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C
APITOLOP
RIMOI RIFIUTI: ASPETTI GENERALI E
DEFINIZIONI
SOMMARIO: 1. La disciplina dei rifiuti: regole in continua evoluzione. - 2. Il concetto di rifiuto: definizione e limiti alla luce del nuovo D.lgs. 205/2010. - 2.1. I sottoprodotti. - 2.2. le materie prime secondarie e il concetto di End of Waste. - 3. Classificazione dei rifiuti. - 3.1. Rifiuti urbani, speciali e assimilati. Definizioni e disciplina. - 3.2. (segue) Rifiuti pericolosi e non pericolosi.
1. La disciplina dei rifiuti: regole in continua evoluzione
I rifiuti costituiscono la seconda vita dei beni, in quanto l’obsolescenza e la deperibilità di ogni materiale e sostanza ne determinano nel tempo l’inservibilità, il disfacimento e dunque la trasformazione in rifiuto. L’esigenza di gestire i rifiuti ha origini risalenti, basti pensare, storicamente, alla Lex Iulia Municipalis1, con cui nel 45 a. C. Giulio Cesare incaricò
1 P. PISANI, Uomo, natura, ambiente nella letteratura latina: urbanizzazione ed
urbanesimo, tutela dell'ambiente e "problemi ecologici" a Roma dall'età di Cesare a quella di Traiano, Indiana University, Compagnia dei Librai, 1990, p.52.
2 curatores viarum della manutenzione e della pulizia delle strade dai
rifiuti ivi liberamente dispersi.
All’epoca delle città pestilenziali, intorno al 1300, quando l’igiene urbana era ancora assolutamente inesistente, si iniziò a diffondere la cosiddetta Teoria miasmatica, una teoria che associava al cattivo odore diffuso nelle città, la causa dell’insorgere di terribili malattie. Tale teoria, sopravvisse per diversi secoli, insinuando nelle coscienze umane il legame tra la salubrità dell’ambiente e la salute umana1.
Solo con la Rivoluzione scientifica di metà ‘800, si iniziarono ad acquisire conoscenze più appropriate in materia. La situazione igienica non era sicuramente delle migliori nei sobborghi delle neonate città industriali londinesi, ma il progresso tecnologico spinse fortemente verso il cambiamento, tanto da condurre all’ideazione dei primi grandi sistemi fognari europei: Eugene Haussmann progettò quello di Parigi, Joseph Bazalgette quello londinese2.
In Italia, la materia dei rifiuti ha avuto una vita
1 R.GHIRARDI, La febbre cattiva: storia di una epidemia e del suo passaggio per Mantova, Mantova, Bruno Mondadori, 2013, par.1.2: “Il termine miasma derivante dal verbo “miaino” indica emanazione che si spande nell’aria, da sostanze organiche corrotte, nocive alla salute(…)”.
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particolarmente tormentata, caratterizzata dalla continua ricerca di un equilibrio tra le esigenze della produzione e quelle della tutela dell’ambiente e delle salute3.
Uno dei primi interventi normativi di settore risale al 1934, quando venne introdotto il Testo Unico delle Leggi Sanitarie4, il
quale attribuendo ai Sindaci dei vari Comuni specifiche competenze, disciplinò al Titolo III la materia dell’ Igiene del suolo
e dell’abitato, dedicandone il Capo IV all’Igiene degli abitati urbani e rurali e delle abitazioni.
Successivamente, fu promulgata la legge n.366 del 19415, che
Focalizzò l’attenzione in modo più puntuale sulla disciplina relativa alle regole di raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti urbani.
L’originaria assenza di un espresso riferimento all’ambiente nei trattati istitutivi della Comunità europea non ha ostacolato l’attività normativa comunitaria, che ha inizialmente trovato il proprio fondamento di legittimazione nella clausola dei poteri impliciti6, come dimostra l’emanazione, nel 1975, della direttiva
3 L. RAMACCI, I rifiuti: la gestione e le sanzioni, Piacenza, La Tribuna, 2014, p.17. 4 Regio decreto 27 Luglio 1934, n. 1265.
5 L. 20 Marzo 1941 n. 366.
6 Poteri impliciti [Teoria dei] art.308 Trattato CE. Si tratta di una teoria inizialmente
elaborata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti e successivamente accolta anche dalla Corte Internazionale di Giustizia e dalla Corte di Giustizia delle Comunità. Secondo tale teoria un organo internazionale può utilizzare tutti i mezzi a sua
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75/442/CEE, la prima a dettare una disciplina organica in materia di rifiuti.
In seguito, l’introduzione nel TCE di un apposito titolo (il XIX) dedicato alla tutela dell’ambiente, avvenuta nel 1986 ad opera dell’Atto Unico Europeo, ha offerto un esplicito fondamento di legittimazione agli interventi europei in questa materia, fornendo ulteriore slancio alla produzione legislativa. Sono infatti seguite tre ulteriori generazioni normative, rappresentate dalla direttiva 91/156/CEE (recepita in Italia con il D.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22), dalla direttiva 2006/12/CE (trasfusa nel D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), ed infine la direttiva 2008/98/CE, che ha recentemente imposto un intervento di riforma del codice dell’ambiente (ad opera del D.lgs. 3 dicembre 2010, n. 205).
Nel nostro ordinamento, la prima disciplina organica in materia di rifiuti è rappresentata dal D.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, meglio noto come Decreto Ronchi. Con esso la gestione dei rifiuti, sottratta all’esiguo ambito dell’igiene e della sicurezza urbane, ha assunto una ben più ampia funzione di tutela ambientale e sanitaria,
disposizione per raggiungere gli scopi previsti dal trattato istitutivo dell’organizzazione stessa, anche quando tali mezzi non sono espressamente previsti nel testo del trattato. Edizioni Giuridiche SIMONE, Dizionari online.
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nell’ottica della sostenibilità dell’uso delle risorse e della valutazione unitaria del ciclo di vita dei beni.
Con l’entrata in vigore del D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (c.d. Testo Unico in materia Ambientale o Codice dell’ambiente), che ha abrogato quasi completamente il decreto Ronchi, la disciplina in materia di rifiuti è infine confluita nella parte IV del nuovo testo normativo (artt. 177 e ss.), rubricata “Norme in materia
di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati”.
Di recente, tale disciplina è stata incisivamente modificata dal D.lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, il quale è intervenuto per dare recepimento alla Direttiva europea 2008/98/CE.
Nell’attuale quadro normativo, comunitario e nazionale, la gestione dei rifiuti è definita come “attività di pubblico interesse”7 e
deve avvenire in conformità con i principi di cui all’art. 178 del Codice dell’Ambiente8, ossia quelli di “precauzione, prevenzione,
sostenibilità, proporzionalità, responsabilizzazione e cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, distribuzione, nell’utilizzo e consumo di beni da cui originano rifiuti, nonché del principio chi inquina paga”.
7 Art. 177, D.lgs. 152/2006, così come modificato dal D.lgs. 205/2010. 8 Articolo così sostituito dall’art. 2 del D.lgs. n. 205/2010.
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2. Il concetto di rifiuto: definizione e limiti alla luce del nuovo D.lgs. 205/2010
Prima di addentrarsi nello studio e nell’analisi delle regole e delle problematiche che governano e caratterizzano il mondo dei rifiuti, è opportuno soffermarsi sul concetto di rifiuto, andando a fornirne una precisa definizione alla luce della normativa vigente.
