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2.1 Caratteri introduttivi. Capitolo 2 Il rendimento dei Fondi SRI: esiste un sacrificio etico?

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Capitolo 2

Il rendimento dei Fondi SRI: esiste un

sacrificio etico?

2.1 Caratteri introduttivi.

Come già sottolineato più volte nel corso del precedente capitolo, il mercato dei fondi SRI negli ultimi anni è stato senza alcun dubbio protagonista di un fenomeno di crescita di dimensioni significative, sostanziatosi in un aumento continuo del numero di fondi e delle attività gestite in un’ottica socialmente responsabile, rilevabile su tutti i principali mercati dei paesi sviluppati ed estesosi, soprattutto grazie alla recente comparsa degli Impact Investment Fund, anche ai mercati dei paesi emergenti.

Se tuttavia la consistenza dimensionale del fenomeno SRI Funds risulta essere una certezza, confermata anche dai dati riportati dalle numerose e autorevoli organizzazioni e istituzioni di cui si è già fatta menzione, le motivazioni che starebbero alla base di questo sviluppo esponenziale rimangono una questione ancora ampiamente dibattuta.

In un mondo come quello dei prodotti finanziari infatti, che per propria natura, risulta caratterizzato da una fisiologica opacità e da una serie di asimmetrie informative implicite, il fattore fiducia diviene condicio sine qua non al fine di un corretto funzionamento dei meccanismi e delle relazioni di cui il sistema finanziario stesso si compone.

A tal proposito, per quanto attiene alla dimensione più strettamente etica o sociale del fenomeno in parola, non vi è dubbio che, soprattutto a seguito dei recenti scandali finanziari che hanno condotto alla crisi economica ancora in atto, vi sia stata una generale messa in discussione dei principi propri di una finanza finalizzata alla sola massimizzazione del profitto, sempre più lontana da ogni tipo di considerazione in merito alle conseguenze in termini di responsabilità sociale

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del proprio operato. Ecco che se prima della crisi, finanza ed etica potevano essere visti come due mondi lontani e inconciliabili, si è assistito al contrario negli ultimi anni ad una crescente domanda diretta ad un universo che potesse accoglierli entrambi, allo scopo proprio di affiancare alle tematiche e agli obiettivi di rendimento tipici del primo, i principi di trasparenza e di responsabilità sociale rinvenibili nel secondo. Se dunque non vi è alcun dubbio circa il contributo dato alla crescita del mercato SRI dal rinnovato e accresciuto interesse verso le tematiche di natura sociale, etica, ambientale e più recentemente anche di quelle relative alla qualità dei sistemi di governance adottati, quella relativa all’esistenza o meno di reali opportunità di profitto all’interno di questa particolare nicchia di mercato, rimane una questione ancora aperta.

Ciò che ci si chiede cioè, e che cercheremo di chiarire in questo paragrafo, è se l’investitore che decida di veicolare le proprie risorse all’interno di uno SRI Fund, sia spinto solo dalla condivisione dei valori etici, sociali e ambientali posti alla base delle strategie di investimento da esso attuate, o se debba attendersi invece anche un ritorno finanziario in linea con quello che potrebbe ottenere investendo in prodotti di natura diversa.

Punto focale della questione è dunque l’esistenza o meno di quello che in letteratura è stato più volte identificato come “sacrificio etico”, come quel prezzo cioè che l’investitore “etico”si accingerebbe a pagare in termini di maggiori costi connessi alla gestione dei fondi SRI, o di minori rendimenti conseguibili dagli stessi.

2.2 Il Pricing dei fondi SRI: Quanto costa investire

eticamente?

Tra i fattori che, in linea di principio, potrebbero ridurre la performance economica di un fondo SRI, troviamo in primo luogo il costo; uno SRI Fund potrebbe infatti costare di più rispetto ad un fondo tradizionale a causa principalmente dell’incidenza sulla struttura dei costi di gestione di tutte quelle attività di screening che sappiamo essere parte integrante delle strategie di

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gestione di questi particolari strumenti finanziari. L’esistenza di questi ipotetici costi addizionali implicherebbe quindi una riduzione dei guadagni realizzabili, andando ad incidere negativamente sulla performance finanziaria dell’investimento globalmente considerato.

Per verificare se sia o meno presente in corrispondenza di questi fondi una struttura di costi maggiormente onerosa, rispetto a quella rilevabile in corrispondenza dei fondi tradizionali, prima di procedere con l’analisi degli studi empirici svolti in proposito, è necessario anteporre alcune considerazioni teoriche.

Come il lettore potrà agevolmente dedurre infatti, almeno in linea teorica, si può constatare come le tipologie di costi cui risulta essere assoggettato un fondo SRI ricalchino sostanzialmente quelle dei fondi tradizionali.

In linea generale, la sottoscrizione di fondi comuni di investimento comporta il sostenimento di oneri, posti più o meno direttamente a carico dell’investitore e finalizzati a remunerare l’attività di gestione del risparmio nonché a coprire i costi organizzativi della struttura e i servizi di collocamento e distribuzione.

In particolare, gli elementi che incidono sulla struttura di costo di un fondo possono essere ricondotti a due ordini di attività che caratterizzano, da un lato il momento produttivo e, dall’altro, il momento distributivo del processo di offerta del fondo stesso e che vanno a generare una serie di costi che si ripercuote sull’assetto commissionale del fondo, determinandone quindi le strutture di pricing applicate al pubblico (De Rossi F. M. 2008).

Tra i costi di produzione possono essere annoverati:

- I costi cd di regolamentazione che incluono i costi di autorizzazione, compliance, tassazione, realizzazione della documentazione d’offerta, ecc; - I costi amministrativi generali ovvero la parte di costi connessi alla valorizzazione del patrimonio, alla determinazione del valore della quota, i costi di revisione e i costi di custodia riconosciuti alla banca depositaria; - I costi relativi ai rapporti con la clientela, connessi cioè alla tenuta di un

registro dei sottoscrittori, all’acquisto e al rimborso delle quote e, in generale, ai servizi prestati alla clientela;

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- I costi di gestione, ossia tutti quei costi che scaturiscono direttamente dall’attività di gestione del patrimonio, come quelli imputabili all’assunzione di decisioni strategiche e tattiche, alla ricerca delle informazioni sugli emittenti, alla individuazione dei titoli e alla realizzazione degli investimenti (Gualandri E. 2008).

Riguardo al caso specifico degli SRI Funds , si ritiene che le ipotetiche componenti addizionali da imputare alla struttura dei costi, siano da attribuire proprio alla fase di gestione, la quale sarebbe resa più complessa, e dunque più onerosa, dalla necessità di reperire, oltre alle informazioni di carattere economico-finanziario di routine , anche tutta una serie di soft information finalizzate a verificare l’effettiva aderenza degli emittenti ai principi di responsabilità sociale propri del fondo. Il sostenimento di tali costi inoltre, interverrebbe non soltanto in quei fondi in cui le attività di selezione e screening siano affidate ad un organo gestionale appositamente preposto ma anche nei casi in cui il processo di screening degli emittenti venga realizzato in outsourcing, servendosi dell’ausilio di un consulente etico, o attraverso l’utilizzo di indici etici, dalla cui composizione possono essere tratte utili indicazioni sugli emittenti (Vandone D. 2003).

Per ciò che attiene invece ai costi di distribuzione, si tratta principalmente di oneri che scaturiscono dalle attività connesse al collocamento dei prodotti e che rappresentano quindi il costo della remunerazione delle attività afferenti alla rete di vendita.

A tal proposito, è interessante osservare come, nonostante l’evidente legame tra pricing e fasi del processo di confezionamento del prodotto, analizzando la struttura commissionale di un fondo SRI, così come evidenziata nel prospetto informativo, non emerga la presenza di una chiara distinzione tra i costi di distribuzione e quelli di produzione.

Le attuali modalità di pricing infatti, prevedono che gran parte del costo connesso con la attività di distribuzione, sia incorporato nel costo della

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produzione ed emerga solo tramite l’applicazione di un meccanismo di retrocessione di parte della commissione di gestione alla rete distributiva.

