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Un re che siede sopra un trono di giustizia disperde con lo sguardo ogni malvagio

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Academic year: 2021

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Uomini o bestie? Gli indios tra diritto e teologia.

“Un re che siede sopra un trono di giustizia disperde con lo sguardo ogni malvagio”. Prov. 20, 8. Il 26 novembre 1504, Isabella di Castiglia, affida, morente, il compimento delle sue ultime volontà al marito Ferdinando e alla figlia Giovanna.

La sovrana aveva modificato il suo testamento tre giorni prima, aggiungendo un codicillo, nel quale confermava il desiderio di proteggere gli indios e di farsi garante della loro tutela: “quindi, prego il re, mio signore, molto affettuosamente, e incarico e ordino alla suddetta principessa, mia figlia e al suddetto principe, suo marito, che così facciano e agiscano, e che questo sia il loro principale obiettivo, e che in quello pongano molta attenzione, e non consentano né permettano che gli indios, che vivono e abitano nelle suddette Indie e nella Terra Ferma, conquistate o da conquistare, ricevano offesa alcuna nella loro persona e nei loro beni, ma dispongano che siano trattati bene e con giustizia, e, se hanno ricevuto danno che vi pongano rimedio e facciano in modo che non si ecceda in alcuna cosa rispetto a ciò che ci è stato ordinato e intimato, per mezzo delle lettere apostoliche della suddetta concessione. [...]

Quindi supplico sua signoria, e ordino alla suddetta principessa, mia figlia e al suddetto principe, suo marito, e ordino agli altri miei esecutori testamentari, che, il prima possibile, (…) si informino e si preoccupino di sapere l’origine che ebbero le suddette alcabala, e del modo in cui si imposero, e se l’imposta fu temporanea o fissa (…) o se si è estesa oltre ciò che fu disposto dall’inizio.

E se si troverà che, giustamente e in buona coscienza, si possano perpetuare e portare avanti da parte mia e dei miei successori, nei suddetti regni, diano ordine che nel prelevarle, esigerle, riscuoterle, i miei sudditi e nativi non siano affaticati né offesi, dandole come imposta ai villaggi, con il loro beneplacito riguardo a ciò che sia giusto modificare, o, in un altro modo che sembrerà loro migliore, affinché cessino le suddette vessazioni e fatiche e offese che essi ne ricevono (…).

[...] E così, dato quest’ordine, che le suddette alcabala cessino presto, affinché non si possano più imporre, in modo che le nostre anime e coscienze si alleggeriscano e i nostri sudditi paghino ciò che sarà giusto e non ricevano danno”. 1

Isabella sarà la prima regina a prendere direttamente posizione a favore degli indios, ben otto anni prima delle Leggi di Burgos, lasciando un documento scritto fondamentale che dimostra la ferma volontà di modificare il trattamento dei suoi lontani sudditi.2

1 Isabel la Católica, Testamento y codicilo, http://www.delsolmedina.com/TestamentoTexto-0.htm. Sito consultato

il 17.05.2013. Traduzione dallo spagnolo mia. Corsivo mio.

2 Il tentativo estremo della regina di tutelare i popoli amerindi non sembra essere dettato solo da un ultimo

scrupolo di coscienza o da meri calcoli politici. Isabella I, infatti, aveva già levato la voce in difesa degli indios, chiedendo sì che fossero convertiti, ma anche rispettati e che non dovessero subire il giogo della schiavitù. L’esigenza di definire ed equiparare lo status giuridico dei nativi a quello dei suoi liberi vassalli europei non è un elemento da sottovalutare.

Infatti, “il testamento è legge e legge fondamentale. [...] Il capitolo più importante, per le grandi conseguenze che ne derivarono, si trova nel Codicillo, (…) ed è quello che riconosce agli abitanti delle isole e della terraferma, recentemente scoperte, la condizione di sudditi e, con questa, i diritti naturali umani della vita, della proprietà e della libertà. [...] Le espressioni sono sufficientemente chiare: riferendosi agli indios con le stesse parole che si indirizzavano agli abitanti della Castiglia, (…) si stava riconoscendo la legittimità delle comunità locali che già erano state istituite. La garanzia nella persona e nei beni mirava ai diritti naturali basici di libertà e proprietà secondo l’opinione dei teologi dell’epoca”. [LUIS SUÁREZ FERNÁNDEZ, “Análisis del Testamento de Isabel la Católica”, Cuadernos de Historia Moderna, n. 13, 1992, pp. 87-89. Traduzione dallo spagnolo mia]. Eppure sarà proprio Isabella I ad autorizzare l’istituzione delle encomienda, ingannata, come ricorda Las Casas, dalle false notizie che i governatori dei territori d’oltreoceano le fornivano sulle condizioni di vita degli abitanti del Nuovo Mondo.

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Nonostante ciò, le sorti degli amerindi non subiranno il miglioramento auspicato e, anzi, la polemica sulla loro natura continuerà ad animare il dibattito europeo.

La denuncia di Antonio de Montesinos, che nel 1511 pronuncia, alla presenza delle autorità locali spagnole e del viceré, un sermone pubblico, contro le inumane condizioni di vita cui gli indios di Hispañola sono costretti dall’avidità dei conquistadores, arriverà a scuotere la corte di Ferdinando il Cattolico.

Montesinos si scaglia contro lo stesso pubblico che si aspetta di ascoltare la tradizionale omelia della Dominica gaudete e che invece deve rendere conto del suo vergognoso e indegno operato:

“Con che diritto e con che giustizia tenete questi indios in uno stato di servitù tanto crudele e orribile? Con quale autorità avete fatto guerre tanto detestabili contro questi popoli, mansueti e pacifici, che vivevano nelle loro terre, dove ne avete sterminati un numero infinito, con morti e stragi inaudite? Come potete tenerli così oppressi e stremati, senza dare loro da mangiare, né curarli nelle loro malattie, in cui incorrono a causa degli eccessivi lavori che date loro e a causa dei quali muoiono, o per meglio dire, li uccidete per estrarre e ottenere oro ogni giorno? (…)

Questi non sono uomini? Non hanno anime razionali? Non siete obbligati ad amarli come voi stessi? Non lo capite? Non lo sentite? (…)”.3

I conquistadores, infatti, facendo leva sull’importanza che ha per la sovrana la diffusione della fede cristiana, sostenevano infatti che gli indios non si avvicinavano di buon grado agli europei e vivevano sparpagliati sulle montagne e in altre zone lontane dagli insediamenti spagnoli, rendendo così praticamente impossibile la loro evangelizzazione.

Las Casas cita il documento con cui la regina, il 20 dicembre 1503, dispone non solo che i nativi siano convertiti e lavorino, ricevendo un giusto compenso, ma soprattutto che siano trattati come persone libere:

“Donna Isabella, per grazia di Dio ecc. – dal momento che il re, mio signore ed io, attraverso l’istruzione che comandiamo di dare a don Nicolás de Ovando, comendador mayor di Alcántara, (…) abbiamo ordinato che gli indios e gli abitanti dell’isola Hispañola fossero liberi e non soggetti a servitù (…) e ora sono informata che, a

causa della molta libertà di cui godono i suddetti indios, fuggono e si sottraggono alla conversazione e alla comunicazione dei cristiani, in modo che, anche volendo pagare loro il giornaliero, non vogliono lavorare e

vagabondano, e neppure si possono trovare per addottrinarli né attrarli affinché si convertano alla nostra santa fede cattolica (…).

Noi desideriamo che i suddetti indios si convertano alla nostra santa fede cattolica e che siano addottrinati in quelle cose, e ho ordinato di dare questa mia lettera per questo motivo, perché si poteva far meglio, entrando in contatto i suddetti indios con i cristiani che si trovano in quest’isola e andando e trattando con loro e aiutandoli gli uni gli altri per coltivare, popolare la detta isola e aumentare i suoi frutti ed estrarre l’oro, qualora essa ne abbia, affinché questi miei regni e gli abitanti di quella ne usufruiscano. [...]