La nozione di rifiuto, individuata dal D.lgs. 152/2006 ex art. 183 comma 1° lett. a)9, è stata modificata dal D.lgs. 3 dicembre
2010 n. 205, con il quale, in attuazione della direttiva comunitaria 2008/98/CE, si prevede che debba considerarsi rifiuto qualsiasi
sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi.
Un’adeguata comprensione di tale norma, suggerisce la presenza di due nuclei fondamentali, individuabili attraverso l’utilizzo di due chiavi di lettura: la prima in termini oggettivi, la seconda in termini soggettivi.
9 Testo Unico in materia ambientale. Prima dell’intervento legislativo del 2010, l’art
183, c.1, lett. a), così recitava: “rifiuto”: qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle
categorie riportate nell’Allegato A alla parte Quarta del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi.
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Nel primo senso infatti, è importante notare che l’attenzione del legislatore si rivolge a qualsiasi sostanza od oggetto, intendendo per tali solo beni mobili, escludendo quindi quelli immobili, piuttosto che le emissioni nocive immesse nell’aria (quali i fumi di una fabbrica) o le acque di scarico (cui è dedicata un’apposita normativa)10. In questi termini, la norma si pone quindi come
comprensiva di un insieme ampio e apparentemente indefinito di
res derelictae11.
Tuttavia, la seconda parte della stessa, fornisce in termini soggettivi il criterio discretivo necessario per distinguere ciò che è rifiuto, da ciò che non lo è. L’aspetto principale che viene preso in considerazione è infatti il comportamento del detentore12, il quale
risulta potersi trovare in tre diverse situazioni, in funzione della circostanza, della volontà e dell’obbligo, di disfarsi di un
10 L’art. 185, c. 1, D.lgs. 152/2006, così come modificato dal D.lgs. 205/2010, fornisce
un’elencazione di tutto ciò che è escluso dalla nozione di rifiuto, ricomprendendo nella medesima: lett. d) i rifiuti radioattivi, lett. e) i materiali esplosivi in disuso, lett. f) le
materie fecali, se non contemplate dal comma 2 lettera b), paglia felci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, in selvicoltura o per la produzione di energia (…). La stessa norma
prevede al comma 2 che, oltre alle acque di scarico (lett.a), sono esclusi dalla parte
quarta del suddetto decreto, in quanto regolati da altre disposizioni normative comunitarie, ivi incluse le rispettive norme nazionali di recepimento: lett. b) i sottoprodotti di origine animale, lett.c) le carcasse di animali morti per cause diverse dalla macellazione (…), lett. d) i rifiuti risultanti dalla prospezione, dall’estrazione, dal trattamento, dall’ammasso di risorse minerali o dallo sfruttamento delle cave (…).
11 Categoria giuridica comprendente tutte le cose possedute da un soggetto privato e
successivamente abbandonate dallo stesso.
12 Art. 183, c. 1, lett. h), D.lgs. 152/2006 definisce il “detentore” come il produttore dei
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determinato oggetto. Ciò significa che gettare un bene nuovo e dotato ancora di tutte le proprie caratteristiche qualitative e funzionali, non impedirà, ai sensi della legge, la sua automatica trasformazione in rifiuto, e questo, proprio in virtù del fatto che un determinato soggetto abbia comunque inteso disfarsene.
Tali considerazioni permettono di rilevare la profonda distinzione che sussiste tra l’interpretazione del termine proveniente dal senso comune e quella proveniente dal mondo giuridico. Se infatti la prima porterebbe a considerare come rifiuti soltanto quelle
res ormai prive di valore e utilità, la seconda amplia la categoria,
andando a ricomprendervi tutti quei beni a cui sia comunque attribuibile un valore residuo, tale per cui sia possibile ricavare da essi materie o sostanze suscettibili di riutilizzo.
La nozione di rifiuto è stata quindi oggetto nel corso degli anni di profonde incertezze e una sua puntuale delineazione ha appassionato lungamente dottrina e giurisprudenza.
In quest’ottica, la tendenza del legislatore comunitario (e di riflesso di quello nazionale) è stata volta al restringimento, progressivo e puntuale, del concetto di rifiuto, con lo scopo di eliminare in modo più incisivo ogni eventuale dubbio interpretativo.
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Proprio in virtù di ciò, una corretta individuazione della nozione di rifiuto non può oggi prescindere dall’identificazione normativa di ciò che rifiuto non è. In tal senso, è necessario quindi introdurre due nuovi concetti, che, per loro natura, delimitano a monte e a valle quello di rifiuto: i sottoprodotti e le materie prime secondarie.
2.1. I sottoprodotti
La nozione di sottoprodotto è direttamente ricavabile da una lettura comparata dell’art. 183, lett. qq), del D.lgs. 152/2006 (così come modificato dal D.lgs. 205/2010) e del successivo art. 184-bis. Nel primo infatti, si stabilisce che debba qualificarsi come “sottoprodotto”: qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa le
condizioni (…) o che rispetta i criteri stabiliti in base all’art. 184- bis(…).
Condizioni e criteri sono quindi i parametri di riferimento che
orientano la definizione di sottoprodotto, ma, per comprendere adeguatamente il significato di tale espressione, risulta necessario e inevitabile analizzare rispettivamente il primo e il secondo comma del 184-bis.
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Il primo comma della norma in questione prevede infatti quattro condizioni imprescindibili affinché una certa sostanza o un determinato oggetto possano assumere la qualificazione di sottoprodotto anziché quella di rifiuto. A tale proposito, è importante sottolineare che è necessario il contemporaneo soddisfacimento di tutte e quattro le condizioni: il mancato rispetto di anche solo una di esse, farà automaticamente ricadere la res in questione nella categoria dei rifiuti13.
La prima condizione, definita alla lett. a), è che la sostanza o l’oggetto sia originato da un processo di produzione, di cui costituisca parte integrante, pur non rappresentandone lo scopo primario.
Secondariamente, alla lett. b), si afferma la necessità di rilevare che la sostanza o l’oggetto sarà certamente14 riutilizzato nel
corso dello stesso o di un successivo processo di produzione, da parte del produttore medesimo o di terzi. A tale riguardo, è
13 Nel primo comma dell’art. 184-bis si legge infatti che è da considerarsi
sottoprodotto e non rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi tutte le condizioni elencate nel seguito della stessa norma.
Tale precisazione era stata già effettuata dalla giurisprudenza, precedentemente all’entrata in vigore dello stesso 184-bis. A tale proposito si era infatti pronunciata la Corte di Cassazione sez. III pen. con sentenza del 19 dicembre 2008 n. 47085.
14 La certezza del riutilizzo sussiste ogni qualvolta esiste una prassi consolidata e
dimostrabile per cui un determinato oggetto o sostanza viene ad essere inviato con regolarità ad un ciclo produttivo atto ad impiegarlo all’interno dei propri processi.
L. PRATI, La nuova definizione di sottoprodotto e il trattamento secondo la normale
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opportuno ricordare l’importante evoluzione normativa e giurisprudenziale che si è avuta in tema di riutilizzo15. La Corte di
Giustizia Europea infatti, con la Sentenza Palin Granit Oy del 200216, affermò che l’utilizzo del sottoprodotto, rispondente alle
specifiche condizioni previste, potesse avvenire solamente all’interno dello stesso ciclo di produzione. Pertanto, la previsione sancita dal D.lgs. 205/2010, consentendo al sottoprodotto di uscire da un certo impianto di produzione, spostandosi verso un diverso impianto per essere riutilizzato all’interno di un ciclo produttivo differente, costituì un’importantissima e assoluta novità.
