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Academic year: 2021

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Capitolo 1

Introduzione

1.1 Il tumore del pancreas

Il tumore del pancreas (PC) rappresenta attualmente la quarta principale causa di morte oncologica negli Stati Uniti e in Europa [Malvezzi et al., 2015]. Negli ultimi tre decenni l’indice di sopravvivenza in pazienti affetti da carcinoma pancreatico, con un’aspettativa di vita di 5 anni, è stato minore del 5% [Dobrilla-Dintinjana et al., 2012]. Studi epidemiologici evidenziano che nell’80% dei casi il tumore del pancreas viene diagnosticato in stadi avanzati o metastatici rendendo così limitata la possibilità di eseguire trattamenti [el-Kamar et al., 2003]. I principali fattori di rischio includono l’età, il fumo, l’etnia, il diabete e pancreatiti croniche, le quali risultano essere tra i più comuni fattori di rischio. Pazienti con pancreatite cronica da più di 5 anni hanno un rischio aumentato di 14 volte rispetto alla popolazione non affetta da pancreatite, di sviluppare tumore al pancreas [Chu et al., 2007; Pandol et al., 2012]. Il 40% dei pazienti che presentano pancreatite cronica ereditaria è probabile che sviluppino tumore al pancreas [Greer e Whitcomb, 2009; Vitone et al., 2005; Whitcomb e Greer, 2009]. Il tumore del pancreas si instaura nel momento in cui le cellule pancreatiche inziano ad avere una proliferazione incontrollata formando una massa [Raimondi et al., 2009]. Il pancreas è composto da una porzione endocrina e da una porzione esocrina, che sono responsabili l’una del mantenimento dell’omeostasi corporea e l’altra della digestione [Slack, 1995]. Il compartimento endocrino del pancreas è formato da isole che hanno la funzione di secernere ormoni, quali insulina e

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glucagone, destinati alla regolazione dei livelli di glucosio nel sangue. Il compartimento esocrino è formato da cellule acinose le quali hanno il ruolo di sintetizzare enzimi digestivi, come l’amilasi, e cellule duttali che sono responsabili del trasporto degli enzimi digestivi nel duodeno per la digestione [Ray et al., 2011]. I tumori del pancreas sono classificati secondo la loro origine in tumori del pancreas esocrino e tumori del pancreas endocrino; quelli che originano dal compartimento neuro-endocrino sono detti tumori pancreatici neuroendocrini (PNET), costituiscono il 5% dei tumori e possono produrre (PNET funzionali) o possono non produrre (PNET non funzionali) ormoni [Kondo et al., 2014; Metz et al., 2008]. Circa il 50% dei tumori pancreatici neuroendocrini sono non funzionali e questi, al contrario dei tumori pancreatici neuroendocrini funzionali, sono difficili da diagnosticare e sono maligni per più del 90% dei casi [Fendrich et al., 2009]. É stato stimato che circa il 10% dei casi possano essere correlati a cause ereditarie [Neoptolemos et al., 2004]. Il processo di carcinogenesi è considerato come il risultato di una errata regolazione di eventi genetici ed epigenetici; le alterazioni epigenetiche assumono importanza in quanto correlano il comportamento cellulare alle loro interazioni nel compartimento cellulare determinando in tal modo la suscettibilità di una cellula a modificarsi. Sebbene questi cambiamenti non coinvolgano alterazioni della struttura genomica, gli eventi epigenetici si verificano costantemente durante la vita cellulare; tra questi i più rilevanti ai fini del mantenimento dell’omeostasi cellulare e del processo di differenziazione sono la DNA metilazione, le modificazioni coda istoniche, il rimodellamento della cromatina e il silenziamento multi gene miRNA-mediato [Jones e Gonzalgo, 1997]. Data la bassa incidenza dei carcinomi pancreatici rispetto agli altri tumori (8-12 per 100,000), non è possibile sottoporre tutta la popolazione ad uno screening-basale in modo da garantire una diagnosi precoce [Jemal et al., 2006] ma, un metodo efficace per garantire una diagnosi precoce in una popolazione asintomatica ad alto rischio di carcinoma al pancreas, è quello di effettuare un test per specifiche mutazioni genetiche in individui con storia familiare di tumore del pancreas [McFaul et al., 2006]. I maggiori fattori che determinano la sopravvivenza in pazienti affetti da carcinoma pancreatico sono: la grandezza del tumore, il coinvolgimento dei linfonodi e l’interessamento

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perineurale della zona extrapancreatica [Nakao et al., 1996; Millikan et al., 1999]. I tumori di piccola dimensione hanno una migliore prognosi [Ariyama et al., 1998], con un tasso di sopravvivenza a 5 anni, del 48.1% per lesioni T1 e del 27.9% per lesioni T3 [Egawa et al.,2004].

