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Annali di storia

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Academic year: 2021

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ANNALI DI STORIA

DELLE UNIVERSITÀ ITALIANE

Comitato di direzione: Girolamo Arnaldi, Gian Paolo Brizzi (coord.), Piero Del Negro (coord.), Domenico Maffei, Antonello Mattone, Aldo Mazzacane, Giuliano Pancaldi, Andrea Romano, Walter Tega

Comitato scientifico internazionale: Peter Denley, Hilde de Ridder Symoens, Paul Grendler, Mariano Peset, Jacques Verger

Comitato scientifico nazionale: Giulio Ballio, Patrizio Bianchi,

Francesco Bistoni, Francesco Bonini, Elena Brambilla, Stefano Brufani, Pier Ugo Calzolari, Giovanni Cannata, Patrizia Castelli, Giuseppe Catturi, Romano Paolo Coppini, Enrico Decleva, Ester De Fort,

Maria Gigliola di Renzo Villata, Maria Rosa di Simone, Alessandra Ferraresi, Gino Ferretti, Alessandro Finazzi-Agrò, Gianfranco Fioravanti,

Silvano Focardi, Giuseppina Fois, Paolo Gheda, Teresa Grange, Roberto Greci, Alberto Grohmann, Furio Honsell, Paolo Lazzara, Alessandro Maida, Italo Mannelli, Mauro Mattioli, Paolo Mazzarello, Alessandro Mazzucco, Daniele Menozzi, Vincenzo Milanesi, Paolo Nardi, Simona Negruzzo, Daniela Novarese, Marco Pasquali,

Pietro Passerin d’Entrèves, Cesare Pecile, Ezio Pelizzetti, Luigi Pepe, Marina Roggero, Roberto Sani, Ornella Selvafolta, Sandro Serangeli, Salvatore Settis, Andrea Silvestri, Angiolino Stella, Andrea Tabarroni, Andrea Tilatti, Francesco Tomasello, Francesco Totaro, Francesco Traniello, Francesco Vecchiato

Redazione: Simona Salustri

Direttore responsabile: Gian Paolo Brizzi

Autorizzazione del Tribunale Civile di Bologna n. 6815 del 5/6/98

Gli «Annali di storia delle università italiane» sono una pubblicazione periodi- ca a cadenza annuale. Gli «Annali» si propongono come punto di incontro, di discussione e di informazione per quanti, pur nella diversità degli approcci storiografici e nella molteplicità dei settori disciplinari di appartenenza, si oc- cupano di temi relativi alla storia delle università italiane.

La rivista è espressione del “Centro interuniversitario per la storia delle uni- versità italiane” (CISUI), cui aderiscono attualmente gli Atenei di Bologna, Fer- rara, Macerata, Messina, Milano Statale, Milano Politecnico, Molise, Padova, Parma, Pavia, Perugia, Pisa, Roma “Tor Vergata”, Sassari, Scuola Normale Su- periore di Pisa, Siena, Teramo, Torino, Udine, Valle d’Aosta, Verona.

Il CISUIha la propria sede presso l’Università di Bologna: Centro interuniversi- tario per la storia delle università italiane, via Galliera 3, 40121 Bologna.

tel. +39+051+224113; tel./fax +39+051+223826;

e-mail: annali@alma.unibo.it; indirizzo internet: www.unibo.it/cisui Corrispondenza redazionale: «Annali di storia delle università italiane», CP 82, 40134 Bologna 22

Abbonamenti e acquisti: CLUEB, via Marsala 31, 40126 Bologna

Copyright: tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parzia- le, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non espressamente autorizzata dalla Redazione della rivista.

© 2007 CLUEB, via Marsala 31, 40126 Bologna e Centro interuniversitario per la storia delle università italiane, via Galliera 3, 40121 Bologna

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Annali di storia

delle università italiane

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Annali di storia delle università italiane 11/2007

I

NDICE

7 IL PUNTO

9 ROBERTOGRECI, Università e formazione degli insegnanti

31 STUDI

33 L’Università degli Studi di Milano, Presentazione di ELENABRAMBILLAe MARIA

GIGLIOLA DIRENZOVILLATA

35 ELENABRAMBILLA, Le scuole universitarie a Milano tra fine Settecento e primo Ottocento

45 STEFANOTWARDZIK, Le vicende istituzionali dell’Università degli Studi di Mila- no dalla sua fondazione agli anni Sessanta del Novecento

65 MARIAGIGLIOLA DIRENZOVILLATA– GIANPAOLOMASSETTO, La ‘seconda’ Facol- tà giuridica lombarda. Dall’avvio agli anni Settanta del Novecento

103 MAURIZIOVITALE, La Filologia moderna (1923/24-1970/71)

117 ROBERTO GIACOMELLI, L’insegnamento della glottologia dalla fondazione al 1980

127 ENRICOI. RAMBALDI, Gli insegnamenti filosofici nella Facoltà di Lettere (1924- 1968)

153 GEMMASENACHIESA–CLAUDIOGALLAZZI–GIOVANNIBENEDETTO, L’antichistica 203 ROSSANA SACCHI, Genealogia e cronaca della Scuola di Storia dell’arte (1905-

1977)

209 MARIA LUISA CICALESE, Federico Chabod storico e maestro a Milano (1938- 1944)

223 GIORGIOCOSMACINI, Scuole cliniche, igiene e sanità, scienze mediche di base 237 PAOLAZOCCHI, La Clinica Ostetrico-ginecologica di Milano da Luigi Mangiagal-

li a Emilio Alfieri (1906-1948)

251 PASQUALETUCCI, Il Museo Astronomico e l’Orto Botanico di Brera in Milano 261 LEONARDOGARIBOLDI, La nascita e i primi sviluppi degli studi di fisica

277 CLAUDIASORLINI, Storia della Facoltà di Agraria dalle origini agli anni Settanta 289 BRUNO DANIELI – VITTORIO RAGAINI, Livio Cambi e sessant’anni di Scuola di

Chimica Industriale a Milano

299 FONTI

301 ENZOMECACCI, Codici universitari bolognesi nello Studio di Siena

311 MIRELLASPADAFORA, Instruction. Istruzioni per un precettore in viaggio in Ita- lia con i suoi pupilli nella seconda metà del Cinquecento

327 VALENTINOSANI, Una fonte inedita per la storia dell’Università di Ferrara dopo la riforma del 1771: il carteggio di monsignor Riminaldi con il Collegio dei Ri- formatori

