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Rivista trimestrale Anno II N. 2 / aprile 2021 In copertina fotografia di Paolo Panzacchi Siamo (noi) la più grande tempesta. N.

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Rivista trimestrale

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Rivista registrata: Tribunale di Bologna 09.11.2020, n. 8550 ISSN: 2724-3508

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Verso il superamento del regime ostativo ai benefici penitenziari?

Recensione di “Regime ostativo ai benefici penitenziari. Evoluzione del “doppio bi- nario” e prassi applicative” di Veronica Manca

di Nicola Galati

Alcune storiche sentenze della Corte costitu- zionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno riportato al centro del dibat- tito giuridico, e non solo, l’art. 4-bis dell’ord.

penit., tema affrontato dall’avvocato Vero- nica Manca nel recente volume «Regime ostativo ai benefici penitenziari. Evolu- zione del “doppio binario” e prassi appli- cative», edito da Giuffrè Francis Lefebvre.

Si tratta di una utilissima guida per gli opera- tori del diritto in cui l’Autrice, oltre a ripercorre l’evoluzione della normativa, approfondisce le tematiche più controverse con il costante richiamo della giurisprudenza in materia e mediante schemi chiari ed efficaci.

Il regime ostativo si fonda su una presunzione legale di pericolosità sociale tale da esclu- dere l’accesso ai benefici ed alle misure alter- native per i detenuti e gli internati, condannati per determinati reati, che non collaborino con la giustizia.

In nome di esigenze investigative e di po- litica criminale si sacrifica la funzione co- stituzionale della pena volta al reinseri- mento sociale del condannato. Funzione rieducativa che, secondo la Corte costituzio- nale (Sent. n. 149 del 2018) non è sacrifica- bile sull’altare di ogni altra, pur legittima, fun- zione della pena. La presunzione legale, in- fatti, svilisce i principi di individualizzazione e di progressività del trattamento penitenziario.

Il detenuto viene trattato come un mezzo e non come un fine, in evidente violazione del rispetto della dignità della persona. È stata creata una categoria di irredimibili, persone a cui è negata ogni speranza, e nei cui confronti

lo Stato ha abdicato a svolgere la sua fun- zione costituzionalmente prevista.

Si impedisce, inoltre, al giudice una at- tenta ed approfondita valutazione della persona, della sua individualità, del suo percorso soggettivo di espiazione e re- denzione. Anche in forza di una diffusa, quanto infondata, sfiducia nell’autonomia della magistratura di sorveglianza che ha per- vaso, ad esempio, il recente decreto c.d. “an- tiscarcerazioni”.

Oltre all’errore logico del ritenere che solo la collaborazione con la giustizia possa essere sintomo di ravvedimento del condannato, sussiste, in particolare, un’evidente viola- zione del diritto al silenzio, corollario del diritto di difesa.

Si è giunti ad invertire la funzione del pro- cesso e quella dell’esecuzione penale con il primo incentrato sul reo e la seconda concen- trata sul reato e non viceversa, con il ritorno ad una concezione del diritto penale costruita sul tipo d’autore.

Una disciplina introdotta in una fase emer- genziale della storia italiana e solo per al- cuni gravi delitti che, negli anni, è stata confermata ed è stata estesa ad un nu- mero sempre maggiore di delitti, tanto da perdere quella parvenza di eccezionalità che ne sanava apparentemente le storture.

Il consueto divenire definitivo del provvisorio in nome delle eterne emergenze.

L’analisi dell’evoluzione della normativa è utile a smentire alcuni falsi miti. L’originaria formulazione dell’art. 4-bis ord. penit. preve- deva la concessione dell’assegnazione al la- voro all’esterno, dei permessi premio, delle

RECENSIONI

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misure alternative alla detenzione, ai condan- nati per i delitti gravi indicati dalla norma solo se fossero stati acquisiti “elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la cri- minalità organizzata”. Per i delitti di c.d. se- conda fascia, invece, i benefici potevano es- sere concessi solo se non vi fossero “ele- menti tali da far ritenere la sussistenza di col- legamenti con la criminalità organizzata o eversiva”. Nessun riferimento, pertanto, alla collaborazione con la giustizia che compor- tava soltanto un trattamento premiale.