E fate in modo che i suddetti indios siano ben trattati (…). E non consentite né permettete che alcuno faccia loro del male, né arrechi loro danno, né alcun altro fastidio”. [B. DE LAS CASAS, Historia de las Indias, op.cit., pp. 1341-1342. Traduzione dallo spagnolo mia. Corsivo mio].

A riprova delle buone intenzioni di Isabella, il padre domenicano aggiunge un’amara considerazione: “È ancora più evidente che, se la regina avesse saputo della qualità della terra e della fragilità, povertà, mansuetudine e bontà degli indios e della gravosità e durezza dei lavori e della difficoltà con cui si estraeva l’oro e della vita amara, triste e disperata che toccava loro, per la quale morendo vivevano, e infine, dell’impossibilità di vivere e di non morire tutti come morirono senza fede né sacramenti, non l’avrebbe mai ordinato né imposto, poiché non aveva potere per imporlo e ordinarlo. E se arriverà a sapere che la suddetta condotta, che aveva prescritto il comendador

mayor, era per gli indios così dannosa, chi potrà dubitare che non la disprezzerà e la detesterà?” [B. DE LAS CASAS, Historia de las Indias, op.cit., p. 1345. Traduzione dallo spagnolo mia].

3 Antonio de Montesinos, Sermón, 21. 11. 1511, riportato da B. de Las Casas, Historia de las Indias, Obras

Completas, vol. 5, tomo III, libro III, sez. I, cap. 4, Madrid, Alianza Editorial, 1994, pp. 1761-1762. Traduzione dallo spagnolo mia. Corsivo mio.

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La reazione di sdegno è immediata: come può un frate propagandare una simile dottrina, sconveniente, inopportuna e irrispettosa verso i funzionari della corona e soprattutto verso i sovrani? Come si possono predicare “simili deliri”4?

I governatori si riuniscono da don Diego Colón, chiedendo che siano presi dei provvedimenti nei confronti di un “uomo scandaloso, divulgatore di una nuova dottrina mai udita”.5

Nonostante ciò, incoraggiato dall’appoggio dei confratelli, Montesinos ripete il suo sermone anche la domenica seguente.

Colón decide allora di informare i reali sulla disdicevole condotta dei domenicani, di “come quei frati che erano venuti in quest’isola avessero scandalizzato tutti, diffondendo una dottrina nuova, condannando tutti all’inferno perché possedevano degli indios e se ne servivano nelle miniere e in altri lavori, contrariamente a ciò che Sua Altezza aveva ordinato (…)”.6

Ma Montesinos non si sottrae al confronto.

Inviato in Spagna, per difendere la sua posizione, prosegue, non senza difficoltà, la sua missione, riuscendo ad ottenere un’udienza dal re, al quale riferisce le atrocità perpetrate dagli spagnoli a danno dei nativi e le loro misere condizioni di vita.

Ferdinando, turbato dalle parole del frate, prende atto della necessità di riformare il governo delle Indie. 7 Tuttavia, le leggi di Burgos, così come le Leyes Nuevas firmate da Carlo V, si riveleranno un sostanziale fallimento.

I provvedimenti adottati dalla corona, infatti, non saranno attuati dai governatori delle colonie, che non hanno alcuna intenzione di privarsi del lavoro degli indios, che trattano come animali e sfruttano fino all’esaurimento.

Bartolomé de Las Casas, nella sua Historia de las Indias, definisce “false e infamanti” le informazioni riportate dai procuratori delle Indie, quali Francisco de Garay, Juan Ponce de León e Pedro Gracía de Carrión, testimoniando l’affermazione e il graduale consolidamento dello stereotipo dell’indios-bestia:

“Tutti questi, o alcuni di loro, furono i primi - per ciò che io sapevo e che sempre ho saputo - che calunniarono gli indios a corte, dicendo che non sapevano governare e che necessitavano di tutori; e questa malignità andò sempre crescendo/aumentando così da sminuirli fino a dire che non erano capaci

4 Ibid., p. 1763. Traduzione dallo spagnolo mia. 5 Ibid., p. 1762. Traduzione dallo spagnolo mia.

6 Ibid., p. 1767. Traduzione dallo spagnolo mia. I domenicani si rifiutano di confessare e assolvere gli spagnoli

che non intendono cambiare proposito, dal momento che, il terribile regime di schiavitù in cui si trovano gli indios non è certo compatibile con una coscienza cristiana e con gli insegnamenti delle Sacre Scritture.

7 Preoccupato per la situazione, Ferdinando decide di convocare una giunta dei più famosi teologi e giuristi, tra cui

Palacios Rubios, Juan Rodríguez de Fonseca, Hernando de Vega e Luis Zapata, che si occupi di affrontare la questione delle Indie. Gli eruditi di Burgos, però, avranno una percezione alterata di questa realtà, perché, come già in precedenza era accaduto alla regina Isabella, le notizie fornite loro saranno in gran parte inattendibili, denigratorie e ingannevoli.

Ciò contribuisce a creare un’immagine particolarmente negativa e degradante degli indios, sempre più spesso accomunati alle bestie.

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di avere fede, il che è una grande assurdità, e renderli simili a delle bestie; come se, da tante migliaia di anni che queste terre erano popolate, piene di città e di gente, che aveva i suoi re e i suoi signori, vivendo in totale pace e tranquillità, in grande abbondanza e prosperità – quelle che la natura richiede agli uomini per vivere e moltiplicarsi in inmenso – avessero avuto bisogno delle nostre tutele. [...] Questi uomini peccatori, o alcuni di loro, diffusero questa onta; riferirono [notizie] alla maggior parte di coloro che entrarono nella giunta. Inoltre c’è da credere, così come io credo, che alcuni dei quelli che entrarono lì, più vicini alle orecchie del re, lo informavano, contro gli indios, di ciò che udivano dagli altri, o perché pensavano di difenderlo o di favorire i diritti del re o perché, (come apparve all’inizio) non mancava loro l’intenzione – dal momento che erano lontani [dalle Indie] e vivevano a corte - di avere e possedere indios per intascare l’oro.

Questo fu sempre, soprattutto da questo momento – sebbene avessero cominciato dal Cinquecento (…) – fino ad oggi, che è l’anno 1559, l’obiettivo degli spagnoli; e, bisogna che si sappia, così lo intrapresero per tutto questo mondo: in primo luogo, [dicendo] che erano bestie e fannulloni e amavano l’ozio e che non sapevano governare; (tutto questo) per fingere che fosse necessario e tenerli e servirsi di loro in quella infernale servitù alla quale li costrinsero, dicendo di educarli, per farli lavorare, e che così, Dio e il re sarebbero stati serviti da loro”. 8

Menzogne e calunnie confondono e compromettono le decisioni del Consiglio di Burgos. Abusi e violenze non accennano a diminuire.

L’incapacità della corona di far rispettare le sue ordinanze, mette in luce la debolezza dell’impero spagnolo, che fatica ad imporre la sua linea nella guida e nel controllo nei territori d’oltreoceano.

Se Montesinos sostiene, con forza, non solo che gli indios sono esseri umani, ma anche che essi posseggono un’anima razionale e che, quindi, devono essere trattati come tutti gli altri uomini, governatori e procuratori delle Indie non sembrano dello stesso avviso.

“Gli scopritori e i primi cronisti denunciano l’esistenza di esseri che per il modo di apparire e di comportarsi somigliano più alle bestie che agli uomini.