(5)

371 ARCHIVI,BIBLIOTECHE,MUSEI

373 ANTONELLONEGRI, Il Centro APICE dell’Università degli Studi di Milano 377 ANTINOCARNEVALI, La Collezione Anatomica della Facoltà di Medicina Veteri-

naria dell’Università degli Studi di Milano

381 ATTILIO MASTINO, Il Museo archeologico dell’Università di Sassari nell’Otto- cento: la visita di Theodor Mommsen e la direzione di Ettore Pais

415 SCHEDE E BIBLIOGRAFIA

417 ORAZIOCANCILA, Storia dell’Università di Palermo: dalle origini al 1860 (DANIELANOVARESE), p. 417; La casa delle scienze. Palazzo Paradiso e i luoghi del sapere nella Ferrara del Settecen- to, a cura di MARCOBRESADOLA– SANDROCARDINALI– PAOLAZANARDI(SIMONANEGRUZZO), p.

418; Continuità e fratture nella storia delle università italiane dalle origini all’età contempora- nea, a cura di ERIKABELLINI(SIMONASALUSTRI), p. 419; Da Magistero a Scienze della forma- zione. Cinquant’anni di una Facoltà innovativa dell’Ateneo bolognese, a cura di FRANCOFRAB-

BONI– ANTONIOGENOVESE– ALBERTOPRETI– WERTHERROMANI(GIANPAOLOBRIZZI), p. 421;

SALVATOREDILORENZO, Laureati e baccellieri dell’Università di Catania. Il Fondo ‘Tutt’Atti’

dell’Archivio Storico Diocesano (1449-1571) (MARIATERESAGUERRINI), p. 422; Diplomi di laurea del Messanense Studium Generale, a cura di ANDREAROMANO(GIANPAOLOBRIZZI), p.

422; Fascismo e scienza. Le celebrazioni voltiane e il Congresso internazionale dei Fisici del 1927, a cura di ALDOGAMBA– PIERANGELOSCHIERA(SIMONASALUSTRI), p. 423; Fondazioni universitarie. Radici storiche e configurazioni istituzionali, a cura di GIULIANAGEMELLI(LUIGI

PEPE), p. 424; Il fondo archivistico del Collegio Pio della Sapienza di Perugia. Inventario, a cu- ra di LAURAMARCONI– DANIELAMORI– ALESSANDRAPANZANELLIFRATONI(GIANPAOLOBRIZ-

ZI), p. 425; Gioventù felice in terra pavese. Le lettere di Albert Einstein al Museo per la storia dell’Università di Pavia, a cura di LUCIOFREGONESE(LUIGIPEPE), p. 425; FATHIHABASHI, Schools of Mines. The Beginnings of Mining and Metallurgical Education, Laval University (DONATABRIANTA), p. 426; Igino Benvenuto Supino. 1858-1940. Omaggio a un padre fondato- re, a cura di PAOLABASSANIPACHT(LORENZAROVERSI), p. 428; MAURIZIOLUPO, Tra le provvide cure di sua maestà . Stato e scuola nel Mezzogiorno tra Settecento e Ottocento (GIANPAOLO

BRIZZI), p. 429; PAOLOSTEFANOMARCATO, La Patologia Veterinaria nel Museo “Alessandrini- Ercolani” dell’Università di Bologna. Veterinary Patology in the “Alessandrini-Ercolani” Mu- seum of Bologna University (ALBAVEGGETTI), p. 430; Matricula nationis germanicae iurista- rum in Gymnasio patavino, I (1546-1605), a cura di ELISABETTADALLAFRANCESCAHELLMANN

(ANDREADALTRI), p. 432; ANTONELLAMENICONI, La «maschia avvocatura». Istituzioni e profes- sione forense in epoca fascista (1922-1943) (SIMONASALUSTRI), p. 433; FRANCESCAMONZA, Anatomia in posa. Il Museo Anatomico di Pavia dal XVIII al XX secolo, presentazione di AL-

BERTOCALLIGARO– PAOLOMAZZARELLO(STEFANOARIETI), p. 434; GIOVANNAMURANO, Opere diffuse per exemplar e pecia (PAOLAMAFFEI), p. 435; GIOVANNAMURANO, Copisti a Bologna (1265-1270) (ENZOMECACCI), p. 436; PAOLOROSSO, «Rotulus legere debentium». Professori e cattedre all’Università di Torino nel Quattrocento (ROBERTOGRECI), p. 438; La Sapienza di Pi- sa/The Sapienza of Pisa, a cura di/edited by ROMANOPAOLOCOPPINI–ALESSANDROTOSI(MA-

RIATERESAGUERRINI), p. 439; SANDROSERANGELI– LORELLARAMADÙ-MARIANI– RAFFAELLA

ZAMBUTO, Gli Statuta dell’antica Università di Macerata (1540-1824) (MARIATERESAGUERRI-

NI), p. 440; Storia, scienza e società . Ricerche sulla scienza in Italia nell’età moderna e contem- poranea, a cura di PAOLAGOVONI(ALESSANDRAFERRARESI), p. 441; L’Università e la città . Il ruolo di Padova e degli altri Atenei italiani nello sviluppo urbano. Atti del Convegno di studi.

Padova, 4-6 dicembre 2003, a cura di GILIANAMAZZI(MARIABEATRICEBETTAZZI), p. 443; Uni- versità , umanesimo, Europa. Giornata di studio in ricordo di Agostino Sottili, a cura di SIMO-

NANEGRUZZO(ANDREATILATTI), p. 444

447 Bibliografia corrente e retrospettiva 461 NOTIZIARIO

493 Convegni, seminari, incontri di studio 481 Attività e progetti

483 Tesi

486 Riviste e notiziari di storia delle università

(6)

Il punto

(7)
(8)