Terzo aspetto fondamentale, individuato alla lett. c), è che il successivo utilizzo della sostanza in questione, non comporti un trattamento della medesima diverso da quella che può essere considerata la normale pratica industriale. Tale ultimo concetto, dal carattere innegabilmente generico, è stato definito in termini più specifici dalla giurisprudenza, la quale ha affermato che dalla
normale pratica industriale sono escluse tutte quelle attività
15 D.lgs. 152/2006, così come modificato dal D.lgs. 205/2010, art. 183, lett. r).
Definizione di “riutilizzo”: qualsiasi operazione attraverso la quale prodotti o
componenti che non sono rifiuti sono reimpiegati per la stessa finalità per la quale erano stati concepiti.
12 comportanti trasformazioni radicali del materiale trattato, che ne stravolgano l’originaria natura17.
Infine, l’ultima condizione prevista dalla lett. d), dell’art. 184-bis, focalizza l’attenzione sulla necessità che il successivo utilizzo della sostanza-oggetto sia legale, ossia che esso non comporti impatti complessivi negativi sull’ ambiente o la salute
umana.
Per quanto riguarda i criteri invece, accennati nella parte iniziale di questo paragrafo, il secondo comma dello stesso articolo prevede la possibilità che uno o più decreti ministeriali adottino misure per stabilire ulteriori criteri qualitativi o quantitativi da
soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti. Uno dei decreti più
importanti in tal senso, è rappresentato dal D.M. 10 agosto 2012, n. 161, contenente il regolamento recante la disciplina dell’utilizzazione delle terre e rocce da scavo, affinché i materiali di scavo, siano considerati sottoprodotti e non rifiuti.
Una volta accertati e qualificati come sottoprodotti, le
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sostanze e gli oggetti in questione usciranno definitivamente dal campo di applicazione della disciplina dei rifiuti, andando così a generare una riduzione dell’impatto ambientale complessivo.
Uno dei settori in maggior espansione in cui trovano impiego i sottoprodotti è quello energetico. Le c.d. biomasse infatti, altro non sono che sostanze o materiali di origine biologica, generalmente scarti dell’industria agricola e alimentare, dalle quali, attraverso una serie di operazioni, è possibile ricavare energia. Una di queste consiste nei trattamenti in impianti a biogas, nei quali tali sostanze vengono, in condizioni anaerobiche, fermentate e digerite
battericamente18 trasformandosi così in gas riutilizzabile, costituito principalmente da metano e anidride carbonica.
2.2. Le Materie Prime Secondarie e il concetto di End of Waste
Prima di analizzare la disciplina giuridica relativa alle Materie Prime Secondarie (MPS), è opportuno sottolineare concettualmente la distinzione che sussiste tra queste e i sottoprodotti.
18 Enciclopedia Treccani. Digestione batterica: trasformazione chimica di tipo
demolitivo, operata da microrganismi aerobici o anaerobici su sostanze organiche solide o semisolide.
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Entrambe le categorie infatti, si pongono agli estremi dell’ambito di applicazione della disciplina dei rifiuti, tuttavia la differenza tra le due è notevole: ciò che è sottoprodotto non è mai stato rifiuto; ciò che è materia prima secondaria sì. Le materie prime secondarie infatti, costituiscono il risultato di un processo di recupero dei rifiuti.
La norma di riferimento nel testo originario del D.lgs. 152/2006 era l’art. 181-bis, rubricato Materie, sostanze e prodotti
secondari, in cui si indicavano una serie di criteri, requisiti e
condizioni affinché per un determinato prodotto, uscito da
un’operazione di riutilizzo, di riciclo o di recupero di rifiuti19, si potesse parlare di MPS.
Nel 2008, tuttavia, la Direttiva n. 98 della CE ha innovato profondamente la materia e all’art. 6 ha introdotto il tema della
cessazione della qualifica di rifiuto, definito dagli inglesi con
l’espressione End of Waste. Si trattò di un’importante novità, poiché rispetto alla normativa previgente il legislatore comunitario non si limitò al concetto di mera non rientranza20 di determinate
19 Art. 181-bis, c.1, lett.a).
20 Art. 181-bis, c.1: Non rientrano nella definizione di cui all’art. 183, c.1, lett.a), le
materie, le sostanze e i prodotti secondari definiti dal decreto ministeriale di cui al comma 2, nel rispetto dei seguenti criteri, requisiti e condizioni (…).
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sostanze nella categoria dei rifiuti, ma sottolineò come tali sostanze in origine appartengano proprio a suddetta categoria, e come le stesse vi escano, trasformate appunto in MPS, solo a seguito di un processo di recupero.
Tale previsione comunitaria in Italia è stata recepita dal D.lgs. 205/2010, il quale è andato a modificare l’originario Testo Unico
Ambientale introducendovi l’art. 184-ter, rubricato
specificatamente Cessazione della qualifica di rifiuto.
Sulla base del dettato del primo comma della sopracitata norma, è possibile rilevare che sono sostanzialmente quattro le condizioni per le quali un rifiuto, che è stato sottoposto ad
un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo21, e che soddisfi criteri specifici, cessa di essere
tale.
Innanzitutto, deve trattarsi di una sostanza o di un oggetto comunemente utilizzato per scopi specifici (comma 1, lett. a ), e per
il quale esista un mercato o una domanda (comma 1, lett. b). Da questo punto di vista il legislatore mette quindi in evidenza la rilevanza delle caratteristiche merceologiche della sostanza in
21 Definizioni di recupero, riciclaggio e preparazione per il riutilizzo contenute
rispettivamente alle lett. t), u), q) art. 183, D.lgs. 152/2010, così come modificato dal D.lgs. 205/2010.
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questione, correlandole alla concreta possibilità che la medesima possa essere richiesta dal mercato, trovando così, in funzione della propria utilità economica, nuovi sbocchi e applicazioni.
A tale proposito inoltre, da quanto si ricava nel comma 1, lett. c) la sostanza o l’oggetto deve possedere i requisiti tecnici necessari per gli scopi specifici cui sarà destinata, rispettando la normativa e gli standard esistenti di riferimento.
Infine, l’ultima condizione necessaria è espressione di quelli che possono essere senz’altro considerati gli scopi principali di tutta la normativa di settore, ossia la tutela dell’ambiente nel suo complesso e conseguentemente quella della salute umana, in funzione dei quali il legislatore specifica infatti alla lett. d), del medesimo comma, che l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto in
questione non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.
Il secondo comma dell’art. 184-ter chiarisce quali siano i
criteri specifici di cui al primo comma, specificando che i
medesimi, includendo ove necessario valori limite per le sostanze
inquinanti e tenendo conto di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente della sostanza, saranno adottati in conformità della
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disciplina comunitaria22, integrando eventualmente la stessa caso
per caso (…) attraverso uno o più decreti del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare. Un importante
decreto emanato in tal senso è stato il DM 14 febbraio 2013 n. 22, contenente un regolamento puntuale nell’ambito della cessazione della qualifica di rifiuto di determinate tipologie di combustibili solidi secondari (CSS).
Tuttavia, laddove si verifichi un ritardo nell’adozione di uno o più di tali decreti, il terzo comma dell’art. 184-ter puntualizza che continueranno a trovare applicazione le discipline specifiche previste dai decreti n. 161 del 200223, n. 269 del 200524 e dall’art.
9-bis, lett. a) e b) del decreto legge n.172 del 200825.