Fu nel 1992, nel periodo tragico delle stragi in cui furono uccisi Giovanni Falcone, France- sca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti delle scorte, che fu introdotta mediante de- creto legge la nuova formulazione della norma subordinante la concessione dei bene- fici alla collaborazione con la giustizia. Viene smentita dai fatti la ricostruzione strumentale che vede nel superamento dell’attuale erga- stolo ostativo un tradimento delle idee dei Giudici Falcone e Borsellino.

Un argomento simile è stato utilizzato anche contro la storica decisione della Corte EDU (sentenza 13.06.2019 n. 77633-16, Viola c.

Italia) che ha condannato l’Italia perché l’er- gastolo ostativo viola il divieto di trattamenti degradanti ed inumani ed il generale rispetto della dignità umana. Per alcuni critici, la Corte di Strasburgo non conoscerebbe a fondo la peculiarità della realtà italiana sottostimando l’importanza dell’ergastolo ostativo quale strumento di contrasto alla criminalità orga- nizzata. Ed invece è proprio la distanza della Corte dalle strumentalizzazioni e dalle pole- miche nostrane ad aver permesso una valu- tazione giuridica dell’istituto volta a sottoli- neare come nessuna emergenza possa por- tare alla perdurante compressione dei diritti fondamentali della persona.

Secondo la Corte, infatti, il rispetto della dignità umana vieta di privare una per- sona della sua libertà senza operare nel contempo per il suo reinserimento e senza fornirgli la possibilità di recuperare un giorno tale libertà.

Una decisione che ha finalmente aperto una breccia nel monolite dell’ergastolo ostativo,

seguita a stretto giro dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale che ha di- chiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4- bis, comma 1, ord. penit. nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti di cui all’art.

416-bis cod. pen., e per quelli commessi av- valendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’at- tività delle associazioni in esso previste pos- sano essere concessi permessi premio an- che in assenza di collaborazione con la giu- stizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ord. penit., allorché siano stati acquisiti ele- menti tali da escludere, sia l’attualità di colle- gamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. In- tervento ablatorio esteso anche agli altri reati contemplati nell’art. 4-bis ord. penit.

Secondo la Corte, «mentre una disciplina im- prontata al carattere relativo della presun- zione si mantiene entro i limiti di una scelta legislativa costituzionalmente compatibile con gli obbiettivi di prevenzione speciale e con gli imperativi di risocializzazione insiti nella pena, non regge, invece, il confronto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. – agli specifici e limitati fini della fattispecie in que- stione – una disciplina che assegni carattere assoluto alla presunzione di attualità dei col- legamenti con la criminalità organizzata».

È stata sancita, seppur limitatamente alla concessione dei permessi premio, l’illegitti- mità costituzionale della presunzione asso- luta di pericolosità sociale che, a prescindere da una valutazione in concreto, presupponga l’immutabilità della personalità del condan- nato e del contesto esterno di riferimento.

L’auspicio è che possano seguire altri in- terventi della Consulta in materia, ini- ziando dall’attesa pronuncia sulla que- stione di legittimità costituzionale solle- vata dalla I Sezione della Corte di Cassa- zione «con riferimento agli artt. 3, 27 e 117 della Costituzione, degli artt. 4-bis comma 1 e 58-ter della legge n. 354 del 1975, e dell’art.

2 d.l. n. 152 del 1991, convertito con modifi- cazioni nella legge n. 203 del 1991, nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi

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avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416- bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’atti- vità delle associazioni ivi previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa es- sere ammesso alla liberazione condizionale».

In controtendenza rispetto alle predette decisioni delle Corti superiori, il legisla- tore continua ad ampliare del catalogo dei reati ostativi (da ultimo con la legge c.d.