Tale meccanismo, nonostante sia evidenziato all’interno del prospetto informativo, di

fatto produce tre effetti, in quanto riduce in primo luogo la valenza informativa della commissione di gestione, non dà il dovuto risalto al ruolo svolto dal soggetto collocatore (che è anche colui che gestisce la relazione di clientela), e ingenera infine una situazione di scarsa chiarezza nei confronti dell’investitore (Intonti M., Iannuzzi A. s.d.).

Tornando all’analisi del pricing così come evidenziato in prospetto informativo, è evidente come la struttura commissionale non sia articolata distinguendo gli oneri tra produttivi e distributivi, ma sia costruita sulla base della distinzione tra oneri a carico del sottoscrittore ( i cd oneri diretti) e oneri a carico del fondo (i cd oneri indiretti). Questo tipo di classificazione, al di là delle considerazioni di non perfetta chiarezza di cui si è fatta menzione sopra, risulta illustrata nel dettaglio poiché rispecchia le modalità stesse con cui si manifestano i flussi finanziari, considerato che gli oneri a carico del sottoscrittore gravano direttamente sull’ammontare investito, mentre gli oneri a carico del fondo vengono applicati sull’intero patrimonio dello stesso e gravano quindi solo per quota parte sul singolo investimento.

In particolare, come per quanto attiene poi all’assetto commissionale, gli oneri a carico del sottoscrittore sono individuabili nelle commissioni di sottoscrizione e di rimborso, ove esistenti, nei diritti fissi e nelle altre spese, mentre gli oneri a carico del fondo sono individuabili negli oneri di gestione (commissione di gestione e commissione di incentivo) e negli altri oneri quantificabili a priori. A queste due classi di oneri si aggiungono le commissioni di negoziazione (oneri di intermediazione), non quantificabili a priori in quanto dipendenti dall’effettiva movimentazione del portafoglio e dunque dalla numerosità degli acquisti e delle vendite di strumenti finanziari.

Tra le considerazioni teoriche preliminari che occorre fare in tale sede, rientrano poi quelle relative ai vari indicatori sintetici che la regolamentazione in materia

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impone alle società di gestione di comunicare al pubblico, proprio in ragione della complessa articolazione delle voci di costo e del rischio di opacità circa le informazioni fornite al cliente. Il più comune di questi indicatori è il TER (Total Expense Ratio), calcolato come rapporto percentuale tra il totale degli oneri posti a carico del fondo e il patrimonio medio dello stesso, dove tra gli oneri a carico del fondo sono rinvenibili le provvigioni di gestione, quelle di performance o di incentivo, il TER degli OICR sottostanti, il compenso e le spese della banca depositaria, le spese di revisione, quelle legali e giudiziarie, le spese di pubblicazione e altri oneri.1

La misura degli oneri forniti dal TER tuttavia non risulta essere pienamente esauriente, in quanto mancante di diversi elementi di costo, alcuni dei quali anche particolarmente rilevanti, come i costi di negoziazione, quelli da sostenere al momento della sottoscrizione e del rimborso, gli oneri fiscali, e gli oneri finanziari per gli eventuali debiti contratti dal fondo. Proprio al fine di colmare la lacuna dovuta principalmente all’assenza degli oneri di negoziazione, dal 2004, anno in cui è stato introdotto su suggerimento della Commissione Europea in proposito, il prospetto informativo dei fondi riporta un altro indicatore, il Turnover Ratio, che rappresenta un’indicazione indiretta del costo connesso alla movimentazione del portafoglio. Come evidenziato anche nei vari prospetti, questo tipo di indicatore è calcolato come rapporto, espresso in forma percentuale, tra la somma degli acquisti e delle vendite di strumenti finanziari, al netto delle sottoscrizioni e dei rimborsi delle quote, e il patrimonio netto medio su base giornaliera del fondo2.

Delineato un quadro d’insieme che riassuma le principali componenti della struttura dei costi che un fondo di investimento deve sostenere e dell’assetto commissionale che ne discende, al fine di determinare tutti gli elementi che possono in qualche modo incidere sul pricing dello stesso, resta da stabilire se l’investimento in un fondo SRI comporti o meno a carico dell’investitore oneri addizionali rispetto a quelli previsti per la generalità dei fondi tradizionali.

1 Si veda CONSOB, Guida alla lettura del prospetto informativo dei fondi di investimento aperti, 2003. 2 Si veda CONSOB, Guida alla lettura del prospetto informativo dei fondi di investimento aperti, 2003.

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Per quanto attiene ai contributi forniti dalla letteratura sul tema del pricing dei fondi etici, è possibile rilevare una certa diversificazione dei lavori condotti, soprattutto per quanto riguarda le diverse tipologie di variabili prese in esame. In particolare, mentre alcuni autori hanno soffermato la loro attenzione sui singoli indicatori di costo come il TER o su singoli aggregati dell’assetto commissionale, altri autori hanno al contrario optato per l’elaborazione di nuovi indicatori quantitativi, comprensivi di un numero maggiore di elementi, al fine di stimare in maniera più completa il costo complessivo dei fondi SRI.

All’interno di quest’ultimo filone di analisi vale la pena di citare il lavoro di Khorana, Servaes e Tufano (2009), ai quali si deve l’utilizzo di un nuovo indicatore di costo denominato TSC, dato dalla somma del TER e dalle commissioni di ingresso e di uscita, nonché quello di Anolli (2006) in cui vengono definiti ben due nuovi aggregati di misurazione di costo, entrambi finalizzati a ricomprendere anche le commissioni di negoziazione. In quest’ultimo caso, i due indicatori sono il Total Expense and Commission Ratio (TECR) dato dal rapporto tra la somma dei costi operativi e dalle commissioni di negoziazione e il patrimonio medio gestito su base annua, e il Transaction Costs over Assets Under Management (TCAUM), calcolato come rapporto tra i costi di transazione e il patrimonio medio gestito annuo del fondo. Tuttavia, all’interno della letteratura empirica che si è mossa in tale direzione, un’analisi che merita particolare attenzione, perché focalizzata proprio sullo studio delle modalità di pricing dei fondi SRI, è quello svolto da Iannuzzi e Intonti che nel loro ultimo studio hanno approfondito tale tema , effettuando un confronto tra i costi di18 fondi socialmente responsabili di diritto italiano collocati sul mercato domestico, destinati al mercato retail, e quelli di 255 fondi tradizionali (Iannuzzi A., Intonti M. s.d.).

la tabella sottostante (Tabella 3) individua l’universo dei fondi etici di riferimento, riportando anche la data di inizio collocamento, il patrimonio gestito al 31/12/2008, e la categoria Assogestioni di appartenenza.

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Tabella 3: Campione di fondi SRI oggetto di analisi. Denominazione fondo Società di

gestione Data collocamento Categoria Patrimonio netto (mln di euro) Aureo Finanza Etica Aureo Gestionti

sgr

16/09/2002 Flessibile 5

BNL per Telethon BNP Paribas Asset Management SGR spa 15/11/2000 Obbligazionario misto 12,476

Ducato Etico Fix Monte Paschi Asset Management Sgr 01/10/2004 Obblig. Euro Corporate Investment Grade 19,056

Ducato Etico Flex Civita Monte Paschi Asset Management Sgr

04/06/2001 Flessibile 3,712

Ducato Etico Geo Monte Paschi Asset Management Sgr 04/06/2001 Azionario Altre Specializzazioni 19,844 Eurizon Azionario Internazionale Etico Eurizon Capital Sgr 02/06/1997 Azionario Altre Specializzazioni 100,73 Eurizon diversificato Etico Eurizon Capital Sgr 20/11/1995 Obbligazionario Misto 106,54 Eurizon Obbligazionario Etico Eurizon Capital Sgr 02/06/1997 Obbligazionario Altre Specializzazioni 224,95

Gestielle Etico Azionario Aletti Gestielle Sgr 02/09/2002 Azionario Altre Specializzazioni 3,86 Gestielle Etico Obbligazionario Aletti Gestielle Sgr

02/09/2002 Obblig. Euro Gov.