Le materie prime secondarie, al pari dei sottoprodotti, una
22 A tale riguardo: Regolamento (UE) 31 marzo 2011, n. 333, recante I criteri che
determinano quando alcuni tipi di rottami metallici cessano di essere rifiuti ai sensi della Direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio; Regolamento
(UE) 10 dicembre 2012 n. 1179, recante I criteri che determinano quando i rottami di
vetro cessano di essere considerati rifiuti (…); Regolamento 25 luglio 2013 recante I criteri che determinano quando i rottami di rame cessano di essere considerati rifiuti (…).
23 DM Ambiente 12 giugno, n. 161, relativo all’ Individuazione dei rifiuti pericolosi che
è possibile ammettere alle procedure semplificate.
24 DM Ambiente 17 novembre 2005, n. 269, relativo all’Individuazione dei rifiuti
pericolosi provenienti dalle navi, che è possibile ammettere alle procedure semplificate.
25 Decreto legge 6 novembre 2008, n. 172. Misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza del settore dello smaltimento dei rifiuti nella regione Campania, nonché misure urgenti di tutela ambientale. Art. 9-bis: Altre misure urgenti di tutela ambientale.
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volta riconosciute come tali escono dall’ambito di applicazione della disciplina dei rifiuti, così come evidenzia il comma quinto della norma in esame. Questo spiega la loro importanza, dal momento in cui, alla luce del disposto del comma quarto, esse potranno infatti computarsi ai fini del calcolo del raggiungimento
degli obiettivi di recupero e riciclaggio previsti dalla normativa nazionale e comunitaria, incrementandone positivamente i risultati.
3. Classificazione dei rifiuti
Le tipologie di rifiuti con cui la società del 2000 ha ormai imparato a convivere sono molteplici e differenziate. Ogni rifiuto è soggetto a discipline specifiche, che ne individuano le operazioni di gestione dal momento in cui esso viene prodotto, al momento in cui sarà recuperato od eventualmente smaltito.
È dunque necessario procedere con ordine, partendo dall’ individuazione dei criteri di classificazione dei rifiuti.
Sulla base del disposto dell’art. 184, comma 1, del D.lgs. 152/2006 (così come modificato dal D.lgs. 205/ 2006) si rileva che i rifiuti possono essere distinti in base a due diversi parametri: l’origine e la pericolosità.
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Il criterio dell’origine, ossia quello relativo all’ambito di provenienza del rifiuto, conduce alla distinzione tra rifiuti urbani e speciali, nonché all’individuazione della categoria intermedia dei rifiuti assimilati.
Il criterio della pericolosità invece, permette di considerare separatamente i rifiuti pericolosi da quelli non pericolosi in funzione del rischio, più o meno esistente, che parti o componenti del rifiuto in questione possano nuocere la salubrità dell’ ambiente e/o la salute umana.
Per la corretta classificazione di un rifiuto sarà quindi necessario integrare i due criteri, i quali, da questo punto di vista, risultano imprescindibilmente complementari l’uno all’altro.
3.1 Rifiuti urbani, speciali e assimilati: definizione e disciplina
La categoria dei rifiuti urbani è sicuramente ampia e diversificata, ma probabilmente è anche la più nota, per la tipologia e la provenienza degli scarti che comprende. Sono considerati tali infatti i rifiuti domestici, anche ingombranti, provenienti da locali e
luoghi adibiti ad uso di civile abitazione; i rifiuti provenienti dallo spazzamento delle strade; i rifiuti di qualunque natura o
20 provenienza giacenti su strade, aree pubbliche o aree private soggette comunque ad uso pubblico, sulle spiagge marittime, lacuali o sulle rive dei corsi d’acqua; ed ancora, i rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali;
così come i rifiuti provenienti da esumazioni, estumulazioni e da
altre attività cimiteriali26.
Si tratta dunque, di tutti quei rifiuti riconducibili alla vita domestica e pubblica dei privati cittadini, e a tutte quelle attività legate alla gestione dell’igiene urbana. La frazione principale di cui è composta tale categoria è quella organica (rifiuti biodegradabili provenienti da parchi, giardini e dal settore alimentare27), seguita in
ordine da quella di carta, plastica, vetro, metalli, legno e tessili28.
Il disfacimento dei rifiuti urbani da parte della comunità, può avvenire in base a differenti modalità, che di volta in volta sono stabilite e scelte dalle Pubbliche Amministrazioni locali in funzione di diversi parametri, quali la conformazione del territorio, il bacino d’utenza, le risorse economiche disponibili e soprattutto il risultato auspicabile in termini di recupero e riciclaggio.
26 Art. 184, c. 2, lett. a), c), d), e), f), D.lgs. 152/2006, così come modificato dal D.lgs.
205/2010.
27 Art.182-ter, D.lgs. 152/2006, così come modificato dal D.lgs. 205/2010. 28 Rapporto rifiuti urbani 2014, fonte ISPRA.
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Il metodo sicuramente più utilizzato è quello che si avvale dell’uso di appositi cassonetti, localizzati lungo le strade cittadine e differenziati o meno a seconda dei materiali che vi sono destinati.
Ci sono poi i veri e propri centri di raccolta, noti anche come isole ecologiche o ecopiazzole, definiti dal D.lgs. 205/2010 come aree presidiate e allestite (…) per l’attività di raccolta
mediante raggruppamento differenziato dei rifiuti urbani per frazioni omogenee conferiti dai detentori per il trasporto agli impianti di recupero e trattamento29. I centri di raccolta, non
essendo destinati al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti, non necessitano delle specifiche autorizzazioni, richieste per tali attività; è tuttavia necessario che il gestore del centro sia iscritto all’Albo nazionale dei gestori ambientali30. Le isole ecologiche vengono
generalmente istituite per garantire un maggior rispetto del decoro urbano, esse infatti devono approvate in conformità con la normativa vigente in materia urbanistica e edilizia, dal comune in cui sono ubicate e devono, altresì, essere servite da una rete viaria urbana al fine di facilitare l’accesso agli utenti, nonché ai mezzi
29 Art. 183, c. 1 lett. mm), D.lgs. 152/2006. 30 Art. 212, D.lgs. 152/2006.
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pesanti per il conferimento agli impianti di recupero o a quelli di smaltimento.
Infine la più innovativa modalità di conferimento predisposta è quella porta a porta, in cui, in un’ ottica di collaborazione tra PA e cittadini, si predispone una raccolta puntuale casa per casa (che generalmente avviene 2-3 volte a settimana), a patto che i rifiuti siano già stati dall’utente appositamente separati in base alla loro natura. Si tratta di un sistema sperimentato ormai già da molti anni in diverse province italiane, al fine di incentivare la raccolta differenziata.
Quest’ultima infatti, come sarà analizzato nel capitolo successivo, costituisce un tassello fondamentale per il recupero dei rifiuti, senza la quale si verrebbe inevitabilmente meno al rispetto della logica europea incentrata sulla considerazione dello smaltimento come soluzione residuale.
Sulla base dei dati raccolti dall’ISPRA31, si stima che
nell’anno 2013 in Italia siano state prodotte circa 29.594.665 tonnellate di rifiuti urbani: di queste, circa 12,5 milioni sono state oggetto di raccolta differenziata.
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Spostando l’attenzione sui rifiuti speciali invece, la norma che viene in esame è l’art. 184, comma 3, del D.lgs. 152/200632.
Essa ne fornisce un elenco specifico e, in base alla provenienza dei medesimi, distingue tra: rifiuti provenienti da attività agricole e
agroindustriali; rifiuti derivanti da attività di demolizione, costruzione e scavo; rifiuti originati da processi industriali, artigianali o commerciali; i rifiuti provenienti da attività di servizio, sanitarie, o da quelle aventi ad oggetto il recupero e lo smaltimento di altri rifiuti.
