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L’ISLAM CON IL TURBANTE IN TESTA

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CAPITOLO V

L’ISLAM CON IL TURBANTE IN TESTA

Parlare di ortodossia nella religione islamica è piuttosto azzardato, in quanto rischia di generare una confusione che non aiuta la conoscenza. Ciò è tanto più vero se il termine di riferimento è l’Islam cinese o centrasiatico, che è una coniugazione diversa di quello mediorientale, a noi più familiare, i cui attributi sono ancora oggi poco chiari e a tratti quasi inaccessibili. Ho già evidenziato il concetto di “ortoprassi”

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con riguardo alla fede islamica, ma ritengo conveniente rimarcarlo affinché si abbia un approccio di sana comprensione al fenomeno. Le pagine che seguono guarderanno pertanto con attenzione a un Islam ancora abbastanza inesplorato, allo scopo di sviscerarlo, ove possibile, e incoraggiare una padronanza quanto più approfondita e completa della questione uigura e del caso dello Xinjiang, dove alberga una comunità numericamente rilevante di musulmani “atipici” rispetto allo schema religioso consueto. Ma quanti sono i musulmani cinesi? Dagli ultimi censimenti (ci si riferisce a quelli del 1982 e del 2000) non è possibile dirlo con esattezza a causa della condotta non sempre trasparente con la quale lo Stato da una parte dà l’impressione di tollerare la libertà religiosa e dall’altra si limita a non disturbare l’attività di un numero definito di istituzioni della fede che hanno ottenuto il benestare dell’ufficio nazionale preposto al vaglio delle attività religiose, ossia l’Ufficio di Stato per gli Affari Religiosi. L’ambiguo umore di Pechino ha certamente creato un problema di attendibilità statistica in merito alle stime numeriche, altalenanti tra l,5% e il 7,5% della popolazione, dato che tradotto in numeri interi si approssima tra i 20 e i 26 milioni di individui, con una concentrazione maggiore nelle province del nordovest (Qinghai, Ningxia, Gansu e Xinjiang), sebbene una numerosa presenza islamica sia registrata anche nella provincia meridionale dello Yunnan e in quella centrale dello Henan

2

. In aggiunta essi rappresentano dieci delle cinquantasei minoranze riconosciute dallo stato

3

. La forza delle minoranze resta tuttavia soltanto geografica e semmai numerica. Non esiste un Islam che possa dirsi veramente politico e che faccia perno su un’autorità in grado di mettere in armonia le sue così variegate espressioni cinesi, il cui peggior

1 Dal greco orthos (giusto, retto) e praxis (azione), in contrapposizione a ortodossia (orthos)+ doxa (opinione);

quest’ultima usata per descrivere l’essenza del Cristianesimo. L’ortoprassi islamica si concretizza nel tipo di azioni che il fedele deve compiere (ossia gli atti mandub, consigliato, e wajib/fard, obbligatorio) o non compiere (haram, proibito, e makruh, sconsigliato). Tra le due categorie ce n’è una quinta che comprende gli atti “indifferenti”, mubah.

2 V. il documento La presenza islamica in Cina della Camera dei Deputati, URL://leg16.camera.it/temiap/temi16/PI0001App.pdf.

3 Kazaki, tajiki, uzbeki, tatari, khalkhai, uyghuri, bao’an, hui, dongxiang, sala. V. S. MI, J. You, Islam in Cina, China Intercontinental Press, 2004, Preface; D. C. Gladney, Dislocating China…,cit., p.7.

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difetto, perciò, resta l’attuale irrimediabile eterogeneità. Nonostante la Fratellanza islamica abbia una sua declinazione nello Xinjiang, della Jao Pai (“fratellanza” in lingua cinese) poco si conosce poiché Pechino, temendola come si teme una società segreta, continua a negarne l’esistenza. La struttura di tale movimento lo lega agli ordini sufiti e principalmente alla minoranza hui. L’unica certezza, dice Gladney, è il suo potenziale dormiente, dato che potrebbe costituire la chiave di volta della questione islamica cinese

4

.

V.I L’islamizzazione della Cina

Il primo ingresso dell’Islam nell’Impero Celeste si ebbe tra il VII e il X secolo nelle regioni sudorientali del Paese e fu un effetto di quei movimenti migratori e commerciali che ebbero la Via della Seta come canale di spostamento. Verosimilmente deve essere avvenuto ai tempi della dinastia Tang, intorno al 651; tesi avvalorata dalla leggenda del sogno dell’imperatore Taizong

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. Non fu l’unica comparsa. Tra il XIII e il XIV secolo l’Impero mongolo degli Yuan fu travolto da una seconda ondata migratoria proveniente per lo più dall’Asia centrale, la cui destinazione fu l’area di confine, a nord della Cina. Questi due secoli rappresentano un lasso di tempo chiave per lo studio e l’evoluzione dell’Islam cinese delle origini. Infatti, a questa data, e grazie ai matrimoni misti, la conversione divenne una prassi usuale ed ebbe gioco facile nel portare alla creazione delle prime comunità musulmane

6

. Dagli Yuan ai Ming, l’Impero cinese poté contare su burocrazie formate da personale di origine persiana, uiguro-turca o araba; dunque si può dire a ragione che dal 1271 al 1644 l’Islam in Cina abbia vissuto una stagione d’oro. Quanto agli aggregati sociali che in quegli anni fiorirono, la loro strutturazione concentrica attorno a un centro, simboleggiato dalla moschea, è ancora ai giorni nostri la tipica struttura dei villaggi musulmani cinesi

7

. Sebbene la voce mahalla sia più calzante in merito all’organizzazione sociale centrasiatica vera e propria (specificamente meglio si addice ai casi di Uzbekistan, Tajikistan e Kirghizistan), tuttavia non è del tutto inadeguata qualora

4 D. C. Gladney, Muslim Chinese…, cit., p. 52.

5 Il mito popolare racconta che a introdurre l’Islam alla corte degli imperatori Tang sia stato il cugino di Maometto, Wahb Abu Khabca, il quale fu chiamato a palazzo dall’imperatore Taizong, dopo aver sognato di essere salvato dal crollo del suo palazzo imperiale da un angelo in abito verde e turbante bianco in testa. V. P. Affatato, E. Giordana, A Oriente del Profeta. L’Islam in Asia oltre i confini del mondo arabo. Milano, O Barra O edizioni, 2005, pp. 96-97.

Yuan, leggendo oltre i contorni del racconto popolare, ritiene che sia stato il terzo califfo Othman a inviare alcuni emissari con il compito di far conoscere la religione islamica ai dinasti cinesi e pare che tra questi ci fosse lo zio di Maometto, Saad ibn Abi Waqqas. V. D. C. Gladney, Dislocating China. Reflections on Muslims, Minorities, and Other Subaltern Subjects,Chicago, University of Chicago Press, 2004, pp.1-2. Per il documento della Camera dei Deputati cfr.

supra.