1.1.1 Adenocarcinoma pancreatico duttale (PDAC)

Il 95% dei tumori pancreatici è di origine esocrina e la forma più comune di tumore pancreatico è rappresentata dall’adenocarcinoma pancreatico duttale (PDAC) [Polvani et al., 2014; Sahora et al., 2015; Fukushima et al., 2007]; questo tipo di carcinoma si sviluppa di solito intorno ai 70 anni di vita [Fitzgerald et al., 2008]. Approssimativamente il 90% dei tumori al pancreas è classificato come PDAC, il quale nella maggior parte dei casi risulta essere fatale [Ryan et al., 2014]. All’origine di questo tipo di carcinoma pancreatico ci sono dei fattori di rischio non modificabili come il sesso, l’età, la presenza di mutazioni genetiche, l’etnia. I fattori di comorbilità e i fattori di rischio modificabili sono invece correlati alla co-presenza di altre patologie ed anche alle abitudini e allo stile di vita del soggetto [Polvani et al., 2014; Wörmann e Algül, 2013; Vrieling et al., 2010; Michaud et al., 2010; Aune et al, 2012]. Tra i fattori di rischio modificabili il più importante è il fumo, una abitudine che può spiegare l’aumentato rischio associato al sesso e all’etnia [Wörmann e Algül, 2013; Vrieling et al., 2010]. Recentemente è stato scoperto che anche il diabete e l’obesità possono avere un coinvolgimento tra i rischi per lo sviluppo dell’adenocarcinoma pancreatico duttale [Polvani et al., 2016]. Altre neoplasie esocrine meno frequenti sono il carcinoma delle cellule acinose, la neoplasia mucinoso papillare intraduttale (IPMN) e la neoplasia mucinoso cistica (MCN) [Polvani et al.,2014; Sahora et al., 2015; Fukushima et al., 2007]. Il carcinoma delle cellule acinose è una rara neoplasia che differisce significativamente da PDAC, IPMN, e da MCN, senza le loro distintive alterazioni molecolari ma presentando alterazioni genomiche proprie [Sahora et al., 2015; Fukushima et al., 2007; Abraham et al., 2002;

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Lowery et al., 2011; Hidalgo, 2010]. Al contrario, IPMN e MCN sono considerate lesioni cistiche benigne che possono sfociare in adenocarcinoma pancreatico duttale [Fukushima et al., 2007]. Studi mostrano che l’adenocarcinoma pancreatico duttale (PDAC) origina dalle cellule pancreatiche duttali attraverso lo sviluppo di una neoplasia intraepiteliale pancreatica (PanIN) in seguito all’attivazione di una mutazione sul gene KRas [Ray et al.,2011]. In aggiunta a questa mutazione, nel carcinoma pancreatico sono frequentemente riscontrate anche altre mutazioni [Collins et al., 2012] il cui accumulo porta allo sviluppo di lesioni pre-cancerose, tra cui la più comune è la neoplasia intraepiteliale pancreatica (PanIN) [Chu et al., 2007; Maitra et al.,2005; Scarlett et al., 2011]. Questa lesione pre-cancerosa è di solito situata nei dotti pancreatici di piccolo calibro e mostra caratteristiche lesioni microscopiche che progrediscono da PanIN-A a PanIN-3 ed infine PDAC [Beger, 2008; Apte et al., 2004]. Studi rivelano che l’adenocarcinoma pancreatico duttale abbia origine da un disordine duttale con precedenti lesioni identificate nella neoplasia intraepiteliale pancreatica (PanIN) il cui sviluppo è caratterizzato da un precoce accumulo di alterazioni genetiche riscontrate nell’adenocarcinoma pancreatico duttale come ad esempio la mutazione del gene Kras e l’inattivazione del gene soppressore tumorale p16. La neoplasia mucinoso cistica (MCN) e la neoplasia mucinosa papillare intraduttale (IPMN) possano trasformarsi in adenocarcinoma pancreatici duttali (Figura 1) e sono considerati tra i potenziali precursori [Polvani et al., 2014; Yonezawa et al., 2008; Distler et al., 2014].

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Lo sviluppo dell’adenocarcinoma pancreatico duttale coinvolge numerose alterazioni genetiche di cui la mutazione di K-ras e p53 sono considerate entrambe la chiave della progressione di questo carcinoma [Shin et al., 2013]. Tra le numerose e significative alterazioni, oltre alla mutazione del gene K-ras e del gene TP53 sono presenti mutazioni di CDKN2A, SMAD4, RNF43, ARID1 A, TGFβR2, GNAS, RREB1, PBRM1 [Raphael et al., 2017] e molte altre. Nello specifico il proto-oncogeno K-ras codifica per una piccola proteina (p21ras) la quale possiede attività GTPasica, promuovendo l’inattivazione delle cellule cancerose [Ines et al., 2014 ]. L’alterazione genetica più frequente che porta all’attivazione del gene K-ras, si verifica a livello del codone 12 e consiste nella sostituzione di una glicina con una valina, un’arginina o un aspartato; questa mutazione è individuata nel 30% delle iniziali neoplasie pancreatiche ed aumenta fino a raggiungere il 100% nel PDAC allo stadio avanzato [Klimstra e Longnecker, 1994; Rozenblum et al., 1997]. Come precedentemente descritto, la

Figura 1. Schema dei tre cambiamenti morfologici che portano allo sviluppo del carcinoma pancreatico invasivo [Distler et al., 2014].