Da tale ampia categoria devono tuttavia essere esclusi quei rifiuti non pericolosi che, pur provenendo dalle suddette attività, possano essere assimilati alla categoria dei rifiuti urbani, alla luce delle loro caratteristiche qualitative e quantitative33 e quindi essere
gestiti come tali.
Per quanto riguarda la gestione dei rifiuti speciali, il produttore dei medesimi dovrà inizialmente provvedere alla loro preliminare classificazione, distinguendo quindi, quelli pericolosi dai non pericolosi, e successivamente procedere alla loro gestione, in base alle discipline di settore. Egli potrà alternativamente,
32 Così come modificato dal D.lgs. 205/2010.
33 Art. 184, c. 1, lett. b), Testo unico ambientale, così come modificato dal D.lgs.
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procedere all’auto smaltimento (laddove sia consentito), oppure consegnarli ad un soggetto intermediario34, commerciante35, ente o
impresa che effettui operazioni di raccolta e/o trattamento.
Ciò che rileva, ai fini della disciplina in esame, è che nonostante vi sia cessione di tali rifiuti ad un soggetto intermediario, il produttore dei medesimi resterà comunque responsabile o, in base alle circostanze co-responsabile, degli stessi, in qualunque fase del loro ciclo di vita, comprese quelle del trasporto e dello smaltimento definitivo, nonostante essi siano fisicamente usciti dall’ambito d’impresa in cui sono stati prodotti.
Tale principio, sancito all’art. 188, comma 1, del D.lgs. 152/2006 (così come modificato dal D.lgs. 205/2010, è stato introdotto dall’art. 15 della direttiva 98/2008/CE e si inserisce in quel complesso di norme finalizzate al raggiungimento di un adeguato livello di sensibilizzazione in materia ambientale, nonché di responsabilizzazione in tema di gestione dei rifiuti.
34 Art. 183, c. 1, lett. l): Intermediario: qualsiasi impresa che dispone il recupero o lo
smaltimento dei rifiuti per conto terzi, compresi gli intermediari che non acquisiscono la materiale disponibilità dei rifiuti.
35 Art. 183, c. 1, lett. i): Commerciante:qualsiasi impresa che agisce in qualità di
committente, al fine di acquistare e successivamente vendere rifiuti, compresi i commercianti che non prendono materialmente possesso dei rifiuti.
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3.2 Rifiuti pericolosi e non pericolosi: definizione e disciplina alla luce del CER
La distinzione tra rifiuti pericolosi e non pericolosi si fonda essenzialmente sulla circostanza che un determinato rifiuto possa o meno contenere sostanze ritenute particolarmente nocive per l’ambiente o per la salute umana, tali da necessitare modalità di trattamento specifiche e cautelative.
Il riconoscimento della pericolosità di un determinato rifiuto deve essere effettuato dal produttore36 del medesimo, o
eventualmente dal suo detentore37.
La disciplina in materia è ricca e in continuo aggiornamento, dunque per averne una visione chiara e definita è opportuno partire dalle norme di riferimento contenute nel Testo Unico Ambientale, così come modificato dal D.lgs. 205/2010.
L’art. 184, comma 4, del suddetto decreto individua infatti, rimandando all’Allegato I del decreto medesimo, le caratteristiche di pericolosità che un rifiuto può possedere, indicando le stesse con
36 D.lgs. 152/2006, Art. 183, c. 1, lett. f), Produttore di rifiuti: Il soggetto la cui attività
produce rifiuti(produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento , di miscelazione, o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti.
37 D.lgs. 152/2006, Art. 183, c. 1, lett. h), Detentore: il produttore dei rifiuti o la
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la lettera H38 seguita da un numero identificativo. Un rifiuto, potrà
quindi essere considerato pericoloso laddove appartenga ad una delle seguenti tipologie: esplosivo, comburente, facilmente infiammabile, infiammabile, irritante, nocivo, tossico, cancerogeno, corrosivo, infettivo, tossico per la riproduzione, sensibilizzante o eco tossico.
Ciascuna di queste categorie prevede dei valori limite di concentrazione 39 delle sostanze dannose contenute, affinché il
rifiuto in questione possa considerarvisi effettivamente rientrante. Tali valori sono stabiliti dalla direttiva 67/548/CE, nella quale si distinguono, con riferimento alla pericolosità, due codici, R, rispetto al rischio di utilizzo della sostanza e S con riguardo alle precauzioni da adottare per l’utilizzo medesimo. Tale direttiva nel 2008, è stata modificata dal Regolamento Europeo 1272/2008, con il quale la sigla R è stata cambiata in H e la S in P.
Tuttavia, per la classificazione effettiva di un rifiuto di cui ancora non si conosce la pericolosità, l’art. 184 comma 5 del decreto in questione, rimanda all’allegato D, del decreto medesimo (d.lgs. 152/2006), nel quale si può esaminare quello che viene
38 Il 1 Giugno 2015 entrerà in vigore il Regolamento Europeo 1357/2014 in base al
quale la sigla di identificazione dei rifiuti pericolosi cambierà, da H ad HP.
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definito Catalogo Europeo dei Rifiuti, istituito dalla decisione della Commissione Europea 2000/532/CE del 3 maggio del 2000.
Compito fondamentale e preliminare di ciascun produttore di rifiuti è infatti l’attribuzione al rifiuto prodotto del cosiddetto Codice CER. Sulla base di tale catalogo i rifiuti vengono classificati in funzione di tre criteri, assegnando a ciascun parametro una coppia di numeri identificativa. La prima coppia fa riferimento genericamente al tipo di attività che ha dato origine al rifiuto; la seconda indica più specificatamente il singolo processo produttivo in cui esso è stato generato; infine la terza descrive genericamente la tipologia di rifiuto.
La legge 116/2014, recentemente entrata in vigore40, prevede
che i rifiuti pericolosi siano contrassegnati da un asterisco, e stabilisce i casi per i quali potrebbe tuttavia essere necessaria un’analisi più approfondita delle componenti del rifiuto.
Sulla base di tale disposto normativo infatti, un rifiuto potrà
40Legge 11 agosto 2014, n. 116. Conversione in legge, con modificazioni, del
decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91, recante disposizioni urgenti per il settore agricolo, la tutela ambientale e l'efficientamento energetico dell'edilizia scolastica e universitaria, il rilancio e lo sviluppo delle imprese, il contenimento dei costi gravanti sulle tariffe elettriche, nonché per la definizione immediata di adempimenti derivanti dalla normativa europea.
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essere considerato pericoloso assoluto, o non pericoloso assoluto senza, in questi casi, necessitare di ulteriori specificazioni; oppure potrà essere classificato con codici CER cosiddetti speculari (uno pericoloso e uno non pericoloso), tale per cui, per una valida classificazione risulterà necessaria una caratterizzazione chimica, che ne individui le specifiche componenti.
Principio fondamentale in materia, è quello che sancisce il cosiddetto divieto di miscelazione, ricavabile dall’art. 184, comma 5-ter, del D.lgs. 152/2006. Si legge infatti nella norma che la
declassificazione da rifiuto pericoloso a rifiuto non pericoloso non può essere ottenuta attraverso una diluizione o una miscelazione del rifiuto che comporti una riduzione delle concentrazioni iniziali di sostanze pericolose sotto le soglie che definiscono il carattere pericoloso del rifiuto.
Risulta evidente quanto la disciplina dei rifiuti pericolosi sia ricca e complessa. Tuttavia, un adeguato riconoscimento degli stessi è assolutamente funzionale e indispensabile per garantirne una gestione sicura, tale per cui siano considerabili minimi, o nulli, gli impatti negativi sull’ambiente e sulla salute umana.