M/L termine

92,29

Nordfondo Etico Obbligazionario Misto

max 20% azioni

Sella Gestioni Sgr 29/03/1999 Obbligazionario

misto 10,898 Bds Arcobaleno Etico (fondo di fondi) Pioneer Investment Management SGR SpA 16/05/2005 Bilanciato obbligazionario 12,1 Pioneer Obbligazionario Euro Corporate Etico a

distribuzione Pioneer Investment Management SGR SpA 29/09/2003 Obblig. Euro Corporate Investment Grade 254,4 UBI Pramerica Azionario Etico UBI Pramerica Sgr

16/09/2005 Azionario Area Euro 14,502

Valori Responsabili Azionario

Etica Sgr spa 02/01/2007 Azionario

Internazionale

9,62

Valori Responsabili Bilanciato

Etica Sgr spa 18/02/2003 Bilanciato 54,85

Valori Responsabili Monetario

Etica Sgr spa 18/02/2003 Obblig. Euro Gov.

breve termine

128,814

Valori Responsabili Obbligazionario misto

Etica Sgr spa 18/02/2003 Obbligazionario

misto

35,892

Fonte: Il Sole 24 ore e Prospetti informativi,2009

Come precedentemente anticipato, nello svolgimento dell’analisi quantitativa, oltre ad indagare il campione di fondi SRI rappresentato in tabella allo scopo di

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verificare l’esistenza di eventuali costi addizionali rilevabili nell’assetto commissionale di questi ultimi, è stato individuato anche un campione di fondi tradizionali scelto come benchmark di valutazione. Tale campione è costituito da 255 fondi aperti tradizionali di diritto italiano, appartenenti alle stesse società che gestiscono i fondi etici selezionati.

Per quanto attiene invece la metodologia di analisi utilizzata, è stato costruito un indicatore globale di costo denominato Ger (Global Expense Ratio) considerato più completo rispetto al tradizionale TER in quanto basato sia sugli oneri di gestione del fondo (ricavabili dalla nota integrativa contenuta nel rendiconto e comprensivi del TER, delle commissioni di negoziazione, degli oneri fiscali e degli oneri finanziari per i debiti eventualmente contratti dal fondo rapportati al patrimonio medio) sia sulle commissioni di ingresso e uscita reperibili nel prospetto informativo.

I risultati cui l’analisi è pervenuta mostrano in primo luogo un’incidenza delle commissioni di entrata e di uscita , sul totale degli oneri complessivi a carico dei fondi SRI, di cui il Ger è espressione numerica, piuttosto bassa.

In secondo luogo, per ciò che attiene alla relazione esistente tra la categoria di appartenenza del fondo SRI e il valore del rispettivo Ger, nel complesso i fondi più costosi sono risultati essere quelli azionari,seguiti da quelli obbligazionari e da quelli bilanciati, con costi abbastanza elevati associabili anche ai fondi flessibili.

Altro risultato interessante da osservare è poi quello relativo al grado di correlazione rilevato tra il livello di eticità dei vari fondi, individuato mediante indagine dei criteri di screening utilizzati, delle procedure di controllo espletate nell’ambito dei processi di selezione, e del livello di compliance in merito agli obblighi informativi Consob, e il Ger.

In particolare, ciò che risulta maggiormente significativo ai fini della nostra analisi, è proprio il fatto che sia stato rilevato un coefficiente di correlazione tra le due variabili in oggetto prossimo allo zero, segno che tra le due grandezze non sussisterebbe alcuna correlazione rilevante, il che condurrebbe a desumere che il processo di gestione proprio dei fondi SRI, pur essendo più complesso perché

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comprensivo di peculiari ed ulteriori strategie, volte a valutare la dimensione etica e sociale dei vari potenziali investimenti, non inciderebbe in realtà sull’onerosità del fondo. Tale evidenza risulta infine confermata dai risultati registrati nel confronto tra il pricing dei fondi etici e quello del campione di fondi tradizionali, effettuato calcolando il valore del Ger sia a livello globale per l’intero campione, sia per le singole classi di fondi nelle quali il campione stesso può essere suddiviso. A tal proposito infatti, i dati hanno mostrato come in media non solo non sia rilevabile alcun onere aggiuntivo in corrispondenza dei fondi SRI ma che in realtà questi ultimi sarebbero meno costosi dei fondi tradizionali. In particolare, fatta eccezione per la categoria dei fondi flessibili, in corrispondenza dei fondi azionari, obbligazionari e di quelli bilanciati, sarebbero stati registrati valori inferiori per il campione SRI rispetto al campione di fondi tradizionali, sia per quanto riguarda i costi di gestione, sia per quanto riguarda i costi complessivi quantificati dal Ger.

Un tale risultato si muoverebbe dunque nella direzione non solo di confutare le tesi per le quali ai fondi SRI sarebbero imputabili maggiori costi, ma a sostenere anche un’altra tesi, che vedrebbe il pricing rappresentare un elemento distintivo e qualificante dei fondi etici, e costituire dunque per questo tipo di fondi una vera e propria variabile strategica utile nel favorirne la diffusione e il collocamento. Preme inoltre sottolineare come lo studio riportato non sia l’unico ad essere pervenuto a tali evidenze ma come al contrario, studi precedenti come quelli di Young e Profitt realizzato nel 2003 (Young K., Profitt D. 2003) sul mercato USA e quello di Vandone, realizzato nel medesimo anno sul mercato italiano (Vandone D. 2003), ottengono risultati in linea con quelli sopra riportati .

In particolare, tali studi rilevano come l’analisi dell’assetto commissionale di un campione di fondi SRI e di un corrispondente campione di fondi tradizionali evidenzi che la scelta di investire in fondi socialmente responsabili non sarebbe in media gravata da oneri maggiori rispetto ai fondi non etici, di nuovo, a confutazione delle ipotesi teoriche precedentemente riportate relative alla presunta maggiore onerosità della gestione di questi fondi. In particolare, per quanto riguarda gli oneri direttamente a carico del sottoscrittore, la percentuale di

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fondi no load , cioè di quei fondi che non applicano alcuna commissione di entrata o di uscita, risulterebbe essere più elevata per i fondi socialmente responsabili , e anche quando i fondi socialmente responsabili applicano commissioni di sottoscrizione, in media il valore di queste commissioni sarebbe più contenuto rispetto a quello dei fondi non etici (Grafico 10).

Grafico 10: Distribuzione Fondi No-Load (% sul totale).

Fonte: Rielaborazione propria dei dati rilevati da Assogestioni (2004).

Per quanto riguarda poi le commissione di gestione , che appunto remunerano l’attività di gestione della Sgr e la cui onerosità potrebbe essere direttamente influenzata dall’ applicazione dei criteri extrafinanziari di investimento, anche in questo caso i risultati non avrebbero individuato alcuna relazione evidente tra l’ammontare della commissione e il grado di eticità del fondo.

I fondi che utilizzano un numero più elevato di filtri di selezione non applicherebbero quindi commissioni di gestione più onerose per gli investitori, portando nuovamente a concludere che la presenza di criteri etici di selezione degli investimenti non incrementerebbe minimamente il livello delle commissioni a carico dell’investitore, ma che anzi in molti casi sarebbe addirittura in grado di ridurlo.

0% 20% 40% 60% 80% 100% 120%

Azionari Bilanciati Obbligazionari Flessibili

SRI Non-SRI

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Appurata l’inconsistenza delle ipotesi avanzate in linea teorica circa una maggiore onerosità dei fondi SRI, confutata mediante i risultati empirici rinvenuti in letteratura, appare a questo punto interessante avanzare alcune ipotesi su quelle che potrebbero essere le ragioni che spiegano l’assenza di relazioni evidenti tra oneri di gestione dei fondi socialmente responsabili, e l’ammontare delle commissioni da essi applicate all’investitore.

Una prima ipotesi potrebbe essere quella per cui la leva del pricing venga in realtà utilizzata come fattore competitivo per favorire la diffusione di fondi socialmente responsabili in un mercato che, come quello italiano, risulta ancora abbastanza giovane in relazione al fenomeno SRI. Tale ipotesi sarebbe infatti avvalorata dal fatto che molti fondi socialmente responsabili sono no load, ovvero consentono l’accesso gratuito a questo comparto di prodotti di investimento.