Si mette in dubbio l’ “ominità” di certi indios “bestiali” e selvaggi. (…)

Si mette in dubbio la capacità di certi indios di essere battezzati e si criticano i metodi di evangelizzazione”. 9

Chi sono questi indios? O meglio, che cosa sono? Perché sono così diversi dagli europei? Sono bestie o esseri dotati di ragione?

Le domande si moltiplicano e la necessità di trovare risposte adeguate e conformi agli interessi coloniali, economici e politici dell’Europa si fa sempre più stringente.10

8 Ibid., pp. 1779-1780. Traduzione dallo spagnolo mia. Corsivo mio.

9 Luciano Pereña, “Proceso a la conquista de América”, “Il processo alla conquista dell’America”, E la filosofia scoprì l’America, (a cura di Laureano Robles ) Milano, Jaca Books, 2003, p. 201.

10 Pagden sottolinea come l’attenzione degli europei per il Nuovo Mondo si sviluppi soprattutto per costruire una

solida base giuridica che legittimi le conquiste ispaniche: “Man mano che aumentavano le informazioni, aumentava l’interesse pubblico per gli abitanti delle Indie, per la flora e la fauna di quelle terre, per le conseguenze politiche e le possibili ingiustizie legate alla conquista di nuovi territori. [...]

Gli europei che entravano in contatto con queste tribù trovavano molto difficile pensare che creature dalle apparenze sociali e personali così terribilmente inconsuete fossero davvero umane”. [ANTHONY PAGDEN, The

Fall of Natural Man. The American Indian and the Origins of Comparative Ethnology, Cambridge, Cambridge University Press, 1982, (trad.it. di Igor Legati, La caduta dell’uomo naturale. L’indiano d’America e le origini

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Anche i circoli universitari iniziano ad interessarsi alla questione delle Americhe e ad intervenire nella polemica.

La Scuola di Salamanca, protagonista della rinascita culturale della Spagna del Cinquecento, avrà grande influenza proprio all’interno di questo dibattito.

I suoi eruditi non rimarranno indifferenti all’appello di Montesinos, analizzando e raccogliendo le testimonianze dirette al fine di ottenere un quadro il più possibile completo delle vicende d’oltreoceano ed elaborare così dottrine e teorie rigorose, non necessariamente in linea con le politiche dei coloni.

Francisco de Vitoria, titolare della cattedra di teologia dal 1526, è uno dei primi e più insigni umanisti spagnoli ad affrontare e a criticare l’ attività dei conquistadores, soprattutto degli uomini al seguito di Pizarro, denunciando l’illegittimità del loro operato.

Dopo più di vent’anni dalla denuncia di Montesinos, egli scrive una lettera a padre Miguel de Arcos, esponendo le sue considerazioni e le sue perplessità sulla conquista dell’impero Inca: “Padre Molto Reverendo, quanto al caso del Perù, Vi dico che ormai, tam diuturnis studiis, tam multu usu, non mi spaventano né mi imbarazzano le cose che mi capitano sotto mano, tranne gli inganni dei benefici e delle cose delle Indie, che a menzionarle mi si gela il sangue nelle vene. (…)

Non mi scaglio, nec excito tragedias, contro gli uni o contro gli altri, ma, dal momento che non posso fingere, neppure dico di più ma [dico] che non lo capisco e che non vedo chiaramente la legittimità e la giustizia che c’è in esso; che ne discutano con altri che lo comprendono meglio.

[...] Primum omnium, non comprendo la giustizia di quella guerra. Né contesto se l’imperatore può conquistare le Indie, dal momento che, suppongo, in generale, lo possa fare.

Tuttavia, da quello che ho capito da parte degli stessi che si trovarono nella recente battaglia contro Tabalipa, mai Tabalipa o i suoi avevano arrecato alcun danno ai cristiani, né azione per la quale si dovesse far loro guerra. Sed, rispondono i difensori dei peruleros11, i soldati non erano obbligati a riflettere su questo, ma a seguire e fare ciò che ordinavano i capitani. (…)

Ma non voglio fermarmi qui. Considero tutte le battaglie e conquiste buone e sante.

Tuttavia, bisogna considerare che questa guerra ex confessione dei peruleros, non è contro estranei, ma contro veri vassalli dell’imperatore, come se fossero originari di Siviglia, et praeterea ignorantes revera iustitiam belli; ma (bisogna considerare che) essi pensano che gli spagnoli li tirannizzino e muovano loro guerra ingiustamente.

E sebbene l’ imperatore abbia i giusti titoli per conquistarli, gli indios non lo sanno né possono saperlo; e così verissime sunt innocentes quantum attinet ad bellum. [...]

E così, supposita tota justitia belli ex parte hispañorum, non potest bellum ultra procedere al di là di assoggettarli e obbligarli ad accettare per principe l’imperatore, in quantum fieri poterit minimo damno et detrimento illorum e non per derubarli e mandarli in rovina, quantum spectat ad bona temporalia. (…) Né so per quale ragione possano privare e spogliare i tristi degli sconfitti di ciò che hanno e di ciò che non hanno.

In verità, se gli indios non sono uomini, ma scimmie, non sunt capaces injurie.

Ma se sono uomini e simili [a noi] et quod ipsi proese ferunt, vassalli dell’imperatore, non video quomodo scusare questi conquistatori per la loro ultima empietà e tirannia, né capisco che gran servizio rendano a sua Maestà, facendogli perdere i suoi vassalli.

Se io desiderassi grandemente l’arcivescovato di Toledo, che è vacante, e me lo avessero offerto perché firmassi o affermassi l’innocenza di questi peruleros, senza dubbio non oserei farlo.

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Mi si secchi la lingua e la mano, prima che io dica o scriva cose tanto inumane e fuori da tutta la cristianità”.12

Questo documento è fondamentale perché si configura come una chiara presa di posizione nei confronti della situazione che si è venuta a creare in Perù.

Egli, pur non negando il diritto dell’imperatore alla conquista, sostiene apertamente di non comprendere la legittimità della guerra.

La gente di quella terra non ha mai arrecato danno agli spagnoli, dai quali, al contrario, non ha ricevuto che violenze e soprusi.

“Le faccende americane sono gestite, questo è certo, da persone rette e giuste, ma si sente parlare di tante stragi, di tanti abusi nei confronti di uomini pacifici e innocenti, di tanti proprietari privati delle terre e dei loro beni, che a ragione ci sia può chiedere se davvero abbiano agito con giustizia”.13

I dubbi di Vitoria non riguardano tanto la legittimità dell’occupazione di territori già abitati da altre popolazioni, quanto, piuttosto, le modalità con cui queste occupazioni sono state condotte. Che sia solo una questione di metodo?

In realtà, il problema è ben più complesso.

L’opacità di certe situazioni, le troppe falsità diffuse dai coloni per occultare le loro vere intenzioni e le ruberie continue e le denuncie dei religiosi, inducono alla riflessione i circoli universitari. Già nelle lezioni del 1535 a Salamanca, Vitoria si è occupato della questione delle Indie, per poi approfondire le sue riflessioni negli anni successivi, fino alla pubblica lettura delle sue Relecciones, nel 1539.

Egli critica il sistema del requerimiento, mettendone in discussione i principi, che permettono agli spagnoli di appropriarsi delle terre degli indios, privandoli della loro sovranità e della loro indipendenza ed esigendo il riconoscimento di autorità esterne e sconosciute quali quelle dell’imperatore e del pontefice.14

Vitoria non intende condannare la presenza spagnola nei territori d’oltreoceano, poiché essa è giustificata dal processo di evangelizzazione e soprattutto dal dovere cristiano di portare la parola di Dio anche nei luoghi più lontani.15

12 Francisco de Vitoria, “La conquista del Perù”, Relecciones sobre los indios y el derecho de la guerra, Buenos

Aires, Espasa Calpe, 1946, pp. 23-25. Traduzione dallo spagnolo mia.