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C
APITOLO SECONDOIL RECUPERO DEI RIFIUTI
SOMMARIO: 1. Il ciclo di vita dei rifiuti. - 1.1. Le problematiche legate al trasporto: il concetto di tracciabilità e il SISTRI. - 2. Il criterio della gerarchia: l’importanza del recupero nell’ambito del Sistema Integrato. - 3. Specifiche modalità per il recupero dei rifiuti. - 3.1. Il compostaggio. - 3.2. Il riciclaggio. -3.3. Il recupero di energia.
1. Il ciclo di vita dei rifiuti: dalla raccolta allo smaltimento
Dopo aver inquadrato il concetto di rifiuto individuandone la natura e le diverse origini, è opportuno passare ad analizzare quello che viene definito ciclo di vita dei rifiuti, ossia quell’ insieme di fasi necessarie e susseguenti che ne scandiscono l’esistenza e la gestione.
Nel capitolo precedente è stato affrontato il tema del conferimento (distinguendone le modalità a seconda che si tratti di rifiuti urbani o speciali), ma questo costituisce solo un tassello di
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quella che più in generale è considerata la cosiddetta fase di
raccolta dei rifiuti.
È questo il primo vero momento del ciclo di vita dei rifiuti: una volta raccolti infatti, gli stessi saranno trasportati in specifici centri di trattamento, dove potranno alternativamente essere recuperati o smaltiti.
Il Codice dell’Ambiente all’art. 183, comma 1, lett. o), chiarisce puntualmente cosa debba intendersi per raccolta, definendo la suddetta come: il prelievo di rifiuti, compresi la
cernita preliminare e il deposito, ivi compresa la gestione dei centri di raccolta di cui alla lettera mm1), ai fini del loro trasporto in un impianto di trattamento. Lo stesso articolo, alla lettera successiva,
specifica poi il concetto di raccolta differenziata, sottolineando come questa si caratterizzi per una separazione del flusso di rifiuti, in base alla loro natura, al fine di facilitarne il trattamento
specifico.
I centri di raccolta, cui accedono sia le utenze domestiche,
1 Art. 183, c. 1, lett. mm): «centro di raccolta»: area presidiata ed allestita, senza nuovi
o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, per l'attività di raccolta mediante raggruppamento differenziato dei rifiuti urbani per frazioni omogenee conferiti dai detentori per il trasporto agli impianti di recupero e trattamento. La disciplina dei centri di raccolta è data con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentita la Conferenza unificata, di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281.
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che le non domestiche, costituiscono quindi la prima tappa importante del percorso dei rifiuti, specificatamente dei rifiuti urbani e assimilati.
Per quanto riguarda i rifiuti speciali invece, essi, almeno in questa prima fase, vengono gestiti in modo differente. Il produttore o il detentore di rifiuti speciali, infatti, in attesa che gli stessi siano consegnati a soggetti intermediari che effettuino operazioni di trattamento o a soggetti pubblici o privati preposti alla raccolta dei rifiuti, potrà decidere di trattenere gli stessi presso
depositi temporanei, situati nella propria impresa.
Sulla base del dettato del Testo Unico Ambientale è possibile ricostruire la disciplina relativa a tali siti. I depositi temporanei sono considerati raggruppamenti dei rifiuti effettuati,
prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono stati prodotti2.
Come si rileva dall’inciso, tale collocamento dei rifiuti avviene in un momento che è precedente alla raccolta in senso stretto, e che pertanto non è da ritenersi incluso nel concetto di gestione dei rifiuti. Eˋ importante inoltre tenere presente la profonda distinzione che sussiste tra questi e i cd. depositi preliminari, i quali
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costituiscono una forma di stoccaggio riguardante i rifiuti già destinati allo smaltimento3.
Le gestione dei depositi temporanei da parte del produttore è soggetta ad alcune limitazioni. Innanzi tutto egli dovrà suddividere i rifiuti per categorie omogenee, ottemperando alle specifiche norme tecniche relative ai rifiuti pericolosi, provvedendo alla loro etichettatura e ad un loro adeguato imballaggio. Per quanto riguarda poi il carattere della temporaneità, si prevede che il produttore possa alternativamente scegliere di: raccogliere e inviare i rifiuti agli impianti di recupero e trattamento con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente dal quantitativo raccolto; oppure quando il suddetto quantitativo abbia raggiunto un volume pari a trenta metri cubi (di cui dieci di rifiuti pericolosi). In ogni caso il deposito temporaneo non potrà avere durata superiore ad un anno, andandosi a sostanziare altrimenti una fattispecie illecita legata al reato di discarica abusiva4.
3 P. FICCO, M. SANTOLOCI, Il deposito temporaneo e il deposito temporaneo “no
problem”, in Rete ambiente, Roma, 2006.
4 Il reato di discarica abusiva, prima previsto e disciplinato dall'art. 51, comma 2 del
D.lgs. n. 22 del 5 febbraio 1997, a seguito della sua abrogazione per effetto dell'entrata in vigore del Codice dell'Ambiente, ha oggi la sua fonte di disciplina nell'art. 256 del suddetto codice che punisce sia l'attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza delle prescritte autorizzazioni, iscrizioni o comunicazioni di cui agli articoli 208 e ss del D.lgs. n. 162 del 2006, sia la vera e propria attività di realizzazione e gestione di una discarica abusiva. Per la realizzazione o la gestione di una discarica abusiva è prevista la pena dell'arresto
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Sia dai centri di raccolta urbani, che dai depositi temporanei delle imprese i rifiuti dovranno essere prelevati. La loro destinazione finale varierà a seconda del tipo di rifiuto e soprattutto del tipo di raccolta (differenziata o non) che a monte ne ha caratterizzato il conferimento.
La frazione umida o organica sarà destinata agli impianti di
compostaggio; le sostanze combustibili a quelli di
termovalorizzazione; tutti materiali (in particolare gli imballaggi) come carta e cartone, vetro, plastica e alluminio, raccolti separatamente, saranno inviati ad impianti di trattamento e selezione, dove saranno preparati per il successivo riciclaggio; infine tutti i rifiuti inerti, non altrimenti recuperabili saranno inviati agli impianti di smaltimento.
A prescindere comunque dalla diversa destinazione finale, vi è una fase intermedia che caratterizza indistintamente il ciclo di vita di tutti i rifiuti: il trasporto. Si tratta di un nodo centrale della gestione integrata, approfonditamente disciplinato dal legislatore
da sei mesi a due anni e l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro; ove si tratti, anche solo in parte, di rifiuti pericolosi, si applica la pena dell'arresto da uno a tre anni e l'ammenda da euro cinquemiladuecento a euro cinquantaduemila. Alla condanna consegue la confisca dell'area sulla quale è realizzata la discarica abusiva se di proprietà dell'autore o del compartecipe al reato, fatti salvi gli obblighi di bonifica o di ripristino dello stato dei luoghi.
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italiano allo scopo di evitare tutte quelle condotte, legate a traffici mal o incontrollati, che risulterebbero inevitabilmente idonee ad originare fenomeni illegali.
1.1 Le problematiche legate al trasporto: il concetto di tracciabilità e il SISTRI
Per comprendere a fondo l’importanza del concetto di tracciabilità è opportuno partire dal principio, cercando di capire quali sono i criteri in base ai quali si svolgono (o si dovrebbero svolgere) le movimentazioni dei rifiuti sul territorio nazionale, e quali sono i documenti e i sistemi esistenti per seguirne il percorso, dichiarandone l’esistenza.