La seconda ipotesi, potrebbe invece poggiare sull’assunto che le commissioni di gestione dei fondi SRI non siano più elevate di quelle sui fondi non etici perché in realtà i costi di gestione sostenuti dai primi, non sarebbero più elevati di quelli associabili ai secondi. In altri termini, i criteri etici di selezione, a volte anche molto articolati, potrebbero essere “dichiarati” sui prospetti informativi, ma poi applicati in modo blando, utilizzando esclusivamente fonti informative pubbliche.

2.3 La relazione tra rischio e rendimento in un fondo SRI

Oltre che sul fronte dei costi, un ulteriore fattore di penalizzazione che in linea teorica potrebbe essere associato ai fondi SRI, riguarda quella che è la relazione tra rischio e rendimento e che si colloca alla base di una qualsiasi valutazione di natura finanziaria e dei tradizionali processi cd di scelte di portafoglio.

In altre parole, risulta necessario quantificare all’interno della relazione stessa tra rischio e rendimento di questi fondi, la dimensione di quel sacrificio etico di cui un soggetto dovrebbe farsi carico scegliendo di investire in un fondo SRI . Ciò, in considerazione del fatto che coloro che si affacciano a questa particolare

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nicchia dell’industria finanziaria sono pur sempre investitori ed in quanto tali, si attendono rendimenti in linea col profilo di rischio che andranno ad assumere , a prescindere dal fatto che possano in linea di principio anteporre ad essi valori di natura etica, sociale e ambientale.

2.3.1 Diversificazione e rischio: i fondi SRI nel modello media-varianza.

Oltre all’attribuzione di costi addizionali espliciti, la cui questione è stata affrontata nel paragrafo precedente, un ulteriore penalizzazione suscettibile di contribuire all’incremento del sacrificio etico connesso agli investimenti in fondi SRI, potrebbe essere in linea teorica rilevabile in termini di rendimenti.

La variabile in parola inoltre, non andrebbe tanto a ridursi in termini assoluti, quanto piuttosto ad assumere valori non adeguati con riferimento al livello di rischio supportato dall’investitore.

Da un punto di vista teorico, i fondi SRI, mediante applicazione delle strategie di screening che ne caratterizzano l’operatività nella selezione dei titoli da detenere, vedono in qualche modo restringersi l’universo di scelta rispetto ai comuni fondi di investimento. A tal proposito,secondo i dettami della teoria finanziaria ortodossa, ponendo dei limiti alle scelte di investimento, il portafoglio di titoli risultante potrebbe essere meno efficiente di uno privo di vincoli; ridurre il panorama d’investimento potrebbe dunque contribuire ad aumentare il rischio complessivo a causa della ridotta diversificazione possibile.

Secondo il modello media-varianza di Markowitz infatti, la scelta di ridurre i titoli da inserire in portafoglio, al solo sottoinsieme dei titoli di quelle imprese che rispettano i criteri di responsabilità sociale stanti alla base delle politiche di investimento dei fondi SRI, comporterebbe una rinuncia rilevante in termini di rendimento, causata non tanto da una riduzione dello stesso in termini assoluti, quanto di un incremento del livello di rischio adducibile ad una riduzione implicita del livello di diversificazione (Fiaschi D., Meccheri N. 2014).

A tal proposito, alcuni studi presenti in letteratura, hanno effettivamente dimostrato che, calcolando la performance dell’investimento in uno SRI Fund in

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termini di varianza, utilizzata quale tradizionale quantificatore di rischio, emergerebbe l’esistenza di un reale sacrificio etico dato dalla differenza tra la varianza di un portafoglio non vincolato dall’applicazione delle strategie ESG, e la varianza di un portafoglio composto solo di titoli selezionati mediante utilizzo di tali strategie (Becchetti L., Fucito L. 1999).

Tale sacrificio inoltre, risulterebbe essere tanto più marcato quanto maggiore risulta essere la possibilità di diversificazione connessa al portafoglio non vincolato. Questo tipo di risultato, è ad esempio confermato da un’analisi svolta nell’ambito di uno studio ben più esteso, da Becchetti e Fucito i quali, cercando di quantificare il sacrificio cui dovrebbe sottoporsi un investitore “etico” scegliendo di ridurre il set potenziale di titoli da inserire in portafoglio ad un sottoinsieme più ristretto corrispondente all’universo investibile di un ipotetico SRI Fund (Becchetti L., Fucito L. 1999). In particolare, essi avrebbero rilevato come all’interno del modello media-varianza, se il costo addizionale connesso ad un investimento etico viene calcolato solo in termini di varianza, è possibile rilevare la presenza di un sacrificio etico positivo. Inoltre, elaborando una funzione che descrivesse l’andamento di questo costo addizionale, al variare del grado di correlazione tra un portafoglio SRI e uno non SRI e della dimensione delle quote di questi ultimi all’interno di un portafoglio globale non vincolato, i valori di maggior entità si registrerebbero proprio in corrispondenza del punto in cui il grado di diversificazione, ottenibile nel portafoglio globale non vincolato,risulta essere massimo. In altre parole quindi, se il sacrificio etico connesso alla riduzione del grado di diversificazione , e dunque all’aumento del rischio, viene quantificato quale mera differenza tra la varianza di un portafoglio non vincolato e quella di un portafoglio SRI, questo risulterebbe essere non solo positivo ma proporzionale al grado di diversificazione del portafoglio a cui non viene applicato nessun vincolo di eticità.

A fronte di tali risultati, vi sono però alcuni aspetti che portano a ritenere sopravvalutata la misura di questo costo addizionale imputabile agli investimenti in fondi SRI. In primo luogo, è da rilevare come una valutazione del costo di un investimento che consideri solo il livello di rischio ad esso associato, sia da

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ritenersi incompleta; una migliore valutazione della rinuncia ipoteticamente sopportata dall’investitore SRI, richiederebbe infatti di confrontare le frontiere rischio-rendimento ottenibili sia con i titoli del portafoglio etico, sia con i titoli del portafoglio globale non vincolato, data una struttura di covarianze e di rendimenti dei titoli medesimi. Il contributo di un titolo alla varianza del portafoglio di mercato, è infatti dato principalmente dalla somma ponderata delle covarianze del titolo con l’universo di tutti i titoli presenti sul mercato, circostanza che porta a desumere che all’aumentare della numerosità di tale universo, il contributo della sola varianza diventi sempre più piccolo. Si può dunque supporre che, il “danno” prodotto sulla performance globale del portafoglio SRI, si riduca considerevolmente al crescere del numero dei titoli presi in esame; da ciò consegue che, considerando un universo investibile sufficientemente ampio, si possa egualmente pervenire ad una frontiera rischio-rendimento in corrispondenza del portafoglio SRI assolutamente simile a quella che si sarebbe potuto costruire in corrispondenza di un portafoglio non vincolato. In linea teorica, ci si può dunque attendere, che la presenza di un sacrificio etico, riconducibile ai vincoli posti dalle strategie proprie di uno SRI Fund all’universo investibile, vada effettivamente a modificare la frontiera efficiente, cioè la curva che identifica i portafogli dominanti in termini di rischio-rendimento, rendendola più ripida; tuttavia, tale costo addizionale tende in pratica a ridursi, fino a divenire irrisorio, quando nel portafoglio viene inserito un numero sufficientemente ampio di titoli. al medesimo risultato, sono giunti Becchetti e Fucito (1999), rilevando come “I risultati dell’analisi teorica del“sacrificio”di performance dell’investitore etico evidenziano come tale sacrificio diventi trascurabile quando il numero di titoli “etici” inseribili nel portafoglio è sufficientemente elevato. Infatti, al crescere degli asset potenzialmente acquistabili, la frontiera rendimento-rischio del portafoglio etico tende a coincidere con quella del portafoglio globale, ovvero le potenzialità di diversificazione e di profitto raggiungibili all’investitore etico tendono ad essere le medesime di quelle dell’investitore non vincolato”.

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Inoltre, per quanto attiene alla questione dei vincoli che le strategie di screening dei fondi SRI porrebbero in termini di diversificazione ai portafogli di investimento, è opportuno ricordare come, proprio secondo la teoria di Markowitz, sarebbero sufficienti solamente 30 titoli al fine di garantire una diversificazione “ottima”, ossia un livello di diversificazione che permetta di eliminare il rischio non sistematico. A tal proposito quindi, si potrebbe desumere che, qualora il gestore di un fondo SRI riesca a creare un portafoglio sufficientemente diversificato, i titoli di tale fondo risulteranno essere gravati dal solo rischio di mercato β, ossia da quella componente del rischio non adducibile, né eliminabile mediante diversificazione del portafoglio, e che il sacrificio etico tenderebbe quindi ad annullarsi (Regalli M. et al. 2005).

Le argomentazioni a sostegno di questa tesi che vede di fatto ridursi fino ad annullarsi, anche le componenti di costo addizionale dovute ad un eventuale riduzione del grado di diversificazione degli investimenti in fondi SRI, oltre ad essere agevolmente osservabili sul piano teorico, sono supportate anche da alcuni risultati rinvenibili nell’ambito della letteratura empirica. In tale direzione si colloca ad esempio l’analisi di E. Capital Partners (2003), dove è stato operato un confronto settoriale e geografico tra universo investibile tradizionale ed universo investibile socially responsible. L’analisi in parola andrebbe infatti a dimostrare che lo strategie di screening attuate dai fondi SRI, non risultano poi essere così restrittive da limitare la possibilità di diversificazione settoriale o geografica che garantisce un adeguata attività di contenimento dei rischi. Anche a seguito dell’applicazione delle procedure di screening ESG, non esisterebbero infatti settori completamente esclusi dall’universo investibile dei fondi SRI; quelli più penalizzati in tal senso risultano essere quello dei servizi pubblici, a causa della presenza di imprese che fanno uso nella loro attività di energia nucleare, e i settori anticiclici perché vi sono numerose aziende produttrici di alcolici e tabacco. Allo stesso modo, l’utilizzo delle strategie tipicamente riconducibili ai fondi SRI, non andrebbero a penalizzare neppure il grado di diversificazione degli investimenti a livello geografico, poiché anche in tal senso gli indici di

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diversificazione tra universo investibile tradizionale e SRI parrebbero mostrare valori sostanzialmente omogenei.

A tal proposito inoltre, è stato rilevato da ulteriori analisi di natura empirica che, anche qualora si assistesse, in corrispondenza di investimenti effettuati negli SRI Funds, ad una riduzione del livello di diversificazione geografica o settoriale, questa non avrebbe comunque un impatto significativo sulla performance globale dei fondi. Questo tipo di risultato è stato rilevato da Becchetti et al (2014), nell’ambito di uno studio che si esplica attraverso il confronto tra la performance di un campione di fondi SRI e quella di un campione similare di fondi tradizionali. Nell’ambito di tale studio, è stato infatti osservato come, all’interno del campione degli SRI Funds, non vi fossero rilevanti differenze tra i valori di performance registrati in corrispondenza dei fondi ad operatività globale e quelli la cui operatività risultava invece circoscritta a determinate aree geografiche. 3 Inoltre, constatata la presenza sia in linea teorica, sia nell’ambito della letteratura empirica, di numerose argomentazioni circa la scarsa rilevanza attribuibile anche a questo ipotetico costo addizionale, dato da un maggior livello di rischio cd sistematico riconducibile agli investimenti in fondi SRI, è interessante osservare come ulteriori contributi vadano addirittura a rilevare in questi particolari strumenti, un livello di rischio inferiore rispetto a quello dei fondi tradizionali. È questo il caso delle teorie manageriali di Moskowitz, il quale in un celebre articolo del 1972, mostrò che un portafoglio SRI aveva sovraperformato il Dow Jones Industrials su base nominale, sebbene il periodo di tempo fosse breve (Moskowitz 1972). Sulla scia di questi risultati, molti, nella “comunità SRI”, si convinsero che l’applicazione di screening sociali, avesse contribuito , almeno in parte, all’ottima performance del Domini Social Index negli anni 90; tuttavia, la maggior parte dei tentativi di quantificare i benefici dell’approccio SR in termini “numerici” e dunque comparabili, a causa della mancanza di strumenti che fossero in grado di conferire una certa misurabilità alle dimensioni sociali e

3 Per approfondimenti in merito al rapporto tra performance dei fondi SRI e crisi di mercato si veda il

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ambientali di performance, non furono in grado di conseguire risultati soddisfacenti.

Ciononostante , le argomentazioni propugnate da Moskowitz nei suoi contributi, hanno conosciuto negli anni una notevole diffusione, acquisendo una notorietà tale nell’industria degli investimenti sostenibili, da dare luogo a quella che spesso viene identificata come “Moskowitz view” e che si esplica attraverso una serie di tematiche principali di analisi di seguito sintetizzate.

In primo luogo, il CSR (Corporate Social Responsability) sarebbe un segnale identificativo della presenza di un Management competente; questa affermazione, che risulta tra l’altro anche intuitiva applicando norme di senso comune, è stata dimostrata da Waddock e Graves (1999), i quali avrebbero individuato una relazione positiva fra il rating sociale e il rating della qualità del board di Business Week.

Benché di facile intuizione ,c’è da sottolineare come i risultati espressi da queste ricerche siano stati “accusati” di esprimere una tautologia: l’azienda ha successo grazie a un management di buona qualità oppure il management è percepito di buona qualità grazie a una buona performance del titolo?

In più, tra le variabili messe a confronto si potrebbe rilevare una sorta di sfasamento temporale; a fronte infatti di un rating sociale che appare essere una misurazione abbastanza stabile nel tempo, le capacità e la reputazione del management risulterebbero essere variabili per loro natura transitorie, soprattutto per aziende caratterizzate da turnover abbastanza frequenti.

In secondo luogo, l’adesione alle norme di condotta del Social Corporate Responsability, soprattutto per ciò che attiene al rispetto degli standard relativi all’impatto ambientale, sarebbero in grado di stimolare l’efficienza operativa. Infine, a creare maggior valore in termini di garanzia di un certo grado di stabilità a valere nel tempo, in quelle aziende allineate ai dettami della responsabilità sociale, sarebbe la maggior qualità delle relazioni con gli stakeholders.

Le teorie di Moskowitz dunque, poste se vogliamo al confine tra il concetto di corporate social responsability e le questioni riconducibili alle performance dei fondi SRI, andrebbero ad attribuire a questi ultimi, un grado di rischiosità

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inferiore, a fronte di una maggiore stabilità, rispetto ai fondi tradizionali. Un tale risultato sarebbe riconducibile al fatto che le imprese, che con maggior incidenza risultano incluse in nell’universo investibile dei fondi SRI, sarebbero le stesse che, per tutte le ragioni sopra elencate, vantano un management più competente e qualificato , una maggior efficienza operativa, nonché una migliore qualità dei rapporti con gli stakeholders. Da tale circostanza discenderebbe quindi una certa garanzia di stabilità a valere nel lungo periodo, garanzia che si rifletterebbe in una performance a lungo termine migliore per titoli emessi da tali imprese e dunque anche per i fondi che in esse decidano di investire.

Si può dunque concludere che non sembrano sussistere convincenti motivazioni teoriche, ne evidenze empiriche, a sostegno della reale esistenza di un costo addizionale, connesso ad un ipotetico incremento del livello di rischio rilevabile negli investimenti in fondi SRI. Al contrario, se da un lato l’impatto a livello di rischio-rendimento, della riduzione del grado di diversificazione degli investimenti adducibile all’utilizzo di procedure di screening, risulterebbe divenire irrisorio in presenza di un universo investibile sufficientemente ampio, dall’altro proprio l’adozione di questo tipo di strategie, portando alla selezione di imprese particolarmente inclini alla stabilità nel tempo, andrebbe a ridurre il livello di rischio associato ai fondi SRI rispetto a quello rilevabile per i fondi tradizionali.

2.3.2 Il rapporto tra rendimento e strategie adottate.

In base alle analisi svolte nei precedenti paragrafi, abbiamo quindi concluso che le strategie di investimento ESG non comporterebbero alcun sacrificio etico per gli investitori, ne in termini di costi, ne in termini di maggiori rischi eventualmente connessi al minor grado di diversificazione degli investimenti posti in essere dagli SRI Funds.

Appurato dunque che non sembrano sussistere convincenti motivazioni teoriche, né evidenze empiriche tali da rilevare un legame di causa effetto tra le strategie che qualificano l’operatività dei fondi SRI e l’insorgere di eventuali costi

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addizionali, e che dunque tali strategie non risulterebbero penalizzanti sotto il profilo dei rendimenti, resta da stabilire se siano al contrario in grado di incrementarne il valore. È necessario in altre parole, stabilire in primo luogo quello che è il ruolo di tali strategie nella determinazione delle opportunità di rendimento dei fondi SRI e, successivamente, individuare all’interno delle varie strategie utilizzate quelle che risultano essere maggiormente suscettibili di dar luogo a risultati performanti.

Per quanto attiene al primo profilo di analisi, e cioè all’individuazione di un legame effettivo tra le opportunità di rendimento offerte dai fondi SRI e l’utilizzo da parte degli stessi, all’interno delle proprie strategie di investimento, dei processi di screening illustrati nel precedente capitolo, è possibile rilevare in letteratura, la presenza di studi che imputerebbero i risultati di performance di questi strumenti a particolari stili di gestione o a fenomeni di sovraesposizione settoriale, piuttosto che alle procedure di selezione etica.

Tra questi, Gregory, Luther e Matako (1997) avrebbero evidenziato ad esempio, come eventuali sovra performance realizzate dai fondi SRI, sarebbero in realtà legate al peso notevole assunto dalle small cap nei portafogli facenti capo ai fondi stessi. Secondo tale ipotesi infatti, i buoni risultati in termini di rendimenti realizzati dai fondi socially responsible sarebbero in realtà da attribuire ad una specifica strategia di gestione di portafoglio che utilizzerebbe,quale fattore discriminante di scelta delle emittenti in cui investire, non tanto criteri di selezione di natura ESG, quanto piuttosto le dimensioni delle aziende considerate. Le motivazioni stanti alla base di questo tipo di strategia sarebbero riconducibili ad un fenomeno noto in finanza con il nome di small firm effect,e che vede le aziende di piccole dimensioni, o comunque con ridotti valori di capitalizzazione, produrre rendimenti superiori rispetto a quelli realizzati dalle imprese di maggiori dimensioni. Secondo questa ipotesi quindi, più che all’utilizzo di strategie ESG, eventuali extra rendimenti dei fondi SRI, sarebbero attribuibili ad uno stile di gestione cd growth oriented, focalizzando dunque i propri investimenti su segmenti di mercato e società con buone prospettive di espansione e crescita future, a fronte di una performance variabile e della

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tendenziale rinuncia a possibili dividendi nel breve periodo. Ad una prima analisi, a sostegno di questa tesi, in effetti è agevole osservare come un tale stile di gestione ben si coniughi con alcuni dei tratti che notoriamente caratterizzano l’operatività dei fondi SRI, primo tra tutti l’orizzonte temporale di lungo periodo, tuttavia, effettuando un’analisi più approfondita del fenomeno ci si può accorgere della presenza in letteratura di contributi che si collocano su posizioni divergenti. Nel 2002, Bauer et al.4, a tale proposito, conducono un’analisi cross-europea, basata su un modello multifattoriale sviluppato da Carhart sulla base del modello di Fama-French; nello specifico, elaborano un modello a 4 fattori che consente loro di verificare il trend dei rendimenti di un campione di fondi etici e di uno di fondi tradizionali, appartenenti ai mercati di Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti per il periodo 1990-2001. La novità introdotta in questo tipo di studi dall’utilizzo di modelli multifattoriali, risiede, da un punto di vista qualitativo, proprio nella loro capacità di incorporare nell’analisi anche i fattori di rischio relativi allo stile di investimento adottato, al fine di comprendere in che misura i rendimenti dei fondi SRI dipendono dall’utilizzo delle cd ESG strategies o quanto invece siano riconducibili a stili di investimento di altro genere. Da un punto di vista analitico invece, una tale procedura implica la scelta di non utilizzare il β del CAPM come unica espressione del rischio, ma prendere in esame anche altri fattori che incidono su tale componente.

Al di là dello spread osservabile tra i rendimenti registrati in corrispondenza dei due campioni, aspetto del quale ci occuperemo in seguito, una delle evidenze riscontrate pone effettivamente in luce effettive differenze di scelte gestionali tra i fondi etici e quelli tradizionali che travalicano quella caratteristica basata sull’utilizzo o meno delle strategie di screening ESG. In particolare, i fondi SRI oggetto dello studio risulterebbero meno esposti alla variabilità di rendimento del mercato rispetto ai fondi tradizionali e soprattutto molto più esposti verso imprese di piccole dimensioni confermando dunque la presenza di un investment style più growth-oriented piuttosto che value-oriented.

4 Si veda Bauer R., Koedijk K., Otten R., International Evidence on Ethical Mutual Fund Performance

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In direzione opposta si colloca invece l’approfondimento condotto da Becchetti e Fucito (1999) su di un portafoglio “etico” e uno “globale” appositamente costruiti, allo scopo di rilevare l’effetto potenziale della scelta tra una gestione attiva o passiva, sul rendimento degli stessi. I risultati di una prima analisi descrittiva sui due portafogli, ha indicato innanzi tutto che i rendimenti medi mensili di una strategia passiva applicata sul portafoglio SRI, sarebbero lievemente inferiori a quelli registrati in corrispondenza della medesima strategia applicata sul portafoglio globale. Successivamente, dopo questo primo risultato sulle strategie passive, la simulazione empirica si è concentrata sulla performance ottenuta dai medesimi portafogli a seguito dell’applicazione di strategie attive. A tale proposito, le strategie attive considerate sono nuovamente quelle che tendono ad una sovraesposizione verso le small caps (Size strategies), su imprese con bassi rapporti tra book-value e market-value (Contrarian strategies) e quelle il cui rapporto tra book e market value non risulta allineato con il ROE realizzato (Evaluation map strategies). In particolare, la logica utilizzata nell’implementazione delle Contrarian strategies, è stata quella tipica delle gestioni growth-oriented, orientata dunque nel lungo periodo e andando a scommettere su di una futura ripresa dei titoli che appaiono sottocapitalizzati rispetto al loro book-value, mentre le strategie fondate su di un approccio di tipo Evaluation map sono andate a scommettere su quei titoli che presentavano scostamenti maggiori particolarmente consistenti da una relazione positiva individuabile indicatori di utili delle imprese, come ad esempio il ROE e indicatori di capitalizzazione, come il rapporto tra book e market value delle stesse.

Nel confronto delle performance relative alle strategie attive sopra descritte, il rapporto tra portafogli SRI e portafogli tradizionali, in taluni casi, è parso quasi invertirsi rispetto al risultato che era stato rilevato in corrispondenza dell’applicazione delle strategie passive. Mentre infatti le strategie attive Contrarian e Size applicate sui portafogli SRI, avrebbero registrato una performance leggermente inferiore rispetto a quanto rilevato per l’applicazione delle medesime strategie ai portafogli tradizionali, quelle di tipo Evaluatuon

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Map, se applicate ai portafogli SRI sembrerebbero riportare performance leggermente superiori rispetto a quelle rilevate in corrispondenza dei portafogli tradizionali. Un tale risultato parrebbe dunque confermare la tesi per la quale eventuali extrarendimenti dei fondi SRI sarebbero da imputarsi a particolari stili di gestione, in questo caso individuabili nelle strategie di gestione attiva analizzate, piuttosto che all’applicazione di quelle strategie di selezione che qualificano l’attività dei fondi stessi. Trattasi tuttavia del risultato di un’analisi meramente descrittiva dei rendimenti rilevati in corrispondenza delle diverse strategie e che, in quanto tale, risulta suscettibile di essere ulteriormente raffinato. Sarebbe opportuno infatti domandarsi, se tali risultati siano il frutto in realtà di eventuali anomalie del mercato o se invece siano realmente riconducibili ai particolari stili di gestione applicati. Lo studio in parola, ha provveduto a rispondere anche a questa domanda, proponendo, in maniera similare a quanto visto in relazione all’analisi di Bauer et al. 2006, una stima dei rendimenti dei portafogli sui quali erano state applicate le strategie attive, corretti per ulteriori fattori di rischio rispetto al solo rischio ricompreso nel β del CAPM.

Ebbene, i risultati registrati in relazione alla stima del modello multifattoriale, avrebbero rilevato come i guadagni generati da quelle strategie “attive” che avevamo ipotizzato essere responsabili delle performance superiori ottenute dai portafogli SRI, non risultino più significativi se corretti per i tre fattori di rischio presenti nel modello. In altre parole, se volessimo interpretare i risultati ottenuti sul piano analitico in chiave qualitativa, sarebbe legittimo concludere che i maggiori rendimenti generati dalla scelta di investire in imprese di minori dimensioni, sottocapitalizzate e in difficoltà finanziaria, mediante l’applicazione rispettivamente delle Size Strategies, delle Contrarian Strategies e delle Evaluation Map Strategies, siano stati compensati da una maggiore esposizione di tali imprese ai quei fattori di rischio correlati con le loro stesse caratteristiche. Tali imprese infatti, proprio in ragione delle minori dimensioni, delle ridotte soglie di capitalizzazione e della precaria situazione finanziaria, risulterebbero maggiormente esposte ai rischi di un aumento dei tassi di interesse, più soggette

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a fenomeni di credit crunch in periodi di politica monetaria restrittiva o a rischio di fallimento in una fase recessiva del ciclo.

In definitiva dunque, correggendo opportunamente i risultati attraverso l’analisi multifattoriale, non sembrerebbe esserci alcuna differenza rilevante a livelli di performance adducibile all’utilizzo di strategie attive o passive e dunque non sarebbe legittimo attribuire all’adozione di particolari stili di gestione eventuali sovra rendimenti dei fondi SRI rispetto a quelli dei fondi tradizionali.

In linea con quanto rilevato da Becchetti e Fucito (1999), ulteriori verifiche avrebbero confermato come eventuali sovra rendimenti orientati nel lungo periodo osservabili in corrispondenza dei fondi SRI, siano attribuibili a fattori causali differenti dallo stile di gestione adottato. In particolare, osservando l’andamento dei rendimenti dei fondi SRI nel tempo, sarebbe possibile individuare la presenza di un fenomeno noto come “Learning Phase” , ovvero di un periodo di circa quattro o cinque anni in cui gli strumenti SRI andrebbero a sottoperformare i competitors tradizionali, riconducibile essenzialmente a due ordini di cause (Regalli et al. 2005):

- Le SGR necessiterebbero di un certo periodo di tempo per imparare a gestire al meglio questi particolari strumenti

- Le imprese solitamente inserite nei portafogli facenti capo ai fondi SRI tenderebbero a creare valore nel lungo termine (Bauer et al. 2002).

In tale ottica, dunque, i fondi SRI sarebbero soggetti ad una sorta di age effect in ragione del quale necessiterebbero di un certo lasso di tempo per poter garantire performance in linea con quelle dei fondi tradizionali, andando addirittura in alcuni casi a superarle. A sostegno di quest’ultima affermazione è possibile infatti osservare come determinate caratteristiche proprie delle imprese facenti parte dell’universo investibile dei fondi SRI conducano le stesse a risultati migliori nel medio-lungo periodo e, conseguentemente, ai fondo che in esse investono di sovraperformare un fondo tradizionale in un’ottica di lungo periodo. Tali caratteristiche però non sarebbero tanto riconducibili a quelle prese in considerazione dagli stili di gestione growth-oriented, quanto piuttosto agli stessi criteri di selezione stanti alla base delle strategie di screening ESG. Le buone

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relazioni con i dipendenti, la garanzia di un luogo di lavoro sicuro, un adeguato piano di incentivi , la stipula di contratti dignitosi, incrementa la produttività della forza lavoro e riduce l’incidenza di errori gestionali e dei costi ad essi connessi. Mantenere buoni rapporti non solo con i dipendenti ma con la generalità degli stakeholders permette infatti all’impresa, al di là dell’abbattimento degli eventuali costi di turnover e di recruitment, di migliorare la qualità della propria reputation, sia presso la clientela, sia verso l’intera società civile.

Se numerose sono le evidenze a sostegno dell’esistenza di un legame tra i rendimenti dei fondi SRI e l’applicazione delle strategie basate sui criteri di responsabilità sociale, se ne possono rinvenire ulteriori svolte allo scopo di individuare il contributo specifico, che le singole categorie di screening possono apportare alla performance globale dei fondi stessi.

Particolarmente numerosi a tal proposito sono i contributi rinvenibili in relazione all’impatto generato a livello di performance delle imprese, e conseguentemente dei fondi che in esse investono, delle politiche ambientali. A tal proposito infatti, come evidenziato da Renneboog et al (2007), per quanto le logiche economiche di base suggeriscano che standard ambientali particolarmente stringenti, implicando maggiori costi di produzione, siano da considerarsi dannosi sotto il profilo della profittabilità di un impresa, una parte sempre più consistente della letteratura empirica sembra individuare la presenza di una relazione positiva tra valore di mercato del titolo e performance ambientale dell’emittente. Alla base di questa relazione risiede infatti l’idea che una gestione strategica ed efficiente sotto il profilo ambientale permetta di prevenire eventuali danni al territorio che, oltre a comportare costi addizionali dell’impresa in ragione all’elevata entità delle sanzioni a riguardo previste dai vari ordinamenti, andrebbero anche, se non soprattutto, a danneggiarne l’immagine sul mercato. L’utilizzo di standard ambientali in ambito gestorio, costituirebbe inoltre un primo passo verso innovazioni produttive, quali l’uso di fonti di energia rinnovabile,molto più economica di quella tradizionale, che nonostante i costi necessari all’implementazione delle relative strutture, comporterebbe evidenti benefici in

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termini di profitto. Come precedentemente sottolineato inoltre, svariate sono le evidenze empiriche a riguardo presenti in letteratura: tra queste, un contributo pionieristico può essere considerato quello di Klassen e McLaughlin (1996), che rileva la presenza di extra rendimenti positivi in corrispondenza del riconoscimento di buoni standard di performance ambientali adottati dalle imprese a fronte di risultati significativamente negativi in termini di performance registrati dopo una crisi ambientale.

Più recente è invece il contributo di Bauer, Derwall, Gunster e Koedijk (2002), in cui tra due portafogli azionari differenti esclusivamente riguardo al profilo degli standard ambientali, è emerso mediante utilizzo dell’analisi multifattoriale, che il fondo denominato “eco-efficient”, ossia realizzato mediante applicazione di strategie di screening ambientale , era in grado di sovraperformare il secondo per un differenziale annuo di rendimento di circa il 6%.

Preme inoltre osservare come, trattandosi anche in questo caso di stime effettuate mediante un modello multifattoriale, si possa concludere che i risultati rilevati in chiave quantitativa, non siano da attribuirsi né ad eventuali anomali di mercato, essendo corretti per più fattori di rischio, né in termini di particolari stili di gestione o sovraesposizioni settoriali, ma piuttosto ad un reale contributo in termini performance da attribuirsi agli standard di natura ambientale delle imprese emittenti identificabili mediante le relative strategie di screening.

Negli ultimi anni poi , soprattutto a seguito della rilevanza acquisita da tematiche attinenti ai sistemi di governance delle imprese, anche in relazione al ruolo che queste hanno ricoperto negli avvenimenti che hanno condotto alla crisi finanziaria del 2007, ulteriori analisi sono state sviluppate anche in merito al contributo offerto alla performance degli investimenti SRI delle strategie di corporate governance screening.

Tra questi lo studio condotto da Gompers, Ishii e Metrick (2003) ha condotto un analisi volta ad indagare la relazione tra un set di 24 clausole anti takeover inserite nella struttura di governance di un’ impresa e la performance di lungo periodo della stessa. A tal proposito, preme osservare in primo luogo come , dal momento che le strutture di governance delle imprese non hanno carattere

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esogeno, lo studio in parola non abbia fatto alcuna menzione del tipo di relazione eventualmente esistente tra queste e la performance dell’impresa, limitandosi al contrario a rilevare l’esistenza o meno di un qualsiasi legame tra le due variabili in gioco. Ebbene, lo studio avrebbe rilevato una sorprendente correlazione tra le caratteristiche della struttura di governance adottata e i rendimenti azionari ; in particolare una strategia che implichi l’acquisto di titoli emessi da società che assicurano una più ampia e solida gamma di diritti ai propri azionisti a fronte della vendita di quelli emessi da società con un azionariato scarsamente tutelato, sarebbe in grado di generare extra rendimenti di circa l’8.5% su base annua. Il risultato a cui lo studio in oggetto è pervenuto, è senza dubbio statisticamente significativo, tuttavia, sotto il profilo qualitativo è inevitabile individuare un limite altrettanto significativo nel delineare le caratteristiche della struttura di governance, soltanto in relazione alle clausole anti takeover adottate dall’impresa.

Proprio a seguito della constatazione di tali limiti, Cramers e Nair (2005) hanno realizzato un’estensione dell’analisi realizzata da Gompers, Ishii e Metrick (2003) , classificando i meccanismi di corporate governance in governance esterna, relativa alla cd takeover vulnerability, e governance interna, relativa alla presenza di azionisti istituzionali di maggioranza, servendosi poi, come standard di misurazione di quest’ultima, della percentuale di quote detenute da azionisti istituzionali di maggioranza e di quella detenuta invece da fondi pensione. Di nuovo, l’analisi era finalizzata ad indagare che tipo di interazioni vi fossero tra l’applicazione da parte di un impresa dei meccanismi di governance delineati e i rendimenti azionari associati all’impresa stessa. I risultati, avrebbero rilevato anche in questo caso una correlazione tra il grado di complementarietà dei due meccanismi di corporate governance e i rendimenti azionari; in particolare una strategia di screening basata sulla valorizzazione dei diritti posti a tutela degli azionisti, e dunque inseribile nei meccanismi classificati come esterni, sarebbe in grado di generare extra rendimenti su base annua del 10-15%, nei casi in cui, in relazione ai meccanismi classificati come interni, vi sia la presenza di un azionariato di maggioranza solido e compatto. In maniera del tutto similare,

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anche una strategie di selezione basata sui meccanismi di governance interna realizzerebbe extra rendimenti su base annua di circa l’8%, qualora sia rilevabile anche la presenza di meccanismi di governance esterna.

Le evidenze empiriche riportate , che si muovono nella direzione di individuare una relazione positiva tra la buona qualità delle strutture di governance adottate e la performance dell’impresa a valere nel tempo, e dunque anche di quella dei fondi che in essa decida di investire, sono poi ulteriormente suffragate dagli studi che, a seguito della crisi finanziaria del 2007, sono andati ad analizzare l’andamento dei fondi SRI nel periodo di crisi, per meglio comprendere le ragioni per cui la diffusione di questi strumenti avesse conosciuto una crescita rilevante proprio in corrispondenza di questa fase negativa del ciclo. Rinviando al capitolo successivo per una disamina completa delle evidenze rilevate in tal senso, le analisi svolte hanno rilevato una particolare capacità di alcune delle strategie attuate dai fondi SRI nel ridurre l’entità del rischio di perdite durante le fasi recessive (Nosfinger e Varma 2013), e tra queste, le strategie che sembrano riportare i risultati più significativi in tal senso, sembrano essere proprio quelle strategie di screening costruite sull’analisi delle strutture di governance delle imprese. Un tale risultato, così come quello relativo ad una più generale funzionalità delle strutture di governance nell’influenzare positivamente la performance di un impresa, si pone perfettamente in linea con le considerazioni effettuate a seguito dello scoppio della crisi , che vedono tra le principali cause della stessa proprio un fenomeno di deterioramento generalizzato delle strutture di governance delle grandi società finanziarie e non, con particolare enfasi posta sui meccanismi di remunerazione previsti per il top management. A proposito di questi ultimi , come riportato all’interno del Financial Crisis Inquiry Commission Report5, Sheila Bair (FDIC Chairman) si sarebbe espressa asserendo che, “The

crisis has shown that most financial institution compensation systems were not

5 Financial Crisis Inquiry Commission (FCIC) è il nome della commissione d’inchiesta formata da 10

membri e nominata dal Governo degli USA al fine di indagare sulle cause della crisi economico-finanziaria scoppiata nel 2007. Per circa un anno e mezzo, la commissione ha indagato sull’operato di banche, società finanziarie, società assicurative, agenzie di rating, allo scopo di individuare l’effettivo grado di coinvolgimento dei vari operatori, svolgendo lo stesso compito che vide impegnata la Commissione Pecora nel 1932 con riguardo all’individuazione delle cause della Grande Depressione.

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properly linked to risk management. Formula-driven compensation allows high short-term profits to be translated into generous bonus payments, without regard to any longer-term risk.”, mentre Mary Schapiro (SEC Chairman), sempre in relazione ai meccanismi di remunerazione diffusisi negli anni immediatamente precedenti allo scoppio della crisi conclude che, “Many major financial institutions created asymmetric compensation packages that paid employees enormous sums for short-term success, even if these same decisions result in significant long-term losses or failure for investors and taxpayers” (Financial Crisis Inquiry Commission, 2011) .

Figura 1: Schema riassuntivo dell’analisi per componenti delle performance dei fondi SRI

Fonte: Elaborazione personale.

Lo schema riassume le questioni principali affrontate in questo capitolo; partendo infatti dalla constatazione del fenomeno di crescita e diffusione che ha interessato i fondi Sri negli ultimi anni, ci siamo chiesti se i numeri e le statistiche in merito, potessero essere giustificate da reali opportunità di performance offerte da questi strumenti e quali fossero le determinanti di tali opportunità. A tale scopo, abbiamo dunque scomposto la performance di un fondo SRI nelle sue varie

SRI FUNDS SACRIFICIO ETICO COSTI ADDIZIONALI DIRETTI (PRICING) COSTI ADDIZIONALI INDIRETTI (MAGGIOR RISCHIO) RENDIMENTI - PARTICOLARI STILI GESTIONALI - ANOMALIE DEL MERCATO STRATEGIE DI SCREENING ESG

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componenti, ponendo da un lato quelle che potevano agire negativamente sulla stessa e dall’altro quelle che invece potevano incrementarne l’entità.

Per ciò che attiene alle prime, abbiamo discusso circa l’esistenza o meno di quello che abbiamo denominato “sacrificio etico”, ossia di un aggregato di costi addizionali che graverebbero più o meno direttamente sull’investitore “etico” penalizzandone i guadagni, in ragione delle particolari strategie adottate dai fondi SRI. Abbiamo poi suddiviso ulteriormente questo aggregato, espressione del prezzo ipoteticamente pagato dall’investitore per inserire nelle proprie scelte di investimento anche altri fattori di analisi di natura extra finanziaria, in due categorie di costi addizionali : quelli relativi ad un ipotetico assetto commissionale più oneroso dei fondi SRI, quelli relativi ad un maggior livello di rischio connesso alla riduzione del grado di diversificazione degli investimenti causata dai vincoli imposti sull’universo investibile. Da quanto riportato nell’indagine effettuata è emerso che:

 Dall’analisi delle strutture di costo dei fondi SRI è emersa l’assenza di una correlazione tra eticità dei fondi (misurabile attraverso le strategie di screening ESG adottate) e pricing, segno che le strategie socially responsible non incidono negativamente sul prezzo dello strumento. Inoltre, il confronto tra i costi connessi ai fondi SRI e quelli dei fondi tradizionali, ha evidenziato addirittura una minore onerosità media della prima categoria rispetto alla seconda, segno che il fattore pricing, oltre a non poter essere considerato come un “sacrificio” per l’investitore, andrebbe al contrario a configurarsi come una leva strategica da sfruttare al fine di una ancora maggior diffusione di tali strumenti sul mercato.

 In relazione ai costi connessi ad un ridotto grado di diversificazione dei portafogli facenti capo ai fondi SRI, se calcolando la performance degli investimenti SRI solo in termini di varianza, è stata effettivamente rilevata la presenza di un sacrificio etico connesso ad un maggior grado di rischiosità degli stessi, analisi più complete hanno dimostrato come tale sacrificio divenga in realtà trascurabile quando il

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