13 Luciano Pereña, “Proceso a la conquista de América”, “Il processo alla conquista dell’America”, E la filosofia scoprì l’America, (a cura di Laureano Robles ) Milano, Jaca Book, 2003, p. 205.

14 “Se il papa non è il dominus orbis, e se non lo è neppure l’imperatore, ciò implica che la legittimità del potere

risiede presso i popoli (…). [...] Se la potestas, cioè il potere in quanto funzione intrinsecamente necessaria alle società, viene da Dio e al contempo dal diritto naturale, per Vitoria l’auctoritas, cioè il potere di comando

legittimo e reale, viene invece dal popolo che attua una translatio auctoritatis verso il principe (…)”. [Carlo Galli,

Introduzione a Francisco de Vitoria, De iure belli, Roma- Bari, Laterza, 2005, pp. XVII-XVIII].

15 “I cristiani hanno il diritto di predicare e annunciare il Vangelo nelle province dei barbari.

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Ma, ciò che invece deve essere assolutamente riformato, perché privo di qualsiasi fondamento giuridico, è il concetto di un potere assoluto, che si trasferisce dal capo della Chiesa di Roma, ai sovrani di Spagna, che da lui ricevettero il governo legittimo del Nuovo Mondo.

Bisogna ricordare infatti che “gli spagnoli, quando s’imbarcarono per la prima volta verso le Indie, non portavano con sé nessun titolo per impadronirsi di quei territori.

I popoli indigeni disponevano del loro diritto di sovranità ancor prima dell’arrivo degli spagnoli”.16

Vitoria riparte da uno ius gentium che si pone in aperto contrasto con il principio di “un

dominus orbis, papa o imperatore che sia”.17

Rimodulare l’etica della conquista18 significa coniugare le questioni giuridiche con una forte riflessione teologica che trova nella Bibbia i suoi fondamenti.

Vitoria infatti non si limita a riformulare il ruolo dell’imperatore e del papa né a disapprovare la condotta dei conquistadores, ma riprende il delicato tema dell’umanità dei nativi, già sostenuto da Montesinos. Gli indios sono uomini ma soprattutto sono ‘prójimos’: essi rappresentano il prossimo di cui parla il Vangelo. Ciò significa non solo che gli abitanti delle Indie sono vassalli dell’imperatore e che quindi non devono essere maltrattati e privati dei loro beni, ma anche che gli spagnoli, in quanto cristiani, sono obbligati moralmente a riconoscerli come esseri umani e ad amarli, includendoli nella sfera del ‘noi’.

Il concetto di prossimità degli indios necessita ed esige un riconoscimento: gli europei, per percepire i nativi come prossimo, devono prima vedere in loro caratteristiche di umanità che riequilibrino le relazioni di potere.

Nelle sue Relecciones sobre los indios y el derecho de la guerra, Vitoria scrive:

“Dice l’Ecclesiaste: «Ogni animale ama il suo simile», quindi l’amicizia tra gli uomini sembra essere di diritto naturale ed è contro natura ostacolare il commercio e la comunicazione degli uomini che non provocano alcun danno. [...]

E ancora: La parola di Dio non è incatenata (Timoteo II, 2). [...] E dal momento che Dio «mandò ad ognuno di

loro l’amore del prossimo» (Ecclesiaste, 17), si deduce che spetta ai cristiani istruire nelle cose divine coloro che le ignorano”. [F. DE VITORIA, “De los títulos legítimos por los cuales pudieron venir los bárbaros al dominio de los españoles”, Relecciones sobre los indios y el derecho de la guerra, parte III, op.cit., pp. 110-111. Traduzione dallo spagnolo mia. Corsivo dell’autore].

16 L. Pereña, “Il processo alla conquista dell’America”, art.cit., p. 208.

Vitoria rimarca l’importanza del diritto dei nativi di mantenere le loro originarie strutture politico-amministrative, anche nel De iure belli, una Relectio tenuta all’università di Salamanca, il 19 giugno 1539: “il nono dubbio è se

sia lecito deporre i principi dei nemici, e costituirne di nuovi, o annettersi il principato.

Su ciò la prima tesi è che non è lecito farlo comunemente, ne per qualsivoglia causa di guerra giusta. Ciò risulta evidente da quanto si è detto. Infatti la pena non deve eccedere la grandezza dell’offesa (…). E questa è una regola non solo del diritto umano ma anche del diritto naturale e divino.

Quindi, posto che l’offesa arrecata dai nemici sia causa sufficiente di guerra, non sempre sarà sufficiente perché venga annientato lo Stato nemico e perché vengano deposti i principi legittimi e naturali.

Questo sarebbe infatti del tutto crudele e disumano”. [F. DE VITORIA, “Quantum liceat in bello iusto”, De iure

belli, (1539), op.cit., pp. 95-97. Corsivo dell’autore].

17 C. Galli, Introduzione a Francisco de Vitoria, De iure belli, op.cit., p. XXVII. 18 L’espressione è di Luciano Pereña, art.cit., p. 212.

(8)

Gli spagnoli sono il prossimo dei barbari, come emerge dal Vangelo (Luca, 10: 29-37), nelle parole del Samaritano. (…) Perché, come dice S. Agostino (De Doctrina Cristiana): Quando si dice amerai il prossimo tuo, è chiaro che il prossimo sono tutti gli uomini”. 19

È significativo il fatto che Vitoria si riferisca ai nativi, definendoli alternativamente, indios,

hombres e barbaros, quasi fossero sinonimi.

Come può, infatti, un raffinato e colto spagnolo del XVI secolo vedere un indio, rozzo e idolatra che vive nudo e senza leggi, quale suo simile?

La prossimità implica il riconoscimento di tratti comuni, tra spagnoli e nativi, che non possono risiedere nell’antitesi ‘barbaros/ prójimos’.

Gli indios sono chiamati a ricoprire due ruoli opposti e non conciliabili tra loro, che creano ulteriori interrogativi all’interno del dibattito sul Nuovo Mondo.

“Malgrado il loro esotismo, possono essere considerati prossimo? Come trattarli?”. 20

Affermare la sostanziale uguaglianza tra indios e spagnoli, e quindi l’appartenenza dei nativi alla sfera dell’umanità, secondo la lezione biblica, non significa negare l’esistenza di differenze tra gli uomini. Tutt’altro.

Gli uomini sono uguali di fronte a Dio, che li ha creati, ma non tutti hanno le stesse capacità. Molti, infatti, non sono palesemente in grado di autogovernarsi e necessitano quindi della guida di altri a loro superiori. La società, che, nel pieno rispetto della tradizione aristotelica, continua ad essere fortemente gerarchica e strutturata, trova il suo vertice nella città e nella vita associata, la sola che può sviluppare compiutamente le virtù dello zoon politikon.21

Come osserva Anthony Pagden:

“L’uomo socialmente inferiore non aveva scelta su come o da chi essere governato, ma il governo veniva sempre condotto col suo consenso (…).

La «barbarie» degli indiani conferiva perciò agli spagnoli il dominium politico, ma solo finché il dominium fosse esercitato in favore degli indiani e non degli spagnoli.

Infatti finché gli indiani restavano bambini, gli spagnoli avevano il dovere di occuparsene (accipere curam illorum). (…)

Era persino possibile sostenere che il dominio spagnolo fosse non tanto un diritto quanto un’opera di carità (…)”.22

19 Francisco de Vitoria, “De los títulos legítimos por los cuales pudieron venir los bárbaros al dominio de los espa

ñoles”, Relecciones sobre los indios y el derecho de la guerra, op. cit., parte III, pp. 103- 104. Traduzione dallo spagnolo mia.