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frequenza della mutazione di K-ras nell’adenocarcinoma pancreatico duttale è di circa il 47-100% [Smit et al., 1988; Malumbres e Barbacid, 2003; Almoguera et al., 1988]. Le mutazioni di K-ras sono state riscontrate inoltre nei carcinomi pancreatici benigni e in tutti gli stadi dell’anaplasia pancreatica duttale [Shin et al., 2013]. K-ras in forma attiva innesca vie effettrici, tra cui la cascata delle chinasi attivata da mitogeni (MAPK) [Campbell et al., 1998]. Il gene CDK2A, che si presenta in forma inattiva nei soggetti affetti da PDAC, codifica per la proteina p16, direttamente responsabile sia dell’inibizione delle chinasi ciclina dipendenti (CDK) sia della modulazione del passaggio G1/S del ciclo cellulare. A tal proposito studi hanno dimostrato che le mutazioni riguardanti il gene CDK2A sono spesso conseguenza di quelle che si verificano a livello del gene K-ras [Moskaluk et al., 1997; Wilentz et al., 1998]. SMAD4 (o DPC4), gene che risulta essere inattivo nel 55% dei PDAC, codifica per un fattore di trascrizione coinvolto nella segnalazione della superfamiglia dei fattori di crescita trasformanti beta (TGF-β) [Wilentz et al., 2000; Lüttges et al., 2001] Nel 40-87% dei casi di PDAC sono presenti delezioni o mutazioni del gene TP53, la cui attivazione provoca l’arresto del ciclo cellulare in quanto, tale gene, codifica [Conlin et al., 2005] per p53, fattore di trascrizione capace di controllare l’arresto del ciclo cellulare e l’apoptosi interagendo con specifiche sequenze del DNA [Cho et al., 1994]. Questa mutazione si manifesta negli stadi tardivi, quando le PanINs hanno acquisito una evidente caratteristica di displasia [Boschman et al., 1994; Maitra et al., 2003], e deriva principalmente dall’accumulo di danni genetici e da segnali di stress quali l’erosione dei telomeri e la presenza di specie reattive dell’ossigeno (ROS). Pertanto un’alterazione di P53 consente la crescita, la sopravvivenza, l’invasività delle cellule cancerose e una maggiore resistenza alle cellule tumorali [Crook e Vousden, 1992; Hsiao et al., 1994; Kim et al., 2015]. La delezione di P53 nelle cellule stellate pancreatiche può portare a modificazioni del microambiente tumorale e ad una probabile trasformazione maligna delle cellule cancerose, evidenziando così che tutti i cambiamenti riguardanti lo stroma possono influenzare direttamente lo sviluppo della malattia [Hanahan e Weinberg, 2011; Lujambio et al., 2013]. Data la forte ereditarietà di questo tipo di tumore sono state analizzate anche delle possibili mutazioni della linea germinale

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ottenendo risultati positivi per quanto riguarda BRCA1, BRCA2, PALB2, STK11,CDKN2A, ATM, PRSS1, MLH1, MSH2 e 6, EPCAM e TP53 [Raphael et al., 2017] (Figura 2).

Figura 2. Panoramica delle alterazioni genetiche nell’adenocarcinoma pancreatico duttale [Raphael et al., 2017].

Recentemente è stato proposto un modello in cui l’adenocarcinoma pancreatico duttale sembra originare da cellule acinose in fase di transdifferenziazione, che attraverso un processo chiamato metaplasia acino duttale (ADM), si trasformano in cellule duttali [Pin et al., 2015; Wagner et al., 1998; Wagner et al., 2001]. Una caratteristica essenziale dell’adenocarcinoma pancreatico duttale è la presenza di una reazione “desmoplastica” (Figura 3) correlata ad una accelerata proliferazione dei miofibroblasti, derivanti dalla differenziazione cellulare di cellule mesenchimali o cellule stellate [Feig et al., 2012; Chu, 2007], che consiste nella

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formazione di un rigido tessuto fibroso attorno al tumore [Apte et al., 2015]; tale reazione nella maggior parte dei casi costituisce circa la metà della massa tumorale. Questa massa è formata principalmente dal compartimento della matrice extracellulare (ECM) e da una parte stromale contenente diversi tipi di cellule come, ad esempio, fibroblasti, cellule immunitarie, cellule endoteliali e cellule stellate [Allam et al., 2017]. La reazione desmoplastica comprime il letto vascolare riducendo così il trasporto di possibili farmaci e il reclutamento delle cellule immuno-competenti, le quali rappresentano un possibile target in questo tipo di tumore [Zhu et al., 2014].

Figura 3. Colorazione ematossilina-eritrosina (H&E) di adenocarcinoma pancreatico

duttale umano. Sono evidenziati la reazione desmoplastica (punta freccia bianca), cellule

duttali neoplastiche (freccia bianca), rete vascolare tumorale (punta freccia nera) e cellule infiammatorie (freccia nera) [Kong X et al., 2012].

La prima descrizione delle cellule stellate risale al diciannovesimo secolo in cui Kark Wilhelm von Kupffer nel 1876 descrisse cellule presenti nel fegato a forma di stella contenenti goccioline lipidiche che presero il nome di “Sternzellen” (cellule stellate) [Aterman K, 1986; Wake K, 1980], sostenendo che esse avessero funzione fagocitaria [Aterman K, 1986]. Più tardi, nel ventesimo secolo, Zimmerman descrisse le medesime cellule come cellule dendritiche perisinusoidali, dando loro il nome di “periciti epatici” [Wake, 1971; Friedman,