U

NIVERSITÀ E FORMAZIONE DEGLI INSEGNANTI

1. Gli antefatti

N

on da sempre la preparazione professionale degli insegnanti è stata, come attualmente è, compito dell’università. La scuola elementare, per la quale oggi è prevista una formazione univer- sitaria, vede per lungo tempo una figura, un ruolo e una preparazione degli insegnanti assai tormentata e incerta, conseguente all’incertezza con cui lo Stato, ai suoi esordi, intervenne in materia di istruzione pub- blica. La legge Casati (1859), che nel 1861 cominciò ad estendersi al nuovo Stato italiano, affidava l’istruzione elementare ai comuni e rego- lava nel contempo le cosiddette Scuole normali le quali prevedevano 2 anni di corso per i maestri del corso elementare inferiore (quello real- mente obbligatorio) e 3 anni per quello superiore (riservato ai comuni con oltre 4.000 abitanti). Personale instabile e raccogliticcio, in totale balia dei comuni almeno fino al 1877, quando la legge Coppino, preoc- cupata di rendere effettiva l’obbligatorietà del grado inferiore della scuola di base, impose il controllo statale sulle nomine dei maestri. La preparazione della Scuola normale era modesta, come dimostrò, a dieci anni dalla legge Casati, l’inchiesta Mamiani; e rimase tale ancora a fi- ne secolo, quando la scuola durava 3 anni e le materie insegnate erano quelle consuete, se si esclude il francese – ma facoltativo – al terzo an- no. L’ingresso era basato su un esame consistente in una composizione di tipo “narrativo e descrittivo”, con una prova di calligrafia, una di di- segno e una prova orale su tutte le materia del corso preparatorio; que- st’ultimo era biennale e facoltativo per i maschi che venivano anche dal ginnasio o dalla scuola tecnica; diventava invece obbligatorio per le femmine che invece non avevano accesso alle scuole medie ginnasiali.

Nel 1896 una nuova legge abolì la distinzione tra scuola normale infe- riore e superiore. La scuola dava un titolo unico a ragazzi e ragazze; so- lo era previsto un triennio preparatorio per le ragazze, giacché i maschi potevano contare, per l’accesso, sul corso triennale del ginnasio o della scuola tecnica. Siamo ben lontani da una preparazione di livello univer- sitario.

Successivamente, il desiderio degli stessi insegnanti elementari di dotarsi di una più robusta attrezzatura culturale –e il bisogno generale di una loro crescente professionalità – fece sì che si avviasse presso al- cuni atenei (è il caso dell’Università di Bologna) un’esperienza impor- tante, quale quella del Corso di perfezionamento per i licenziati dalle scuole Normali (1905-1923). Pur se di breve durata e non obbligatrorio per l’esercizio della professione, in esso si è ravvisato «il precedente più significativo per la storia della formazione degli insegnanti e per la Roberto Greci

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4Dis 37; i segn

5An nelcala nell’ verssero nali. l’attu

ZATT

tradizione dell’insegnamento della pedagogia a Bologna», ma anche una anticipazione della futura Facoltà di Magistero1, vale a dire di quel- la forma istituzionale, l’unica, con cui fino a non molti anni fa, entro l’as- setto dell’istruzione superiore esclusivamente orientato alla ricerca pu- ra, l’università costruì e gestì percorsi di studio appositamente finaliz- zati all’insegnamento. In questa prospettiva, e a maggior ragione, non dimenticheremo neppure quelle Scuole di Magistero che, annesse alle Facoltà di Lettere e di Scienze, nacquero per arricchire con una prepa- razione pedagogica i laureandi intenzionati a intraprendere la profes- sione dell’insegnamento nelle scuole medie e superiori. Nel 1882 De Dominicis ne sottolineava l’importanza, ma anche la debolezza intrin- seca. Si trattava infatti di Scuole annesse solo a poche Facoltà, mentre altre Facoltà, che pure contribuivano a preparare culturalmente futuri insegnanti, ne erano sprovviste (Economia, Diritto, Lingue stranie- re…); inoltre neanch’esse erano obbligatorie. Però esistevano e ad un certo punto vi fu chi, comprendendone il significato e l’utilità, ne auspi- cò un migliore funzionamento proponendo di trasformarle in un per- corso post-laurea distinto dalle Facoltà, in modo da orientare ogni ge- nere di laureati verso le problematiche pedagogiche ed il processo educativo della scuola secondaria2.

Ma i miglioramenti auspicati non vi furono. Se Croce addirittura, nel 1920, le fece sopprimere, Gentile, nel 1923, certo non le recuperò.

Questo significava che l’università tendeva a rifiutare ruoli professiona- lizzanti sulla base dell’idea che l’istruzione secondaria abbisognava so- lo di una solida preparazione disciplinare dei docenti e che qualsiasi buon laureato, in quanto tale, avrebbe potuto svolgere con sicurezza il ruolo di insegnante/educatore. Tracce di queste scuole, sempre più at- tratte dalla logica delle Facoltà entro le quali si erano sviluppate e de- private delle originarie potenzialità innovative e professionalizzanti, ri- masero nelle Facoltà di Magistero, riservate ai maestri desiderosi di laurearsi nelle discipline umanistiche. Queste ultime si affiancarono al- le Facoltà consorelle di Lettere e filosofia ricalcandone i curricula e non ponendosi, ad esclusione dei corsi di laurea in Pedagogia, il pro- blema di orientare le competenze disciplinari alla professione inse- gnante. In anni recenti, preso atto della loro natura di “inutili” doppioni, le Facoltà di Magistero sparirono o, laddove non esistevano Facoltà di Lettere, si trasformarono in Facoltà di Lettere.

La questione della formazione professionale degli insegnanti, si ri- presentò dunque, inebolendosi le posizioni crociane e gentiliane, nel secondo dopoguerra e soprattutto negli anni Sessanta, sotto la spinta di una politica di centro-sinistra sensibile ai problemi di una incipiente scolarizzazione di massa; allora si capì che le innovazioni (prime fra tut- te la nuova scuola media che prospettava una concezione unitaria del processo formativo) esigevano una logica di programmazione e un cor- po insegnante opportunamente e diversamente qualificato. La questio- ne della formazione/reclutamento degli insegnanti cominciò così ad essere percepita come una questione centrale per il futuro della scuola e della società3e si cominciò nuovamente a pensare che l’università do- vesse avere un ruolo in questo processo, dal momento che era interes- sata sia alla preparazione dei giovani che ad essa si iscrivevano, sia a quella dei suoi laureati, molti dei quali destinati di fatto alla professione docente. La preparazione universitaria a qualsiasi livello di docenza, inoltre, poteva garantire la qualità dei futuri insegnanti in un momento in cui il reclutamento “facile”, conseguente all’urgenza di ampliare rapi-

1Per il Corso di Perfezionamento per inse- gnanti della Scuola normale di Bologna, cui si opponeva Gentile, vedi MIRELLAD’ASCEN-

ZO, La Scuola pedagogica di Bologna, «Anna- li di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», 10 (2003), p. 201-242. Sulle vi- cende delle Facoltà di Magistero, cfr. GIULIA

DIBELLO, Le professioni educative: dall’Istitu- to Superiore di Magistero femminile alla Fa- coltà di Scienze della Formazione, in L’Uni- versità degli Studi di Firenze 1 9 2 4 -2 0 0 4 , II, Firenze, Olschki, 2004, p. 545-615, ma anche MIRELLAD’ASCENZO, Dagli esordi al ’6 8 , in Da Magistero a Scienze della formazione.