“spazzacorrotti”), cedendo alla invoca- zione populista di una fraintesa certezza della pena, secondo cui l’unica pena ammis- sibile è quella carceraria priva di benefici e misure alternative: l’ostatività quale regola generale. Tesi inammissibile che stravolge l’originaria funzione di garanzia del principio della certezza della pena, da intendersi come predeterminazione legislativa della cornice edittale. Come chiarito dall’Autrice, «ad un accertamento processualmente certo corri- sponde una pena certa, ma nell’an, e mai nel quomodo […] Tanto più si costruisce un pro- cedimento esecutivo, giurisdizionalizzato, monitorato dalla magistratura di sorveglianza, e assistito dagli operatori penitenziari, tanto più la pena potrà dirsi certa anche rispetto agli esiti di risocializzazione e non di aumento della recidiva».

L’estensione del doppio binario ad un numero sempre più ampio di reati tradisce la ratio ori- ginaria della disciplina e dimostra l’incapacità del legislatore di affrontare problematiche so- ciali complesse se non ricorrendo alla repres- sione ed al carcere. Eppure, proprio la fun- zione di risocializzazione della pena permette di prevenire la recidiva e, quindi, proteggere la società.

Funzione dell’opera in commento è quella di ricordare che il compito del giurista è riportare il sistema sulla via della legalità e della dignità della persona umana.

Ruolo svolto dall’Autrice con questo prezioso volume e nella professione forense, eserci- tata con la passione di chi è consapevole di difendere i diritti di tutti.

Proprio all’avvocato Manca, Dottore di ricerca in Diritto penale presso l’Università degli Studi di Trento, membro dell’Osservatorio Carcere della Camera Penale di Trento e

componente dell’Osservatorio Europa dell’Unione delle Camere Penali Italiane, au- trice di pubblicazioni giuridiche ed articoli, ri- volgiamo alcune domande sulla Sua opera, ringraziandola per la disponibilità e la cor- tesia.

1) L’opera ha il pregio di proporre l’adozione di un nuovo metodo di analisi del fenomeno della punibilità, il metodo trans-azionale.

Quali sono i principi e le caratteristiche che lo caratterizzano e lo differenziano dall’approc- cio tradizionale?

Traendo spunto da una riflessione del Profes- sore Matteo Caputo, in “Il diritto penale e il problema del patteggiamento” (2009, Jovene, Napoli), ho inteso proporre, in apertura del volume, una più ampia digressione sul me- todo di studio dell’esecuzione della pena de- tentiva. In questo caso, l’autore nella sua opera ripercorre i metodi scientifici di studio del sapere, dall’approccio aristotelico, fino a quello di Einstein per applicarlo al diritto: si ritiene che solo un’analisi del sapere dina- mico, che non postuli assiomi, né concetti prefissati possa contribuire a superare la

“bizantina” separazione della procedura penale e del diritto penale sostanziale. Se l’autore si sofferma sull’utilità del metodo (trans-azionale) in relazione alle dinamiche tra processo e pena in fase di cognizione, con il mio volume ho voluto estendere tale approccio all’esecuzione penale, fase, che per eccellenza, vede le due discipline in- trecciarsi e fondersi in una materia unica, quella concreta, umana e tangibile della pena in divenire.

La mia riflessione si inserisce in un quadro più ampio, in cui l’esecuzione della pena, da seg- mento processuale, negletto e poco appro- fondito, ha assunto un ruolo preminente, non solo nelle dinamiche del processo, ma anche in tutta quella dimensione che tecnicamente rientra nella sfera della punibilità. Si pensi sul punto, alla rivoluzione “copernicana”, che ha portato la Corte costituzionale, con la sen- tenza n. 32 del 2020, a decretare la natura di norma sostanziale (coperta dallo stretto prin- cipio di legalità costituzionale) di tutte quelle disposizioni, che concernono l’esecuzione

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della pena e le misure alternative (indipen- dentemente dalla collocazione topografica, sia essa il codice di rito o quello sostanziale, ovvero ancora leggi speciali).

2) Il volume comprende un excursus storico sui numerosi interventi normativi che hanno riguardato l’art. 4-bis ord. penit. Qual era la ratio originaria della norma, strettamente le- gata al preciso momento storico emergen- ziale in cui è stata introdotta, e quali sono state le modifiche più rilevanti?