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2008] e successivamente, nel 1951, l’anatomista giapponese Ito descrisse cellule perisinusoidali contenenti lipidi, spiegando la loro capacità nell’immagazzinamento della vitamina A e la loro capacità di riparazione tissutale [Ito T, 1951]. In seguito, nel 1982, sono state descritte per la prima volta le cellule stellate del parenchima pancreatico [Watari et al., 1982]. Apte et al. nel 1998 isolarono per la prima volta le cellule stellate pancreatiche da modelli sperimentali di ratto utilizzando un metodo di centrifugazione per densità [Apte et al., 1998], che fu successivamente sfruttato dallo stesso gruppo di ricerca per isolare cellule stellate pancreatiche umane [Vonlaufen et al., 2010]. Tali cellule, a causa della stretta somiglianza morfologica con le cellule stellate epatiche, furono chiamate cellule stellate del pancreas [Apte et al., 1998; Bachem et al., 1998]. Le cellule stellate del pancreas rappresentano circa il 4-7% delle cellule parenchimatose totali pancreatiche [Apte et al, 1998; Apte et al., 2012] e, nei tessuti pancreatici normali esistono in forma quiescente (inattiva). Condizioni patologiche come pancreatiti croniche e carcinomi pancreatici inducono l’attivazione delle cellule stellate (PSC) che, una volta attivate, sono responsabili dell’eccessivo tessuto fibrotico presente nelle patologie a carico del pancreas. A tale riguardo, numerosi studi hanno correlato l’attivazione delle cellule stellate con la carcinogenesi, la conseguente progressione tumorale ed infine anche la resistenza ad alcune terapie disponibili; dall’altro lato, la diminuzione delle cellule stromali, che includono una buona parte delle cellule stellate, sembra avere un impatto negativo sull’immunosorveglianza delle cellule tumorali che si riflette in una ridotta sopravvivenza in ratti geneticamente modificati [Allam et al., 2017]. A livello istopatologico, PDAC è caratterizzato dall’infiltrazione di strutture tubulari anomale immerse in uno stroma ad elevato contenuto fibroso [Beger, 2008; Apte et al., 2004], composto da cellule stromali, vasi sanguigni, cellule endoteliali e immunitarie, fibre nervose, altre proteine solubili come ad esempio citochine e fattori di crescita, e abbondante matrice extracellulare (ECM) [Chu et al., 2007] (Figura 4).

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Figura 4. Componenti del tumore. La reazione stromale dell'adenocarcinoma duttale pancreatico è costituita da cellule stellate pancreatiche (cellule stromali), abbondante matrice extracellulare (ECM), vasi sanguigni / cellule endoteliali, cellule immunitarie, fibre nervose / neuroni. L'interazione tra le cellule tumorali e le componenti dello stroma facilita la progressione tumorale [Apte et al., 2013].

La matrice extracellulare è costituita da numerose proteine tra cui il collagene di tipo I, fibronectina e laminina, ma anche da proteoglicani, come l’acido ialuronico, il quale è un glicosaminoglicano non solforato secreto dalle cellule tumorali, capace di influenzare il processo di angiogenesi, la transizione epitelio-mesenchimale (EMT) e la chemioresistenza [Jacobetz et al., 2013]. Il collagene di tipo I promuove l’adesione delle cellule pancreatiche e la loro proliferazione [Grzesiak e Bouvet, 2006] e la sua presenza, insieme a quella delle proteine fibronectina e laminina, è stata associata ad un’incrementata chemioresistenza nelle cellule tumorali pancreatiche in vitro [Grzesiak et al., 2007].

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1.1.2 Diagnosi del tumore

Nelle prime fasi, il tumore del pancreas è solitamente silente dal punto di vista clinico e di conseguenza, pazienti affetti da questa patologia presentano segni clinici in stadi più avanzati [Smith et al., 2014]. I segni caratteristici volti ad una prima identificazione del tumore sono astenia, anoressia, dolore addominale, perdita di peso e ittero [Porta et al., 2005]; l’ittero è il sintomo più comune e di solito indica la presenza di un tumore alla testa del pancreas anche se può essere similmente riscontrato in pazienti con condizioni di metastasi epatiche, affetti da tumore al corpo o alla coda del pancreas [Smith et al., 2014]. Non sono ancora disponibili metodi efficaci per diagnosticare tempestivamente il cancro del pancreas [Takai e Yachida, 2015], pertanto i pazienti a rischio vengono sottoposti ad esami di laboratorio periodicamente, soprattutto a test di funzionalità epatica [Winter et al., 2013] attraverso i quali è possibile evidenziare un aumento dei livelli ematici di alcuni indicatori di ittero ostruttivo come bilirubina, fosfatasi alcalina e γ-glutamiltransferasi. Negli ultimi anni ha assunto un particolare significato a livello diagnostico la determinazione nel sangue e nelle urine dell’ antigene pancreatico-oncofetale (POA), dell’antigene carcino-embrionale (CEA), dell’alfa-fetoproteina (AFP) e di altri marcatori tumorali non specifici tra cui l’antigene glicoproteico CA 19-9 [Beretta et al., 1987; Schmiegel, 1989; Friess et al., 1993]. Il marcatore tumorale CA 19-9, sebbene abbia una sensibilità del 79-81% e una specificità dell’ 82-90%, ha un basso valore di predittività che si aggira intorno allo 0.5-0.9% ed inoltre non è espresso in più del 10% della popolazione [Ballehaninna e Chamberlain, 2012]. Alla luce di ciò, nonostante CA 19-9 riporti valori elevati nell’ 80% dei pazienti in fase avanzata, non può essere utile per una prima diagnosi di adenocarcinoma pancreatico duttale in quanto aumentati valori si possono riscontrare anche in pazienti con condizioni di iperbilirubinemia e colestasi [Ducreux et al., 2013]. Uno dei metodi strumentali usato per la diagnosi del cancro del pancreas è rappresentato dalla ultrasonografia (o ecografia), metodo che permette di identificare la massa tumorale, l’ostruzione biliare extraepatica ed eventuali metastasi presenti a livello epatico con diametro maggiore di 1cm. L’ecografia però non risulta essere un metodo sensibile alla

