stato disciplinato da bene articolati

codici di ethics in government emanati in seguito allo scandalo Watergate, che nel 1972 travolse l’allora presidente Nixon.

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23 • volontariamente compie azioni a favore della comunità di cui fa parte e con la quale coopera, al fine di svilupparne il tessuto di relazioni sociali e la produzione di beni pubblici che costituiscono la base sulla quale si reggono le transazioni economiche da cui anch’egli trae giovamento;

• non approfitta della sua forza economica e della sua influenza per ottenere trattamenti di favore dalle autorità politiche e amministrative, né cerca di installarsi al vertice delle responsabilità politiche qualora intenda continuare a perseguire i propri interessi privati, senza auto-vincolarsi ad adottare un punto di vista imparziale nell’assunzione delle decisioni o sottoporsi a preventivi controlli dei suoi potenziali conflitti d’interesse.

Infine l’ultimo fattore fa riferimento agli scandali finanziari venuti a galla negli ultimi anni, a causa della perdita di fiducia degli operatori che, per gran parte degli anni ’90, aveva sorretto le borse. Quando le aspettative positive di guadagni futuri si sono raffreddate, sono divenute evidenti le scorrettezze e le disonestà che, negli anni, sono state realizzate dagli amministratori di importanti società quotate; i quali, nella certezza che il clima di fiducia delle borse avrebbe consentito la valorizzazione dei titoli e con essa la creazione finanziaria di valore sufficiente per ripianare i costi delle operazioni fallite, avevano occultato i dati negativi e le perdite dai bilanci ufficiali.

Questo occultamento di verità fu reso possibile dal congiunto operare di quattro elementi:

• ampi margini di discrezionalità dei manager e degli amministratori;

• notevole vantaggio informativo, di tali soggetti, nei confronti degli azionisti e del pubblico in generale;

• possibilità di collusione, a seguito della condivisione delle informazioni riservate sui dati finanziari salienti con: revisori, sindaci, analisti finanziari; • remunerazioni legate ai valori dei titoli (i manager sono indotti a far apparire

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24 sostengono il valore dei titoli e, conseguentemente, quello delle stock options7).

È importante osservare che, nel breve periodo, la strategia adottata da questi manager è risultata conforme con il principio dello shareholder value (finché la verità non è venuta a galla, i manager sono riusciti a mantenere alto il valore dei titoli e quindi a massimizzare i profitti degli investitori). La massimizzazione del valore per gli azionisti, in contesti caratterizzati da forte asimmetria informativa, opportunità di collusione circa la condivisione delle informazioni sulle variabili che determinano la fiducia degli investitori, e possibilità di agire discrezionalmente per influire sulle loro credenze, risulta essere autodistruttiva se non è contemperata da altri criteri ed interessi (es: protezione dell’interesse di quei soggetti, come i lavoratori e i fornitori, che non guadagnano direttamente dalla valorizzazione nominale dei titoli ma, per poter decidere se intrattenere relazioni durature con quell’impresa, sono interessati alla solidità nel medio e lungo periodo della stessa, nonché alla correttezza delle relazioni che essa intrattiene con gli stakeholder e l’ambiente esterno)8. Infatti, se l’informazione rilevante, sulla base della quale decidono gli investitori, è racchiusa nelle mani di pochi ed è facilmente manipolabile, e se vi è facilità di collusione tra controllati e controllori, allora l’incentivo alla massimizzazione del valore per gli azionisti, al quale partecipano anche i manager, si traduce inevitabilmente nella spinta a mentire e a manipolare l’informazione. Il problema della collusione tra i manager e i relativi controllori può essere superato attraverso l’adozione della CSR, la quale attiva un controllo da più lati e non catturabile poiché rivolto a molti

7 Il termine “stock options” viene usato per indicare i diritti di opzione sulle azioni della società che

possono essere esercitati a scadenza. Le stock options rappresentano una modalità di incentivazione dei manager, e talvolta degli amministratori, basate su risultati di breve periodo. Il loro utilizzo ha favorito, assieme alla presenza nei mercati internazionali di comportamenti imitativi maggiormente pronunciati (herd behaviour), un accorciamento dell’orizzonte temporale delle decisioni gestionali per l’eccessiva focalizzazione, conscia o inconscia, sull’orizzonte temporale che corrisponde alla scadenza delle opzioni. Inoltre la crescente finanziarizzazione dell’economia e delle imprese, proceduta di pari passo con la crescente importanza delle borse, ha fatto sì che il lato finanziario dei bilanci diventasse sempre più rilevante e che in esso acquisisse un peso crescente il trading di breve periodo.

8 L’obiettivo tradizionale dell’impresa è rappresentato dalla massimizzazione del saggio di profitto.

Bisogna precisare che ai fini della sostenibilità dell’impresa ciò che conta sono i valori medi di lungo periodo. Sotto quest’ottica, gli exploit eccezionali di breve periodo tanto apprezzati dalle borse valori e da molti azionisti non sono desiderabili se vengono ottenuti, come spesso avviene, a spese dei risultati futuri.

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25 stakeholder. La rendicontazione sociale, svolta stakeholder per stakeholder, non indaga semplicemente la sfera economico-patrimoniale dell’impresa, ma ha ad oggetto diversi ambiti (es: rapporti con fornitori e clienti; impatti ambientali; azioni di lobbying;..). Queste maggiori informazioni su tutti i comportamenti dell’impresa possono tornare utili anche allo stesso azionista; il quale entrerebbe così a conoscenza di situazioni dalle quali potrebbe evincere giudizi sullo stato di salute complessivo dell’impresa. Anche se questa informazione può essere comunque manipolata, è opportuno notare che quanto più ampia è la materia su cui si rende conto, tanto maggiori sono i watch-dogs attivati in grado di dichiarare la verità, almeno su alcuni degli aspetti comunicati. La difficoltà per questi watch-dogs di colludere (perché perseguono interessi divergenti oppure perché sono organizzati in modo democratico e trasparente), rende inutile o comunque sia difficile la collusione tra pochi soggetti bene informati. In questo modo l’accountability può effettivamente diventare efficace per gli azionisti e gli investitori.

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26 Sviluppo enti non profit Perdita radicamento spaziale delle imprese Nascita del consumatore critico processo di privatizzazione dell'economia conflitti d'interesse nell'esercizio delle cariche pubbliche da parte dei membri della

business comunity scandali

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