La fase del trasporto dei rifiuti, dal luogo in cui sono stati prodotti, all’impianto cui sono destinati, rappresenta senza dubbio il momento più delicato nell’ ambito del percorso di gestione. E’ proprio in questa fase che maggiormente si sostanziano comportamenti fraudolenti. Spesso infatti, si inseriscono nella gestione intermediari fittizi che oltre a far lievitare il costo finale dello smaltimento per proprio guadagno, spingono il rifiuto verso illecite destinazioni.
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A tale proposito il legislatore ha disciplinato la materia in modo puntuale, prescrivendo innanzi tutto il rispetto di due principi fondamentali: il principio di autosufficienza e prossimità e il principio della responsabilità del produttore.
Il primo, disciplinato all’art. 182-bis del Codice dell’Ambiente, al fine di ridurre il più possibile lo spostamento dei rifiuti, prevede al terzo comma una regola generale in base alla quale lo smaltimento o il recupero dei rifiuti debba avvenire in uno degli impianti più vicini al luogo di produzione o raccolta, tenendo conto del contesto geografico o della necessità di impianti specializzati per determinati tipi di rifiuti.
Il secondo principio invece (art. 188 Codice Ambiente), ribadisce l'importanza della figura del produttore nella gestione dei rifiuti, e sottolinea come il medesimo conservi la responsabilità dei rifiuti da lui prodotti, anche quando gli stessi siano fisicamente usciti dall'impresa e siano stati consegnati ad un soggetto intermediario. Ciò significa che il produttore dovrà preoccuparsi non solo di accertare che il soggetto intermediario cui li consegna sia in possesso di tutti i requisiti e le autorizzazioni necessarie per effettuarne il trasporto, ma anche di
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verificare ex post che i rifiuti siano giunti nel luogo di destinazione che era stato previsto.
In particolare, il produttore prima di cedere i rifiuti al trasportatore, dovrà compilare un apposito documento chiamato FIR ( Formulario Identificazione Rifiuti)5, il quale
permetterà ai rifiuti di essere tracciati nei loro movimenti. Il FIR è disciplinato dall'art. 193 del D.lgs.152/2006 e il primo comma individua gli elementi che esso deve contenere: nome e indirizzo del produttore dei rifiuti e del detentore; origine, tipologia e qualità del rifiuto; impianto di destinazione; data e percorso dell'istradamento; nome e indirizzo del destinatario. Tale documento deve essere redatto in quattro copie, compilate, datate e firmate dal produttore dei rifiuti e controfirmate dal trasportatore che in questo modo da atto di aver ricevuto i rifiuti. Una copia del formulario deve rimanere presso il produttore, una resterà al trasportatore, la terza al destinatario e infine la quarta tornerà al produttore medesimo, ad attestare l'effettivo arrivo
5Il modello Fir attualmente utilizzato è quello previsto dal decreto del Ministero
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del rifiuto nella sede stabilita. E' importante sottolineare che tutte le suddette copie dovranno essere conservate per cinque anni.
Il FIR svolge un ruolo fondamentale per la tracciabilità dei rifiuti, ma non è l'unico documento a cui è riconducibile tale funzione.
Vi è infatti anche il cosiddetto registro di carico e scarico, disciplinato dall'art. 190 del D.lgs. 152/2006, così come modificato dalla legge n. 125/2013. Tale registro deve essere compilato da tutti i soggetti protagonisti della gestione dei rifiuti, secondo specifiche tempistiche: i produttori iniziali dei rifiuti speciali dovranno compilarlo entro dieci giorni dalla loro produzione e dal loro scarico; i trasportatori e coloro che effettuano operazioni di preparazione per il riutilizzo, entro dieci giorni lavorativi dalla presa in carico di detti rifiuti o dallo scarico successivo alla conclusione della predetta attività; gli enti e le imprese che effettuano operazioni di trattamento entro due giorni dalla presa in carico; infine i soggetti intermediari o commercianti, almeno due giorni prima dell'avvio dell'operazione ed entro dieci giorni dalla sua conclusione.
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ai competenti uffici regionali tramite il MUD (Modello Unico Dichiarazione ambientale), recentemente modificato dal decreto 27 dicembre 2013 n. 302, il quale ha previsto l'Approvazione del modello Unico di dichiarazione ambientale per l'anno 2014.
Tali moduli appositamente compilati, confluiscono nel cosiddetto Catasto dei Rifiuti, istituito per la prima volta nel 19886 e oggi specificatamente disciplinato dall'art. 189
del D.lgs. 152/2006, (così come modificato dal D.lgs. 205/2010). Il Catasto, che è organizzato in una sezione nazionale (presso l'ISPRA) e in sezioni regionali, assicura un quadro conoscitivo completo e costantemente aggiornato dei dati acquisiti.
Nel 20097, l’esigenza di rendere il sistema di gestione dei rifiuti maggiormente rilevabile in tutti i suoi aspetti, partendo da un potenziamento della loro tracciabilità, è apparsa evidente. Proprio sulla base di ciò infatti, in quell’anno il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del mare e del territorio, decise di istituire il SISTRI, strumento centrale di innovazione nell’ambito della tracciabilità.
Il SISTRI (Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti)
6 Decreto legge 9 settembre 1988 n. 397.
7 Decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3
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nasce con lo scopo di permettere l'informatizzazione dell'intera filiera dei rifiuti speciali a livello nazionale, e dei rifiuti urbani per la Regione Campania, andando a sostituire i registri cartacei poc’anzi analizzati.
Esso infatti, si basa sull’utilizzo di specifici dispositivi elettronici, che sono in grado di tracciare e seguire tutte le movimentazioni dei rifiuti, dall’impresa che li ha prodotti a quella in cui saranno trattati.
Gli utenti del SISTRI sono dotati di un dispositivo USB, con il quale accedere dalla propria postazione al sistema, trasferendovi elettronicamente i dati, firmandoli e memorizzandoli; un dispositivo elettronico definito black box, da installarsi su tutti i veicoli che trasportano rifiuti, con la funzione di monitorare i percorsi effettuati dai medesimi; infine apparecchiature di sorveglianza per controllare l’ingresso e l’uscita degli automezzi dagli impianti di discarica.
I soggetti tenuti ad aderire al SISTRI sono specificatamente indicati all’art. 188-ter8 del Testo Unico Ambientale.
Al primo comma sono indicati quelli per cui è previsto un
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obbligo di adesione: enti e imprese produttori di rifiuti speciali pericolosi; imprese e enti produttori di rifiuti speciali non pericolosi con più di dieci dipendenti, nonché imprese e enti che effettuano operazioni di smaltimento o recupero di rifiuti e che producano per effetto di tale attività rifiuti non pericolosi, indipendentemente dal numero di dipendenti; commercianti e intermediari di rifiuti; consorzi istituiti per il recupero o il riciclaggio di particolari tipologie di rifiuti; imprese e enti che effettuano operazioni di recupero o smaltimento di rifiuti; enti e imprese che raccolgono o trasportano rifiuti speciali a titolo professionale.
Al secondo comma della stessa norma sono invece elencati quelli per cui l’adesione al SISTRI è meramente facoltativa: imprese e enti produttori di rifiuti speciali non pericolosi che non hanno più di dieci dipendenti; enti e imprese che raccolgono e trasportano i propri rifiuti speciali non pericolosi; imprenditori agricoli; comuni, centri di raccolta e imprese di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani nel territorio di regioni diverse dalla regione Campania.