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disseminazione neoplastica nei linfonodi o ad un possibile coinvolgimento della vena portale e mesenterica [Rösch et al., 1992; Palazzo et al., 1993]. Altri metodi diagnostici necessari per l’identificazione del tumore del pancreas includono esami di diagnostica per immagini come la tomografia computerizzata (CT) (Figura 5), la risonanza magnetica (MRI) e l’endoscopia ad ultrasuoni (EUS), metodo che si sta rivelando importante per la diagnosi dei disordini pancreato-biliari ed in particolare per la diagnosi dei tumori pancreatici [Lariño Noia, 2014]. L’endoscopia ad ultrasuoni ha mostrato un indice di affidabilità del 90%, specialmente per masse tumorali con dimensioni minori di 2-3 cm, per le quali la sensibilità è del 99% contro il 55% di sensibilità dato dalla CT [Gonzalo‑Marin et al., 2014]. Se da una parte la tomografia computerizzata e la risonanza magnetica per immagini rappresentano i primi mezzi radiologici per poter determinare la possibile resezione chirurgica, l’endoscopia ad ultrasuoni sta divenendo un metodo diagnostico altamente accurato per la diagnosi di carcinomi pancreatici, grazie alla quale si possono ottenere anche informazioni aggiuntive soprattutto riguardo ad un possibile coinvolgimento della rete vascolare.

Figura 5. Tomografia computerizzata (CT) del carcinoma pancreatico. Tumore del pancreas resecabile che mostra uno strato adiposo attorno all’arteria (freccia) [Wolfgang et al., 2013].

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La tomografia ad emissione di positroni (PET) è un metodo utilizzato sporadicamente per indagare sulla presenza di metastasi disseminate in tutto il corpo in quanto può dare facilmente falsi negativi, come nel caso di iperglicemia, e falsi positivi, ad esempio in presenza di masse infiammatorie causate da pancreatiti [Wang et al., 2013; Rijkers et al., 2014]. Uno studio di meta-analisi ha però concluso che una combinazione di PET e CT (PET-CT) insieme ad una ultrasonografia endoscopica (EUS) costituisce il metodo più funzionale nella diagnosi del PDAC grazie all’alta sensibilità delle prime due e all’alta specificità di EUS [Tang et al., 2011]. Per stabilire la prognosi e le possibili strategie terapeutiche è fondamentale conoscere la stadiazione del tumore, cosa possibile grazie alla classificazione TNM (Tumor Nodes-Metastasis) (Tabella 1). Questa classificazione è basata sulle caratteristiche primarie del tumore (T) come le dimensioni della massa che, se è maggiore di 3 cm è associata ad una prognosi infausta, alla presenza di invasione locale e di metastasi a livello dei linfonodi limitrofi o diffuse (N) [Gallego et al., 2017].

Classe T Classe N Classe M

Stadio I T1, T2 N0 M0

Stadio II T3 N0 M0

Stadio III T1, T1a/b, T2, T3 N1 M0 Stadio IV T1, T1a/b, T2, T3 N0, N1 M1 Tabella 1 . Criterio di stadiazione TNM (Tumor-Node-Metastases).

Legenda: T1 Nessuna estensione del tumore primario; T1a/b Dimensione della massa tumorale di circa 2 cm; T2 Estensione del tumore primario al duodeno, al dotto biliare o ai tessuti peripancreatici; T3 Estensione del tumore allo stomaco, alla milza, al colon o ai vasi sanguigni adiacenti; N0 Nessuna metastasi a livello dei linfonodi regionali; N1 Presenza di metastasi a livello dei linfonodi regionali; M0 Nessuna metastasi a distanza; M1 Presenza di metastasi a distanza.

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1.1.3 Trattamento PDAC

L’elevato rischio di mortalità associato al rapporto di incidenza del PDAC è dovuto principalmente alla sua tendenza di diffondersi precocemente e ad un fallimento terapeutico complessivo [Apte et al., 2015]. Una scelta opportuna per il tipo di trattamento da adottare in pazienti affetti da carcinoma pancreatico dipende principalmente dallo stadio del tumore al momento della diagnosi. Le strategie attualmente disponibili sono la chirurgia, la chemioterapia, la radioterapia e più recentemente terapie mirate su target specifici come, ad esempio, l’inibizione del fattore di crescita [Siegel et al., 2013; Paulson et al., 2013]. Solo il 10% dei pazienti sono idonei per una potenziale resezione chirurgica curativa al momento della diagnosi ed il resto dei pazienti presenta resistenza alle tradizionali chemioterapie [Burris et al., 1997] (Figura 6).

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1.1.3.1 Trattamento chirurgico

Circa il 15% dei pazienti con diagnosi di adenocarcinoma pancreatico duttale presenta, al momento della diagnosi, un tumore localizzato con tutte le caratteristiche per essere idonei alla resezione chirurgica [Li et al., 2004]. Questa metodica a scopo curativo è infatti possibile nel 20% dei pazienti con carcinoma pancreatico localizzato e in stadi non avanzati [Siegel et al., 2013; Paulson et al., 2013], mentre per carcinomi pancreatici in stadi avanzati la resezione chirurgica rappresenta l’unica possibilità per ridurre possibili ostruzioni, portando così ad un incremento dell’aspettativa di vita [Heinemann et al., 2014]. Per quanto riguarda i tumori localizzati a livello della testa del pancreas è possibile eseguire la pancreaticoduodenoectomia (procedura di Whipple) [Lin e Lin, 1999], che rappresenta la classica procedura e che prevede la rimozione chirurgica della testa del pancreas, della curva del duodeno, della cistifellea e del dotto biliare portando così ad un tasso di sopravvivenza a 5 anni dopo l’intervento, del 10% in individui con linfonodi positivi e del 25-30% in individui con linfonodi negativi [Lim et al., 2003]. Altra possibile procedura è la pancreaticoduodenoectomia con conservazione del piloro (PPPD) che presenta un indice di sopravvivenza simile a quello che si ottiene con la procedura di Wipple [Lin e Lin, 1999]. Nel caso in cui invece il tumore sia localizzato a livello del corpo e della coda del pancreas, sono necessarie o una splenectomia o una resezione distale [Bilmoria et al., 2008]. Un’ulteriore strategia chirurgica è la pancreatectomia totale, intervento che prevede la resezione della porzione distale dello stomaco, del duodeno, della cistifellea, del dotto coledoco, della milza e dell’intero pancreas, portando così all’eliminazione di eventuali neoplasie disseminate nell’organo e limitando la fuoriuscita del tumore che può verificarsi durante la resezione del pancreas. Nonostante tutto, questa strategia chirurgica non può essere considerata una soluzione sicura e conveniente in quanto, nella maggior parte dei casi, i pazienti che vi vengono sottoposti, sviluppano insufficienza del pancreas esocrino ed endocrino, resistenza all’insulina ed altre complicanze metaboliche [van Heerden et al., 1988]. Gli indicatori di una prognosi post-operatoria infausta includono la presenza di metastasi linfatiche, un grado istopatologico scarsamente