6 Fu un fatto molto spontaneo, in quanto non incontrò ostacoli da parte delle autorità, non avendo i mercanti intenzioni esplicitamente islamizzanti.

7 D. C. Gladney, Accomodation or Separatism?, in “The China Quarterly”, n. 174, 2003, pp. 451-467, p. 454, URL:

http://www.jstor.org/stable/20059003.

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si studi il caso islamico dello Xinjiang. Anche la mahalla asiatica ha nella moschea il suo significato socio-culturale e fin qui non sembrerebbe discostarsi molto dalla nozione di “clan”. De facto però il valore aggiunto di questo tipo di aggregazione sociale sta nel legame solidale che si crea per l’individuo che ne è membro, il quale può fare affidamento su una densa maglia di mutuo soccorso a livello territoriale e “di quartiere” più generale

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. La polimorfa identità nazionale di quei mercanti arabi, persiani o mongoli, cui viene solitamente attribuita la propagazione dell’Islam, ha avuto una incidenza indiscutibilmente tangibile sulle varie manifestazioni linguistiche con le quali tale religione veniva designata. L’abitudine di chiamarla Islam è alquanto recente, essendone stato imposto l’uso solo in epoca maoista. Nelle fonti Tang figurava infatti come Dashi Jiao (religione dei Dashi, ossia degli arabi, come questi venivano chiamati a quel tempo)

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, in quelle Ming come Tianfang Jiao, religione degli arabi, o Hui Hui Jiao (religione degli hui, nome usato per definire

“quelli di fede musulmana” senza distinzione di provenienza etnica o linguistica); vezzo ancora in vigore in epoca repubblicana e ai giorni nostri a Hong Kong e Taiwan

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. All’inizio del periodo Qing la si trovava descritta, invece, come Qingzhen Jiao, “religione vera” e perché venisse diffuso il nome “Islam” bisognò attendere pertanto più di un secolo. Comunque la si definisca, la completa islamizzazione si ebbe solo nel XVII secolo e seguì un percorso singolare, squisitamente centrasiatico, quale fu quello del sufismo, seguendo sia la rotta terrestre che collegava la Cina all’Asia centrale, sia quella del mare, dal Golfo Persico ai porti cinesi, attraverso il Mar Cinese meridionale. Volendo definire l’identità religiosa degli islamici cinesi sulla base dell’appartenenza a una delle scuole giuridiche nelle quali l’Islam si riconosce, allora li si deve definire sunniti

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di rito

8 P. Affatato, E. Giordana, op.cit.,p.78.

9 Dashi è una traslitterazione, probabilmente fonetica, cinese del termine “Tazi” che i persiani usavano per indicare gli arabi. R. Israeli, Islam in China: Religion, Ethnicity, Culture, and Politics, Lanham MD, Lexington Books, 2011, pp.

184-185.

10 D. C. Gladney, Muslim Chinese…, cit., 1991 (ed.), pp. 18-19.

11 Il Sunnismo è una delle due ramificazioni più importanti in cui si divide l’Islam insieme allo Sciismo. Tutta una serie di questioni distinguono i sunniti dagli sciiti; sommariamente sono la Sunna, o meglio quando si parla di sciiti le Sunne, poiché questi fedeli modellano il proprio comportamento prendendo a esempio non soltanto il profeta Maometto ma anche il genero di lui, Ali, la cui discendenza non è invece riconosciuta dalla maggioranza sunnita. La legittimazione dell’imamato sciita viene proprio da Ali, pertanto uno dei criteri più validi per afferrarne le differenze è certamente quello politico. Legittimi sono anche l’identità giuridica, che per gli sciiti è costruita sulla base della scuola ja’farita, mentre i sunniti s’inquadrano in quattro scuole diverse; inoltre, alcuni aspetti strettamente teologici concernenti l’escatologia (per gli sciiti Gesù non è il Mahdi o messia, che ucciderà direttamente il dajjal, l’anticristo, ma colui che aiuterà il Mahdi a farlo nella terza fase della comparsa sul minareto della moschea di Damasco) o giurisprudenziali ( per i sunniti l’ijma, ossia il consenso della comunità, è espresso dai fedeli attraverso gli ulema, mentre per gli sciiti ciò avviene attraverso gli imam). La divisione che li riguarda prende il nome di fitna ed è uno dei due momenti cruciali nella storia islamica assieme all’Egira di Maometto dalla Mecca a Medina nel 622. V M. Campanini, I Sunniti. La tradizione religiosa maggioritaria dell’Islam, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 8-10, 18, 29, 60.

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hanafita

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, tranne alcuni ridotti gruppi di uiguri che seguono lo shafismo. Resta da capire quanto e se sunnismo e sufismo si sposino o siano idee concettualmente incompatibili. La liceità della mistica islamica, espressione che d’ora in avanti sarà usata come sinonimo di sufismo, è alquanto controversa, dal momento che da un lato riposerebbe sul Corano (sura 57:27), che non inibisce affatto il monachesimo in sé, ma solo la sua contaminazione; dall’altro risulterebbe però sconfessata da un hadith in cui il Profeta esplicitamente dichiarò che nell’Islam non c’è posto per il

“conventualismo”

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. Dal punto di vista dottrinale, le discordanze emergono almeno su due livelli. Il primo è la struttura poco legalistica del sufismo rispetto al sunnismo, o d’ora in poi “Islam ortodosso”. L’esperienza di fede individualistica del sufismo, incentrata sul senso del congiungimento e addirittura dell’identificazione estatica con Dio, non si abbina alla tensione tutta esteriore, fondata sul rispetto rigoroso della shari’a, che al contrario denota l’essere fedeli sunniti.

La teofania di Dio, che si rivela attraverso l’estasi, dimorando nel corpo del mistico o in quello dei santi, è in special modo imputata in quanto politeistica. Circa le origini, non ci sono coordinate storiche precise, sebbene una delle date più accreditate risulti il 750. Sull’etimologia si affastella poi un carosello di argomenti e teorie che o riconducono il termine al nome del mistico di Basra (o Bassora), l’iracheno Jahiz (la cui morte, però, avvenuta intorno all’869 non s’intona con la data storica) o lo fanno derivare dall’arabo tasawwuf, contenente la radice suf, lana, molto verosimilmente il materiale delle vesti indossate dai primi seguaci)

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. Per di più non meno eterogeneo è l’aspetto organizzativo. Il sufismo è articolato in una catena di confraternite dette ṭuruq (ṭarīqa al singolare, vuol dire “via”) e di istituzioni dette menhuan

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nel caso cinese.

Tornando all’islamizzazione e alle modalità secondo cui è avvenuta, il fenomeno mostra delle

12 Le scuole in questione, dette madhahib, sono state (nell’ordine in cui si estesero) Hanafismo, Malikismo, Shafismo e Hanbalismo. La loro competenza riguarda le questioni del fiqh ( il diritto giurisprudenziale coranico elaborato alla luce di un hadith, ovvero i detti o i fatti sulla figura del Profeta, nel quale si narra di un dialogo tra Maometto e Mu’adh (governatore dello Yemen) sulle regole da seguire per realizzare un buon governo, ossia il Corano, la Sunna e la valutazione personale (se non soccorrono le due fonti elencate in precedenza). A proposito dell’Hanafismo, l’approccio cardinale al diritto islamico è più un affare individuale, l’istihsan ( come suggerito da Campanini, traducibile come

“senso di giustizia”). Per quanto concerne brevemente le altre scuole, il Malikismo elegge il metodo collettivo a suo strumento di interpretazione, la maslaha, il consenso e l’interesse comunitario; lo Shafismo predilige una posizione mediana tra le due scuole, delle quali pure rifiuta i criteri interpretativi. Per al-Shafi’i (il fondatore di questa scuola) le fonti principali sono il Corano e la Sunna e quest’ultima prevale in caso di disposizioni contrastanti. Se né l’una né l’altra sono sufficienti per arrivare a un giudizio, allora si deve far ricorso al procedimento analogico detto qiyas. La più rigida delle quattro è certamente l’Hanbalismo che riduce lo spazio della ragione e si affida a una interpretazione esclusivamente letterale del Corano e della Sunna. Come fa notare Campanini, è quella che più di tutte ha un atteggiamento di chiusura e rifiuto del sufismo mistico. V. M. Campanini, ivi, pp. 30-37. V. anche C. Martin (a cura di), Encyclopedia of Islam and the Muslim World, New York, Mac Millan Reference USA, 2004, pp. 8-9 (Abu Hanifa), pp.

417-18 (Madhab).

13 A. M. Di Nola, L’Islam. Storia e segreti di una civiltà, Roma, Newton e Compton Editori, 1998, pp.198ss.

14 Ibidem.

15 Cfr. J. S. Trimingham, The Sufi Orders in Islam, Oxford: Clarendon Press, 1971.

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concordanze con la diffusione dell’Islām in Asia centrale. Del resto quello che oggi viene comunemente chiamato Xinjiang è un prodotto politico ibrido che la storia ricorda anche come Turkestan orientale e dunque parte della macroregione centrasiatica. L’Islām cinese è pacifico, nel senso che non è stato propugnato con la violenza delle conversioni forzate dei conquistatori arabi ma è invece il frutto di una corrente di pensiero che conosciamo come murji‘a. L’essenza dogmatica di questa scuola religiosa si è raccolta nel concetto di fede (imān) che si professa attraverso la parola (ikrār; tasdīq bi’l-qawl), senza alcun bisogno di unirvi la pratica (‘amal), in questo caso il jihād nell’accezione di “guerra per l’espansione dell’Islām”. Una componente non meno rilevante della religione islamica dello Xinjiang è stata inoltre l’influenza della madhhab hanafita

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. Il principio (asl) del ragionamento analogico sul quale essa si basa per l’interpretazione di fattispecie giuridiche non contemplate nelle fonti della legge o sulle quali non ci sia il consenso dei giuristi (l’ijmā‘) ha indubbiamente conferito all’Islam cinese e centrasiatico il tipico carattere di tolleranza che lo rappresenta. Del resto qui un processo osmotico ha creato una religione eclettica, che ha accolto riti e usanze preislamiche (‘urf wa ‘ādat) che si ritrovano direttamente in molti cerimoniali sufici. Un ultimo elemento da prendere in considerazione è il rapporto con i governi non musulmani che spesso ha assunto i toni della resistenza passiva. Senza citare l’esempio delle attuali repubbliche sorte dopo il crollo dell’URSS, il caso dello Xinjiang e la rivolta contro Pechino ne è una prova storica inconfutabile. Tuttavia ciò non nega lo spirito di apertura che contraddistingue l’espressione islamica in Oriente. La scuola hanafita ha lasciato in eredità lo sforzo di conciliare la sharia con il diritto degli stati “invasori”; e radicata è la convinzione che se lo scontro con l’invasore non musulmano (ghayr dīn) può svantaggiare i fedeli allora va evitato

17

. Questo potrebbe spiegare in parte perché oggi il movimento nazionalistico uiguro resti intrappolato nella sua spirale di debolezza.

V.II Chassis sufita, tra turuq e menhuan

L’origine più attendibile della parola menhuan è il termine cinese menfa con il quale si suole indicare una “famiglia influente” o una stirpe che discende dallo stesso “santo sufita”

18

. Nel

16 Il discorso sulle scuole giuridiche islamiche verrà affrontato più avanti.

17 Sfide e opportunita’ nel Caucaso e in Asia centrale, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, 2007.

www.ispionline.it/it/documents/asiacentrale.pdf.

18 E. A. Adam, Quando l’Islam ha gli occhi a mandorla, in “Limes”, n. 1, 1995, pp. 141-145. Nel 1995, anno di riferimento della rivista, le menhuan cinesi erano quaranta.

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nordovest della Cina lo si trova largamente utilizzato per designare una setta

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, benché al di là della fazione traspaia una vera e propria struttura organizzativa non solo religiosa ma anche socio- economica

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. La genesi di questa caratteristica forma sociale data tra il XVIII e il XX, malgrado non fosse del tutto nuova al panorama nordoccidentale cinese. Invero la si ritrova con un profilo diverso già tra il VII e il X secolo, allorché comparve come gedimu, dall’arabo qadim (vecchio), a individuare le prime forme di società islamiche cinesi. Ad ogni modo, sebbene si possa parlare di una sorta di mutazione genetica delle comunità musulmane, Gladney ne sottolinea la differenza più apprezzabile nella simbologia collettiva che esse hanno assunto nel corso dei secoli, specialmente nell’identificare una ummah più grande e dunque una comunità più vasta, certamente meno tribale e perciò più solidale e unita, se paragonata a quelle originarie

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. Anche Papas presenta una valida descrizione dell’Islam prima e dopo il XVII secolo. Fino ai Ming, secondo lo storico, il carattere dominante della comunità musulmana fu l’isolamento rispetto a quella cinese non musulmana e questo aspetto di chiusura emergeva in primo luogo dal fatto che fosse un consiglio di saggi a scegliere ahong ed imam, in una parola coloro cui veniva affidato il timone dell’intera collettività.

E’ proprio questo sistema ciò che Papas definisce gedimu e che, in base ai suoi studi, sopravvisse fino all’arrivo dei maestri sufiti nel XVII secolo. Seguendo lo studio condotto da Lipman, Papas prosegue evidenziando il grande cambiamento che occorse a quella data, in particolare sotto il profilo sociologico. Per gli annalisti, infatti, fu abbandonato il localismo antico rappresentato dalla centralità della moschea in favore di un sistema di diffusione provinciale che, facendo perno sulla predicazione villaggio per villaggio, sui mausolei dei santi sufiti e sulla creazione di confraternite, attivava una rete di socialità prima sconosciuta

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. Una dimensione che va certamente esplorata è anche quella politica, la quale prese forma attraverso l’ishanat, un sistema politico modellato su quella rete di socialità creata dalle confraternite e che non può essere pertanto ricondotta alla categoria classica dello stato in nessuno degli elementi che lo caratterizzano, dal territorio, alla sua identità politico-religiosa, alla doppia funzione temporale e spirituale che questa istituzione assume, dove il dargah (convento-palazzo) diventa il nuovo centro dell’amministrazione sia politica che

19 M. Dillon, China's Muslim Hui community: migration, settlement and sects, London, Routledge Curzon, 1999, pp.

113–114

20 Ben strutturata anche dal punto di vista amministrativo, il centro della menhuan è la Jiao Fang, i cui simboli sono la moschea, presente in ogni villaggio, e l’akhund o imam che ne amministra le questioni religiose. Figure di spicco delle comunità musulmane cinesi sono poi il murshid, che assurge al ruolo di guida politica e religiosa, e il ra’is, suo fiduciario per gli affari prettamente legati alla religione.

21 D. C. Gladney, Muslim Tombs and Ethnic Folklore: Charters for Hui Identity, “The Journal of Asian Studies”, Vol.

46, n. 3, 1987, pp. 495-532, URL:http://www.jstor.org/stable/2056897.

22 A. Papas, Soufisme et politique entre Chine,Tibet et Turkestan, Librairie d'Amérique et d'Orient, Jean Maisonneuve, 2005, pp.25-181. J. N. Lipman, Familiar Strangers: A History of Muslims in Northwest China (Studies on Ethnic Groups in China), University of Washington Press, 1998, pp. 47-51/62-63.

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religiosa. Cos’è che crea identità? Su cosa si costruisce il “sentimento nazionale” che separa i membri dai non membri della menhuan? La peculiarità di un tale tipo di collettività risiede nella qubba (gongbei in cinese), vale a dire le tombe dei santi sufiti assurte a mausolei devozionali

d’importanza sociologica incontrovertibile, rappresentando il centro della vita comunitaria dei musulmani cinesi. Nella versione religiosa le gongbei sono lo strumento che collega il fedele a Dio, attraverso una catena di santità

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che risale fino ai fondatori delle confraternite sufite. Chiaramente questo è l’aspetto che più disturba Pechino e che fa dell’Islam una religione potenzialmente pericolosa per l’ordine costituito. Il lignaggio sufita si riallaccia infatti non solo ai padri cinesi, ma anche a quelli mediorientali, collegando fuori della Cina l’origine e l’essenza di ciascun ordine. Ciò può porre seri problemi di identificazione con la minzu han e questo spiega in parte l’acrimonia della politica religiosa centrale e la macchina persecutoria che a tratti ha investito e investe le minoranze

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. Nella versione socio-politico-culturale, però, le tombe sufite rimandano all’idea dell’appartenenza a un gruppo, genericamente detto, ma che marca le differenze tra il “dentro” e il

“fuori” a più livelli. Perciò come associazione religiosa consente ai musulmani di sentirsi correligionari di altri fratelli che vivono nella Zhongguo

25

, mentre come entourage etnico permette loro di sentirsi un’entità distinta dalla maggioranza ma comunque cittadina della Repubblica Popolare Cinese

26

. Spostandoci sul piano “nazionale”/”internazionale”, le gongbei delimitano la linea di confine tra l’essere parte del sistema cinese e il non esserlo, in quanto appartenenti alla più ampia comunità mondiale della ummah islamica; tra la condizione di affiliazione a un ordine preciso e quella di estraneità rispetto agli altri gruppi religiosi stessi. Quest’ultima demarcazione è delineata dalle cosiddette tu gongbei (tombe locali)

27

, che pertanto definiscono i limiti “nazionali”

dei diversi clan sociali, ciascuno dei quali trova la propria ragione d’essere nella devozione che si

23 In arabo silsilah, è ciò che conferisce santità alla discendenza sufita, che va a ritroso fino al profeta Maometto. Oltre alla discendenza, gli altri criteri per la determinazione della successione islamica sono la virtù e l’appartenenza a un preciso gruppo tribale(banu). C. Martin, op cit., pp. 631-2. Si tenga presente, inoltre, l’importanza che riveste il concetto di appartenenza. Questo si lega a quello di nasab (filiazione) e vi si fa continuo riferimento nell’onomastica islamica, dove la caratterizzazione dei cognomi passa per il termine ibn/bint( figlio/a di), abu/umm (padre, che si trova legato ai nomi dei figli maschi; madre, in quelli delle figlie femmine). Cfr. anche J. N. Lipman, Ethnicity and Politics in Republican China: The Ma Family Warlords of Gansu, in “Modern China”, n. 3, 1984, pp. 285-316.

24 Molte furono smantellate negli anni della Rivoluzione culturale e ricostruite in era post-maoista.

25Cina.

26Gladney fa notare il significato simbolico che queste costruzioni veicolano. L’idea, spiega, riportando le parole di una donna del Ningxia, è il principio dello zou houmanr (back door) molto diffuso nella cultura cinese, dove sta a indicare la “capacità di ottenere favori”. Perciò l’idea è che “se i fedeli ricordano il santo (murshid, pir o wali che significano maestro, saggio) venerando la tomba in cui questi è sepolto, allora anche il santo non si dimenticherà di loro e intercederà presso Allah, distribuendo la benedizione (baraka) su chiunque lo abbia pregato. In cinese alla guida sufita ci si rivolge come lao ren jia che è la formula di cortesia che si usa nei confronti degli anziani ma usuale è trovare anche la voce jiaozhang ( in senso lato, insegnante). V. D. C. Gladney, op. cit.

27 In opposizione alle da gongbei (grandi tombe), ossia i mausolei venerati dagli appartenenti a una determinata menhuan a livello più generale di ordine.

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deve agli ahong o hajji

28

del villaggio. Ciò che si verifica è una situazione di triplo stato: la Cina, dentro la Cina la ummah islamica cinese e in questa la comunità musulmana clanica locale. Questa geometria concentrica non previene affatto dal rischio di tensioni ma, soprattutto con riguardo agli ultimi due suoi raggi, consente di stemperarle su un piano identitario trasversale che è quello della ummah internazionale, il cui coinvolgimento avviene attraverso la genealogia “santa” sufita

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. Vediamo ora da vicino quali sono le principali turuq che hanno iniziato ad apparire nel paesaggio islamico cinese in epoca Qing a partire dal XVII secolo, operando soprattutto nella periferia nordoccidentale del Paese.

La Jahariyya nacque nel 1760 per volere di Ma Ming, discepolo della confraternita Naqshbandiyya che egli ebbe modo di frequentare durante i suoi studi nella Penisola Arabica. Oggi opera in Cina attraverso due branche, entrambe in qualche modo ricollegate al nome di Ma Hualong

30

, che guidò le rivolte hui tra il 1862 e il 1876, succedendo a Ming nella guida della tariqa. Di queste una è legata al nome di Ma Jin xi, nipote di Hualong; l’altra, la Shagou, si dice discendere da Ma Yuanzhang, epigono di due maestri sufiti a loro volta allievi di Hualong e tra le due è quella che conta più adepti. Sono molto influenti nel nordovest della Cina, per esempio nelle province del Gansu, Ninxia e Banqiao. La nota distintiva della Jahariyya è il modo di recitare il dhikr

31

, cantandolo a voce alta, da cui il nome a tutto l’ordine che contiene la radice araba jahr (forte).

La confraternita che le si oppone nel modo di pronunciare il dhikr (a bassa voce) è la Khufiyyah (traduzione cinese di khafiyyah, silenzioso, nascosto) da cui origina il nome. Nata come costola della Naqshbandiyya, opera principalmente nello Xinjiang, dove è presente dal 1500 attraverso i rami Baishan e Heishan, e nel Gansu

32

, Ningxia e Qinghai, dove invece fu introdotta un secolo dopo.

La Qadiriyyah fu fondata nel XII secolo dal ventinovesimo discendente di Maometto, l’iracheno Abd al-Qadir al-Jilani

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ma la fama dell’ordine in Cina fu dovuta ai suoi seguaci, specialmente a Qi Jingyi, detto il Gran Maestro, la cui tomba è il simbolo di fede dell’ordine. Nel Paese di Mezzo è

28 Altri eponimi sono baba e taiye con i quali si designano le personalità più eminenti della comunità, distintesi per conoscenza (ah lin) o per spessore etico e spirituale (yimani) e pertanto elevate alla santità.

29 Oggi i costumi sono molto più rilassati, soprattutto nei contesti urbani. Per esempio, l’halal alimentare non è più avvertito come tabù dagli hui che vivono nel sud della Cina.

30 Si suggerisce la lettura di J. N. Lipman, "Familiar Stranger...,cit.

31 In italiano si potrebbe rendere lato sensu con “preghiera”. Esso consiste nel rituale sufita di ripetere il nome di Dio fino a entrare in estasi.

32 Nella provincia è nota come Huasi che significa “setta della Moschea fiorita”.

33 Le sue opere più conosciute sono la Ghunya al-tâlibîn , “Ciò di cui hanno bisogno coloro che cercano Dio” e i Futûh alghayb, “Le rivelazioni dell’Invisibile”. Tra gli epiteti che gli furono attribuiti si ricordano al-Ghawth al-a‘zam “Il Soccorso supremo” e Pîr-i dastgir “Il Maestro che tende la mano”. Vedi http://www.filosofiaorientalecomparativa.it/foc15/wp-content/uploads/2015/06/Urizzi-et-AAVV_Sufismo-ed.-ESD.pdf.

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conosciuta come Jiucaiping ed è diffusa specialmente nel sud del Ningxia, dove si caratterizza per la venerazione di un santo donna, la Vera Madre Fatima

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(hange laomu).

Infine come la Qadiriyyah, anche la Kubrawiyyah è molto antica e pare sia stata fondata dal persiano Najm al-Dîn Kubrâ

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il quale fu l’iniziatore di una forma di predicazione imperniata sulla percezione dei centri sottili del corpo (latâ’if). Secondo il maestro la migliore rappresentazione dello spirito era lo spettro dei colori, cui veniva associata ogni fase ascetica; dal nero, per descrivere lo stadio più basso, al verde, che indicava quello supremo

36

.

Il sufismo in Cina si è diffuso percorrendo il canale iraniano e centrasiatico. Tra tutte le confraternite sufite dell’Asia centrale che sorsero tra il XII e il XIII

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secolo, quella che ha avuto più impatto è stata la “via” Naqshbandi. Dal nome dello shaykh (guida) Bada al-Din Naqshband, la sua origine risale a un antico ordine centrasiatico noto come tariqa-yi khwaja ghan (via dei maestri), fondato dal khwaja Hamadani. La si può definire come l’ordine sufita sunnita per eccellenza, essendo tutti gli altri sorti in Asia centrale principalmente sciiti. Infatti nella salsila genealogica non riconduce le sue radici ad Ali ma piuttosto ad Abu Bakr

38

. Il connubio con il sunnismo è evidente specialmente nel rilievo che il Maktubat

39

pone sulla conformità delle azioni degli adepti al Corano e alla Sunna

40

. Tra le pratiche più importanti emerge la recitazione del dhikr khafi, che consiste nell’invocare il nome di Dio in maniera silenziosa e in solitudine. Molto osservante anche dell’obbligo del digiuno, la Naqshbandiyya è contraria all’interazione religiosa e a qualsiasi forma di fusione sincretica cultuale. Sebbene la si ritrovi sotto altre forme anche nel nordovest della Cina,

34 Ultima figlia di Maometto e Khadija.

35 Gli è attribuita l’opera Fawâ’ih al-jamâl , “Le fragranze della Bellezza divina”. Tra i discepoli ci fu il fondatore di un’altra influente confraternita sufita, la Rukniyya. Su questo predicatore, al-Simnânî, cfr. J. Elias, The Throne carrier of God–The life and Thought of Alâ ad-Dawla as-Semnanî., Albany: State University of N.Y. Press, 1995.

36 L’analisi dei vari ordini trae spunto da D. C. Gladney, op. cit, pp. 502-504; S. Mi, J. You, op. cit., pp.71-75.

37 Si trattò di un momento di evoluzione molto importante nella storia del sufismo, poiché si passò dall’ascetismo itinerante a forme strutturate di società (tekkè, khanqah o zawiya, per citare solo alcuni nomi) costruite attorno alla tomba di un maestro.

38 Abu Bakr e Ali sono, rispettivamente, il primo e l’ultimo dei cosiddetti “califfi ben guidati”. Nel sistema sufita a ciascuno viene riconosciuta una precipua virtù che ne contraddistinse il temperamento. In virtù di quanto appena detto, ad Abu Bakr si attribuisce la musahaba (la contemplazione silenziosa), al secondo califfo Umar la mujahada (l’ascesi.

Un ḥadīth narra che quando il Profeta gli chiese perché pregasse a voce alta, egli rispose: «Per svegliare i sonnolenti». Il terzo califfo Utman viene visto come un modello di hulla (la rassegnazione alla volontà di Dio che tutto sa. Viene spesso fatto un parallelismo con la figura di Ibrahim che, mosso dalla stessa fede, scelse il martirio). L’ultimo, nipote e genero di Maometto, viene venerato come l’emblema della haqiqa (la realtà e la Sapienza divine). Essendo stato in vita soprattutto il guerriero della diffusione dell’Islām in Arabia, a lui si suole rivolgersi anche con gli appellativi du ‘l-fiqar (spada) e duldul (cavallo). I suoi due figli, Hasan e Husayn, sono accolti come maestri anche dalle confraternite sufite sunnite. Inoltre essi sono il secondo e il terzo imām nella catena sciita dei legittimi successori di Ali. Dopo di loro la maggioranza sciita crede che succedano altri dodici imam, fino al Mahdi (il Messia). Per questo motivo tale gruppo di fedeli viene definito sciita duodecimano.

39 E’ il libro canonico dell’ordine attribuito al seguace indiano di Naqshband, Sirhindi

40 Il Maktubat cita testualmente: «La tariqa deve essere serva della shari’a».

(10)

tuttavia ha avuto un vasto seguito sia in Turchia, dove nel XV secolo fu fatta conoscere dal poeta Ilahi che era stato a visitare la tomba di Naqshband a Bukhara, sia in India, dove fu guidata dal maestro Sirhindi l’Innovatore, al-Mujaddid (dal quale deriva l’altro nome con il quale si suole appellare l’ordine, Mujaddidiyya)

41

. In Turkestan l’espressione più notoria della confraternita è stata la Naqshbandiyya Ishaqiyya, da cui è derivato il culto delle tombe dei santi (in arabo mazar) che abbiamo visto essere rimasto un cerimoniale basilare della pratica religiosa dei musulmani cinesi. L’adab della deambulazione attorno alla Ka’ba era riproposto nel tawaf, vale a dire il compimento di sette giri intorno alla tomba del santo, spesso visitata nella notte. Tale forma di devozione non andava disgiunta da un’esperienza più profonda di dolore e prostrazione detta sar dar khak tira kashida and. La venerazione è una vera forma di sottomissione attraverso la quale si

cerca di raggiungere lo stato mistico

42

. Altro rituale rimasto in eredità allo Xinjiang è la cerimonia che consiste nell’issare degli stendardi alla tomba dei santi sufiti, rito che si ritrova nella liturgia politica turco-mongola. La venerazione dei santi diventa contrassegno di una sottomissione attraverso cui il fedele sufi compie il proprio cammino spirituale (suluk) che lo avvicina a Dio e che si compie attraverso due strumenti, il dhikr-i chahar zarb e la jadhba dar sama

43

.

Per quanto riguarda le correnti di riforma che hanno attraversato l’Islam cinese è possibile individuarne tre, in un arco temporale che va fino al XX secolo. La tensione principale dal punto di vista dottrinale riguarda i movimenti laojiao, che significa “vecchia disciplina”, e xinjiao, cioè

“nuova disciplina”. La distinzione fu un artefatto semantico realizzato dagli imperatori Qing per distinguere gli hui ribelli (che partecipavano alle rivolte tese a destituire l’Impero alla fine dell’Ottocento) da quelli non attivi politicamente

44

. Solo in seguito si è dunque diffuso un significato di natura più “dogmatica” che allude alla contrapposizione tra l’Islam delle origini, come suggerisce l’altro nome con cui è conosciuto l’indirizzo laojiao, ovvero Gedimu (dall’arabo qadim che significa “vecchio”) e l’Islam riformato attraverso la diffusione del pensiero sufita, appunto la corrente nuova, laojiao. La Gedimu si caratterizza principalmente per tre aspetti. Per prima cosa non venera i santi e mantiene pertanto il tipico carattere scritturalista dell’Islam, ovvero l’osservanza del Corano e della Sunna come unica fonte di ispirazione comportamentale. La

41 Al solo scopo di completezza si fornisce un elenco riassuntivo delle turuq centrasiatiche più importanti con i rispettivi centri di diffusione. Esse sono: per l’india la Shattariyya (diffusa anche in Indonesia) e la Cishtiyya; per la Turchia, la Bektashiyya (conosciuta per la fusione con rituali preislamici e dei dervisci erranti Qalender, era la scuola di formazione del corpo dei giannizzeri ottomani. E’ molto presente anche in Albania) e la Mawlawiyya (i dervisci rotanti). V. Urizzi, supra, nota 190.

42 A. Papas, op.cit.

43 Il dhikr si recita tenendo gli occhi chiusi, la bocca ferma, la lingua ben salda sul palato, i denti stretti e il respiro più controllato. La jadhba è l’obiettivo finale del percorso spirituale del sufita (detto suluk), cioè l’estasi in Allah.

44 R. Israeli, Muslims in China, London and Atlantic Highlands: Curzon and Humanities Press, 1978.

(11)

seconda particolarità consiste nell’importanza attribuita all’educazione araba e persiana, il cui approccio conserva però un sapore evidentemente cinese noto come Jingtang Jiaoyu

45

. La terza è l’indole tollerante che la porta a cercare il dialogo con le altre religioni presenti in Cina. Circa la

“Nuova setta”, come è anche conosciuta la xinjiao, è con essa che entra in Cina il Wahabismo

46

. Il rigore diventa infatti la cifra distintiva della tendenza esportata in Cina da Ma Wanfu che si oppone al misticismo sufita e ai rituali che lo contornano tra i quali il culto dei murshid e l’azione di proselistismo (da’wa, cioè appello)

47

. Passando ora alla Xidaotang, è la più recente delle correnti riformatrici, introdotta in Cina nel XX secolo ad opera dell’apostolo Ma Qixi, originario del Gansu.

Una delle province nelle quali è più diffusa è lo Xinjiang, dove è usuale la commistione con elementi dell’ordine sufita della Jahriyya, oltre che con la cultura cinese propriamente detta.

Anch’essa costituisce un modo particolare di organizzazione sociale e del lavoro, praticato collettivamente

48

, dando vita a una vera e propria rete assistenziale per coloro che ne fanno parte. Il cardine della ritualità è rappresentato dal Mawlid al-nabiy

49

e dalla ricorrenza della morte del fondatore Ma, avvenuta nel 1914.

Alla fine del XIX secolo la Cina iniziava dunque ad aprirsi al mondo moderno e questa apertura passava prima di tutto per la religione e per le minoranze che la rappresentavano. Lo Xinjiang, in particolare, conobbe una sorta di Illuminismo che postulava lo svecchiamento dell’Islam in modo da renderlo più compatibile con la modernità. Anche in questo cambiamento fu forte l’influsso dell’Asia centrale, dove le scuole islamiche avevano fatto del “nuovo metodo” (usul-i jadid) il principio informatore dell’educazione. Nello XUAR tra il 1910 e il 1920 recitare testi in arabo e

45 Questo tipo di educazione si basa esclusivamente sull’applicazione fonetica dei caratteri cinesi all’arabo. Questo metodo ha creato una discordanza tra la capacità di pronunciare tale lingua e quella di saperla effettivamente capire.

Cfr. M. B. Gillette, op. cit., p. 104.

46 Prende il nome dall’iniziatore Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhab, predicatore della regione araba del Najd. Ciò che propugna è un Islam ortodosso che ripugna le forme devozionali mistico-sufite, ispirandosi unicamente all’esempio offerto dal Profeta nella Sunna. Nato nella metà del 1700, nel corso dei secoli è diventato un movimento politico a tutti gli effetti che ha trovato il sostegno della tribù beduina degli Al Sa’ud. Campione del Wahabismo è stato nel Novecento il re saudita al-‘Aziz Ibn Saud (1902-1953), cui si deve la costruzione dell’attuale regno saudita. In Cina la rete di fratellanza che i sauditi hanno creato ha ispirato il ruolo politico ricoperto dalla xinjiao (o appunto detta anche Ikhwan, che in arabo ha tale significato). Tra gli episodi che l’hanno vista protagonista si ricordano le rivolte antimancesi di fine Ottocento e il sostegno al Guomindang. Molti seguaci della Ikhwan sono hui ed è ad essi che gli uiguri, in particolare i militanti dei vari partiti indipendentisti, addebitano la debolezza della fratellanza musulmana e il compromesso con Pechino che essi vedono ancora come un colonizzatore.

47 E’ la dimensione missionaria della religione islamica. Figura tra i doveri dei fedeli, i quali hanno l’obbligo di invitare il prossimo ad abbracciare l’Islam. Inoltre, è la prima delle fasi di confronto tra la dar-al Islam ( i fedeli) e la Dar-al- Harb ( gli infedeli), come è scritto in un hadith riportato nei Ṣaḥiḥani ( gli “autentici” di Muslim e al-Bukhari, le uniche raccolte di hadith cui è riconosciuta validità). Cfr. R. C. Martin (a cura di), op. cit., pp. 170-4; M. Campanini, op. cit., p.

27.

48 V. S. Mi, J. You, op. cit.

49 Anniversario che ricorda la nascita di Maometto (intorno al 570) e che cade il dodicesimo giorno del mese di Rabi al- Awwal (nel calendario islamico è il terzo mese dell’anno).

(12)

persiano si accompagnò allo studio della matematica e delle scienze, ma soprattutto della lingua uigura. Oggi l’importanza del Jadidismo

50

, che per quanto attiene all’esperienza centrasiatica è stato riproposto dal presidente uzbeko Karimov, nello Xinjiang cinese viene riconosciuta in relazione alla costruzione dell’idea di nazione coltivata tra le due Guerre mondiali dai nazionalisti uiguri. Molti dei leader delle ETR del Turkestan orientale furono infatti legati in qualche modo alla dottrina del

“Nuovo Metodo” centrasiatico

51

.

V.III Teologia e rituali sufici. Cosa deve temere Pechino?

L’attenzione su un caso complesso come quello della provincia autonoma dello Xinjiang non può andare scissa da una riflessione sul tipo di fede praticata. La religione costituisce l’anima di questa, come di altre province autonome e periferiche della Cina, dove viene sempre più costantemente avvertita come l’antidoto per neutralizzare l’azione punitiva di Pechino. Senza stare dalla parte di nessuno degli attori coinvolti, qui si vuole stimolare una confidenza maggiore con un Islam diverso rispetto a quello che siamo abituati a vedere come aggressore. La Cina (soprattutto il Nord-Ovest del Paese), infatti, vive un Islam per lo più mistico, dove la fede si mescola alle credenze popolari.

L’esoterismo che lo contraddistingue disturba Pechino ma non meno infastidisce l’Islam canonico, che spesso non si ritrova nell’esperienza di fede sufica

52

. Senza addentrarci troppo nel cuore

“dottrinale” del sufismo, si cercherà però di fare un excursus esaustivo che possa insegnare a leggere quest’altra, nuova piega della più grande religione del mondo, la quale proprio a “Oriente del Profeta”

53

ha la sua più vasta comunità di fedeli

54

.

La mistica islamica è un crogiolo epistemologico di esperienze di fede preislamica, dalle filosofie indiane, agli anacoreti cristiani, al platonismo e al plotinianesimo, dal buddismo all’arianesimo

55

e secondo Di Nola più che di formulazione dottrinale sarebbe più giusto parlare di tecnica o,

50 L’iniziatore della riforma è stato il tataro Gasprinski, meglio noto come il filosofo del panturchismo, teoria che espone sul giornale Terdjuman, invocando l’unione dei popoli turchi che vivono in Russia sotto la guida dell’Impero ottomano e l’innovazione della cultura islamica attraverso il modello turco e russo. Oltre al nazionalismo uiguro, il suo pensiero ha avuto un ascendente non di poco conto sul nazionalismo tataro e azero, nei centri rivoluzionari di Kazan e Baku, dove sono stati attive le due anime della politica turca dopo il 1908, ossia Ali Huseyin Zade e Ahmad Agaev. Cfr.

Y. Ternon, Gli Armeni. 1915-1916: il genocidio dimenticato, Milano-Bergamo, BUR, 2007.

51 Cfr. A. Khalid, The Politics of Muslim Cultural Reform: Jadidism in Central Asia, Berkeley, CA: University of California Press, 1998.

52 Anche all’interno dell’Islam, che pure non è una religione ortodossa nel senso vero e proprio del termine, è vivo il conflitto tra la regola e l’eresia. A Baghdad nel IX sec. i sufi venivano marginalizzati dalla società in quanto zanadiqa, gli eretici.

53 L’espressione è presa in prestito dal libro di P. Affatato, E. Giordana, A Oriente del Profeta. L’Islam in Asia oltre i confini del mondo arabo, ObarraO ed., Milano 2005, cui si è già fatto riferimento nel corso dell’opera.

54 E’ curioso che il Paese con il maggior numero di musulmani non sia uno Stato mediorientale, ma uno dell’Asia orientale, l’Indonesia, dove quasi il totale della popolazione è di fede islamica sunnita.

55 La prima forma documentata di sufismo pare sia quello errante degli asceti “piagnoni” (bakka’un).

(13)

addirittura, di atteggiamento spirituale

56

. Circa il sufismo cinese esso non è un prodotto monolitico, poiché le menhuan non presentano tutte la stessa struttura amministrativa e i nomi delle confraternite dipendono dal santo fondatore o dal luogo nel quale fu costruita la prima moschea. Ha però numerosi caratteri comuni e uno dei più evidenti e diffusi è il lao ren jia, il culto dei santi murshid già ampiamente descritto. Diversi da ordine a ordine sono anche i gradi (maqamat)

dell’iniziazione (bai’a o shadd) sebbene ci siano dei valori comuni che ogni tariqa sufica ritiene irrinunciabili. Ogni viaggio interiore deve passare, infatti, per il pentimento (tawba), per la rassegnazione (sabr), per la distrazione dalla materialità (gaiba), come pure dall’annichilimento della coscienza (shath)

57

. Percorrendo questo cammino condotto dalla mano del baba

58

, il novizio (murid o ganduz) sarà portato alla scoperta di Allah, evolvendo la sua condizione da quella di servo (‘abid) a quella di amante (muhibb) o perfino di figura divina (lahut). Anche i riti differiscono tra le varie turuq, ma il centro di ogni cerimonia sufica è la recitazione del dhikr, il cui canto non viene intonato dal qawwal (recitatore) se prima non ci si è disposti in un certo modo

59

, non si è purificati

60

o non ci è si abbandonati a precise tecniche del respiro. Allah viene perciò invocato ripetendone più volte, fino a perdere coscienza, il nome proprio o gli appellativi al-Haqq (il Reale), Huwa (Egli è), al-Havy (il Vivo). Il viaggio mistico si conclude nella comunione con la divinità che può assumere la forma dell’ittsal (l’unione) o della hulul (Dio va a dimorare nell’anima del mistico) oppure ancora quella estrema dell’ittihad (il contemplante diventa egli stesso Dio).

Cosa si nasconde dietro questa esperienza apparentemente tutta interiore che fa così paura a Pechino? Per prima cosa l’osservanza della regola della segretezza e della piena fedeltà al patto (‘ahd) tra la tariqa e il murid. La sacralità dell’accordo è tale che, se spezzato, il murid si attirerà la maledizione di Allah

61

. Per il PCC non esiste alcuna differenza dunque tra le società segrete e le turuq islamiche. Queste pongono anche problemi di natura più pratica, a svantaggio del sistema

fiscale cinese. Nel nord ovest del Paese sono sorte delle vere e proprie holding del waqf, come le definisce Gladney, e ciò ha dato origine al fenomeno della nobiltà della terra, spesso sfuggito di mano alla politica pechinese. Infine, intollerabile è la tradizione di costruire le gongbei dei santi

56 A. M. Di Nola, op. cit., p.206.

57 Altre due sure coraniche dimostrerebbero la piena legittimità dell’ascesi nell’Islam. La 2:245 nella quale sono citati lo stato (hal) del bast (l’espansione con cui si reagisce alla speranza ) e quello del qabd (la contrazione con cui si reagisce alla paura), e la 33:41 che recita : «O voi che credete! Invocate Dio, invocatelo molto».

58 Baba è l’appellativo usato nei Paesi di origine turca. Altri nomi sono pir, shayh o murshid.

59 Per esempio i dervisci, i sufi più conosciuti, si mettono in file o in circolo.

60 E’ un rito molto importante che in genere viene celebrato con la vestizione di abiti puliti.

61 L’appartenenza a un ordine piuttosto che a un altro è dunque anch’essa in un certo senso sacra, al punto che il passaggio ad altra tariqa deve essere autorizzato dallo shayh. Inoltre essa viene testimoniata dalla foggia di un determinato tipo di vesti, per il valore attribuito alla baraka (la benedizione attraverso la salsila), all’escatologia e altri aspetti teologico-rituali.

(14)

sufici al centro di terreni coltivabili (pratica che in cinese è detta fengshui). L’intralcio ai piani di sviluppo del Paese è presto evidente e ciò spiega perché negli anni della collettivizzazione forzata e della Rivoluzione culturale si siano avute campagne antislamiche agguerrite che si scagliavano contro tali simboli di fede, molti dei quali furono infatti distrutti

62

.

V.IV Stato e religione dopo Deng. L’incontro sorvegliato

Nella seconda metà degli anni Novanta, quando è andato al potere Jiang Zemin, la politica religiosa si è confermata una delle priorità del Partito Comunista. Secondo quali modalità si sia intervenuti in una materia così delicata, che si porta dietro l’annosa questione delle molteplici minzu minoritarie, costituirà oggetto di questa indagine. Si avverte fin da subito che per avere un valore reale dell’umore politico di Pechino bisognerà sottrarre il dato della retorica. Non è una novità che il PCC non abbia voluto accantonarla, poiché esiste una veste più pulita per rendere presentabile sull’arena internazionale la spinosa questione della libertà religiosa, che è direttamente proporzionale alla capacità del Paese celeste di fare affari con i vari attori mondiali? Fondamentale per l’orientamento di Pechino su un terreno così insidioso è stato il forum del Comitato Centrale del Partito Comunista tenutosi nel 1993, dove si è deciso di impostare la politica religiosa sul principio della conciliazione con il socialismo. Come tale adattamento poteva essere possibile lo si è giustificato veicolando l’idea che nel conflitto tra l’essere un affare privato o l’appartenere alla sfera pubblica, non c’erano dubbi che la religione appartenesse a quest’ultima sfera e che pertanto andasse soggetta al suo controllo

63

. In virtù di quanto si è appena detto, nel 1994 sono stati varati due regolamenti, il No.

144 e il No. 145, sull’amministrazione delle istituzioni e delle attività religiose, sul controllo dei luoghi di culto e sullo status dei fedeli stranieri presenti sul territorio cinese. Le nuove leggi non sono andate esenti da stranezze; basti riflettere sulla definizione di “straniero”, nozione in cui rientrano anche coloro che per tutto il mondo sono cinesi, ma che risiedendo a Macao, Taiwan e Hong Kong o semplicemente possedendo un passaporto straniero non possono essere considerati cittadini cinesi a tutti gli effetti. I due documenti, che sono stati fatti conoscere attraverso una studiatissima campagna di educazione alle nuove regole, hanno riportato in superficie un vecchio assillo di Pechino, che non ha mai smesso di credere che la religione celasse un pericoloso potere di disturbo sociale. Ciò spiega la mania, emergente dai nuovi provvedimenti, di monitorare le

62 Si pensi alla posijiu che nel 1966 ebbe come obiettivo la distruzione delle quattro più vecchie gongbei cinesi. V. D.

Gladney, Muslim Tombs and Ethnic Folklore…, cit., pp. 506-507.

63 B. Leung, China’s Religious Freedom Policy: The Art of Managing Religious Activity, in “The China Quarterly”, n.

184, 2005, pp. 907-913.

(15)

organizzazioni religiose, dalla registrazione al permesso di accogliere visitatori esterni. Fino al 2001 l’approccio ossessivo alla questione è rimasta la nota dominante dell’atteggiamento politico di Pechino, che in realtà non ha cambiato spartito nemmeno negli anni di governo di Hu Jintao, andato al potere nel 2003. Con il nuovo presidente è maturata la consapevolezza che vietare possa esporre a gravi rischi sociali, e un Paese che per continuare a crescere ha bisogno di stabilità non può permetterseli. Il “compromesso” è parso il percorso giusto per guadagnarsi il diritto di accesso al WTO ma per l’ennesima volta la Cina ha dimostrato di non conoscere la differenza tra l’autorevolezza e l’autorità, e di non saper proprio fare a meno di pensare a se stessa come a una minzu han

64

.

64 Si allude ai numerosi problemi che ancora oggi rendono teso il confronto tra le 56 etnie. L’incapacità di curarsi dall’ossessione del controllo da un lato ha aumentato le pressioni internazionali sui diritti elementari non tutelati, dall’altro ha creato una popolazione crescente di fedeli che conta cento milioni di persone. Ibidem.

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