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LA VITA NEL PENSIERO

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Academic year: 2021

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Collana e sezione dirette da Luigi Perissinotto

COMITATOSCIENTIFICO

Franco Biasutti (Università di Padova) Silvana Borutti (Università di Pavia)

Giuseppe Cantillo (Università Federico II di Napoli) Franco Ferrari (Università di Salerno)

Massimo Ferrari (Università di Torino) Elio Franzini (Università Statale di Milano)

Hans-Helmuth Gander (Albert-Ludwigs-Universitaet Freiburg) Jeff Malpas (University of Tasmania, Australia)

Salvatore Natoli (Università di Milano-Bicocca) Stefano Poggi (Università di Firenze)

Ramon Garcia Rodriguez (Universidad Complutense de Madrid)

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LA VITA NEL PENSIERO

Scritti per Salvatore Natoli

a cura di

Matteo Bianchin, Mauro Nobile Luigi Perissinotto, Mario Vergani

MIMESIS La scala e l’album

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MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it

mimesis@mimesisedizioni.it Collana: La scala e l’album, n. 32 Isbn: 97888575xxxxx

© 2014 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI)

Phone: +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935

ne “Riccardo Massa” dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

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INTRODUZIONE di Luigi Perissinotto

CONDIZIONI DI VERITÀ E STATUTI DELLA CONOSCENZA CONTENUTOPRATICOEFENOMENOLOGIAMORALE

di Matteo Bianchin ILPENSIEROLACERATO

di Claudio Ciancio

COMUNICAZIONE: TRAFISICAEMETAFISICA

di Santi Lo Giudice DELLAFORMA

di Mauro Nobile

NIETZSCHEELAVERITÀ. ALDIDELCORRETTOEDELLOSBAGLIATO

di Gian Luigi Paltrinieri

AGIRENELLACONTINGENZA: UNAPROPOSTATRAFILOSOFIAESCIENZA

di Telmo Pievani

VIOLENZAEFILOSOFIA. L’AMBIVALENZADELLESISTENZA

di Mario Ruggenini FILOSOFIAESALVEZZA

di Leonardo Samonà

CONSIDERAZIONISULLATECNICA

di Emanuele Severino

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di Carlo Sini

L’INCHIESTADELLAVERITÀ. FILOSOFIAEROMANZOGIALLO di Andrea Tagliapietra

SULLADONAZIONECOMECIFRAONTOLOGICAORIGINARIA.

OSSERVAZIONICRITICHEAPARTIREDA ÉTANTDONNÉDI J.-L. MARION

di Carmelo Vigna

IL SACRO, AÓRISTON, ELAFILOSOFIA. IL DIOPOSSIBILE

di Vincenzo Vitiello

MOMENTI E MODELLI DELL’ANTROPOLOGIA OCCIDENTALE POSSIBILITÀENECESSITÀNELLANTROPOLOGIADI WITTGENSTEIN

di Silvana Borutti IL MARXDI PRETI

di Mario Cingoli

MENTELOCALE. RIFLESSIONISULLABITAREILMONDO INCOLLOQUIOFILOSOFICOCON SALVATORE NATOLI

di Carla Danani

APPARENZAEREALTÀ INAUTOBIOGRAFIA. SCRITTURADIEATTIDIVERITÀ di Duccio Demetrio

PRATICHEERMENEUTICHE: ESPERIENZAERIFLESSIVITÀ NELLAVOROETNOGRAFICO

di Roberto Malighetti

LAFELICITÀDIQUESTAVITA: LERADICIDELLAPIENEZZA EDELLAREALIZZAZIONEDIIN PLATONE

di Maurizio Migliori

LAFELICITÀDIQUESTAVITA: LERADICIDELLAPIENEZZA EDELLAREALIZZAZIONEDIIN ARISTOTELE

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DIVENTARESOGGETTINELPENSIERODI SALVATORE NATOLI

di Francesca Nodari PROLOGOINTORNOA MARX

di Fulvio Papi

NASCEREÈUNAMALEDIZIONE? di Silvano Zucal

PRASSI, AFFETTI, VIRTÙ IDENTITÀ. ANCORAUNAVOLTASUQUESTOCONCETTO

di Remo Bodei

AUTONOMIAESRADICAMENTO:

LADIALETTICADELLALIBERTÀMODERNA

di Lucio Cortella

LAPASSIONEDELFILOSOFARE

di Umberto Curi

PAURAESPERANZA. INDIALOGOCON SALVATORE NATOLI

di Adriano Fabris

I CHIAROSCURIDELLASPERANZA

di Giuseppe Goisis

TRALABELLEZZAEILDOLORE. INDIALOGOCON SALVATORE NATOLI

di Roberto Mancini

INTERROGANDOLETICADELFINITO

di Giorgio Palumbo ECONOMIA ELIBERTÀ

di Pierluigi Porta

PASSAGGIDIUNDIALOGO: FINITUDINE, FELICITÀ, MERAVIGLIA.

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DI ANTONIO PRETE

LATRAPPOLADELDOLOREELEVIEDELLALIBERAZIONE DI LUIGI VERO TARCA

LAPAZIENZA. PATIRELAPAROLA DI MARIO VERGANI

ESPERIENZE RELIGIOSE E SECOLARIZZAZIONE IDEALTIPIDELLATEISMO. A SALVATORE NATOLIPERISUOI 70 ANNI

di Ilario Bertoletti

CRISTIANINELLASOCIETÀ: ILVALOREDELLUGUAGLIANZA

di Enzo Bianchi

UNAIMPOSSIBILESALVEZZA. PER SALVATORE NATOLI

di Gabriella Caramore UNCONTINUOFUGGIRE

di Maurizio Ciampa

NOTEPERUNAFENOMENOLOGIATEOLOGICADELLAGIOIA NELNUOVOTESTAMENTO

di Piero Coda

AUTONOMIADELMONDOETRASCENDENZADI DIO.

INDIALOGOCON NATOLISULLASCIADEL CONCILIO VATICANO II di Giovanni Ferretti

INTORNOAIMITIDELLASECOLARIZZAZIONE

di Romano Mádera INFINITÀEFINITEZZADI DIO

di Aldo Magris

ELIAELAVOCEDELSILENZIO.

ASCOLTODELLOSPIRITO, ASCOLTODELCORPO

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USCIREDALLETÀDELLAPIETRA! di Giacomo Manzoni

L’INTRECCIODIMODERNOESECOLARIZZAZIONE

di Ugo Perone

QUELCHERESTADELCRISTIANESIMO

di Brunetto Salvarani

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INTRODUZIONE

[...]