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differenziato, dimensioni del tumore maggiori di 2.5 cm e aneuploidia [Herrera et al., 1992; Porschen et al., 1993]. Le molteplici complicanze a cui l’adenocarcinoma pancreatico duttale potrebbe andare incontro renderebbero necessari tempestivi interventi chirurgici anche in quei pazienti che non sono considerati dei buoni candidati; tra queste complicanze si annoverano l’ostruzione maligna biliare con conseguente ittero ostruttivo (derivanti dalla compressione del coledoco da parte del tumore) e l’ostruzione maligna duodenale, dovuta invece al blocco che il tumore provoca sul passaggio di materiale dallo stomaco al duodeno, provocando così sintomi clinici quali vomito, diarrea e malnutrizione [Soderlund e Linder, 2006]. La resezione pancreatica però non è sempre praticabile, quindi l’obiettivo primario del trattamento del carcinoma pancreatico è quello di cercare di ridurre i sintomi ad esso associati come ittero ostruttivo, forte mal di schiena ed ostruzione duodenale. La riduzione di questi sintomi è praticabile ricorrendo all’uso di diverse metodologie quali il drenaggio enterico-biliare, la splancnicectomìa (sezione chirurgica dei nervi splancnici che innervano i visceri addominali) ed altre tecniche palliative, oppure attraverso l’inserimento transtumorale di endoprotesi biliari o di un sondino tramite metodiche endoscopiche. Sebbene queste ultime pratiche non consentano ai pazienti di assumere alimenti per via orale, contribuiscono alla riduzione dei sintomi della malattia negli stadi terminali [Murr et al., 1994].

1.1.3.2 Terapie farmacologiche

Ad oggi, il supporto per il trattamento dell’adenocarcinoma pancreatico duttale o per tumori del pancreas che presentino metastasi include il singolo agente gemcitabina, acido folico, 5-fluoro uracile, irinotecano, oxaliplatino (FOLFIRINOX) oppure l’associazione gemcitabina-nab paclitaxel [Burris et al., 1997]. La scelta del protocollo terapeutico da seguire viene effettuata sulla base delle condizioni del paziente; questi trattamenti sono capaci di migliorare la sopravvivenza in pazienti che presentano tumore del pancreas in stadio avanzato ma con danni limitati [Zeng et al., 2017]. Gemcitabina (Figura 7) è stata approvata

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nel 1997 dalla Food and Drug Agency ( FDA) in seguito a studi clinici di fase III, i quali dimostrarono che i pazienti trattati con gemcitabina avevano ottenuto buoni risultati clinici con un incremento medio di sopravvivenza rispetto a pazienti trattati con 5-fluorouracile (5-FU), rispettivamente di 5.65 mesi contro 4.41 mesi [Burris et al., 1997]. Questa sostanza viene somministrata una volta ogni sette giorni alla dose di 1000 mg/m2 per via endovenosa (30 minuti) per tre settimane consecutive [Sakamoto et al., 2006]. L’indice di sopravvivenza per pazienti trattati con gemcitabina dopo un anno è del 18% mentre per pazienti che hanno ricevuto il trattamento con 5-FU è del 2% [Berlin et al., 2000]. Inizialmente gemcitabina venne studiata come antivirale, mostrando in seguito una potente attività citotossica ed antiproliferativa su molte linee cellulari isolate da tumori solidi ed ematologici; la sua azione antitumorale è stata avvalorata anche dagli esiti della sperimentazione clinica. Dal punto di vista chimico, gemcitabina (2’,2’-difluoro 2’-deossicitidina, dFdC) è un analogo del nucleoside deossicitidina ottenuto a partire da citosina arabinoside (Ara-C) (Figura 7) attraverso l’inserimento di due atomi di fluoro in posizione 2’ dell’anello furanosico [Mini et al., 2006]. Pur essendo molto simili, la gemcitabina differisce da Ara-C per la presenza di due atomi di fluoro come sostituenti in 2’ dell’anello furanosidico [Hertel et al., 1988].

