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2 A. Malraux, Le Démon de l’absolu . “Il n’y a pas de grand art sans une part d’enfance, et peut-être pas même de grand destin”.

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“Il n’y a pas de grand art sans une part d’enfance, et peut-être pas même de grand destin”.

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0. PREMESSA

Leggere Les noyers de l’Altenburg come un romanzo e per di più come uno dei capolavori di André Malraux (1901-1976), è un obiettivo che rischia di incontrare reazioni opposte ma ugualmente negative da parte di chi ne venga a conoscenza. Come negare, per alcuni, lo statuto letterario del testo di Les noyers? Ma, per altri, come riuscire a considerarlo più di un imperfetto zibaldone dell’autore, a mezza strada tra la

défaite del ’40 e la Resistenza a venire? E magari i due campi troveranno anche un punto di accordo nel dire che il romanzo è certo tale, ma poco riuscito e tutt’al più utile per essere saccheggiato da critici e studiosi, dopo che dallo stesso Malraux: un’ottima raccolta di spunti che si rivelano essenziali per capire l’intera oeuvre dell’autore, un momento capitale di passaggio dagli anni avventuroso-rivoluzionari a quelli della maturità di saggista, ministro e infine scrittore autobiografico. Per quanto Les noyers non sia considerato ai primi posti di un’ideale scala di valore delle opere di Malraux, il riuso costante di brani che gli appartengono, l’emblematicità di certe sue famose “scene”, ne fanno un punto di riferimento fondamentale per chi studi questo scrittore. Senza contare, appunto, che l’ultimo, incompiuto progetto letterario di André Malraux ha ne Les noyers una fonte d’ispirazione1.

Ma che dire del testo di Les noyers de l’Altenburg considerato nella sua interezza e in maniera autosufficiente rispetto a tutto ciò che gli è esterno? Siamo proprio sicuri che l’apparente eterogeneità compositiva impedisca una lettura integrale ed approfondita, come il riconosciuto capolavoro La Condition humaine ne ha ricevute? Da queste semplici domande, e da alcune intuizioni da ri-lettore, è nata l’idea di una monografia che si dedicasse a un tale lavoro critico, rivelatosi alla fine fruttuoso e non deludente come ci si sarebbe potuti aspettare. Il modo di presentarne i risultati, non poteva però prescindere dalle remore iniziali: perciò il discorso interpretativo ha finito per articolarsi da un più a un meno di diffidenza nei confronti della coesione del romanzo. Dall’introduzione, il cui principale compito è portare argomenti in sua difesa, si passa alla vera e propria analisi, dapprima concentrata su fatti strutturali che testimoniano una precisa continuità della narrazione, in seguito trasferita al riscontro di coerenze minime e tesa a includere l’intero testo sotto la lente d’osservazione. Una volta saggiata la tenuta del discorso analitico, l’interpretazione può alla fine rivolgersi a quei temi più lampanti che non hanno mancato di attirare l’attenzione di qualunque lettore di Les noyers:

1 Vedi Le Miroir des limbes, in Oeuvres complètes, III, Gallimard, Paris 1996. Volume d’ora in poi indicato come OCIII.

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l’incontro dei suoi protagonisti con il mondo popolare, il colloquio di intellettuali situato nel cuore del romanzo, le due guerre mondiali che accomunano l’esperienza del narratore e quella del padre. Alla seconda parte del lavoro, dedicata a brevi bilanci, si è lasciato infine il compito di tirare le fila a posteriori sulle questioni che potevamo porci all’inizio e che hanno man mano trovato risposta: quale rapporto tra Les noyers e la biografia di Malraux, vista la presenza di Antimémoires all’orizzonte? Quale ruolo gioca il saggismo in un’opera che pare preludere agli anni di ricerche in campo storico-artistico? E sul versante storico e letterario, che ruolo dare all’ultimo romanzo di uno scrittore senza dubbio influente nella cultura francese dagli anni ’30 agli anni ’70 del XX secolo?