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DELLA CONOSCENZA

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CONTENUTO PRATICO E FENOMENOLOGIA MORALE

1. Fenomenologia morale

L’idea che la fenomenologia sia centrale nella conoscenza di sé è legata alla persuasione che l’esperienza e il giudizio, il pensiero come la percezio- ne, i desideri non meno che il sentimento di un’emozione richiedano che qualcosa si presenti per qualcuno sotto un aspetto signifi cativo. In questo lavoro vorrei provare a considerare da questo punto di vista l’esperienza morale. La recente rinascita dell’etica eudaimonistaica in un contesto post- metafi sico è legata a una caratteristica attenzione per l’individualità.1 La felicità si dice di una vita e una vita è fatta delle passioni, degli interessi, degli abiti che delineano la singolarità di uno stile biografi co, il modo pe- culiare nel quale ciascuno dà forma alla propria vita ovvero la conduce, per mutuare la felice formulazione di Simmel, secondo una legge individuale.2 1 Salvatore Natoli è stato tra i primi a sviluppare una lettura ermeneutica dell’eu- daimonia che in seguito ha segnato profondamente il dibattito politico-morale; la centralità del desiderio e l’analisi delle passioni favorisce però in questo caso il recupero della tradizione sentimentalista morale anziché l’assimilazione di motivi aristotelici in un’etica dell’autenticità che troviamo per es. in Ch. Taylor, The Ethics of Autenticity, Harvard UP, Cambridge (MA) 1992, o in A. Ferrara, L’eudaimonia postmoderna. Mutamento culturale e modelli di razionalità, Liguori, Napoli 1992, Id., Autenticità rifl essiva. Il progetto della modernità dopo la svolta linguistica, Feltrinelli, Milano 1998, ma anche Ch. Larmore, Les pratique du moi, PUF, Paris 2004, tr. it. Pratiche dell’io, Meltemi, Roma 2004; per una lettura fenomenologica J. Drummond, Self-responsibility and Eudaimonia, in C. Ierna, H. Jacobs, P. Mat- tens (a cura di), Philosophy, Phenomenology, Science. Essays in Commemoration of Edmund Husserl, Springer, Dordrecht 2010, pp. 441-60.

2 Cfr. S. Natoli, La felicità. Saggio di teoria degli affetti, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 131 ss., Id., Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 32- 37, e anche Id., Guida alla formazione del carattere, Morcelliana, Brescia 2006, in part. pp. 31-45; G. Simmel, Das individuelle Gesetz. Ein Versucht über das Prinzip der Ethik, in «Logos» a. IV, 1913, tr. it. F. Andolfi , La legge individuale, Armando, Roma 2001. In questa prospettiva l’etica si confi gura come un’estetica

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Ma come si giudica la condotta di una vita? In che senso si parla di una vita riuscita? Nel dibattito contemporaneo la questione è spesso trattata in termini espressivi: una lettura post-metafi sica dell’eudaimonia sembra trovare naturalmente la propria misura nell’espressione autentica di sé. Ma questo non implica che la fonte del giudizio sia una narrazione identita- ria, secondo una lettura che non potrebbe essere più lontana – e moderni- sta – dalla propria ispirazione aristotelica.3 Nelle prossime pagine vorrei suggerire che ricaviamo piuttosto identità dal giudizio: che scopriamo chi siamo dal modo nel quale giudichiamo l’appropriatezza di atteggiamenti, passioni, interessi. L’ipotesi è che la fenomenologia morale consenta di cogliere nella esperienza di sé le radici di una concezione eudaimonistica della felicità senza tuttavia derivare l’etica dall’identità e raccomandando anzi il contrario.

Un approccio fenomenologico richiede la congiunzione di due principi.

Il primo è che non si può credere, desiderare, vedere senza credere, deside- rare, vedere qualcosa: i fenomeni mentali hanno un contenuto. Il secondo è che la nozione di contenuto è fenomenologica.4 Il primo esclude che le esperienze siano oggetti interni accessibili per introspezione: i fenomeni non sono quello di cui siamo coscienti, sono quello che ci rende coscienti di qualcos’altro.5 Il secondo esclude che ci siano contenuti in linea di prin- cipio inaccessibili alla coscienza. Da questo punto di vista, l’analisi della ragione pratica sarà formulata come un’analisi del genere di atti e processi deliberativi rilevanti per l’azione. Di conseguenza chiedersi in cosa con-

dell’esistenza perché il governo delle passioni costituisce l’agente come soggetto morale nella misura in cui si stabilizza nelle tipicità di un abito, nelle forme di uno stile: cfr. S. Natoli, L’edifi cazione di sé, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 66 ss.

3 Cfr. A. McIntyre, After Virtue. A Study in Moral Theory, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1981, tr. it. Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Feltrinelli, Milano 1988, in part. cap. 12.

4 Cfr. E. Husserl, Logische Untersuchungen. Zweiter Band: Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis. Erster Teil, a cura di U. Panzer, Nijhoff, Den Haag 1984, tr. it. di G. Piana, Ricerche logiche, vol. 2, Il Saggiatore, Milano 1968, pp. 197-202; per un approccio simile nella fi losofi a della mente contemporanea cfr. J. Searle, Intentionality. An Essay in the Philosophy of Mind, CUP, Cambridge 1983, tr. it. Dell’intenzionalità, Bompiani, Milano 1985 e T.

Crane, Elements of Mind, Cambridge U.P., Cambridge 2001, tr. it. Fenomeni men- tali, Cortina, Milano 2003.

5 Nel caso di Husserl, Ricerche logiche, cit., notoriamente, la “manifestazione della cosa (il vissuto) non è la cosa che si manifesta […] Noi viviamo le manifestazioni come appartenenti al nesso di coscienza, mentre le cose ci si manifestano come appartenenti al mondo fenomeniale. Le manifestazioni stesse non si manifestano, esse vengono vissute” (p. 142).

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sistano un’esperienza o un giudizio pratici – sentire, credere, asserire che un’azione sia appropriata o inappropriata, giusta o ingiusta, virtuosa o no – signifi ca chiedersi ad un tempo di che cosa siano l’esperienza o il giudizio.