O

HO

HO

F

N

N

NH

2

O

F

O

HO

HO

H

N

N

NH

2

O

OH

Gemcitabina

ara-C

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L’azione citotossica di gemcitabina è dovuta all’inibizione della sintesi del DNA ed è il risultato di numerosi eventi intracellulari che vedono coinvolti i suoi metaboliti attivi [Huang et al., 1991]. Gemcitabina è un profarmaco che, per divenire attivo, necessita di essere trasportato all’interno della cellula da specifici trasportatori per i nucleosidi (hNTs) presenti sulla membrana plasmatica. La molecola, sebbene con diversa affinità, è substrato sia di hNTs sodio-indipendenti (hENT1 e hENT2) che sodio-dipendenti (hCNT1, hCNT2 e hCNT3) e la sua efficacia come antitumorale è principalmente legata alla loro sintesi [Mackey et al., 1998]. Il ruolo di questi trasportatori è stato dimostrato in vitro quando l’eliminazione di ENT1 conferiva resistenza alla gemcitabina, al contrario la sua up-regulation rafforzava la sua azione citotossica [Nakahira et al., 2007; Bergman, 2001]. Una volta all’interno del compartimento cellulare, la gemcitabina viene fosforilata dalla deossicitidina chinasi (dCK) a produrre gemcitabina monofosfato (dFdCMP) che, a sua volta, viene convertito da altre pirimidine chinasi nei suoi derivati attivi di-fosfato e tri-fosfato (dFdCDP e dFdCTP) [Mini et al., 2006]. In misura minore, gemcitabina viene fosforilata anche dall’enzima mitocondriale timidina chinasi 2 (TK2) [Wang et al., 1999]. La gemcitabina difosfato è un inibitore della ribonucleotide reduttasi (RR), responsabile della produzione di deossicitidina trifosfato (dCTP) e degli altri deossinucleotidi necessari per la sintesi e per la riparazione del DNA; una riduzione dei livelli intracellulari di deossicitidina trifosfato rappresenta per il farmaco una forma di auto-potenziamento utile per favorire l’incorporazione nel DNA di gemcitabina trifosfato, metabolita con cui la deossicitidina trifosfato compete per il legame alla DNA polimerasi [Ghandi et al., 1995]. L’aggiunta di una molecola di dFdCTP al filamento in via di formazione provoca l’ interruzione del processo di sintesi del DNA in quanto la DNA polimerasi, una volta inserito il deossinucleotide successivo, non è più in grado di procedere con l’allungamento della catena e, in aggiunta, la posizione non terminale di dFdCTP impedisce agli enzimi di riparazione di rimuovere il nucleotide anomalo dal DNA (mascheramento della catena terminale) [Huang et al., 1991; Ghandi et al, 1996]. L’inibizione della ribonucleotide reduttasi (RR) e della CTP-sintetasi provocano la deplezione di dCTP, in conseguenza a ciò si evidenzia un marcato

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aumento dell’attività enzimatica di deossicitidina chinasi (dCK); questo ulteriore meccanismo di auto-potenziamento favorisce una fosforilazione più efficiente della gemcitabina e consente inoltre il mantenimento di elevate concentrazioni intracellulari dei suoi metaboliti attivi per un tempo prolungato [Heinemann et al., 1990]. Gemcitabina sembra avere anche altre attività: inibisce l’enzima timidilato sintetasi (TS), provocando la deplezione dei livelli di timidina monofosfato (nucleotide necessario per la sintesi del DNA) [Ruiz Van Haperen et al., 1995], inibisce la citidina trifosfato sintetasi (CTPsintetasi) [Heinemann et al., 1995], inibisce il deossicitidilato deaminasi (dCMPdeaminasi) [Heinemann et al., 1992] e può bloccare i complessi di scissione della topoisomerasi I, enzima che partecipa al processo di duplicazione del DNA che ha la funzione di creare interruzioni transitorie su una delle due catene nucleotidiche riducendo in tal modo il superavvolgimento della doppia elica [Pourquier et al., 2002]. Da recenti studi è emerso che il trattamento con gemcitabina risulta essere efficace nei primi stadi del tumore ma potrebbe invece sviluppare in un secondo momento caratteristiche oncogene come invasività e insorgenza di metastasi [Arora et al., 2013]. Dal momento in cui nelle cellule tumorali pancreatiche vi è una sovraespressione del recettore del fattore di crescita dell’epidermide (EGFR) [Luo et al., 2011; Yamanaka et al., 1993], successivi studi farmacologici hanno pensato all’associazione di gemcitabina con erlotinib (inibitore di EGFR), ottenendo però risultati modesti e considerevoli effetti avversi [Moore et al., 2007]. Il risultato più significativo è stato ottenuto con l’utilizzo della terapia FOLFIRINOX (associazione di 5-fluorouracile, irinotecano, oxaliplatino e leucovorina) in pazienti con adenocarcinoma pancreatico duttale metastatizzato con una sopravvivenza media di 11.1 mesi, quindi maggiore rispetto ai 6.8 mesi di sopravvivenza in seguito alla somministrazione di gemcitabina [Vaccaro et al., 2011]. Questa terapia è però riservata solo a pazienti idonei in quanto ha come conseguenza elevati livelli di tossicità [Haqq et al., 2014], portando comunemente alla manifestazione di colangiti, neutropenia, astenia, vomito e diarrea [Kang e Saif, 2011; Kim, 2010]. La somministrazione di questa associazione può essere sostituita, in pazienti con PDAC localmente avanzato, recidivo e metastatico, da una terapia in

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cui vengono associati gemcitabina e nab-paclitaxel (formulazione alternativa in cui la molecola di paclitaxel è legata a nano-particelle di albumina). Questa particolare formulazione ha dimostrato di avere una buona attività antitumorale in questo tipo di carcinoma, soprattutto se associato con gemcitabina [Von off et al., 2013]. In futuro si pensa che programmi di screening in soggetti ad alto rischio, inclusa la storia familiare di tumore del pancreas, possano fornire diagnosi di PDAC in pazienti che presentano uno stadio ancora precoce del tumore e quindi incrementare l’esito positivo della terapia [Canto et al., 2013].