Cinquant’anni di una Facoltà innovativa dell’Ateneo bolognese, a cura di FRANCOFRAB-

BONI–ANTONIOGENOVESE–ALBERTOPRETI WERTHERROMANI, Bologna, Clueb, 2006, p.

37-108.

2Cfr. GIUNIOLUZZATTO, Insegnare a insegna- re. I nuovi corsi universitari per la formazio- ne dei docenti, Roma, Carocci, 2001, p. 18.

Cfr. anche La scuola secondaria in Italia (1 8 5 9 -1 9 7 7 ), a cura di TINATOMASIet. al., Firenze, Vallecchi, 1978 e La scuola italiana dall’Unità ad oggi, a cura di GIACOMOCIVES, Firenze, La Nuova Italia, 1990.

3Relazione della Commissione parlamenta- re di indagine sulla scuola (1962-63); per la conoscenza del contesto, vedi ANTONIOSAN-

TONIRUGIU, Il professore nella scuola italia- na, Firenze, La Nuova Italia, 1981.

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4Disegno di legge Gui del 1965, n. 2314, art.

37; ivi. Cfr. anche LUZZATTO, Insegnare a in- segnare, p. 21.

5Anche se l’art. 37 fu recuperato e inserito nel provvedimento istitutivo dell’università calabra (art. 2 della L. 442/1968), il quale, nell’art. 18, prevedeva che anche altre uni- versità, in analogia con quella calabra, potes- sero, su richiesta, istituire lauree quinquen- nali. Ma nel 1971 veniva per decreto sospesa l’attuazione di questo meccanismo: cfr. LUZ-

ZATTO, Insegnare a insegnare, p. 22.

damente il parco docenti, tendeva a porre in secondo piano la questio- ne del livello della loro preparazione.

E così, tra molte difficoltà, il problema cominciò ad essere ampia- mente dibattuto; ma nessun dibattito fu in grado di produrre esiti nor- mativi organici e definitivi. Sotto ogni proposta, infatti, covavano frattu- re considerevoli, determinate da logiche sociali e da visioni culturali ancora assai distanti tra loro. Inoltre, elemento di freno, era la ben nota abitudine accademica a percepire il proprio sapere come un sapere non strettamente professionalizzante, nonostante in quegli anni la pro- spettiva lavorativa più probabile per i laureati provenienti da Facoltà co- me Lettere, Magistero e Scienze fosse proprio quella dell’insegnamen- to. Non decollò dunque la proposta di attivare corsi universitari bienna- li di diploma per insegnanti materni ed elementari (una prospettiva che implicava la sparizione allora impossibile – degli istituti magistrali) e corsi biennali per insegnanti secondari, che avrebbero dovuto integra- re l’ultimo anno del corso di laurea e completarsi con un tirocinio retri- buito post laurea. Questo sistema prevedeva strutture di coordinamen- to, le Scuole superiori di Magistero per le Lettere e per le Scienze, che in qualche misura recuperavano l’esperienza precrociana e pregentilia- na. Ottenuta l’abilitazione attraverso la frequenza di tali corsi, il futuro docente avrebbe dovuto tentare i concorsi, previsti a scadenze regolari e frequenti. Scartata questa soluzione, elaborata da una delle tante commissioni consultive, vennero invece presentati in Parlamento prov- vedimenti di modifiche all’ordinamento universitario che introduceva- no due lauree quinquennali (lettere e matematica/scienze) finalizzate all’insegnamento della nuova scuola media unica4. Tali nuovi corsi, espressamente pensati per scongiurare un possibile processo di dequa- lificazione dell’istruzione, prevedevano nel quarto anno lo studio delle Scienze dell’educazione e, nel quinto, un tirocinio guidato. Ma neppure questa formulazione del problema ebbe successo ed i provvedimenti in questione alla fine non vennero approvati5.

Il problema dunque esisteva ed era diffusamente avvertito. La si- tuazione di emergenza, che tendeva a produrre pesanti effetti sia sul piano normativo, sia sulla realtà scolastica, si complicò ulteriormente, nel corso di pochi anni, a causa della progressiva difformità di prepara- zione iniziale degli studenti universitari e, quindi, dei laureati. Infatti, verso la fine del 1969, con la legge 910 (detta anche “Codignola 1” dal nome del suo primo firmatario) veniva estesa a tutti i titolari di diploma secondario quinquennale (maturità classica, diploma di ragioniere, di- ploma di istituto tecnico, ecc.; non diploma magistrale, ancora qua- driennale) la possibilità di accedere a qualunque corso universitario, da Medicina a Lettere a Ingegneria, garantendo anche agli studenti di pro- porre alle Facoltà piani di studio “liberalizzati”, ossia indipendenti da indicazioni nazionali vincolanti. Se alcune conseguenze di queste nor- me furono scarsamente determinanti in certe Facoltà (per esempio Medicina e Ingegneria), furono viceversa fortissime per lungo tempo nelle Facoltà di Lettere e filosofia, anche per una certa dose di debolez- za degli ambienti accademici umanistici nel contrastare spinte demago- giche proponendo modelli culturali alternativi. A parte ogni valutazione soggettiva, lo scenario che si andava definendo nelle università, così come quello che, su un fronte diverso ma strettamente correlato per il nostro assunto, si andava definendo nella scuola con l’introduzione del- la “media unica”, rappresentava una svolta epocale: la fine di una uni- versità (e ancor più di una scuola) elitaria e funzionale ad un preciso cheuel-

’as-pu- aliz- nonalle epa-fes- rin-De ntreturi nie-un per-spi- ssoge-

ura,erò.

na-so- iasia il de-at- i diri- a eal- nse-pro- oni,à di

i ri- a dinel ntetut- cor-del tio-ad olado-

res-a a nza,one api-nto

(11)

9Cf PropNuo mazcide

modello culturale e sociale, e l’avvio di un panorama nuovo, che avreb- be comportato necessariamente, a dispetto di chi nostalgicamente rim- piangeva la situazione precedente, profondi rivolgimenti anche sul pia- no dei contenuti e quindi sui saperi da acquisire nell’università e da tra- smettere nella scuola.

Nel 1971 il Senato votava un testo di riforma dell’università, in cui (art. 19) si prevedeva che presso gli atenei, entro dipartimenti di scien- ze educative collegati ad altri dipartimenti interessati, potessero essere avviati corsi post-laurea della durata di un anno comprendenti esperien- ze di tirocinio ed eventuali rimedi a carenze di preparazione ai fini del- l’insegnamento. Le prove finali di tali corsi avrebbero garantito l’acqui- sizione dell’abilitazione6. Con tale soluzione si prefigurava perfino un ti- tolo universitario (non era chiaro se di primo livello o laurea) per l’inse- gnamento elementare e per l’insegnamento di materie per le quali non era fino a quel momento indispensabile una laurea. Le vicende politi- che (crisi di governo ed elezioni anticipate del 1972) bloccarono il testo alla camera. Così, in attesa di una soluzione organica, che ancora una volta non vi fu, venivano varati i cosiddetti “corsi abilitanti”; fossero spe- ciali (e quindi costituenti una sanatoria per chi già insegnava a qualche titolo) oppure ordinari, essi avrebbero dovuto avere vita solo fino alla definizione della legislazione universitaria e comunque non oltre il 1974. In buona sostanza, l’università usciva dal panorama della forma- zione in ingresso o meglio un suo eventuale ruolo veniva ulteriormente ritardato.

Bisognerà attendere il 1974 e una normativa non riservata all’uni- versità per riprendere il filo della complessa vicenda. In quest’anno in- fatti lo stato giuridico degli insegnanti prevedeva (ma solo programma- ticamente perché la disposizione attendeva un’attuazione di legge)7 una formazione universitaria per tutti i gradi di insegnamento, quindi anche per le scuole materne ed elementari; nell’immediata realtà, inve- ce, si prospettava un «Concorso per titoli ed esami» la cui preparazione doveva avvenire tramite corsi quadrimestrali teorico-pratici da svolger- si in sede imprecisata e con caratteristiche da definirsi per decreto mi- nisteriale. Per la scuola secondaria l’esito positivo della prova concor- suale, pur in assenza di vincita del concorso, avrebbe costituito titolo abilitante, spendibile per l’inserimento nelle graduatorie permanenti e cioè per l’altra forma di reclutamento, basata sui soli titoli. In realtà le impellenti necessità della scuola invitarono a ricorrere ad ammorbidi- menti e a ripetute “sanatorie” nei confronti degli iscritti alle “graduato- rie permanenti”. La sparizione dei corsi teorico-pratici preconcorsuali annullava l’idea di un percorso di formazione professionale: una vaga parvenza di formazione poteva ravvisarsi nel fatto che il primo anno di servizio dei vincitori di concorso avrebbe dovuto consistere in un tiro- cinio pratico guidato da una Commissione distrettuale. Ma nel 19828si procedeva ad altri inquadramenti ope legis e l’anno di tirocinio/speri- mentazione si riduceva a semplice “anno di prova”.

Però nella stessa legge, si prospettava un termine del ricorso al si- stema idoneativo-concorsuale e si prefiguravano «nuove procedure per il conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento presso le universi- tà». Entravano dunque nuovamente in campo le università in un mo- mento in cui veniva lanciata la sperimentazione negli atenei con la leg- ge delega n. 28 del 1980 e conseguenti decreti delegati 382 del 1980 e 162 del 1982. Quest’ultimo in particolare regolava con maggiore preci- sione le strutture, già esistenti, delle scuole di specializzazione per lau-

6Ivi, p. 23.

7DPR 417, attuativo della legge delega 477 del 1973.

8L. 270/1982.

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9Cfr. MARIOGATTULLO, Quale università ? Proposte per il cambiamento, Firenze, La Nuova Italia, 1986 e GIUNIOLUZZATTO, For- mazione universitaria dei docenti: occorre de- cidere, «Scuola e Città», 5-6 (1984), p. 1 ss.

reati, le quali avrebbero dovuto essere almeno biennali e «rispondenti a esigenze di specificità professionale». Esse, dunque, potevano pre- sentarsi come contenitori di percorsi formativi per laureati destinati al- l’insegnamento secondario e rilanciare, all’inizio degli anni Ottanta, l’i- dea di una formazione universitaria per gli insegnanti come già era av- venuto nel 1973-74. Alcuni Atenei (Bari, Bologna, Milano Cattolica, Trieste) raccolsero la sfida e costruirono progetti per la formazione de- gli insegnanti primari (nell’immediato destinati, in assenza di scelte go- vernative, a diventare curricula entro l’esistente corso di laurea in Pe- dagogia della Facoltà di Magistero), mentre, per la scuola secondaria, avanzò la proposta di una scuola post-laurea abilitante, collocata entro le scuole di specializzazione universitarie9.

L’università dunque era spinta, con molta lentezza e con molte in- certezze, a muoversi in questa direzione. Invece il Ministero della Pub- blica istruzione, per voce del ministro Franca Falcucci, presentava un disegno di legge governativo (1982) che prevedeva per la scuola prima- ria un corso di laurea nuovo e apposito, mentre per la secondaria sug- geriva esami pedagogico-didattici entro i corsi di laurea disciplinari.

L’abilitazione però non sarebbe stata conferita dalle università; essa, modificando quanto prevedeva la legge 270/1982, poteva essere conse- guita solo con la partecipazione ai concorsi a cattedra. Tale proposta, non cogliendo le sperimentazioni degli atenei, non ebbe fiato e non strutturò nulla di nuovo. Ma sul fronte universitario, nel 1988, apparve- ro proposte di riforma degli ordinamenti didattici che prevedevano tito- li di primo livello o diplomi universitari. Chi continuava a riflettere sulla costruzione di percorsi universitari per la formazione degli insegnanti coglieva l’occasione per proporre soluzioni nuove e organiche. Alludo alla legge 341 del 1990. Essa prevedeva anche la formazione universita- ria per gli insegnanti di scuola dell’infanzia ed elementare, nonché l’i- stituzione di una scuola di specializzazione post-laurea per la formazio- ne e il reclutamento degli insegnanti di scuola secondaria. Una novità che tuttavia trovò attuazione solo nel 1998, quando decollarono real- mente i corsi di laurea in Scienze della formazione primaria e nel 1999, con i primi corsi biennali svolti, in ogni regione, dalle SSIS (Scuole di Specializzazione all’insegnamento secondario) facenti capo alle univer- sità. Di queste novità converrà ora parlare.

2. La soluzione del problema: una nuova Facoltà e la Scuola di Specializzazione per l’insegnamento secondario

Tra 1990 e 1998, dunque, si cearono le premesse legislative per fonda- re un percorso specifico di formazione degli insegnanti di livello uni- versitario. Si delineava un rinnovamento significativo rispetto alla situa- zione precedente e l’elemento di fondo, al di là dei contenuti cui tra po- co accenneremo, riguardava proprio il fatto che, del compito, venivano ufficialmente investite le università. In realtà non si trattava di una no- vità assoluta, perché il nuovo ordine recuperava esperienze che, come si è visto, si erano già affacciate in precedenza; ora però si poteva parla- re di una soluzione organica grazie all’introduzione di apposite struttu- re didattiche, destinate ad affiancarsi a quelle tradizionalmente presen- ti negli atenei. Il ritardo con cui si era arrivati a tale soluzione era dipe- so, come si è detto, dalle esigenze derivanti dal tumultuoso mutamento del quadro scolastico italiano e dalle decisoni politiche via via assunte eb-im-

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per fare fronte alle contingenze. Ora la formazione degli insegnati tor- nava, per così dire, nel suo alveo naturale dal momento che veniva fi- nalmente percepita come un tassello dell’istruzione superiore. A ciò contribuivano non solo le esperienze precedenti, ma anche quelle spe- rimentazioni che, in assenza di un quadro legislativo certo, erano state condotte (come si è visto) in ambito accademico tramite centri interdi- partimentali di ricerca quali quelli di Bologna, Genova, Roma “La Sa- pienza”; la frammentazione di queste iniziative trovava tra l’altro un punto di convergenza in una forma di coordinamento rappresentata dal Concirid (Conferenza nazionale dei centri interdipartimentali di ricerca didattica), poi trasformatosi in Concured (Conferenza nazionale dei centri universitari di ricerca educativa e didattiche)10. Tramite alcuni convegni organizzati da tali soggetti (ad esempio un convegno genove- se del 1988 e uno bolognese del 1990), si delinearono riflessioni e pro- poste destinate a trovare riscontri nelle soluzioni legislative che sareb- bero comparse di lì a poco: alludo alla costituzione della Scuola di Spe- cializzazione per l’insegnamento secondario e del corso di laurea per gli insegnamenti primari. In questo lavorio non mancò di fare sentire il suo peso il tentativo di adeguarsi ai modelli di formazione vigenti in al- tri paesi europei, modelli che – seppure in una varietà di soluzioni di- pendenti dal settore scolastico di riferimento – da tempo vedono impli- cate le università.

Basti guardare ad altri paesi dell’Unione europea, per valutare il ruolo dell’università nella preparazione degli insegnanti11. In Germa- nia, dopo la formazione teorica svolta nelle università, è previsto un esame di stato regolato dalle norme volute dal Land, che provvede an- che ad una seconda fase di formazione tramite il Vorbereitungsdienst.

Inoltre, nella varietà di soluzioni adottate dai vari Lä nder, va segnalato il fatto che le Pä dagogischen Akademien, istituite in diversi Lä nder nel dopoguerra e poi promosse a istituti superiori, sono state integrate nel- le universtà. In Olanda, se gli insegnanti vengono «in generale […] for- mati attraverso corsi quadriennali a carattere teorico-pratico impartiti in apposite scuole superiori post-secondarie», gli insegnanti destinati alle scuole secondarie superiori hanno una formazione universitaria, arricchita da un anno post-laurea incardinato nelle università. Analoga- mente avviene in Svezia, dove lo Stato decide quali istituzioni universi- tarie sono abilitate a rilasciare specifici titoli e a elaborare curriculi ap- positi finalizzati alla loro formazione. Anche in Francia, in cui esiste un alto tasso di uniformità nella formazione degli insegnati dei vari gra- di di scuole, la formazione dei docenti passa attraverso corsi bienna- li organizzati dagli Instituts Universitaires de Formation des Maîtres (IUFM); le differenziazioni di retribuzioni e di carriera passano attra- verso una formazione aggiuntiva di livello più alto, la famosa Agréga- tion. Qui l’università è coinvolta anche nella formazione in servizio.

Quanto alla Spagna, il ruolo delle università è in fase di rafforzamento, dal momento che attualmente è previsto un unico centro universitario con funzioni di coordinamento teso a superare da un lato le Escuelas Universitarias de Magisterio per la formazioni dei maestri e gli Institu- tos de ciencias de l’educación, strutture (sempre universitarie) destinate ad una preparazione pedagogica degli insegnanti delle scuole seconda- rie. Anche l’aggiornamento in servizio, che è riservato ai Centros de educación del Profesorado (CEP), vede il coinvolgimento di docenti uni- versitari. Uscendo dalla comunità e guardando al vicino caso svizzero, vediamo che per la formazione degli insegnanti della scuola materna

10Ivi, p. 30.

11Insegnare in Europa. Materiali di confron- to sulla formazione iniziale in Germania, Spagna, Francia, Olanda, Svezia, Milano, Franco Angeli, 2001; Gli insegnanti europei,

«Bollettino di formazione internazionale», 1 (2004).

(14)

ed elementare, si è giunti quasi ovunque, alla fine del XX secolo, a cor- si della durata di 3-4 anni frequentabili dopo aver ottenuto la maturità, inseriti nelle università o nelle Alte Scuole Pedagogiche (ASP), nate spesso sulle fondamenta dei vecchi Istituti Magistrali e garanti di un rapporto più ravvicinato col mondo della scuola. Le ASP preparano an- che (con corsi quadriennali) gli insegnanti di quei cicli scolastici equi- valenti alle scuole medie e professionali. Per la preparazione degli inse- gnati di scuole secondarie superiori, invece, la formazione (di uno o due anni) inizia quasi ovunque dopo il conseguimento del titolo univer- sitario completo tramite strutture a ciò deputate molto spesso legate in modo stretto alle università. In Inghilterra gli insegnanti elementari se- guono un corso di 3 o 4 anni di istruzione superiore a tempo pieno combinata alla formazione iniziale (modello simultaneo), che porta al conseguimento del Qualified Teacher Status (QTS). Le qualifiche otte- nute al termine del corso includono il Bachelor of Education (BEd) e il Bachelor of Arts o il Bachelor of Science in Education (BAEd o BScEd). I docenti di scuola secondaria, invece, seguono un corso di studi di 3 o 4 anni per il conseguimento di un first degree (il Bachelor of Arts o il Bachelor of Science) seguito da un anno di formazione pro- fessionale (modello consecutivo) per ottenere il Postgraduate Certifi- cate in Education (PGCE).

Insomma, la “novità” italiana, che poi non è neppure una novità as- soluta, si inserisce in un contesto europeo che, seppur nelle differenze anche profonde, tende all’uniformità e ravvisa nell’università il luogo deputato alla formazione degli insegnanti. Così la legge 341/1990 (Ri- forma degli ordinamenti didattici universitari) vede nell’articolo 3 (ri- servato alla laurea) e nell’articolo 4 (riservato al diploma di specializ- zazione) la comparsa delle novità di cui stiamo discutendo. Per ciò che concerne il corso di laurea per la preparazione degli insegnanti di scuola “materna” ed elementare, i commi 2-8 dell’art. 3 definiscono i due distinti e specifici indirizzi, i relativi ordinamenti didattici (la tabel- la), le norme particolari e transitorie. Si prevede perfino che il titolo rilasciato dall’università abbia funzione abilitante, anche se formal- mente l’abilitazione viene concessa in sede di concoso di recluta- mento.

Per ciò che concerne la Scuola di Specializzazione per l’insegna- mento secondario, l’art. 4 (nei commi 2-4) prevedeva l’introduzione, in ogni università, di una scuola articolata in “indirizzi” rapportati alle di- verse tipologie di abilitazioni cui i diversi diplomi di laurea danno ac- cesso. La norma, come si vede, accorpava in un’unica struttura di ate- neo i diversi percorsi formativi (da realizzarsi con il concorso delle strutture didattiche esistenti, vale a dire le Facoltà) per evitare la costi- tuzione di più scuole di specializzazione a specificità disciplinare e, an- cor più, per favorire la costituzione di un ambiente di formazione unita- rio per le molteplici declinazioni di una figura professionale pensata co- me unica. Il diploma rilasciato dalla Scuola, abilitante, avrebbe costitui- to «titolo di ammissione ai corrispondenti concorsi». Senza di esso l’a- spirante docente di scuola secondaria non avrebbe più potuto presen- tarsi ad un concorso. La Scuola avebbe dovuto avere una durata non in- feriore all’anno ed il curricolo doveva prevedere «discipline finalizzate alla preparazione professionale con riferimento alle scienze dell’educa- zione e all’approfondimento metodologico e didattico delle aree disci- plinari interessate, nonché attività di tirocinio didattico obbligatorio».

Ovviamente, trattandosi di una legge universitaria, essa non prevede a fi-tor-

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norme e procedure finalizzate al reclutamento. Per alcuni ciò costituirà un punto debole di questa soluzione.

È del tutto evidente che la legge si rifaceva a precedenti a suo tem- po espunti dagli ordinamenti universitari. La nuova funzione professio- nalizzante cominciò ad essere vista ancora una volta dall’università co- me estranea alla propria tradizione formativa; inoltre va debitamente considerata la difficoltà di instaurare rapporti organici tra i due mini- steri, dell’Università e della Pubblica istruzione, che il nuovo provvedi- mento di fatto avrebbe comportato.Tutto ciò motiva il lungo ritardo della sua attuazione. Senza ripercorrere il faticoso iter teso a superare tali ostacoli12, ricorderemo che solo nel 1995 si arrivò al parere consul- tivo del Consiglio nazionale della Pubblica Istruzione e nel marzo del 1996 al parere, vincolante, del Consiglio nazionale universitario (CUN).

L’illegittimità connessa all’esclusione dal quadro che si andava deli- neando dei diplomati ISEF e dei diplomati nelle accademie di Belle arti e dei Conservatori (dotati di titoli idonei all’abilitazione all’insegnamen- to nelle scuole secondarie) comportò una riesamina della questione da parte del CUN che finalmente espresse parere definitivo nel giugno 1996, in un momento in cui, e la cosa non è senza rilievo, l’on Luigi Berlinguer assumeva le funzioni di ministro tanto dell’Università quan- to della Pubblica istruzione. Ma l’esito negativo della definizione dei re- golamenti didattici (alludo alle Tabelle pubblicate nel settembre del 1996 e mai applicate per le difficoltà connesse alla emanazione da parte delle università degli atti di loro spettanza) non resero possibile l’attiva- zione del corso di laurea e della Scuola nell’a.a. 1996-97, anche se la questione delle modalità di istituzione presso gli atenei delle nuove strutture era stata affrontata nel piano triennale universitario 1994-96 (approvato con DPR il 30 dicembre 1995)13.

Ulteriore causa di complicazione, inoltre, fu la emanazione della ri- forma universitaria. La 127/1997, che incrementava l’autonomia degli atenei, andava a incidere anche, e fortemente come sappiamo, sull’or- ganizzazione della didattica superiore, oggetto di specifica attenzione attraverso il DM del Murst 509/1999 (Regolamento recante norme concernente l’autonomia didattica degli atenei) e i Criteri generali per l’assetto delle lauree e della lauree specialistiche del Murst (fine 2000).

Il decreto Murst del 26 maggio 1998, emanato di concerto col Ministe- ro della Pubblica Istruzione, aveva definito i «Criteri generali per la di- sciplina da parte delle università degli ordinamenti dei corsi di laurea in Scienze della formazione primaria e delle Scuole di specializzazione all’insegnamento secondario», ma usciva poco prima della definizione complessiva del sistema voluto dalla riforma, anche se teneva conto dello spirito delle novità in corso. Tali criteri recepivano proposte della Commissione mista MURST-MPI (1997) e osservazioni provenienti da settori dell’università (Facoltà di Scienze della formazione e Diparti- menti di Scienza dell’educazione), oltreché dall’IRRSAE e dalle Asso- ciazioni professionali di insegnanti. Che il processo di trasformazione fosse ormai realmente avviato, nonostante le complicazioni intervenu- te, lo indicava il DM della Pubblica istruzione del 10 marzo 1997 (Nor- me transitorie per il passaggio al sistema di formazione universitaria de- gli insegnanti della scuola materna ed elementare, previste dall’art. 3 , comma 8 , della legge 1 9 novembre 1 9 9 0 , n. 3 4 1 ). In esso si prevedeva finalmente che i titoli forniti da scuole e istituti magistrali avessero va- lore, ai fini dell’insegnamento nelle scuole primarie, solo se conseguiti entro il 2002. Dall’anno scolastico 1998-99 tali scuole diventavano quin-

12LUZZATTO, Insegnare a insegnare, cap. 4, p.

35 ss.

13Nel piano si ipotizzava già un decreto mi- nisteriale che, tenendo conto delle proposte dei Comitati regionali di coordinamento uni- versitario (allora formato da rettori e presidi delle università della regione), avrebbe con- tribuito ad avviare un corso e una scuola (anche interuniversitaria) per ogni regione.

I Comitati avrebbero deciso il numero degli studenti ammissibili, sentite le autorità sco- lastiche competenti.

(16)

14Cfr. ALESSANDRACHIAPPANO, La genesi delle Scuole di Specializzazione all’insegnamento secondario nella storia della scuola italiana,

«Il Protagora», 31 (2003), p. 331-368.

15I vari indirizzi della Scuola (Linguistico letterario, Scienze umane, Fisico-matemati- co-informatico, Lingue straniere, Arte e di- segno, Scienze motorie, Economico-giuridi- co, Tecnologico…), finalizzati alle diverse

“classi” di abilitazione, vennero individuati in una bozza di decreto da predisporre ai sensi dell’articolo 4, comma 4 dei Criteri ge- nerali; tale decreto non fu mai emanato, ma il suo contenuto venne comunque adottato in tutte le Scuole di specializzazione. I Crite- ri generali prevedevano invece una precisa organizzazione didattica articolata in quattro aree di pari entità: l’area 1 o trasversale o co- mune (valida per tutti gli indirizzi) dedicata ai saperi pedagogici, didattici, sociologici e psicologici; l’area 2 o disciplinare dedicata alla didattica delle discipline connotanti ogni singolo indirizzo e classe; l’area 3 o laborato- riale in cui, con accentuazione degli aspetti pratici e progettuali, dovrebbero fondersi i saperi di area 1 e area 2; l’area 4 riservata al tirocinio da svolgersi nelle scuole conven- zionate con le università.

16Ogni area si vedeva assegnate, nei due an- ni, 200-250 ore di attività didattica corrispon- denti a 30 CFU.

quennali e non più professionalizzanti. Veniva eliminata dunque una aporia da tempo stigmatizzata e da questo momento anche per gli inse- gnanti primari si poteva prevedere una formazione universitaria. E que- sta è stata in fondo la novità più rilevante e tranquilla.

Analogamente, la formazione dei laureati destinati all’insegnamen- to nella scuola secondaria veniva presa in considerazione dallo stesso decreto e anche in questo caso la soluzione universitaria era finalmente sancita con sicurezza. Dunque la novità alla fine decollò e ciò avvenne a partire dall’anno accademico 1999-2000, o – per lo più – dall’anno suc- cessivo e cioè a partire dal 2000, con l’istituzione delle SSIS14. Ma in questo caso si prospettavano più irte difficoltà perché si doveva coordi- nare il nuovo percorso formativo con la nuova architettura delle lauree.

Restava l’anomalia di una laurea di durata quadriennale che doveva es- sere compatibile con un sistema modulato sul tre più due. E cosa dove- va intendersi per laurea? Quale nuovo titolo prendere in considerazio- ne per l’accesso alle SSIS? La triennale o la specialistica? Se infatti il Corso di laurea in Scienze della formazione, configurandosi come un corso di laurea al pari di altri, non presentava problemi particolari ri- spetto alle altre strutture didattiche e quindi non creava difficoltà insor- montabili, ben diverso fu l’avvio delle Scuole di specializzazione per l’insegnamento secondario. Si trattava in effetti di organismi con finali- tà nuove e assai diverse dalle tradizionali Scuole di specializzazione presenti negli atenei, espressione di fatto delle singole Facoltà. Eppure certi elementi fondamentali contenuti nei criteri generali riservati ai nuovi corsi di laurea e alle scuole di specializzazione sono coerenti con la riforma universitaria fondata sull’autonomia. Pensiamo solo alla forte sottolineatura degli obiettivi –voluti come nazionali –di queste struttu- re didattiche, che, al pari dei corsi universitari in fase di ridefinizione, guardavano alla costruzione della professionalità (in questo caso do- cente)15. Per converso, però, veniva di fatto riconosciuta ampia autono- mia agli atenei sulle strategie per raggiungere tali obiettivi, purché si rispettassero gli impegnativi obblighi di orari e di crediti, imposti dal decreto16. L’adozione del sistema dei crediti (con la determinazione quantitativa di tipologie di attività comuni) permetteva teoricamente di rendere dialoganti tra loro differenti strategie e consentiva, parallela- mente, di prevedere soluzioni assai individualizzate. La durata bienna- le, ad esempio, poteva ridursi di uno o due semestri nel caso in cui lo specializzando dimostrasse di avere maturato crediti utili all’obiettivo formativo in contesti universitari pregressi.

Elemento di forte innovazione, poi, era costituto dai cosiddetti labo- ratori (area 3); pensati come momento di interazione tra docenti uni- versitari di area “trasversale” (area 1) e docenti specialisti nelle singole discipline e, quindi, nelle relative didattiche disciplinari (area 2), impo- nevano un’integrazione tra discipline scientifiche distanti tra loro per statuto e per tradizione accademica o, comunque, assai poco abituate a dialogare. Una sintesi, insomma, delle conoscenze acquisite nelle atti- vità comuni a tutti i percorsi (tramite discipline quali la psicologia, la pedagogia, la didattica generale, la sociologia) e quelle acquisite con le attività di area 2 (riservate alle discipline specialistiche e alle corrispon- denti didattiche disciplinari).

Ancor più estraneo ai consueti percorsi accademici risultava il tiro- cinio che, in quanto momento teorico-operativo, non si configurava co- me un’appendice al personale e alle istituzioni scolastiche, ma come un momento formativo spettante anche all’università. Esso metteva in uirà

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