Quello che emerge è interessante. Nonostante l’etica sia essenzialmente pratica e abbia quindi a che fare con desideri, volizioni, abiti, il problema non riguarda il genere di atteggiamenti che adottiamo, ma il contenuto di questi atteggiamenti. Il problema in altri termini riguarda la plausibilità di una nozione di contenuto pratico: che genere di contenuto hanno giudizi come “questa guerra è ingiusta”? Si tratta di atti come tutti gli altri. Ma si può essere tentati di dire che, anziché rappresentare qualcosa, esprimono la riprovazione per la guerra. E in questo caso diventa diffi cile dire in che cosa consista il loro contenuto. Ci si potrebbe accontentare di trattarli come modifi cazioni avverbiali di un giudizio che riguarda un oggetto qualsiasi – secondo una linea che è stata esplorata per esempio in relazione ai conte- nuti sensibili della percezione visiva. Ma le diffi coltà di questo approccio sono note. La lettura avverbiale è in contrasto con la fenomenologia della percezione e del giudizio, dei quali elimina piuttosto che spiegare l’inten- zionalità.6 Quando diciamo ingiusta una guerra, come quando giudichia- mo rossa un’arancia, non parliamo dei nostri giudizi. Parliamo di guerre e arance.

A questo punto possiamo identifi care il problema fenomenologico dell’esperienza morale. L’esperienza e il giudizio in questo caso hanno un contenuto pratico, vale a dire che il loro contenuto deve rendere insieme l’oggettività e l’autorità della morale. Ma oggettività e autorità sembrano richiedere analisi diverse.

1) I giudizi morali sembrano sollevare pretese di validità analoghe alla verità, delle quali si può dare conto se sono dotati di contenuto cogniti- vo: se non esprimono idiosincrasie soggettive; per questo consideriamo il disaccordo pratico come qualcosa che può essere trattato razionalmente.7 Ma la lettura più naturale di questa caratteristica dei giudizi morali è che esistano fatti riguardo ai quali sono corretti o scorretti.8

2) L’autorità dei giudizi morali non si spiega, se non si ammette che i giudizi morali hanno implicazioni pratiche: dicono cosa fare, non soltanto che cosa credere.

6 Cfr. per una discussione A. Voltolini, Consequences of Schematism, in «Phenome- nology and the Cognitive Science», 8 (2009), pp. 141 e ss.

7 Cfr. per es. J. Habermas, Wahrheit und Rechtfertigung. Philosophische Aufsätze, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1999, tr. it. Verità e giustifi cazione, Laterza, Roma- Bari 2001, pp. 265-309.

8 M. Smith, The Moral Problem, Blackwell, Oxford 1994, p. 6.

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3) Almeno a partire da Hume, la psicologia tende tradizionalmente a distinguere due generi di atti distinti e irriducibili, individuati da quelle che Husserl nelle Ricerche logiche identifi cava come “due classi di soddisfa- zione diverse”:

[n]elle intenzioni di desiderio e volontà, le sintesi di soddisfazione sono certamente affi ni e nettamente distinte, per esempio, da quelle delle intenzioni signifi canti. D’altro canto, le soddisfazioni delle intenzioni signifi canti e degli atti intuitivi hanno un medesimo carattere, come per tutti gli atti compresi sotto il titolo di oggettivanti.9

Un atto è oggettivante se può essere vero o falso: l’intenzione è sod- disfatta, se la rappresentazione è adeguata alle cose. Ma i desideri e le volizioni non sono veri o falsi, perché le condizioni alle quali sono soddi- sfatti non hanno a che fare con come il mondo è, ma con come dovrebbe essere per risultare adeguato all’intenzione. In compenso, proprio per que- sto hanno la funzione di generare azioni che producano le condizioni alle quali l’intenzione è soddisfatta: hanno la forza motivante di una ragione per agire.10

Disgraziatamente, queste caratteristiche sono incompatibili e le teorie morali si classifi cano di solito a seconda di quale neghino.11 In alternativa, si mette in discussione la concezione tradizionale della psicologia. Infatti, se la psicologia è come si è detto, la distinzione tra atti oggettivanti e non oggettivanti rifl ette una differenza tra atti cognitivi e conativi che non di- pende dal contenuto, ma dall’atteggiamento psicologico nel quale l’atto consiste. Alla base dei giudizi pratici troveremo perciò la rappresentazione di un oggetto, ma la qualità non oggettivante dipenderà dall’adozione di un atteggiamento ulteriore: se qualcosa è desiderato non è perché sia rap-

9 E. Husserl, Ricerche logiche, cit., p. 52.

10 Cfr. R. Millikan, White Queen Psychology and Other Essays for Alice, MIT Press, Cambridge (MA) 1995, p. 67

11 Cfr. M. Smith, op. cit., p. 11; si può quindi negare che i giudizi morali abbiano contenuto cognitivo o distinguere tra validità e motivazione: la prima è la via dell’emotivismo, la seconda è quella seguita per esempio da J. Habermas, Moral- bewußtsein und kommunikatives Handeln, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1983, tr. it. Etica del discorso, Laterza, Roma-Bari 1989; un’altra ipotesi è che i giudizi causino le emozioni pertinenti, ma equivale ad assegnare ai giudizi una funzione pratica: cfr. M. Hauser, Moral minds. How Nature Designed our Sense of Right and Wrong, Harper & Collins, New York 2006, tr. it. Menti morali, Il Saggiatore, Milano 2007.

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presentato come desiderabile, ma perché alla rappresentazione è aggiunto l’atteggiamento psicologico del desiderio.12

Da questo punto di vista l’oggettività dei giudizi morali è garantita sol- tanto se esiste un genere di atti oggettivanti che rappresentano proprietà assiologiche. In questo caso la validità del giudizio deve tuttavia essere fondata nell’intuizione di un valore oggettivo, che giustifi ca e insieme mo- tiva l’azione. Ma questo richiede un’ontologia peculiare, dal momento che le proposizioni etiche rappresentano fatti sui generis:

[…] se non ci fosse alcun apriori materiale, né tipi e famiglie di oggetti che portano i predicati apriori del valore, allora il concetto del valore oggettivo non avrebbe alcun sostegno e conseguentemente, non ci sarebbe neanche il sostegno all’idea di una preferibilità prestabilita oggettivamente, all’idea di un

‘Meglio’.13

2. Sensibilità e verità pratica

Un’alternativa è ricostruire la genesi delle “proposizioni etiche” in ter- mini meno compromessi ontologicamente e adoperare questo strumento per mostrare come è possibile ricostruire la logica e la psicologia del ragio- namento pratico senza postulare un’ontologia di valori indipendente dalle passioni e dagli interessi. Che i giudizi pratici esprimano i nostri atteg- giamenti piuttosto che l’intuizione di un valore non signifi ca infatti che non dicano qualcosa del mondo umano e da questo punto di vista possano essere trattati come qualcosa che è vero o falso. È la linea che si può trovare nel secondo libro delle Idee e nella Krisis, che rifl ette le revisioni interve- nute nel frattempo nel programma della fenomenologia. Il mondo della vita infatti “comprende in sé tutte le formazioni pratiche” perché si costituisce

“in costante riferimento alla soggettività”.14 Ma se si distingue la verità

“pratico-quotidiana” legata ai progetti, agli interessi, alla sensibilità dalla verità “in sé” della scienza, l’esperienza di proprietà, oggetti, relazioni pra- tiche può non di meno apparire problematica. Nella misura in cui dipendo- 12 Cfr. E. Husserl, Ricerche logiche, cit., pp. 215-16.