20 Alain Finkielkraut, L’humanité perdue, Paris, Éditions de Seuil, 1996 (trad.it. di Liliana Piersanti, L’umanità perduta. Saggio sul XX secolo, Roma, Atlantide editoriale, p. 17).

21 A questo proposito, Pagden aggiunge: “Al di fuori della città come stato non erano possibili quegli hominium consortia su cui si basava ogni amicizia (la più elevata delle virtù esclusivamente umane), né si poteva acquisire una reale conoscenza del mondo perché (…) la conoscenza dipendeva dal consenso, e il consenso poteva darsi

solo all’interno di una stretta comunità organizzata”. [A. PAGDEN, La caduta dell’uomo naturale, op.cit., p. 82].

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Vitoria auspica un rapporto di tutela da parte degli spagnoli nei confronti dei nativi, perché il buon governo delle Indie deve mirare al bene comune e non più solo all’arricchimento e al profitto degli europei.

L’imperatore deve quindi farsi garante di questa unità di intenti e vigilare affinché le condizioni di vita degli indios migliorino e siano rispettate le loro precedenti strutture politiche.23

Egli deve ricercare la pace con ogni mezzo possibile, “come insegna Paolo (Rom. 12, 18)”24 e quando sia inevitabile intraprendere una guerra, lo faccia pure, ma con il minimo danno per il nemico. Tutto infatti deve essere compiuto “osservando moderazione e giustizia, perché non si vada più in là di ciò che è necessario e (…) perché bisogna tenere molto in conto quello che dice Paolo (1° Corinzi, 6, 12) : Se tutto mi è lecito, non tutto mi è conveniente”.25

Vitoria, muovendosi sia sul terreno del diritto sia su quello delle Sacre Scritture, intende promuovere un nuovo modello di gestione della politica e del governo delle colonie, che non tolleri ingiustizie, brutalità e violazioni del diritto naturale.26

Il fatto che i sistemi governativi degli indios non siano particolarmente sviluppati non significa che gli abitanti del Nuovo Mondo debbano essere ridotti in schiavitù e costretti a lavori pesantissimi e a condizioni di vita vergognose e indegne di un essere umano.

Con le opportune correzioni e la saggia supervisione spagnola, anche i nativi possono raggiungere un considerevole livello di autonomia politica e istituzionale.

L’intento della Scuola di Salamanca sarà quello di formulare una sorta di carta di diritti comuni a spagnoli e indios, al fine di promuovere una convivenza pacifica e produttiva, in vista del bene pubblico. Le violenze e gli abusi devono cessare e con esse il regime di schiavitù che vige nelle Indie e che continua ad opprimere migliaia di innocenti.

23 Vitoria torna ancora su questo concetto nel De iure belli, “Anche ciò è evidente: infatti il principe deve

indirizzare la guerra e la pace al bene comune della comunità politica (…). Infatti questa è la differenza che intercorre fra un re legittimo e un tiranno: questi orienta il governo al proprio guadagno e vantaggio, mentre quello lo rivolge al pubblico bene, come dice Aristotele (Politica IV, 10).

Inoltre, il principe trae la propria autorità dalla comunità politica, e quindi deve servirsene per il bene di questa. Allo stesso modo le leggi debbono essere informate «non al vantaggio di alcun privato ma alla utilità comune dei cittadini» (Isidoro, Ethymologiae, in Decretum Gratiani II, 4, 2: Erit autem lex).

Quindi anche la legge della guerra deve essere rivolta all’utile comune, e non a quello del principe”.

[F. DE VITORIA, “Quae possit esse ratio et causa belli”, De iure belli, (1539), op.cit., p. 29. Corsivo dell’autore].

24 F. de Vitoria, “Conclusiones”, De iure belli, op.cit., p. 99.

Vitoria sottolinea che “è necessario che un principe giunga alla guerra messo alle strette e suo malgrado, come a una necessità”. [Ibid., p. 99].

25 F. de Vitoria, “De los títulos legítimos por los cuales pudieron venir los bárbaros al dominio de los españoles”, Relecciones sobre los indios y el derecho de la guerra, op. cit., parte III, p. 113. Traduzione dallo spagnolo mia. Corsivo dell’autore.

26 “La sua tesi si articola su tre principi-chiave: il diritto fondamentale degli indios di essere uomini, e, in quanto

tali trattati come creature libere; il diritto fondamentale dei popoli americani di avere e difendere la propria sovranità; e il diritto fondamentale del mondo di operare e collaborare per il bene della pace e della solidarietà internazionale”. [L. PEREÑA, “Il processo alla conquista dell’America”, art.cit., p. 209. Corsivo dell’autore].

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Nonostante la schiavitù costituisca una pratica largamente diffusa e accettata in Europa, soprattutto dopo le invasioni degli Arabi, Vitoria e i suoi allievi intendono fermare questa odiosa pratica.

Secondo Gliozzi, questa polemica sullo stato di asservimento degli amerindi, deriverebbe dalla loro appartenenza giuridica all’impero spagnolo.

Essendo infatti vassalli della potenza cattolica, non avrebbero dovuto, almeno in teoria, essere trattati come schiavi.

Tuttavia non si può trascurare il peso della riflessione teologica che sempre si accompagna a quella di tipo giuridico e che illumina il pensiero degli umanisti salamantini.

La maggior parte delle denunce e delle critiche sull’operato degli spagnoli nel Nuovo Mondo giunge proprio da religiosi che avevano visto gli orrori della conquista, le crudeltà di battaglie e scontri, le violenze gratuite e feroci, che avevano causato il graduale spopolamento di quei territori e che facevano impallidire i più insigni studiosi europei. 27

Vitoria, così come altri eruditi spagnoli, non trascura di esaminare attentamente i resoconti provenienti dalle Indie, dai quali trae le informazioni necessarie per le sue lezioni, nonostante spesso dubiti della loro veridicità e affidabilità.

Nonostante ciò, all’interno della Scuola di Salamanca, la condanna della schiavitù costituisce la linea di pensiero dominante.

L’evidente dislivello, che separa europei e indios, non autorizza la riduzione in schiavitù, anche se con il pretesto della conversione:

27 Il problema della schiavitù non tocca solo gli indios, ma anche i neri che provengono dall’Africa e sono

impiegati nelle piantagioni delle colonie.

Tuttavia, gli indios, incontrati dagli spagnoli nel Nuovo Mondo, vivevano liberi, mentre i neri, venduti dai portoghesi, erano già schiavi anche prima di incontrare gli europei.

Infatti, “gran parte degli africani comprati come schiavi dai portoghesi venivano loro procurati da altri africani. [...] Gli schiavi venduti in Spagna, neri o bianchi che fossero, provenivano da regioni in cui la corona spagnola non aveva impegni di governo. Perciò i monarchi cattolici potevano declinare ogni responsabilità rispetto alla merce umana venduta sul proprio territorio. [...] Gli amerindi però erano tutt’altra questione perché, salvo rare eccezioni, erano costretti a prestare servizio su isole che la corona rivendicava alla propria legittima sovranità con l’impegno di convertire i popoli al Cristianesimo senza sottoporli a «rischi e sofferenze». [A. PAGDEN, La

caduta dell’uomo naturale, op.cit., pp. 29; 33].

Lo stesso Vitoria, nella lettera indirizzata a padre Bernardino de Vique, affronta questo tema, chiarendo la sua posizione: non bisogna farsi degli scrupoli se si acquistano uomini che già nelle loro terre di origine erano schiavi, qualsiasi fosse la ragione. Diversamente, bisogna trattarli bene, perché, anch’essi sono uomini e tutti sono

sottoposti al giudizio di Dio. Infatti “i portoghesi non sono tenuti a informarsi sulla giustizia delle guerre tra i barbari.

È sufficiente che questo sia schiavo, di fatto o di diritto, e io lo compro tranquillamente. [...]

Maggior scrupolo e più che scrupolo [invece, riguarda] il fatto che ordinariamente li trattano in maniera inumana, non ricordando i signori che quelli sono il loro prossimo e non ricordandosi ciò che dice Paolo, che il signore e il servo hanno un altro Signore al quale, l’uno e l’altro, devono rendere conto.

Perché se li trattassero umanamente, sarebbe la miglior sorte per gli schiavi [vivere] tra i cristiani piuttosto che essere liberi nelle loro terre; oltre al fatto che è la migliore felicità diventare cristiani”. [F. DE VITORIA, “El trafico de esclavos realizado por los portugueses”, Relecciones sobre los indios y el derecho de la guerra, op. cit., pp. 27-28. Traduzione dallo spagnolo mia. Corsivo mio].

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“Non esiste né legge, né ragione, né esempio alcuno, in virtù del quale costoro si possano rendere schiavi in questo modo, né la nostra coscienza cristiana può sopportare una schiavitù così tirannica, che va contro la legge naturale e quella di Cristo, e anzi, si deve abolire completamente (…)”.28

Secondo Diego de Covarrubias, allievo di Vitoria e Domingo de Soto, gli indios non sono né idioti né bambini. Sono semplicemente incompleti.

Il loro sviluppo non si è ancora pienamente attuato e il compito degli spagnoli, culturalmente e tecnicamente più avanzati, è quello di aiutare i nativi ad uscire da uno stato di minorità e ad entrare a pieno titolo nella storia dell’umanità.

“I popoli indigeni non erano schiavi per natura, ma si ritrovavano in una condizione di asservimento per educazione e abitudine”.29

Eppure ancora molte domande rimangono senza una risposta soddisfacente.

Constatare un enorme divario tra i due mondi non significa spiegarne efficacemente le cause. A che cosa è dovuto questo ritardo? “Perché la società indiana non si era sviluppata come quella europea? [...] Per quale motivo gli indiani erano arretrati?

Dato che tutti gli uomini discendevano da uno dei figli di Noè, (…) perché non tutti avevano imparato a seguire le stesse regole basilari di comportamento (…)?”.30

Ma soprattutto, perché, allora, gli abitanti delle Indie non sono come gli europei? Sarà proprio il maestro Vitoria ad affrontare la questione, seppur indirettamente.

Infatti, al termine della terza parte delle Relecciones sobre los indios y el derecho de la guerra, egli ripropone ed esamina la linea di argomentazione di coloro che ritengono che i nativi siano dotati di una scarsa capacità intellettiva e, di conseguenza, non siano capaci di governare e gestire se stessi né i propri territori.

Pur sostenendo di non voler prendere posizione, sembra mostrare una certa propensione per queste congetture:

“Un altro titolo potrebbe, non sicuramente affermarsi, ma certo discutersi, considerando ciò che può avere di legittimo.

Non oso sostenerlo, ma neppure condannarlo del tutto. È il seguente: Questi barbari, sebbene (…) non siano del tutto dementi31, si allontanano molto poco dai dementi, il che dimostra che non sono adatti a formare o amministrare una repubblica legittima nelle forme umane e civili.

Per questo, non hanno una legislazione adeguata, né magistrati e neppure sono sufficientemente capaci di governare le loro famiglie. Sono carenti anche di conoscenza delle lettere e delle arti, non solo liberali, ma anche meccaniche, di nozioni di agricoltura, di lavoratori e di molte altre cose utili e perfino necessarie per le abitudini della vita umana. [...]

Perché, riguardo a ciò, avrei la stessa ragione di procedere con questi barbari nello stesso modo con cui si procede con i dementi, perché valgono niente o poco più dei dementi nel governare se stessi, e

28 Juan de Zumárraga, Segundo parecer sobre la esclavitud, (1536), cit.in Mauricio Beuchot, “Filosofi umanisti

novoispani”, E la filosofia scoprì l’America, op.cit., p. 303.

29 L. Pereña, “Il processo alla conquista dell’America”, art.cit., p. 221. 30 A.Pagden, La caduta dell’uomo naturale, op.cit., pp. 21-22.

31 Traduco qui lo spagnolo ‘amentes’ con ‘dementi’ in linea con la scelta di Igor Legati in A.Pagden, La caduta dell’uomo naturale, op.cit., p. 80 e sgg.

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neppure sono molto più capaci delle stesse fiere e bestie, dalle quali non si differenziano neppure nell’utilizzare alimenti più teneri o migliori di quelli che esse consumano.

Per questi motivi, si dice che possano essere affidati al governo di persone più intelligenti. Apparentemente, ciò si conferma. [...]

E, in verità, questo troverà il suo fondamento nel precetto della carità, dal momento che essi sono il nostro prossimo e siamo obbligati a procurare il loro bene.

Ma, questo sia detto, come ho prima raccomandato, senza presentarsi come una affermazione assoluta, e con la condizione, secondo la quale, ciò che si fa si realizzi per il bene e l’utilità dei barbari e non soltanto per il vantaggio degli spagnoli. (…)

Bisogna anche notare che per questa argomentazione vale ciò che è stato precedentemente affermato: cioè che ci sono alcuni che sono servi per natura, e come tali sembrano essere questi barbari, che potrebbero, per tanto, essere governati come servi”.32

La cautela di Vitoria nell’esporre le teorie altrui non nasconde il credito e l’influenza che certe dottrine continuano ad avere nel dibattito europeo sulle Indie.

L’idea che esistano uomini che per natura sono schiavi appare difficile da mettere in dubbio e trova conferma nelle descrizioni dei nativi, fatte da viaggiatori e conquistadores, che non fanno che rimarcare le loro deficienze e mancanze.

“Tutti i cronisti avevano riferito (…) che gli indigeni d’America non erano organizzati in Stati, non riconoscevano capi né signori, non si erano dati leggi, né magistrati, né costituzioni.

In una parola, non erano «animali naturaliter politici» secondo la definizione aristotelica dell’uomo”.33 Se si è uomini solo nella pólis, all’interno di una società che si è dotata di istituzioni e di una cultura condivisa, gli indios che vivono in piccoli villaggi, senza leggi né religione, non possono certo essere considerati uomini a pieno titolo.

La legittimazione storica della schiavitù, soprattutto se fondata sull’autorità di Aristotele, costituisce un presupposto imprescindibile per tutti coloro che vogliono difendere i loro privilegi e il sistema dell’encomienda, la principale fonte di ricchezza sia per i coloni sia per la madrepatria.34

32 F. de Vitoria, “De los títulos legítimos por los cuales pudieron venir los bárbaros al dominio de los españoles”, Relecciones sobre los indios y el derecho de la guerra, op. cit., parte III, pp. 118-120. Traduzione dallo spagnolo mia. Corsivo dell’autore.

33 Antonello Gerbi, La disputa del Nuovo Mondo. Storia di una polemica: 1750-1900, Milano-Napoli, Ricciardi

editore, 1965, (nuova ed.1983), p. 95.

34 Come ricorda Mauricio Beuchot, nonostante, formalmente, all’interno dell’encomienda gli indios non siano

schiavi, essi sono però costretti - oltre al pagamento regolare dei tributi agli encomenderos- a compiti talmente gravosi, i cosiddetti oficios manuales, con ritmi di lavoro disumani e in condizioni di vita talmente precarie, che la loro esistenza non differisce in nulla da quella di uno schiavo. [Cfr. M. BEUCHOT, “Filosofi umanisti

novoispani”, art.cit., pp. 299-300. Cfr. anche A. Pagden, La caduta dell’uomo naturale, op.cit., pp. 34 e sgg.]. Malgrado molti religiosi, quali Vasco de Quiroga, Juan de Zumárraga e Alonso de la Veracruz, vedano le

encomiendas come luoghi in cui poter raggruppare i nativi, favorendo il loro contatto con gli spagnoli e conseguentemente l’evangelizzazione, il sistema, così come si è sviluppato, produce solo il graduale spopolamento dei territori.

Le auspicate riforme, al fine di migliorare la qualità della vita degli indios encomendati, non saranno attuate, non solo a causa dell’avidità dei coloni, ma anche della corruzione dei viceré e governatori locali, interessati solo ad accumulare ricchezze in tempi brevi.

Infatti, “l’ encomienda era in realtà una forma di schiavitù camuffata.

Gli indiani, ad esempio, dovevano lavorare dieci mesi lontano da casa nella miniera di uno o l’altro encomendero senz’altro cibo che un po’ di manioca, i malati venivano rimandati a casa digiuni e morivano per strada”.

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La prima teorizzazione di un’identità sostanziale, tra indios e schiavi di natura, sembra risalire al 1510, quando il teologo scozzese John Mair, individua i nativi caraibici, come l’esempio perfetto di ciò che lo Stagirita definiva ‘schiavo di natura’:

“Questo popolo [gli abitanti delle Antille] vive alla maniera delle bestie sopra e sotto l’equatore (…). Ciò adesso è stato dimostrato per esperienza, quindi, la prima persona che li sottomette, a buon diritto li governa, perché sono per natura schiavi.

Come dice il Filosofo [Aristotele] (…) è chiaro che alcuni uomini sono schiavi per natura, e altri per natura liberi (…). Ed è giusto che un uomo debba essere schiavo e un altro libero, ed è corretto che un uomo debba comandare e un altro obbedire, perché l’attitudine al comando è

anch’essa innata nel padrone naturale.

A questo proposito (…) il Filosofo dice che i greci dovrebbero essere i padroni dei barbari proprio perché, per natura, barbari e schiavi sono la stessa cosa”.35

Bestialità, barbarità e schiavitù sono sinonimi.36 Mair però confonde i piani.

Aristotele stabilisce una certa contiguità tra barbari e schiavi, ma non li accomuna alle bestie. Egli non nega che i greci, in quanto superiori, possano legittimamente dominarli e neppure che tra i barbaroi, lo schiavo, simile in questo alla donna, sia sprovvisto delle opportune doti di comando.37 Le differenze riscontrabili nella specie umana sono state prodotte dalla natura. Gli uomini, infatti, non hanno tutti le stesse disposizioni, capacità e qualità.

Nella polis c’è posto solo per il cittadino libero, cioè un maschio adulto proprietario di terre, che abbia particolari abilità, atte alla vita pubblica, ben sintetizzate da Marina Maruzzi:

“L’uomo aristotelico è, a differenza degli animali, capace di proairesis, cioè di scelta deliberata, di proponimento razionale e lo scegliere implica sommariamente la capacità intellettuale e volitiva di [MARIANNE MAHN-LOT, Bartolomé de Las Casas et le droit des Indiens, Paris, Payot, 1982, (trad.it. di Adria Predazzi, Bartolomeo de Las Casas e i diritti degli Indiani, Milano, Jaca Book, 1985, 2° ed. 1988, p. 22].

35 John Mair, In secundum sententiarum, (1510), f. CLXXXVI r, cit.in A.Pagden, La caduta dell’uomo naturale,

op.cit., p. 39. Corsivo mio.

A questo proposito è interessante notare che, anche nel mondo antico, “la terminologia di base relativa alla schiavitù non appare univoca e priva di ambiguità, proprio perché complessa ed estremamente differenziata era la realtà a cui si riferiva. Oltre agli appellativi locali (…) esisteva in realtà un gran numero di termini generici atti a designare gli schiavi.

L’unico che non dia luogo a confusione è il termine andrapodon.

Apparentato etimologicamente a tetrapodon («essere a quattro zampe) che indica il bestiame, l’« essere dai piedi umani» designa lo schiavo in quanto cosa, oggetto di proprietà o di lucro.

Ancor più frequente in epoca classica è la parola doulos che si oppone , in modo esplicito o implicito, al termine eleutheros, «uomo libero, e ancor più a polites «cittadino».

Ma lo schiavo comune è anche, pur con minor frequenza, therapon, vale a dire «servitore» ; akolouthos, cioè «accompagnatore»; pais, cioè ragazzo», termine affettuoso e nello stesso tempo sprezzante; soma, cioè «corpo», diffusisi soprattutto a partire dal IV secolo”.

[La ‘Politica’ di Aristotele e il problema della schiavitù nel mondo antico, (a cura di Marina Maruzzi), Torino, Paravia, 1988, pp. 24-25].

36 John Elliot ben sottolinea questo rapporto: “L’equazione fra bestialità, irrazionalità e barbarie venne stabilita

facilmente; e coloro che la impostarono furono poi in grado di andare oltre, facendo ricorso alla dottrina

aristotelica per giustificare la dominazione spagnola sugli indiani come fatto naturale e necessario”. [J.H.ELLIOT,

Il vecchio e il nuovo mondo, op.cit., p. 55].

37 “Presso i barbari la femmina e lo schiavo hanno la medesima posizione perché per natura essi non hanno il

principio del comando (…). Perciò, dicono i poeti che sui barbari i Greci imperino è naturale, come se per natura fosse la stessa cosa l’essere barbaro e l’essere schiavo”. [ARISTOTELE, Politica, I, 2, 1252 b 5-10, (a cura di Carlo Augusto Viano, Milano, BUR, 2008, p. 75].

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adattare i mezzi al fine. A sua volta la proairesis implica la bouleusis, la deliberazione che verte intorno a ciò che è in nostro potere e che può essere fatto: verte essenzialmente sulle diverse azioni da porre sempre in vista del fine”.38

Gli schiavi - così come le donne, i bambini e gli stranieri - non hanno diritto di far parte della comunità politica, poiché sprovvisti delle necessarie facoltà.

Tuttavia, nonostante le loro mancanze, essi, per Aristotele, sono pur sempre esseri umani.39 Il Filosofo, nella sua esposizione, è piuttosto chiaro su questo punto:

“Prima di tutto occupiamoci del padrone e dello schiavo, per delineare i casi nei quali si deve far uso degli schiavi (…). Alcuni credono che ci sia una certa scienza concernente la condizione del padrone (…); ad altri pare che la condizione del padrone sia fuori natura.

Infatti per legge l’uno è servo e l’altro è libero, mentre in natura questa differenza non sussiste. Perciò essa non è neppure giusta, ma basata sulla costrizione.

Poiché dunque (…) come le tecniche definite per scopi particolari hanno bisogno di strumenti appropriati (…) così anche le tecniche concernenti l’amministrazione della famiglia hanno bisogno di strumenti, alcuni dei quali sono animati e altri inanimati [...].

Così anche le proprietà sono strumenti per la vita (…); lo schiavo è una proprietà animata e ogni aiutante è come uno strumento che precede e condiziona gli altri strumenti. [...]

Quale sia la natura dello schiavo e quale la sua funzione è chiaro da queste considerazioni.

Chi per natura non appartiene a sé ma a un altro, pur essendo uomo, è uno schiavo per natura; e appartiene a un altro quell’uomo che, pur essendo uomo, è oggetto di proprietà; ed è oggetto di proprietà uno strumento che serve all’azione e che è separato da chi lo possiede. [...]

Comandare e obbedire sono relazioni non solo necessarie, ma anche utili, e fin dalla nascita alcuni sono destinati a obbedire, altri a comandare. [...]