Il mio volume vuole appositamente partire dalle origini storiche, per ricordare la ratio e la natura della disciplina c.d. “ostativa” ai bene- fici penitenziari, oltre che a rammentare la ge- nesi del regime del 41-bis ord. penit.: è impor- tante partire da qual preciso momento storico anche per evidenziare cosa significhi “doppio binario penitenziario” e quali siano le diffe- renze – spesso invece due istituti trattati come un unico discorso – tra il regime diffe- renziato di accesso ai benefici e quello del re- gime sospensivo delle regole di trattamento del 41-bis ord. penit. Anche se possono ap- parire delle differenze meramente concettuali, risulta fondamentale comprendere appieno le origini di tali strumenti normativi.

Come ho spiegato – in termini il più possibile trasversali e lineari nel volume – il regime dell’ostatività nasce, in tempi meno sospetti, con la disciplina della dissociazione degli anni ’70, in relazione al terrorismo politico, e si afferma maggiormente con le novelle degli anni ’80 in materia di sequestri di persona. In tutte le novelle, ad ogni modo, non emerge mai il meccanismo della “collaborazione della giustizia” come unico strumento le- gale di prova per l’accesso ai benefici pe- nitenziari; non risulta come meccanismo punitivo; bensì premiale, a parità di altre condizioni, per l’accesso ai benefici come ogni altro detenuto ordinario. Così anche per la prima formulazione dell’art. 4-bis ord.

penit., nel decreto legge n. 152 del 1991.

Solo con il decreto legge dell’8 gennaio 1992, n. 306, all’alba della seconda strage di mafia, che ha coinvolto Paolo Borsellino e la sua scorta, il Governo, in fretta, in uno stato di concitazione, terrore e sgomento politico

massimi, è intervenuto bruscamente sulla materia penitenziaria imponendo la collabo- razione della giustizia quale meccanismo unico per l’accesso al mondo esterno, oltre a quote di pena espiata più alte e il supera- mento della c.d. “prova diabolica” dell’as- senza attuale di collegamenti con la crimina- lità organizzata.

Ed è proprio con questo atto normativo che si introducono in parallelo tutte le modifiche “re- strittive” al regime del 41-bis ord. penit.; sono gli anni poi delle maxi-carceri isolane di Pia- nosa e dell’Asinara, per cui si voleva lanciare un messaggio immediato di lotta non solo alla criminalità organizzata, ma al c.d. “lassismo penitenziario”, delle famose “aragoste e champagne” dell’Ucciardone di Palermo.

In quel momento storico, l’esigenza di acqui- sire informazioni è preminente, sia in sede processuale, sia in sede esecutiva. Massima è l’attenzione sul ripristino di regole ferree per il distaccamento di possibili collegamenti tra il carcere e l’esterno: esigenze preventive e in- vestigative sovrastano l’esecuzione della pena e la tutela dei diritti delle persone re- cluse passa in secondo piano. Sono infatti anche gli anni che portarono, in tempi più re- centi, alle denunce dei detenuti per tortura e maltrattamenti e che segnarono una pagina oscura della storia italiana (v. Labita c. Italia).

Spiegare le origini storiche e le ragioni che spinsero il legislatore ad intervenire sull’ordi- namento penitenziario, aiutano, dunque, a ri- flettere anche sull’evoluzione delle strategie di lotta contro la criminalità organizzata, che nonostante l’inasprimento del carcere, ha sa- puto evolversi nel tempo, cambiare pelle e in- filtrarsi nel tessuto sociale, indipendente- mente dal carcere duro e dalle preclusioni pe- nitenziarie.

3) Quali effetti ha avuto, sulla coerenza del sistema, il continuo ampliamento, per ragioni di politica criminale, del catalogo dei reati di cui all’art. 4-bis ord. penit.?

Le ragioni storiche dell’ostatività fanno riflet- tere altresì sull’incongruenza di una disciplina penitenziaria costruita intorno alla norma sim- bolo dell’art. 4-bis ord. penit., che, nel corso degli anni, è diventata un contenitore vuoto,

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in cui aggiungere via via preclusioni su pre- clusioni, senza una sua linearità né di ratio né di scopo. Ad oggi infatti l’art. 4-bis ord. penit.

trova applicazione per una categoria eccessi- vamente variegata di reati, dall’associazione per delinquere di stampo mafioso, all’estor- sione aggravata, ai delitti di immigrazione clandestina, a tutti i delitti (o quasi) dei pub- blici ufficiali – per effetto della novella n. 3 del 2019, la c.d. tristemente Spazza-corrotti – fino ad arrivare a tutti (o quasi) delitti violenti contro la persona, specie a sfondo sessuale.

Le conseguenze possono bene immaginarsi:

circuiti di Alta sicurezza, riempiti di condan- nati, al vertice di consorterie criminali, con au- tori di reati di immigrazione clandestina (ma- gari un mero trasporto oltre il confine per qualche centinaio di euro e per disperazione sociale) o autori di reati terroristici o eversivi (di estrema sinistra). Categorie di reati diffe- renti, tipologie di condannati differenti, con esigenze trattamentali radicalmente diverse.

Così per non parlare delle sezioni dei c.d.

“protetti”: sezioni nate per isolare – per auto- conservazione all’interno del codice della “ga- lera” – gli autori di reati sessuali, a prescin- dere da una stretta collocazione del titolo di reato nell’ordinamento penitenziario; infarcite oggi di condannati che vengono accomunati, in parte da esigenze di autoconservazione (come “pentiti” o pubblici ufficiali ecc.) a esi- genze, più che di trattamento, di classifica- zione normativa all’interno del 4-bis ord. penit.

Sezioni, oggi, quindi, in parte sovraffollate, che non si rivelano sufficientemente idonee a proporre delle soluzioni trattamentali differen- ziate: per i c.d. “sex offenders” sono rare le ipotesi trattamentali appositamente pensate per questa tipologia di autori. Di fatto, ad oggi, si hanno categorie di autori ulterior- mente isolati: dai circuiti dell’Alta sicurezza a sezioni di protetti, senza ipotesi di tratta- mento e offerta rieducativa che puntino sulla specificità; quella specificità che invece ri- chiede l’ordinamento penitenziario (v. art. 4- bis, co. 1-quater e 1-quinquies, ord. penit.).

4) Il dialogo tra la Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti dell’uomo è stato fon- damentale per rompere il tabù

dell’intangibilità dell’ergastolo ostativo. Cosa possiamo aspettarci dagli sviluppi futuri della giurisprudenza costituzionale e di quella so- vranazionale?

Nel mio volume, ho appositamente dedicato un capitolo all’excursus della giurisprudenza costituzionale, fino alle recentissime sen- tenze nn. 253 e 263 del 2019. Sin dalle pri- missime pronunce della Corte costituzionale, si rinvengono dei principi fondamentali in ma- teria di ostatività ai benefici penitenziari: si pensi alle sent. nn. 306 del 1993, 65 del 1998 e tante altre, che hanno sancito l’illegittimità della disciplina dell’art. 4-bis ord. penit., nella misura in cui non contemplava ipotesi diverse dalla collaborazione con la giustizia, oltre a quelle del ruolo marginale per riconosciuta circostanza attenuante della sentenza di con- danna.

In queste pronunce, la Corte ha enunciato principi costituzionali di massimo rilievo, come ad es., la progressione nel trattamento o la proporzionalità, o, ancora il finalismo rie- ducativo. Tali principi sono stati esaltati nelle pronunce, più recenti, e significative, nn. 149 del 2018, 186 del 2018, 97 del 2020, 253 del 2019, 263 del 2019: tali pronunce hanno trat- tato, in modo più ravvicinato e diretto, il tema dell’ostatività in relazione alla pericolosità so- ciale e alla pena dell’ergastolo (anche quello c.d. di “terzo tipo”). Ciò che la Corte ha affer- mato in tutte queste pronunce, e che sicura- mente ha trovato slancio con le decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo – vedi per tutte Viola c. Italia – non riguarda la legit- timità o meno di discipline differenziate, ma la necessità, che, anche rispetto a queste disci- pline, si rispettino sempre i diritti fondamentali della persona reclusa, e, in particolar modo, l’umanità della pena, la dignità dell’indivi- duo, momenti salienti, che precedono ne- cessariamente il finalismo rieducativo e la risocializzazione.