13 E. Husserl, Vorlesungen über Ethik und Wertlehre (1908/1914), a cura di U. Mel- le, Nijhoff, Den Haag 1988, p. 139; da questo punto di vista il primo Husserl difende un genere di realismo morale molto vicina all’intuizionismo di Moore.

14 E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Eine Einleitung in die Phänomenologische Philosophie, a cura di W. Biemel, Nijhoff, Den Haag 1954, tr. it. di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano, 1961, p. 200.

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no dalla nostra sensibilità, le proprietà “pratiche” sono bizzarre rispetto alla immagine scientifi ca del mondo.15 Di conseguenza, si può essere indotti a pensare che, malgrado il tentativo di assimilare la Wert-nehmung alla Wahr-nehmung, Husserl non sia affatto riuscito a dare conto dei giudizi pratici a partire dal nesso tra sentimento e valore.16

A tale considerazione si può opporre la priorità fenomenologica dell’e- sperienza prerifl essiva del mondo della vita. Il mondo della vita si apre all’esperienza come il mondo intuitivo “effettivamente primo”.17 E già nel- le Idee Husserl aveva enfatizzato da questo punto di vista la distinzione tra natura e ambiente, tra la realtà “in sé” del mondo fi sico e la realtà del “mon- do circostante” orientato dalla propriocezione somatico-cinestetica. L’at- teggiamento “naturale” con il quale “viviamo nel mondo personale” come

“soggetti di un ambiente” non è affatto un atteggiamento “naturalistico”.18 Quello che rivela è il mondo quotidiano “del pressappoco”,per usare la felice formulazione di Koyré, piuttosto che il mondo della fi sica matema- tica.19 E per la medesima ragione è il mondo nel quale siamo collocati dall’esperienza affettiva “del piacere e del dispiacere” in virtù dei quali “il carattere del valore si dà originariamente nell’intuizione”:

In questi atti, l’oggetto è presente alla coscienza come oggetto di valore, come oggetto gradevole, bello, ecc., e ciò in modi diversi, per esempio in una datità originaria, dove si costruisce, in base alla mera rappresentazione intui- tiva, un valutare che ha, se lo presupponiamo, nell’immediatezza della moti- vazione viva il ruolo di una “percezione” del valore […]. Quando sento una nota di violino, la gradevolezza, la bellezza è data originariamente, se la nota muove il mio animo in modo originariamente vivo, e la bellezza è data come tale appunto attraverso il medium di questo piacere.20

15 Cfr. J. Mackie, Ethics: Inventing Right and Wrong, Penguin, New York (NY), 1997, pp. 38 ss.

16 Cfr. C. Lotz, Husserls Genuss. Über den Zusammenhang von Leib, Affektion, Fühlen und Werthaftigkeit, in «Husserl Studies» (18), 2002, pp. 31-34.

17 Cfr. E. Husserl, Krisis, cit., pp. 152-154, 160.

18 Cfr. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologische Philosophie. Zweites Buch: Phänomenologische Untersuchungen zur Konstitu- tion, a cura di W. Biemel, Nijhoff, Den Haag 1952, tr. it. di E. Filippini, Idee per una fenomenologia pura e per una fi losofi a fenomenologica, vol. 2, Einaudi, Torino 2002, p. 185

19 Cfr. A. Koyré, The Signifi cance of the Newtonian Syntesis, in Id., Newtonian Stud- ies, Harvard U.P., Cambridge (MA) 1965, pp. 3-24, tr. it. di P. Zambelli, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi, Torino 2000.

20 Cfr. E. Husserl, Idee, vol. 2, cit., p. 187.

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L’esperienza del valore si presenta in primo luogo come esperienza sen- sibile di piacere o dolore e per questo è connessa con la motivazione ad agire. Da questo punto di vista la fonte del giudizio pratico non è l’intui- zione eidetica di un genere di oggetti ontologicamente peculiari, ma l’espe- rienza ordinaria del mondo della vita. Un modo di rendere questa lettura è concepire i giudizi di valore come atti che hanno condizioni di soddisfazio- ne cognitive e conative insieme e sono fondati nella sensibilità verso certe proprietà secondarie: temere qualcosa non è solo credere che sia pericoloso o adottare un certo atteggiamento. Chi non teme le punte acuminate o un’e- spressione aggressiva è insensibile verso caratteristiche delle cose che sono salienti nell’esperienza umana: non vede certi fatti. Il problema è in che senso o in che limiti si possa parlare di sensibilità. E tuttavia, se pensiamo a questa sensibilità come a un genere di ricettività letteralmente identica a quella della percezione sensibile l’approccio offre il fi anco a tre critiche serie: l’analogia con le proprietà secondarie è incerta, non offre vantaggi nella spiegazione dell’azione, riduce le valutazioni a percezioni perden- do un aspetto cruciale della critica morale.21 Nessuna è in sé decisiva, ma insieme suggeriscono che scomporre il contenuto dei giudizi pratici in un momento ricettivo e un momento valutativo rimane fruttuoso:

Queste cose sono oggetti fondati che si sono costituiti per l’io nel modo che abbiamo descritto, attraverso atti fondati e nell’ordine dell’apprensione […]

ma una volta che simili atti fondati, in un modo qualunque, sono stati compiuti, gli oggetti corrispondenti, provvisti di caratteri di valore, di desiderio, pratici, per l’io diventano oggetti del suo mondo circostante, oggetti nei confronti dei quali esso può comportarsi in un certo modo attraverso nuovi atti personali:

esso li valuta come più o meno buoni o cattivi, adeguati o meno allo scopo.

[…]. Esse occupano adesso il suo interesse in virtù del loro essere e del loro modo d’essere, della loro bellezza, della loro gradevolezza, della loro utilità;

suscitano il suo desiderio di goderne, di giocare con esse, di utilizzarle come mezzi, di riplasmarle sulla base della rappresentazione di uno scopo. In un senso lato, possiamo defi nire l’atteggiamento personale o motivazionale anche come un atteggiamento pratico […]. 22

21 S. Blackburn, Ruling Passions, Oxford U.P., Oxford 1998, pp. 92-104; su questo punto mi permetto di rinviare a M. Bianchin, Bildung, Meaning, and Reasons, in

«Verifi che» a. XLI, 2012, pp. 73-103.

22 E. Husserl, Idee, vol. 2, cit., pp. 189-90: sulla nozione fenomenologica di costitu- zione cfr. E. Stroeker, Husserls transzendentale Phänomenologie, Klostermann, Frankfurt am Main 1978, pp. 115 ss.; sulla teoria dell’errore naturalmente J. Mak- kie, op. cit, p. 29, 48-49.

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In questo passaggio, la fonte del valore è l’apprensione emotiva di un oggetto percepito. Da questo punto di vista, la cosiddetta Wert-nehmung è perciò un atto non oggettivante e questo dovrebbe contare contro l’ipotesi che esistano atti misti o ricettivi verso proprietà pratiche. Ma una volta appreso in questo modo, l’oggetto si presenta connotato assiologicamente.

L’apprensione emotiva genera i concetti in virtù dei quali le cose sono ca- ratterizzate da proprietà pratiche e si costituisce un genere di oggettualità che sono motivi di passioni e azione. A questo punto il giudizio può essere ricavato dall’apprensione dell’oggetto esattamente come accade nei giudi- zi percettivi, attraverso l’articolazione del contenuto dell’atto in una pro- posizione che diviene il fuoco tematico della deliberazione. In altri termini, benché l’ambito della ragione pratica sia legato a una prospettiva nella quale le cose occupano lo spazio di un interesse, il giudizio non riguarda le preferenze o gli atteggiamenti degli agenti, bensì gli aspetti praticamente salienti del mondo. E anche quando un giudizio verte su desideri anziché su desiderata, su atteggiamenti anziché su oggetti, la fonte della valuta- zione tocca comunque in ultima analisi i secondi: quando approviamo o disapproviamo un desiderio o una passione valutiamo tipicamente l’appro- priatezza a ciò che li motiva.23 Da questo punto di vista la genesi del con- tenuto pratico può essere schematizzata come segue, in modo da rendere il ruolo del giudizio nel ragionamento pratico:

affezione sensibile

emozione ← sentimento dell’emozione = valutazione (piacere/dispiacere)

articolazione proposizonale // espressione di un contenuto pratico

valutazione rifl essiva

deliberazione e discorso pratico

Riconoscere che il contenuto dei giudizi pratici deriva dall’espressio- ne di un atteggiamento emotivo verso le cose non implica in altri termini che sia arbitrario, né richiede un’ontologia bizzarra: giudizi come “questa guerra è ingiusta” sono l’oggetto appropriato della critica morale proprio perché rifl ettono il modo nel quale rispondiamo emotivamente a un am- biente che non è praticamente neutrale. E tuttavia i loro contenuti dicono 23 Cfr. A. Smith, The Theory of Moral Sentiments (1795), tr. it. di E. Lecaldano,

Teoria dei sentimenti morali, Rizzoli, Milano 2001, pp. 96-97.

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di come è il mondo: quando deliberiamo non descriviamo i nostri atteg- giamenti, ma decidiamo cosa fare rispetto a certi fatti o azioni. In questo senso qui non abbiamo una “teoria dell’errore” che tratta i contenuti pratici semplicemente come proposizioni false, ma una teoria della costituzione dell’esperienza che spiega come gli stati doxastici che hanno un contenuto pratico e gli impegni ontologici che comportano siano motivati dai modi nei quali rispondiamo all’ambiente. Se per le res materiali ciò riguarda il modo nel quale si struttura il mondo percettivo, per le proprietà pratiche procede dalle risposte emotive all’affezione sensibile fi no alla sintesi dei contenuti pratici che sono oggetto di deliberazione. Possiamo riassumere queste considerazioni dicendo che per un verso la fonte della valutazione è emotiva e questo spiega la forza motivazionale dei giudizi pratici; per un altro i giudizi pratici sono atteggiamenti verso proposizioni, hanno cioè un contenuto che svolge un ruolo nella deliberazione precisamente perché è suscettibile di essere vero o falso. Ma non riguarda la nostra identità. I giudizi pratici sono i giudizi alla luce dei quali deliberiamo cosa fare, non chi essere. E ricaviamo chi siamo da quello che deliberiamo, piuttosto che il contrario.

3. Identità e felicità

La prima osservazione da fare è che in questo senso si può effettiva- mente parlare di conoscenza pratica. Così come il giudizio percettivo ha le proprie fonti nella sfera passiva della sensibilità, così il giudizio di valore ha le proprie fonti nella sfera passiva del sentimento: in generale, sentire un’emozione è riconoscere una situazione saliente in modo da motivare la risposta appropriata.24

La seconda è che possiamo distinguere i diversi momenti di questo pro- cesso. Dobbiamo pensare ai giudizi pratici come a un genere di atti nei quali il momento cognitivo e il momento conativo sono congiunti. Ma non siamo in una situazione nella quale credere, desiderare e agire sono una cosa sola.

Le alternative che abbiamo a disposizione sono una lettura sentimenta- lista nella quale il contenuto pratico è ricondotto a un insieme di concern 24 Cfr. A. Damasio, Cartesio’s Error. Emotion, Reasons and the Human Brain, Avon Books, New York 1994, tr. it. L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano 1995, pp. 283 e ss.; si osservi che ciò vale solo per creature capaci di esperienza, esseri senzienti per i quali le cose signifi cano qualcosa: cfr. N. Humphrey, A History of the Mind.

Evolution and the Birth of Consciousness, Vintage, New York 1998, pp. 39 e ss.

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centrali o fondamentali, agli abiti di giudizio che defi niscono un carattere individuale, e quella essenzialista di certo neoaristotelismo evoluzionista.25 L’impressione è che la prima sia più coerente con l’impianto di un’etica fe- nomenologica nella quale le risposte emotive all’ambiente sono costitutive dell’esperienza di vivere in un mondo morale, nonostante in un certo senso le proprietà assiologiche siano da questo punto di vista “proiettate” piutto- sto che percepite in un senso analogo a quello della percezione sensibile.

In un manoscritto degli atti ’20, questo è anzi esplicitamente menzionato come il fondamento non soltanto delle scienze normative, ma dell’etica in generale:

In virtù della proiezione che tutte le formazioni di senso della sfera del sen- timento e della volontà e quindi anche delle loro normalità e anomalie possono gettare nell’ambito dell’essere conoscibile, diventano possibili anche le scien- ze che studiano le connessioni a priori tra i sensi che appartengono alla sfera del sentimento e della volontà nelle loro norme nella loro generalità formale e di principio. In questo modo nascono le scienze normative formali, l’assiologia e l’etica o la pratica. (A IV 22, p. 37a)

Le proposizioni etiche hanno dunque contenuto cognitivo e forza moti- vazionale perché esprimono un giudizio fondato sentimentalmente. Il pro- blema della normatività nasce precisamente con la capacità di trattare i contenuti degli atti sentimentali nei quali si esprime una valutazione come proposizioni che possono essere vere o false. Poiché queste proposizioni dicono che cosa è buono, prescrivono cosa fare. In questo senso la dimen- sione normativa della critica morale ci tocca perché le biografi e sono fatte di ciò che facciamo, desideriamo, giudichiamo obbligante.

Per rendere la fenomenologia morale queste prospettive devono dun- que risultare congruenti: per un verso l’etica riguarda come vivere e in questo senso la deliberazione mette capo a una prospettiva eudaimonistica di autorealizzazione. Per un altro, non parla di noi, ma di che cosa sia buono, giusto, meritevole di approvazione o disapprovazione. È rifl ettendo sul contenuto dei giudizi che articoliamo la nostra autocomprensione, e non viceversa, è giudicando l’appropriatezza dei nostri impegni e concern che troviamo qualcosa come un “vero sé”. Non è che questi derivino dalla nostra identità. È piuttosto la nostra identità a costituirsi attraverso il giudi- zio. Gli atteggiamenti e gli abiti che abbiamo di fronte nella deliberazione

25 Per la prima si veda S. Blackburn, op. cit., in particolare pp. 24 e ss., per la se- conda W. Cesebear, Natural Ethical Facts. Evolution, Connectionism, and Moral Cognition, MIT Press, Cambridge (MA) 2003.

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rifl ettono l’unità di una storia nella quale l’io si costituisce come soggetto di esperienza e azione.26 Il giudizio riguarda il modo nel quale disegnano la possibilità di una vita riuscita. E la felicità si dice appunto di una vita.

Quello che ci è richiesto, da questo punto di vista, non è la conoscenza per intuizione di un ambito di entità sui generis, ma la Gesinnung di una biografi a individuale.

In questa prospettiva, quello che dobbiamo fare è individuato della deli- berazione migliore, e le deliberazioni muovono sempre da considerazioni sostantive. Da un lato, quindi, l’azione deliberata si presenta come obbliga- toria. Quello che desidereremmo al meglio della nostra capacità di giudizio si presenta come ciò che dovremmo desiderare, vale a dire con la forza normativa di una ragione indipendente dai nostri desideri attuali. Dall’altro la motivazione rimane defi nita nei termini teleologici del fi ne individuato dal contenuto di un desiderio. Un desiderio infatti non è semplicemente una pulsione, è una pulsione che ha rappresentazione del proprio ogget- to.27 Questa prospettiva sembra così coniugare deontologia e teleologia, sicché Husserl può affermare nei celebri saggi degli anni venti intitolati al rinnovamento che diciamo etica “la vita vissuta nell’autogoverno con- formemente all’istanza categorica dell’idea etica teleologica”.28 Nella for- mulazione matura di un’etica fenomenologica l’esperienza morale è carat- terizzata dalla dipendenza reciproca di autonomia e eudaimonia proprio perché l’autenticità di qualsiasi progetto esistenziale dipende dall’adozione rifl essiva di un’autocomprensione orientata alla verità di sé.29

26 Cfr. E. Husserl, I. Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, a cura di S.

Strasser, Nijhoff, Den Haag 1950, tr. it. di F. Costa, Meditazioni cartesiane. Con l’aggiunta dei discorsi parigini, Bompiani 1989: l’io “si costituisce per se stesso, per così dire, nell’unità di una storia” e da questo punto di vista la ragione pratica in senso lato è costitutiva della soggettività nella misura in cui questa presuppone la formazione di hexis relativamente stabili – in questo “anche la ragione logica è pratica” (pp. 83-85); cfr. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität.

Zweiter Teil: 1921–1928, Nijhoff, Den Haag 1973, p. 204 e ss.

27 Cfr. S. Natoli, L’edifi cazione di sé, cit., pp. 15 e ss.

28 E. Husserl, Aufsätze und Vorträge (1922/1937), a cura di Th. Nenon e H. R. Sepp, Nijhoff, Den Haag 1989, pp. 3-94, tr. it. di C. Sinigaglia, L’idea di Europa, Corti- na, Milano 1999, p. 47.

29 Questo non signifi ca naturalmente che la verità di sé sia del medesimo genere del- le verità oggettive alle quali abbiamo accesso attraverso la scienza, cfr. S. Natoli, Il buon uso del mondo, Mondadori, Milano 2010, pp. 159 ss., in part. pp. 169-172;

Husserl torna ripetutamente sulla questione negli articoli dei primi anni venti per la rivista Kaizo, raccolti in italiano ne L’idea di Europa, cit., pp. 23, 33 ss., 44 ss.;

per una lettura che enfatizza la connessione tra queste tematiche e la prospettiva

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Certamente la possibilità del disaccordo morale rimane aperta. Ma la prospettiva che si è tentato di suggerire non implica che sia intrattabile.

L’intersoggettività della ragione si estende naturalmente ai discorsi prati- ci e proprio per questo il genere di oggettività che caratterizza le dispute morali è legato a un’idea di umanità: la verità del giudizio esprime il punto di vista di un osservatore imparziale piuttosto che lo sguardo da nessun luogo di una intuizione eidetica.30 In questo senso, l’idea di umanità è un concetto accessibile all’interno dell’etica: è “un’idea etica”, appunto, che circoscrive il punto di vista morale come il punto di vista più generale al quale è possibile pervenire attraverso la deliberazione.

dell’autenticità cfr. Th. Nenon, Husserl Conception of Reason as Authenticity, in

«Philosophy Today», n. 47, 2003, pp. 63-70.

30 Si vedano a questo proposito C. Fricke, Overcoming Disagreement. Adam Smith and Edmund Husserl on Strategies of Justifying Descriptive and Evaluative Judg- ments, e J. Drummond, Imagination and Appresentation, Sympathy and Empathy in Smith and Husserl, in C. Fricke, D. Føllesdal (a cura di), Intersubjectivity and Objectivity in A. Smith and E. Husserl, Ontos, Frankfurt am Main 2013.

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IL PENSIERO LACERATO

1. Pensiero interpretativo e pensiero oggettivante.

I confl itti che attraversano oggi il campo della fi losofi a possono essere ricondotti principalmente al contrasto tra pensiero ermeneutico e pensiero analitico. La mia tesi è che questo confl itto non è semplicemente il risultato di circostanze storiche, ma è inscritto nella condizione stessa del pensiero, che è segnato dalla tensione fra interpretazione e oggettivazione, e come tale è un confl itto insuperabile. La fi losofi a ermeneutica ha pensato questo confl itto e ha tentato di comprenderlo e persino di risolverlo. Qui sta, a mio avviso, un motivo di superiorità rispetto al pensiero analitico, che invece tende semplicemente ad escludere il pensiero ermeneutico.

Il pensiero oggettivante si presenta in una triplice forma. La prima è la conoscenza dei fatti, che trova nelle scienze la sua rigorizzazione, la se- conda è il pensiero demistifi cante, la terza è l’autorifl essione del pensiero, in virtù della quale la fi losofi a non si limita ad essere una determinata on- tologia o una determinata descrizione del mondo, ma anche rifl ette e com- prende i principi logici, i criteri e le procedure con i quali essa stessa opera.

L’opposizione, apparentemente inconciliabile, tra la prima forma del pensiero oggettivante, quella empirica e scientifi ca e il pensiero ermeneu- tico, è stata, com’è noto, il punto di partenza di Gadamer, un’opposizione che egli ha poi tentato di superare, quando ha pensato il pensiero ogget- tivante come un caso particolare del comprendere. Il sapere oggettivante sarebbe infatti non tanto un sapere neutrale, che rifl ette il vero in sé delle cose, un sapere sottratto al momento soggettivo dell’interpretazione, quan- to piuttosto un sapere che si rende trasparenti i suoi oggetti in vista del loro dominio, della manipolazione tecnica, un sapere orientato da un particolare interesse e progetto.1

1 Vedi H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Mohr,Tübingen 19652, p. 426.

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Un più esplicito tentativo di integrare le due forme di pensiero lo tro- viamo in Apel, tentativo che si svolge in due direzioni. Per un verso, se- condo Apel, la stessa oggettività delle scienze empirico-analitiche non si può costituire prescindendo dal momento “soggettivistico” della compren- sione. Infatti il senso che possiamo dare all’oggettività è quello dell’inter- soggettività e questa signifi ca coappartenenza a un medesimo orizzonte di senso linguisticamente costituito: «anche le proposizioni del linguaggio scientifi co non designano i fatti in maniera pura e semplice, bensì dei fatti nell’ambito di comportamento degli scienziati che interpretano le proposi- zioni attraverso l’uso».2 Per altro verso la comprensione interpretativa non può prescindere del tutto dal pensiero oggettivante inteso qui nella seconda delle forme indicate, ossia come demistifi cazione. Infatti la comprensione deve fare i conti anche con ostacoli che non possono essere supe rati se si resta all’interno del processo interpretativo. Gli eventi storici e le produ- zioni culturali «non sono un’espressione pura delle [...] intenzioni spirituali [degli uomini]. Tutti i risultati delle loro inten zioni sono al tempo stesso risultati delle forme effettive di vita che essi non hanno saputo fi no ad oggi afferrare nella loro auto comprensione. È in relazione a quest’oscu- ra infi ltrazione della storia naturale dell’uomo, la quale continua dentro la storia spirituale umana, che naufragano gli sforzi dell’identifi cazione ermeneutica».3 Insomma le espressioni linguistiche dell’uomo vanno trat- tate per certi aspetti secondo il metodo oggettivante in quanto il loro senso non è soltanto da interpretare ma prima ancora da spiegare riconducendolo alle condizioni materiali che l’hanno prodotto. L’ermeneutica perciò non può prescindere dalla critica dell’ideologia e dalla psicoanalisi. Il lavoro ermeneutico in quanto è guidato dall’esigenza di realizzare una compren- sione sempre migliore non può non passare attraverso la rimozione di tutti gli ostacoli che la intralciano, per tendere a una sempre maggiore traspa- renza nella comprensione e nella comunicazione dei contenuti di senso. In un modo analogo Habermas4 da un lato ha negato l’opposizione di erme- neutica e scienza analitica esigendo che la prima sia in scritta nella secon- da, e dall’altro ha richiesto che l’esperienza erme neutica si trasformi in critica dell’ideologia. Infatti, secondo Habermas, il pro cesso ermeneutico è orientato dalla meta dell’emancipazione. Solo in riferimento a questa meta 2 K.O. Apel, Transformation der Philosophie, II, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1973, tr. it. di G. Vattimo, Comunità e Comunicazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1977, p. 81.

3 Ivi, tr. it. cit., pp. 126-127.

4 Vedi J. Habermas, Zur Logik der Sozialwissenschaften, Suhrkamp, Frankfurt a.M.

1967.

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si rende possibile quella visione critica della tradizione e dei pregiudizi, senza la quale non sarebbe sorta l’ermeneutica e senza la quale il rapporto con la tradizione sarebbe di inconsapevole appartenenza e non di distanzia- mento o di appropriazione consapevoli.

Queste posizioni sembrano essere il simmetrico opposto di quella di Ga- damer (e prima ancora di Heidegger). Infatti mentre in questi ultimi il pen- siero oggettivante viene spiegato a partire da quello ermeneutico, in Apel e Habermas è il secondo ad essere at tratto nella sfera del primo. In essi sulla dimensione dell’appartenenza (alla tradizione e all’essere) che si tratta di riprendere consapevolmente nell’interpretazione, prevale quella della ri- fl essività distanziante che – attraverso la psicoanalisi, la critica dell’ideo- logia e la critica sociale – tende a una perfetta trasparenza dell’oggetto al soggetto e del soggetto a se stesso.

Quanto alla terza forma di pensiero oggettivante, che ho indicato, si trat- ta di una forma del tutto interna al pensiero fi losofi co. L’autorifl essività del pensiero è momento essenziale della forma più alta del pensiero, cioè della fi losofi a, e deve perciò essere propria anche della fi losofi a ermeneu- tica, deve non solo accompagnarla, ma essere ad essa intrinseca anche se distinta. Che cosa comporta in particolare per il pensiero ermeneutico que- sta ineliminabile dimensione autorifl essiva? Comporta un riconoscimento e una giustifi cazione della natura ermeneutica del sapere fi losofi co. Ora sembra che questo riconoscimento e questa giustifi cazione appartengano a un livello logico diverso rispetto a quello delle tesi che costituiscono il contenuto di una particolare fi losofi a. Essi non possono essere consi- derati semplicemente come un’interpretazione che sta accanto alle altre interpretazioni, ma come l’espressione dell’universalità della condizione ermeneutica, condizione che giunge a defi nirsi attraverso l’esercizio di au- torifl essione del pensiero fi losofi co ermeneutico. Come avrebbero detto i romantici e Fichte, è la fi losofi a della fi losofi a che accompagna l’esercizio della fi losofi a.

Le fi losofi e ermeneutiche (come del resto molte altre fi losofi e) sono dunque caratterizzate da un duplice movimento e quindi da un duplice contenuto. Per un verso rifl ettono sulle condizioni essenziali dell’esercizio dell’interpretazione, per l’altro costruiscono le loro ontologie attraverso un procedimento interpretativo volto a evidenziare il senso degli eventi di ve- rità: ciò che viene trasmesso dalla tradizione, i simboli più densi (religione, arte), le stesse fi losofi e del passato, le esperienze morali, anche la scienza e gli eventi politici, tutto ciò può diventare materia da interpretare per com- prendere il senso dell’essere. Si produce allora nella fi losofi a ermeneutica una tensione provocata dall’ineliminabile dualità, anche al suo interno, di

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due ordini di pensiero, distinti ma non separabili, e perciò di due ordini di verità: quella dell’ermeneuticità (la teoria fi losofi ca dell’interpretazione) e quella che consiste nella particolare interpretazione del senso dell’esse- re. È una dualità che non può essere evitata ma nemmeno semplicemente registrata dando luogo a una giustapposizione. Infatti se l’affermazione dell’ermeneuticità della fi losofi a non può essere considerata essa stessa come un’interpretazione, allora si deve rivedere la tesi ermeneutica che af- ferma l’universalità del carattere interpretativo del sapere, e in particolare della fi losofi a, perché vi sarebbe un sapere, la fi losofi a della fi losofi a, che non avrebbe questo carattere. D’altra parte il risorgere dell’istanza oggetti- vistica all’interno della stessa ermeneutica dimostra la sua tendenza a porsi come la prima e vera forma di manifestazione della verità. Perciò parliamo di tensione fra i due ordini, nel senso cioè che ciascuno di essi tende a di- ventare esclusivo.

La tensione fra i due ordini, che corrisponde in certo modo a quella che si è aperta, a partire da Kant, fra il modo trascendentale e il modo speculativo di fare fi losofi a, fra la rifl essione sulle condizioni e i modi del comprendere e il contenuto ontologico del pensiero, è stata fatta emergere da Gadamer quando ha affermato che le sue tesi sull’ermeneuticità del- la fi losofi a «pretendono di valere assolutamente»,5 benché il loro sorgere sia stato storicamente condizionato. Questa affermazione si pone in una forma e a un livello di verità diversi da quelli propri delle interpretazioni, comprese quelle fi losofi che, che sono manifestazioni di verità, e come tali fornite di un carattere di universalità, ma di un’universalità ermeneutica, che implica una pluralità di formulazioni non traducibili l’una nell’altra.

L’inseparabilità nelle fi losofi e ermeneutiche di momento critico e di mo- mento speculativo è stata poi espressa da Ricoeur col dire che il pensiero fi losofi co è caratterizzato dalla contemporaneità del «distanziamento, che è costitutivo dell’istanza critica», e dall’«appartenenza, che com prende l’uomo nel discorso e il discorso nell’essere».6 In realtà non si tratta pro- priamente di una sintesi: ciascun momento presuppone l’altro, rimanda ad esso, ma mantiene una sua irriducibile specifi cità. Il momento autorifl essi- vo emerge dall’esercizio concreto del fi losofare nella ricerca di una giusti- fi cazione ultima, ma conduce a un’autooggettivazione; il momento specu- lativo senza quello autorifl essivo perderebbe quella radicalità che è propria della fi losofi a, ma, poiché è essenzialmente comprensione dell’essere, non può che assumere una forma interpretativa. Il discorso fi losofi co richiede

5 H.G. Gadamer, op. cit., p. XIX.

6 P. Ricoeur, La métaphore vive, Seuil, Paris 1975, pp. 398-99.

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che i due momenti si accompagnino l’un l’altro, ma ciò non signifi ca che giungano a una sintesi compiuta, come Fichte riteneva necessario. Ma per lui la fi losofi a era Wissenschaftslehre e non pensiero dell’essere, ontologia.

2. Pensiero tragico

La differenza e la tensione fra oggettivazione e interpretazione eviden- ziano una condizione del pensiero che assume una tonalità tragica: esse ma- nifestano infatti come tra il pensiero e la verità vi sia una relazione segnata da una profonda lacerazione. Questa lacerazione si manifesta nel fatto che il pensiero da un lato non può rinunciare all’istanza dell’oggettività, cioè alla diretta enunciazione della verità nella sua unità e universalità, tenden- do così ad oggettivare anche l’inoggettivabile; e d’altro lato riconoscendo il carattere fallimentare di questa pretesa, deve tentare la via indiretta e ine- sauribile dell’interpretazione. Ciò signifi ca che la fi losofi a, mentre non può evitare la tentazione dell’oggettivazione, è poi costretta, proprio misuran- dosi con l’insoddisfazione da cui nasce quella tentazione, a riconoscere che l’interpretazione, per quanto sia manifestazione della verità, porta sempre con sé una dimensione di incompiutezza e di opacità. Di incompiutezza e di opacità perché l’interpretazione, che di per sé è una positiva, per quanto fi nita, comprensione della verità intera, in realtà è una comprensione in lotta con la verità e proprio il desiderio della verità oggettivata, per quanto fuorviante, è la spia della sua insoddisfazione. La fi losofi a come interpreta- zione è allora quel vedere la verità in immagine, come in uno specchio, di cui parla San Paolo, un vedere che è accompagnato dal senso di un’insuffi - cienza. È una comprensione della verità, che porta con sé una sorta d’insta- bilità del pensiero e lo costringe continuamente a correggersi e a superarsi attraversando la negatività di una mancanza incolmabile.

La lacerazione della fi losofi a (e in particolare della fi losofi a ermeneu- tica) si manifesta poi non solo nel rapporto fra pensiero interpretativo e pensiero oggettivante (potremmo chiamarla: lacerazione sincronica), ma anche nel rapporto dell’interpretazione con il simbolo e con il mito, che sono gli oggetti primari della fi losofi a ermeneutica in quanto esprimono l’esperienza più originaria della verità a cui l’interpretazione si applica, quell’esperienza della verità nella quale prevale ancora la dimensione dell’evidenza e resta nascosta quella della frattura (potremmo chiamarla:

lacerazione diacronica). Compito della fi losofi a è chiarire l’esperienza di verità del mito e mostrarne il signifi cato universale. Ma questo compito si giustifi ca solo perché quell’esperienza di verità ha perso la sua chiarezza

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