In sede di premessa, bisogna soltanto sottolineare due aspetti del lavoro condotto su

Les noyers de l’Altenburg. Per prima cosa vanno riconosciuti i presupposti teorici e di conseguenza il metodo che ci ha guidato nella lettura. Se un minimo di chiarezza e coerenza operativa sarà riscontrabile nell’analisi, essa va senz’altro attribuita alla volontà di sperimentare in prima persona una precisa, sebbene complessa, lezione teorica: quella rappresentata dai lavori critici e dagli insegnamenti di Francesco Orlando. L’idea del “lavoro dell’interprete che conosce per confronto, per somiglianza e differenza” 2 basta a condensare le immediate conseguenze pratiche di una teoria della letteratura le cui radici epistemologiche e implicazioni antropologiche non possono certo essere discusse in questa sede. Importa dire che tutto il presente lavoro si fonda sull’analisi di un singolo testo, le cui ricorrenze di tipo tematico o stilistico, le cui caratteristiche costruttive, sono messe in relazione fra loro in maniera tale da verificarne la maggiore o minore funzionalità, la pienezza o assenza di significazione. In questo consiste la verifica della coesione testuale, perché se funzioni e significazioni si rivelano il più possibile coerenti è l’intera macchina di parole ad illuminarsi e riempire di senso anche ciò che non è rubricabile come costante, anche le semplici variazioni.

Perciò al centro dell’analisi di Les noyers de l’Altenburg, come punto di passaggio verso le conclusioni dell’interpretazione, abbiamo posto quella che a noi è parsa una tipologia tematica sufficientemente esaustiva nel dare un ordine alle costanti riscontrate. Saggiare la coerenza semantica del romanzo ha significato, infatti, cercare se ad un

2 F. Orlando, Prefazione, in Le costanti e le varianti, Il Mulino, Bologna 1983, p. 9. Vedi ivi come modello di analisi: Il recente e l’antico nel cap. I, 18 di Le Rouge et le Noir, in pp. 135-162 (Prima ed. in «Belfagor», novembre 1967, pp. 661-80). In attesa di un’opera che ridiscuta e riformuli, alla luce di quarant’anni di studi, le teorie dello studioso, vedi Id., Per una teoria freudiana della letteratura, Einaudi, Torino 1992 (1973), opera cronologicamente e teoricamente centrale nel ciclo che si apre con Due letture

freudiane: Fedra e il Misantropo, Einaudi, Torino 1990 (1971 per Fedra e 1979 per Misantropo), e si chiude con Illuminismo, barocco e retorica freudiana, Einaudi,Torino 1997 (1982).

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livello d’astrazione superiore a quello della concreta letteralità di immagini, eventi e temi di cui è composto, era possibile affermare la ricorrente validità di una o più classi semantiche: cercare, insomma, fino a che punto si poteva riscattare in senso ciò che altrimenti sarebbe stato casuale. Più parti di testo la nostra tipologia ha saputo includere, più convincente sarà stato il lavoro interpretativo. Il fatto che la tipologia abbia richiesto anche la creazione di nomi appositi per le diverse categorie individuate non deve generare confusioni: è chiaro che una tale denominazione non va reificata ed ha un’utilità soltanto discorsiva, si tratta pertanto di una mera convenzione stipulata con il lettore per la durata del lavoro.

Ben più difficile è giustificare i particolari rapporti logici che le classi semantiche così definite intrattengono fra loro. Per questo aspetto, che implica il concetto freudiano di “formazione di compromesso”, si rimanda nuovamente a Orlando3. Qui bisogna dire che non è bastato generalizzare, attraverso l’individuazione di costanti, i contenuti concreti del testo. Se al contempo non ne avessimo indagate le rispettive posizioni sul piano dei valori, sul piano assiologico, l’operazione analitica sarebbe rimasta ancora lettera morta, un discorso incapace di rendere conto della ricchezza di significati del testo preso in esame. Aggiungiamo quindi al concetto di coerenza testuale poco sopra espresso che, oltre alla presenza costante di determinate classi semantiche, logicamente sovrintendenti al mondo immaginario creato nel romanzo, è stato necessario studiare la relazione che tali classi intrattengono fra di loro. Così, ad esempio, si è trovato che la maggior parte delle notazioni paesaggistiche, ne Les noyers, consistono in immagini di ripetitività o costanza nel tempo, ma in alcuni casi con effetti estatici sul personaggio detentore del punto di vista, in altri con effetti del tutto opposti4.

A questo punto possiamo giungere al secondo aspetto da sottolineare. Aver preso in considerazione il testo del romanzo nella sua interezza ha condotto l’analisi a prestare grande attenzione proprio alle suddette immagini, che ne sono vere protagoniste. Se la nostra tesi risulterà fondata, si potrà allora meglio inquadrare storico-letterariamente Les

noyers de l’Altenburg e dire che si tratta di un romanzo in linea con gli sviluppi delle

3 F. Orlando, Repertorio dei modelli freudiani praticabili, in Per una teoria cit., pp. 161-218: pp. 210-218. Vedi nello stesso volume Risposte a un questionario, pp. 95- 129: pp. 95-110.

4 Come notazione incidentale, un tale tipo di immagini si può ipotizzare diffuso ben al di là della singola opera di un singolo autore. Come si vedrà, le mostreremo funzionali a rimarcare “l’indifferenza delle cose” rispetto a un personaggio percepente e, almeno per Malraux, storicamente determinate dal problema della “morte di Dio”. Approfittiamo qui per affermare non improbabile la fruttuosità di un loro eventuale studio sul modello di un altro lavoro di F. Orlando: Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura.

Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Einaudi, Torino 1994. Vedi adesso anche l’edizione inglese aggiornata e aumentata Obsolete objects in the literary imagination, Yale University Press, New Haven 2006.

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forme narrative post-naturaliste e debitore di quei laboratori sperimentali che furono le avanguardie. Non bisogna d’altronde mai dimenticare che, accanto e prima de La

Tentation de l’Occident (1926), l’attività scrittoria di André Malraux iniziò proprio nel solco dell’effimera letteratura cubista, con Lunes en papier (1921) e Écrit pour une idole

à trompe (1921-1923)5. Molte delle caratteristiche che evidenzieremo ne Les noyers rammentano la generazione di scrittori cui Malraux apparteneva: il ruolo secondario dell’affabulazione rispetto a una continuità fondata sulla memoria del narratore-scrivente; il fatto che oggetto di questa memoria sia una stessa esperienza illuminante ripetuta in maniere diverse e su cui ci si interroga come su un mistero; la pervasività di immagini cariche di risonanze simboliche... tutti segni di modernità ancor più profondi dello stile farfelu6. Qui ci interessa inquadrare rapidamente la questione servendoci dell’importante lavoro di Michel Raimond sulla crisi del romanzo alla fine della stagione naturalista7, dove si documenta in maniera minuziosa il dibattito teorico e la produzione di testi del periodo che arriva, tra l’altro, alle soglie della maturità artistica di Malraux. La ricostruzione storica di Raimond individua negli anni ’90 del XIX secolo l’inizio di una stagione durante la quale il romanzo non ha mai cessato di essere “in crisi”, sebbene per diverse esigenze estetiche. A noi tornerà utile ricordare brevemente soltanto due aspetti di quella stagione che investono direttamente l’opera di Malraux: la questione del “romanzo d’avventura” e quella del roman poétique.

Secondo Raimond, l’insofferenza e il disinteresse per l’affabulazione, per “cet art d’agencer l’intrigue de manière à tenir le lecteur en haleine”, sono una caratteristica saliente già della generazione attiva a fine secolo:

Mais les symptômes d’une crise de l’affabulation apparaissent dès la fin du XIX siècle: on les trouverait déjà chez les Gouncourt, au moins au niveau des intentions. De Rod à Barrès, de Goncourt à Huysmans, d’Aziyade à Fantôme d’Orient, des

Cahiers d’André Walter à La soirée avec Monsieur Teste, l’histoire, l’affabulation, le récit tendaient à s’effacer au profit d’une étude psychologique ou sociale, de l’essai, de l’autobiographie ou de la poésie8.

5 Vedi in A. Malraux, Oeuvres complètes, I, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», Paris 1989, rispettivamente alle pp. 3-25 e 35-55. D’ora in poi la sigla OCI indicherà il volume.

6 Vedi, anche per i rapporti con il surrealismo, A. Vandegans, La jeunesse littéraire d’André Malraux.

Essai sur l’inspiration farfelue, J.-J. Pauvert, 1964. Vedi E.A. Ellis, Malraux et le monde de la nature, «Archives des Lettres Modernes», n. 157, Paris 1975, p. 26, sulle grottesche e surreali maschere di Möllberg. Per comunanze di fondo con il surrealismo vedi anche F.-E. Dorenlot, Malraux ou l’unité de

pensée, Gallimard, Paris 1970, p. 254: “Psychiquement, la nostalgie des dieux éteints, et la projection de rêves d’absolu dans le Musée Imaginaire, se conçoivent comme réaction au matérialisme ambiant”. 7 M. Raimond, La crise du roman. Des lendemains du Naturalisme aux années vingt, Corti, Paris 1966. 8 Ibid., p. 55. P. 54 per la citazione precedente.

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Ma se risulta relativamente facile al critico ricostruire una linea più o meno coscientemente contestataria, non gli è altrettanto facile trovare tratti positivi comuni con cui descrivere i romanzi del periodo. La fine della scuola naturalista non ha in effetti condotto alla nascita di alcuna altra scuola e il dominio del gusto simbolista si è limitato a giustificare la diffidenza per la forma lunga del romanzo, preferendogli la possibilità di perfezione elocutivo-costruttiva del racconto. Non stupisce perciò che nello stesso momento in cui conviveva una grande varietà di soluzioni individuali, si alzavano regolarmente voci preoccupate della “degenerazione” romanzesca. Tra analisi delle cause e proposte terapeutiche, spicca la linea dei diversi appelli che già a partire dagli anni ’90 propugnano la nascita di un “romanzo d’avventura”. Linea importante per due autori come Barrès (1862-1923) e Gide (1869-1951), che hanno in comune uno stesso percorso verso il romanzo, suggellato rispettivamente da Les Déracinés (1897) e Les

Faux-Monnayeurs (1925):

Tous ces auteurs [Barrès, Gide, Valéry] ne devaient pas en rester là. À part Valéry, ennemi déclaré du roman, retiré d’ailleurs pour longtemps de l’activité littéraire, ils devaient tous opérer, dès ces années-là, cette marche au roman qui devait aboutir à l’idéal du roman d’aventure, exprimé par Rivière en 1913, déjà suggéré par Schwob en 1891, par Mauclair en 18989.

Negli intenti teorici di Jacques Rivière (1886-1925), l’ideale del romanzo d’avventura non voleva dire un ritorno a vecchi schemi, ma una sintesi di affabulazione e conquiste formali della stagione simbolista:

Déjà Rivière, dans Le Roman d’aventure, avait opposé à l’analyse bourgetesque son idéal d’un romancier qui rendît à l’événement sa présence; qui présentât des héros dont l’avenir était encore indéterminé et qui étaient livrés «pieds et poings à la merveilleuse anxiété de vivre». On trouvait déjà chez Rivière non seulement l’idéal d’un roman à multiples événements et nombreux personnages, mais l’attrait d’un monde donné dans son présent, bien éloigné de l’univers explicatif, causal, démonstratif, qui était celui de Bourget10.

L’articolo di Rivière non era che il frutto della riflessione sulla “signification historique et la portée esthétique de ce passage de la poésie au roman”11, dove il passaggio era rappresentato dal capolavoro dell’amico Alain-Fournier (1886-1914), Le

9 Ibid., p. 80.

10 M. Raimond, La crise cit., p. 151-152. 11 Ibid., p. 222.

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Grand Meaulnes (1913). Ma l’equilibrio tra romanzo e poesia (più correttamente: tra narrazione e lirismo) realizzato in quel testo, doveva rappresentare un episodio a se stante e gravido di altri sviluppi rispetto alla linea del “romanzo d’avventura”. Quando uscì, nel 1933, La Condition humaine di André Malraux, di fatto fece la sua comparsa un romanzo che molto più dei suoi antecedenti realizzava l’ideale della “avventura”: l’affabulazione era indisturbata da metariflessioni d’autore e aveva fatto tesoro dei trent’anni di narrativa prodotta dal mondo anglosassone. Molto più di Les

Faux-Monnayeurs, il capolavoro di Malraux sembrò sancire un ritorno al romanzo12. Anche perché le vecchie istanze che a Rivière erano parse superate dalla sintesi di Fournier, rimanevano vive ancora nel dopoguerra, non solo grazie alla figura influente di Paul Valéry, ma soprattutto a causa dell’avvento del surrealismo. E lo stesso Grand Meaulnes diventò perciò il precedente e modello di quella che Raimond ha potuto definire “Âge du roman poétique (1920-1930)”13.

Affabulazione del romanzo d’avventura e idea di un “fantastique quotidien” da romanzo poetico14, che non necessariamente comporta intrusioni di soprannaturale: da un capo all’altro del nostro lavoro, mostreremo approfonditamente che l’ultima opera romanzesca di Malraux può essere utilmente letta alla luce di entrambe queste categorie, che perciò è utile aver presenti da subito. Attraverso personaggi dalle molte caratteristiche in comune con gli eroi dei suoi primi romanzi, Malraux costruisce da ultimo un testo che merita in effetti la definizione di roman poétique. Forse questa ambiguità, che vedremo essere pregna di significato, è ciò che rende essenziale a Les

noyers de l’Altenburg la convivenza di “faire voire et faire comprendre” che André Gide individuò come difetto dell’opera15.

Alla luce di queste considerazioni, in ogni caso, è chiaro che il nostro lavoro ha cercato di leggere l’ultimo romanzo di André Malraux in un’ottica più ampia dell’usuale, che andasse al di là dei criteri con cui lo si può inserire nella temperie letteraria di fine anni ’30: “Dans les année qui précèdent la Seconde Guerre mondiale, la décomposition du roman n’est pas un phénomène rare. Il s’explique pour l’essentiel par le formidable appel d’air qui représente, après les années du surréalisme, l’exigence d’une action

12 Si veda, sul rapporto Malraux-Gide e il romanzo d’avventura J.-C. Larrat, La Condition humaine et la

question du roman d’aventure. À propos d’une lettre de Lafcadio à M. André Gide, «aventurier passif», in Littératures Contemporaines, dir. A. Cresciucci e J. Touzot, Klincksieck, Paris 1996, pp. 35-52.

13 Ibid., pp. 224-242. 14 Ibid., p. 225.

15A. Gide, Journal 1926-1950, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», Paris 1997, p. 992: “Il ne faut point chercher à la fois à faire voir et à faire comprendre”.

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concrète”16. All’evoluzione verso il saggistico che Autrand ravvisa essere comune a Malraux, Bernanos, Saint-Exupéry e J.-R. Bloch, ci è parso necessario aggiungere che, almeno per il nostro autore, conta altrettanto un’ulteriore evoluzione verso il lirico, molto più difficilmente attribuibile a una reazione al surrealismo. Ma solo l’analisi del testo potrà chiarire davvero i termini di questa rapida prospettiva storico-letteraria: e se la conclusione non potrà portarci a dichiarare “capolavoro assoluto” l’ultimo romanzo di Malraux, di certo ne avrà pienamente riscattato il notevole valore.

16 M. Autrand, Introduction, in A. Malraux, Oeuvres Complètes, vol. II, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», Paris 1996, pp. IX-XLVIII: p. x. Il volume, che contiene anche la lezione di riferimento del testo del romanzo, sarà d’ora in poi indicato come OC II.

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