Per garantire questo, è evidente che non pos- sono trovare fondamento in un ordinamento costituzionalmente orientato presunzioni as- solute di pericolosità sociale, che non con- sentono, in nessuna situazione, il riscatto so- ciale dell’individuo: oltre a ciò tali meccanismi

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presuntivi esautorano il giudice dal controllo giurisdizionale sull’esecuzione della pena, con un evidente vulnus non solo di tutela dei diritti soggettivi ma anche di legalità della pena (specie se intesa alla scorta della Corte cost. n. 32 del 2020). Le prospettive future?

Potrebbero essere infinite: ad es., perché non immaginare una questione di legittimità sull’ergastolo? Quello ostativo e quello co- mune? Perché non pensare – come di fatto sta facendo una parte della giurisprudenza di merito (TDS di Firenze) – che la disciplina dell’ergastolo ostativo non si possa estendere retroattivamente oltre l’8 gennaio 1992 per i fatti pregressi? Perché non pensare che tutte queste questioni non riguardino tanto l’art. 3 CEDU, e, quindi, la dimensione della risocia- lizzazione, ma quella della legalità della pena, quindi, anche quello dell’art. 7 CEDU?

5) Il legislatore, invece, ha difeso ed esteso il perimetro del “doppio binario”. Ritiene possi- bile un’inversione di marcia, magari ripar- tendo dal prezioso lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale?

Fino a qualche mese fa, ho ritenuto impossi- bile un’inversione di marcia, tanto che – per quanto lodevoli ed ammirevoli – ho sempre detto come tutte le iniziative dirette ad azioni generali di amnistia e indulto risultavano a priori vane, perché di fronte l’interlocutore po- litico non aveva la sensibilità tale da recepire delle questioni così complesse, e altrettanto evidenti, come quello del sovraffollamento carcerario, che torna ad essere, in piena emergenza sanitaria, un’emergenza nell’emergenza.

Eppure oggi, con la svolta del Ministero della Giustizia, qualche mutamento di sen- sibilità potrebbe immaginarsi. Si potrebbe quindi pensare non solo ad un recupero di quel bellissimo e preziosissimo lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale, ma an- che una nuova fase, pensata e riorganizzata su questioni comuni, più specifiche e settoriali, per l’immediato: si pensi alla questione dei bambini nelle carceri; al tema dei suicidi e della salute mentale; al problema della tossi- codipendenza; alla detenzione femminile, ecc. Allo stesso modo, sul lungo periodo,

sarebbe bello poter immaginare un lavoro più articolato, che passi necessariamente da una riflessione a monte sul sistema sanzionatorio.

Del resto queste sono le riflessioni della Mini- stra Professoressa Marta Cartabia, nella sua prima audizione alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati.

6) Il volume tratta anche gli effetti dell’emer- genza sanitaria da Covid-19 sul pianeta car- cere e sull’esecuzione penale. Ad un anno dalla comparsa in Italia dell’epidemia, cosa è stato fatto e cosa si dovrebbe ancora fare per evitare che i detenuti subiscano un ulteriore peggioramento delle condizioni detentive?

Nel mio volume ho dedicato anche una parte all’attualità. Mentre mi trovavo in lockdown e cercavo di ultimare il volume, tutto intorno a me si muoveva alla velocità della luce: fonda- mentale era diffondere il più possibile infor- mazioni corrette e veritiere sul tema delle c.d.

“scarcerazione dei boss” e su quello, che da difensori, si stava facendo non per “distrug- gere” nessun sistema, né tanto meno per ali- mentare la pericolosità sociale all’esterno, ma per garantire – nel pieno rispetto della legge e della nostra funzione – la tutela del diritto alla salute. Questa sicuramente la parte più negativa di tutto questo periodo: in piena emergenza Covid-19, si è scelto di strumen- talizzare dei provvedimenti (pochissimi) della magistratura di sorveglianza per inasprire l’ordinamento penitenziario, rendendo di fatto più difficile l’iter di valutazione di istanze, che, di per sé, dovrebbero invece essere conce- pite come valvole di sfogo dell’ordinamento, proprio perché concesse solamente in via ec- cezionale, per motivi di salute, appunto.

La parte positiva di questa emergenza è invece tutta quella parte che riguarda il potenziamento della tecnologia in carcere:

sembrava una possibilità sconosciuta per l’Amministrazione penitenziaria e assoluta- mente impraticabile (concedere la telefonata sul cellulare di un familiare era un tabù, fino a qualche mese fa, specie per un detenuto in Alta sicurezza). I colloqui a distanza hanno funzionato e hanno dimostrato all’Ammini- strazione penitenziaria come si possa

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garantire un servizio di qualità, in sicurezza, con strumenti tecnologici.

Tali nuove possibilità hanno fatto sì che il si- stema si sia retto, in tranquillità (quella uma- namente possibile), garantendo il diritto all’af- fettività, al contatto genitore-figlio; oltre che al diritto all’istruzione, anche se non senza diffi- coltà, per le scuole e il diritto alla difesa, con la possibilità anche per il difensore di svol- gere colloqui Skype con il proprio assistito.

Se dal punto di vista dei contatti con soggetti qualificati, il sistema ha retto, non si può dire lo stesso con la mancata ripresa dell’accesso in carcere del volontariato e del terzo settore.

Per non parlare della mancata e frequente concessione di permessi premio, per causa Covid-19: tali prassi oltre che ad essere ille- gittime, si rivelano quanto mai frustranti sulla tenuta psicologica dei detenuti (oltre che dei familiari e degli agenti della polizia peniten- ziaria).

Il processo dei vaccini inoltre stenta ad ingra- nare, nonostante l’impegno della neo Ministra;

stessa cosa vale per gli agenti della polizia penitenziaria. Il percorso di ripresa è faticoso e in alcuni casi sembra che questa brusca in- terruzione abbia interrotto anche percorsi di rieducazione; risultati acquisiti con il tempo, fiducia e anni di lavoro: speriamo non sia così e speriamo di tornare presto ad entrare tutti nelle carceri, come volontari, difensori, fami- liari, e come parte integrante di una comunità, che non può escludere il carcere.

7) Per concludere, qual è il ruolo dell’avvo- cato nella fase dell’esecuzione penale?

Più volte ed in altri contesti, ho accennato del ruolo “sociale” del difensore in sede esecutiva.

Mi spiego meglio. La funzione del difensore

deve ovviamente concentrarsi sul caso e sulla costruzione di una soluzione legale per il detenuto che abbia a che fare sia con la cor- retta vivibilità del mondo carcere sia con l’ac- cesso al mondo esterno. Nel fare ciò, è evi- dente che il difensore non interagisce solo con il proprio assistito, ma ha a che fare con una moltitudine di persone, che tutte insieme, compongono il mondo dell’ese- cuzione penale. Non vi sono parti avverse, ma tutte – dovrebbero – correre insieme per l’obiettivo comune: la risocializzazione con la riduzione del rischio di una recidiva, per la si- curezza della comunità.

Il difensore partecipa quindi ad una fase fon- damentale di ricostruzione del patto di fiducia del proprio assistito con la società esterna e che passa necessariamente per le mani di tante persone, dagli operatori intramurari, agli assistenti sociali, fino all’avallo del magistrato di sorveglianza (previo parere della procura).

Non è un percorso che può correre in solitaria, né che può muoversi da presupposti diversi o contro corrente rispetto all’obiettivo comune.

Parte importante della nostra professione è quindi quella di diffondere il più possibile l’obiettivo comune della risocializzazione in sicurezza e di far sì che tale attività di diffu- sione raggiunga il maggior numero possibile di persone, dalle persone recluse, prime pro- tagoniste di questo percorso, agli operatori del diritto, alla magistratura, all’avvocatura stessa, fino alle persone estranee al mondo della giustizia, ma che in qualche modo par- tecipano al carcere, perché – anche non vo- lendo o sapendolo coscientemente – fanno parte della stessa comunità. Noi tutti fac- ciamo parte della stessa comunità.

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