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costituisce una priorità per contrastare il proliferare di azioni e comportamenti non conformi alle regole esistenti e, il SISTRI, nel tentativo di dare ordine ad un complesso sistema di rilevazione dati, mira proprio al conseguimento di tale obiettivo.
In tale prospettiva benefici ricadranno anche sul sistema delle imprese. Una più corretta gestione dei rifiuti avrà, infatti, vantaggi sia in termini di riduzione del danno ambientale, sia di eliminazione di forme di concorrenza sleale tra imprese, con un impatto positivo per tutte quelle che, pur sopportando costi maggiori, operano nel rispetto delle regole.
Regole inoltre, per le cui violazioni il legislatore ha previsto pensanti sanzioni amministrative e penali, specificatamente disciplinate nel Titolo VI Capo I del D.lgs. 152/2006, dagli artt. 254-262.
Tuttavia, è bene sottolineare che ad oggi il SISTRI presenta ancora grandi lacune di affidabilità nella gestione, motivo per cui, nel dicembre 2014 con il Decreto Mille Proroghe9, è stata
rinviata al 1 gennaio 2016 la piena applicazione delle relative sanzioni.
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La legge del 27 febbraio 2015 n.11 di conversione del Decreto Mille Proroghe, entrata in vigore il 1 marzo 2015, ha ulteriormente spostato al 1 aprile 2015 il termine iniziale di applicabilità delle sanzioni SISTRI per omessa iscrizione e/o pagamento del contributo, termine che dal precedente decreto era stato fissato per il 1 febbraio 2015.
Ciò significa che ad oggi il regime previsto è quello del cosiddetto doppio binario: il SISTRI risulta operativo, e dal 1
aprile 2015 saranno sanzionate tutte le imprese che non vi
abbiano aderito; tuttavia, è comunque ancora in vigore il sistema cartaceo del registro rifiuti, la cui definitiva scadenza è attualmente prevista per il 1 gennaio 2016, data in cui inizieranno anche ad essere applicate le sanzioni relative alle violazioni delle regole operative SISTRI, come previsto nella formulazione originaria del decreto 192/201410.
2. Il criterio della gerarchia: l’importanza del recupero nell’ambito del Sistema Integrato
Parlare di Sistema Integrato nell’ambito della gestione dei
10 Redazione Rete Ambiente, Sistri, Legge 11/2015: sanzioni per omessa iscrizione da
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rifiuti, significa far riferimento ad un complesso di pratiche, strumenti e comportamenti, che, interagendo e intersecandosi da loro in tutti i vari livelli della gestione, sono in grado di perseguire un obiettivo comune.
Il 28 dicembre 2013 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea11 il VII Programma d’azione per
l’ambiente12, intitolato: “Vivere bene entro i limiti del nostro
Pianeta”. Con questo programma il Parlamento europeo e il Consiglio, hanno inteso definire le linee guida di una programmazione generale in materia ambientale, individuando gli obiettivi che le politiche nazionali degli stati membri dovranno tendere a raggiungere entro il 2020. In particolare si mira al raggiungimento di un livello di recupero, riuso o riciclaggio, pari al 50% (in termini di peso) almeno per quei materiali come carta, cartone, plastica, vetro e alluminio; e un recupero del 70% per i rifiuti provenienti dalle attività di costruzione e demolizione13.
11 Legge n. 354, 28 dicembre 2013, Gazzetta Ufficiale UE.
12 Il Sesto Programma comunitario per l’azione ambientale era intitolato “Ambiente
2010: il nostro futuro, la nostra scelta” e copriva il periodo compreso tra il 22 Luglio 2002 e il 21 Luglio 2012.
13 Sulla base del Rapporto Rifiuti Speciali 2014, i rifiuti provenienti dalle attività di
costruzione e demolizione costituiscono il 35% dei rifiuti speciali, e il 41,2% dei rifiuti speciali non pericolosi.
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Inoltre, il 2 luglio 2014, a Bruxelles, la Commissione europea ha valutato nuove proposte in materia di rifiuti. L’obiettivo, come si legge nel comunicato stampa, è quello di creare un’economia
circolare14, promuovendo ulteriormente il recupero di rifiuti negli
Stati membri. L’idea sarebbe quella di raggiungere entro il 2030 un livello di riciclaggio di rifiuti urbani pari al 70%, e pari all’80% per gli imballaggi. A partire dal 2025, sarebbe altresì vietato il collocamento in discarica di rifiuti riciclabili.
Si tratta di obiettivi sicuramente ambiziosi, che si inseriscono nel quadro di quella che inevitabilmente risulta ormai essere una corsa contro il tempo per la salvaguardia dell’ambiente in cui viviamo.
Ovviamente, il raggiungimento di tali traguardi può essere possibile solo grazie al coinvolgimento e alla collaborazione di tutti i soggetti coinvolti nella gestione dei rifiuti.
A tale proposito l ’ Unione Europea, con la Direttiva
14 Alla base dello sviluppo occidentale c’è un modello di produzione ad alta intensità di
energia e di risorse naturali, che può essere definito“lineare”, in cui i prodotti industriali derivano da uno sfruttamento intensivo delle risorse naturali che diventano rifiuti al termine del ciclo di vita dei prodotti. Il concetto di economia circolare si basa invece sul recupero e la rigenerazione dei prodotti e dei materiali, per rispondere alla sempre più scarsa disponibilità di materie prime.
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2008/98/CE ha tracciato un modello piramidale di riferimento, individuando le varie fasi e modalità di trattamento rifiuti, e indicando a quali di esse debba essere data la priorità. Si istituisce pertanto una vera e propria gerarchia gestionale, fondata su un criterio che, in funzione del conseguimento dei minori impatti ambientali, predilige innanzi tutto la prevenzione. Seguono poi la preparazione per il riutilizzo, il riciclaggio, il recupero di altro tipo (recupero di energia), e lo smaltimento, che dovrebbe configurarsi solo come una soluzione di tipo residuale.
Secondo questa logica, la prima e più importante azione per affrontare la questione dei rifiuti, parlando appunto di prevenzione, è non produrli, o produrli il meno possibile.
A questo scopo viene in gioco un principio fondamentale della materia, introdotto nel Codice dell’Ambiente dal D.lgs. 205/2010 e disciplinato all’art.178-bis: la responsabilità estesa del
produttore. Si tratta di un principio molto importante, da non
confondere con la mera responsabilità del produttore, ex
art.188-bis, analizzata nel capitolo precedente.
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operare in una fase precedente alla produzione dei rifiuti, spingendo i produttori, non di rifiuti, ma di beni, a progettare prodotti che successivamente al loro utilizzo risulteranno facilmente recuperabili. Ciò significa porre attenzione al design dei manufatti, concepirli in modo tale da consentirne un’agevole separazione delle parti e dei componenti e soprattutto cercare di ridurre all’essenziale l’utilizzo di imballaggi, preferendo comunque materiali riutilizzabili, riciclabili o biodegradabili.
Per quanto riguarda invece la preparazione per il riutilizzo, il D.lgs. 152/200615, all’art. 183, comma 1, lett. q), la definisce
come l’insieme di operazioni di controllo, pulizia, smontaggio e
riparazione attraverso cui prodotti o componenti di prodotti diventati rifiuti sono preparati in modo da poter essere reimpiegati senza altro pretrattamento. Si tratta pertanto di una fase
preparatoria a quello che potrà essere il reimpiego di un determinato rifiuto.
Con il riutilizzo si entra quindi nel mondo del recupero dei rifiuti, là dove per recupero si intende qualsiasi operazione il cui principale risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo