INTRODUZIONE
Tra i diversi compiti cui sono investite le pubbliche amministrazioni, particolare importanza rivestono i servizi pubblici locali, prestazioni materiali erogate alla collettività, stanziata su un determinato territorio, che contribuiscono ad accrescerne il benessere. Questi servizi hanno, oggi, un ruolo fondamentale tra le funzioni dei poteri pubblici, e sono fonte di aspettativa per i consociati per quanto riguarda non solo la loro erogazione, ma anche la loro qualità.
Si tratta di un settore che è anche all'attenzione dell'Unione europea, che ha stabilito principi e limiti per creare un mercato concorrenziale.
Con la legge di riforma 142 del 1990 si sono introdotte forme tipiche di gestione, come la concessione a terzi, l'azienda speciale, ma soprattutto la società mista pubblico-privata.
In questo modo il settore dei servizi pubblici è stato aperto alle imprese private: inizialmente il capitale pubblico era di maggioranza, per consentire un maggiore controllo da parte
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dell'ente pubblico, poi questa previsione è stata abolita al fine di garantire una maggiore apertura al mercato.
Nel settore dei servizi pubblici la gestione in favore dei privati ha subito una continua evoluzione.
Il diritto comunitario ha continuato ad intervenire nei servizi pubblici locali, prevedendo l'applicazione di principi fondamentali come: la selezione del privato-gestore e del socio privato mediante gara, il divieto di discriminazione tra imprese nazionali e straniere, il principio di trasparenza, l'obbligo di fornire un servizio universale. Si è, però, mostrato rispettoso della libera scelta degli Stati membri circa il modello di società cui vogliono aderire, lasciando loro la scelta se far prevalere il pubblico o il privato nella gestione dei servizi, alla sola condizione che, ove si scelga di far prevalere il privato, si osservino scrupolosamente le regole della concorrenza.
I cittadini, con il referendum dell'11 e 12 giugno del 2011, hanno espresso la loro posizione a favore di una gestione pubblica dei servizi, sconfessando le politiche di liberalizzazione che si erano principalmente manifestate con l'art. 23 bis, del d.l. 112 del 2008,
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abrogato dalla volontà popolare, ex art. 75 della Costituzione.
Oggi la materia dei servizi pubblici locali soffre di un vuoto normativo, che pare accrescersi per la mancanza non solo di una disciplina positiva, ma anche di linee di politica legislativa che siano conformi alla volontà popolare.
Inoltre proprio lo strumento societario ha sollevato problemi sia in relazione all'obiettivo di contenimento della spesa pubblica, sia per quanto riguarda la sottoposizione di tali enti locali alla disciplina fallimentare.
In merito alla revisione della spesa pubblica, nel presente lavoro si è cercato di indicare gli strumenti che il nostro ordinamento mette a disposizione agli enti locali per fronteggiare i limiti di spesa previsti dal governo centrale: in particolare, la possibilità di ricorrere alle Unioni di comuni o alle convenzioni, fra l'altro già previsti nel TUEL, le holding tra le società partecipate dagli enti locali, nonché la possibilità di processi di fusione.
Diversi interventi normativi, caratterizzati dall'obiettivo di contenimento e riduzione della spesa pubblica, hanno posto forti limitazioni proprio alle società a partecipazione pubblica locale:
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pensiamo alla legge finanziaria n. 244 del 2007, che ha previsto l'obbligo di dismissione e divieti di nuove partecipazioni, al d.l. 78 del 2010 che ha disposto l'obbligo per i Comuni (aventi determinate densità demografiche) di gestire in forma associata le funzioni principali, andando ad incidere sui servizi pubblici, fino alla c.d.
spending review, che all'art. 4 ha ribadito l'obbligo di dismissione
entro il 31 dicembre 2013, salvo poi essere abrogato dall'attuale legge di stabilità per il 2014.
Inoltre altre misure, dirette a razionalizzare la spesa delle partecipate, hanno invece inciso sul numero degli amministratori del consiglio delle relative società e sui loro compensi.
In ordine, invece, al problema dell'assoggettamento alle procedure concorsuali, si è posta l'esigenza di un intervento legislativo per giungere ad un orientamento univoco, difficilmente ottenibile in via interpretativa.
Sia in dottrina, sia in giurisprudenza le varie controversie, relative alla fallibilità o meno delle società pubbliche, sono state affrontate facendo valere criteri e metodi diversi.
In alcune fattispecie è stata rilevante la qualificazione della VII
natura giuridica delle società, e quindi il riconoscimento o meno come imprenditore commerciale delle medesime, in altre invece è stato determinante riconoscere il carattere necessario della società per l'ente, in funzione dell'interesse pubblico che veniva tutelato.
In verità, anche i sostenitori dell'una o dell'altra posizione, hanno mostrato parecchie perplessità, pur cercando di avanzare proposte e soluzioni che potessero bilanciare i diversi interessi coinvolti. Tutto ciò ha sicuramente sollevato, da un lato, la necessità di ulteriori valutazioni sul ruolo delle società pubbliche nel nostro ordinamento, dall'altro, l'esigenza di un intervento del Legislatore, diretto ad orientare sia la dottrina, ma soprattutto la giurisprudenza.
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