E questa condizione, poiché è propria di tutta la natura, è riscontrabile anche negli esseri animati (…). [...] Tutti gli uomini che differiscono dai loro simili tanto quanto l’anima differisce dal corpo e l’uomo dalla bestia (…) sono schiavi per natura e per essi il partito migliore è sottomettersi all’autorità di chi è loro superiore (…). È schiavo per natura chi può appartenere a qualcuno (e perciò è di un altro) e partecipa alla ragione soltanto per quel che può coglierla, senza possederla propriamente (…).

[...] È dunque evidente che per natura alcuni uomini sono liberi e altri schiavi e che per questi ultimi l’essere schiavi è giusto e utile. È dunque chiaro che (…) quando alcuni hanno convenienza a servire, altri hanno convenienza e diritto di essere padroni (…)”.40

Lo schiavo, escluso dalla polis, non autosufficiente e quindi subordinato al padrone, trova la sua dimensione nell’ οἶκος, cioè nella casa e nella sfera familiare.

Per Aristotele, egli è proprietà del padrone e strumento animato per compiere ciò che è necessario. Non dispone pienamente di se stesso perché appartiene ad un altro e ciò è per lui un bene, dal momento che è conveniente obbedire a chi è superiore.41

38 La ‘Politica’ di Aristotele e il problema della schiavitù nel mondo antico, (a cura di Marina Maruzzi), Torino,

Paravia, 1988, p. 27.

39 “Se gli indios fossero davvero bestie, non sarebbero per lo Stagirita uomini, né quindi servi. Se sono uomini

nessuna arguzia di teologo può dirli schiavi di natura”. [A. Gerbi, La disputa del Nuovo Mondo. Storia di una

polemica: 1750-1900, op.cit., p. 104].

40 Aristotele, Politica, I, 3, 1253 b- 1255 a 5, op.cit., pp. 81-91; 97.

41 Anche Vitoria insiste su questo punto: “(…) gli uomini liberi sono diversi dagli schiavi perché i padroni si

servono degli schiavi per l’utilità propria e non per la loro; mentre gli uomini liberi non esistono per gli altri, ma per sé”.

(15)

Nonostante ciò, è un uomo. Partecipa infatti della ragione, seppure in maniera minore rispetto al suo signore, ma comunque in modo tale da poter svolgere le mansioni per le quali è stato predisposto dalla natura.

Ed inoltre, lo schiavo, deve anche possedere almeno le virtù indispensabili per poter servire convenientemente:

“Innanzitutto sul conto degli schiavi qualcuno potrebbe chiedersi se abbiano una qualche virtù più pregiata di quelle inerenti ai loro compiti strumentali e servili [...].

D’altra parte sarebbe strano che non le avessero, dal momento che sono pur uomini e partecipano della ragione. (…) In generale questa questione deve essere impostata a proposito di chi per natura obbedisce e di chi comanda, cercando se identica o diversa sia la loro virtù.

Se infatti entrambi devono essere partecipi della eccellenza, perché mai l’uno dovrebbe sempre comandare e l’altro sempre obbedire? (…) D’altra parte sarebbe singolare richiedere l’eccellenza all’uno e non all’altro.

Infatti se chi comanda non fosse temperante e giusto, come potrebbe comandare bene? Ma se non lo fosse chi obbedisce, come potrebbe obbedire convenientemente? (…)

È allora evidente che di necessità entrambi partecipano della virtù e che nell’ambito di quest’ultima ci devono essere delle differenze, corrispondentemente alle differenze che ci sono tra quelli che per natura comandano. [...] Bisogna ammettere che necessariamente gli stessi rapporti valgano anche per le virtù etiche, delle quali tutti devono partecipare, ma non allo stesso modo, bensì quanto basta a ciascuno per il proprio compito.

Perciò chi comanda deve possedere la virtù etica nella sua perfezione (…) mentre ciascuno degli altri deve averne quel tanto che gli basta”.42

Il testo aristotelico, opportunamente adattato al dibattito sulle Indie, autorizzando i padroni a governare a pieno titolo sugli schiavi, si sposa perfettamente con le tesi che sottolineano l’inferiorità dei nativi, le loro barbare abitudini di vita e l’incapacità di governo.

La schiavitù è una necessità per le colonie e la legittimazione di un’autorità come quella del Filosofo sembra rappresentare la soluzione più appropriata per tacitare questioni di diritto e scrupoli di coscienza.

Gli indios, inoltre, nel quadro complessivo tracciato dagli europei, ben si adattano a questa descrizione: sono privi di autodeterminazione, sono ottusi e dominati dalle loro passioni, mentre il loro intelletto, ammesso che lo abbiano, è, nel migliore dei casi, ancora rozzo e approssimativo, dal momento che, secondo Juan de Silva, non riescono a comprendere la differenza “tra ciò che è giusto o sbagliato, o tra un cardo e una lattuga”.43

Gli stessi Bernardo de Mesa e Gil Gregorio, convocati da Ferdinando il cattolico, nel 1512, si dichiarano perfettamente d’accordo con questa linea concettuale.

I nativi, oziosi e svogliati di natura, devono essere continuamente pungolati se si vuole ottenere qualcosa da loro e, senza un’adeguata guida, che razza di esistenza avrebbero mai potuto condurre?

42 Ibid., I, 13, 1259 b- 1260 a, pp. 125-129.

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Inoltre, i lavori dell’encomienda avrebbero favorito il loro sviluppo, prendendo esempio dagli spagnoli, modello di condotta e di civiltà.

La schiavitù è addirittura terapeutica, poiché, dal momento che non sono in grado di dominarsi, “la libertà totale sarebbe loro dannosa”.44

A testimonianza della complessità della polemica e della difficoltà di giungere ad una conclusione certa, nel corso degli anni saranno ascoltati molti pareri di studiosi del calibro di Palacios Rubios, Matías de Paz, Vasco de Quiroga, Alonso de la Veracruz e altri missionari. In questo contesto, l’impegno della Scuola di Salamanca, contro la schiavitù nel Nuovo Mondo, rappresenta sicuramente una tappa fondamentale per lo sviluppo di tutto il dibattito sulle Indie. In realtà, anche queste riflessioni restano, per certi aspetti, ancora all’interno del solco aristotelico, seppur smussate dalla teologia cristiana.

Gli indios hanno bisogno della tutela degli spagnoli, temporanea ma necessaria affinché possano progredire e prosperare, raggiungendo un accettabile livello di civiltà, sebbene ciò non implichi che siano considerati alla stregua di bestie e maltrattati.

Inoltre, essi devono essere amati, in quanto uomini e in quanto ‘prossimo’.

“La scuola di Salamanca svuota di ogni significato il concetto aristotelico di schiavitù naturale. Formalmente lo trasforma in concetto ben diverso, facendo sì che passi a indicare la sottomissione gerarchica di cui la natura ha bisogno per il suo ordinato funzionamento. (…) Tutti gli uomini nascono liberi, ma non tutti nascono con la stessa capacità di governare. (…) Questa sottomissione o dipendenza contribuisce al benessere di colui che si sottomette e non ha niente a che vedere con la vile condizione della schiavitù. (…)

Si tratta più esattamente di uno stato di asservimento dell’uomo che si può superare con l’educazione, grazie alla quale condurre gli indios «alla civiltà e alle buone maniere»”.45 Nonostante la polemica si trascini per anni, sarà probabilmente l’influenza della Scuola di Salamanca a spingere Carlo V ad abolire la schiavitù nelle colonie, nel 1530, sebbene poi sia costretto a reintrodurla quattro anni più tardi, e a convocare una nuova giunta al fine di chiarire definitivamente la questione e formulare le migliori soluzioni al problema americano.

44 Gil Gregorio, Parecer de Gil Gregorio, f. 2, cit., in A. Pagden, La caduta dell’uomo naturale, op.cit., p. 51. 45 L. Pereña, “Il processo alla conquista dell’America”, art.cit., pp. 220-221.

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