1.2 Metabolismo del PDAC

L’adenocarcinoma pancreatico duttale, rispetto ad altri tipi di carcinomi, mostra una delle più vaste e scarsamente vascolarizzate reazioni desmoplastiche stromali; lo stroma è generalmente più esteso della componente epiteliale del tumore e raggiunge un volume pari all’80% dell’intera massa [Hidalgo, 2010; Chu et al., 2007; Mahadevan e Von Hoff, 2007]. Quest’ultimo risulta così denso e fibroso da comprimere i vasi sanguigni creando dei punti di alta pressione interstiziale, limitando la vascolarizzazione del tumore [Hoffman et al, 2008; Masamune et al, 2008]. La densa reazione stromale che caratterizza PDAC, risulta essere determinante nei confronti dell’aggressione biologica promuovendo

l’invasione, la metastatizzazione e la resistenza ad alcune terapie standard [Olive et al., 2009; Provenzano et al., 2012]. Le cellule tumorali pancreatiche, per sopravvivere, devono così affrontare problematiche come l’ipossia e la mancanza di nutrimenti, mostrando un’ottima capacità di adattamento alle condizioni metabolicamente sfavorevoli dell’ambiente in cui si trovano [Bergers e Hanahan, 2008]. L’adenocarcinoma pancreatico è infatti caratterizzato da un ambiente ipossico [Rebours et al., 2013], il quale aumenta l'espressione del fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGF) e dell'interleuchina-8 (IL-8) nelle cellule tumorali, con conseguente aumento del rischio metastatico [Claffey e Robinson, 1996; Shi et al., 1999; Biroccio et al., 2000]. Studi preclinici hanno evidenziato infatti che l’ipossia contribuisce alla progressione del tumore

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aumentando la sopravvivenza e la proliferazione cellulare, promuovendo la trasformazione da tumore epiteliale a tumore mesenchimale, l’invasività, la comparsa di metastasi e inoltre, l’instaurarsi di meccanismi di resistenza a terapie disponibili [Büchler et al., 2004; Chang et al., 2011; Niizeki et al., 2002]. Quando le cellule si trovano in condizioni ipossiche viene attivata la produzione di HIF (hypoxia-inducible factor-1), fattore di trascrizione composto da due subunità HIF-1α e HIF-1β [Wang et al., 1995; Wang e Semenza, 1996] che promuove la trascrizione di alcuni geni come ad esempio i trasportatori del glucosio, enzimi glicolitici e fattori angiogenici [Dang e Semenza, 1999]. Normalmente HIF-1α è statisticamente presente per il 16% nel nucleo delle cellule pancreatiche; tale percentuale aumenta fino all’80% nelle cellule neoplastiche del PDAC e, nel 43% dei casi, è possibile ritrovarlo anche nello stroma che circonda il tumore. In seguito a studi in vitro e in vivo, è stato dimostrato che nuovi inibitori selettivi per HIF-1α provocano un potenziamento della morte cellulare tumorale indotta da radiazioni (sia come unico trattamento terapeutico, sia in combinazione con gemcitabina o 5-fluorouracile). Sulla base di tali osservazioni è perciò possibile dedurre che gli inibitori di HIF-1α potrebbero essere degli amplificatori clinicamente rilevanti della sensibilità del PDAC alla radioterapia [Schwartz et al., 2010]. Altra caratteristica fondamentale del PDAC è l’evidente reazione desmoplastica stromale che si diffonde intorno alle cellule epiteliali tumorali, le quali sono isolate e protette da una forte componente fibroblastica attivata, composta da cellule stellate pancreatiche (PSCs), da cellule immunitarie, dalla matrice extracellulare e da una rete vascolare [Apte et al., 2004]. Le cellule stellate sembrano avere sia proprietà angiogeniche [Erkan et al., 2009] sia proprietà di produzione di proteine della matrice extracellulare che, depositandosi negli spazi intercellulari, vanno ad alterare il normale assetto architettonico del pancreas creando così un ambiente fibrotico ed ipossico [Bachem et al., 2005; Erkan et al., 2007; Zhang et al., 2007; Bao et al., 2004]. Una delle principali conseguenze è il cambiamento metabolico attuato dalle cellule neoplastiche per poter soddisfare il loro fabbisogno energetico. Tali meccanismi adattativi comprendono un aumento della glicolisi, un aumento della produzione di

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amminoacidi derivanti dalla degradazione delle proteine, la sintesi di acidi grassi e la glicosilazione proteica [Cohen et al., 2015].

1.2.1 Glicolisi ed Effetto Warburg

Il glucosio è la fonte principale di energia per i mammiferi in quanto genera ATP attraverso la glicolisi e la fosforilazione ossidativa. [Vander Heiden et al., 2009]. Il trasporto del glucosio attraverso la membrana plasmatica nel citosol è mediato da una famiglia di trasportatori del glucosio (GLUTs) [Medina e Owen, 2002; Macheda et al., 2005; Krzeslak et al., 2012]. Una delle caratteristiche principali della progressione tumorale è la forte dipendenza da glucosio necessario per alimentare la glicolisi aerobia [Koppenol et al., 2011]. Otto Warburg, nel 1900, descrisse un fenomeno secondo il quale le cellule tumorali preferiscono sfruttare la glicolisi per generare ATP anche in presenza di ossigeno [Shanmugam et al., 2009a; Shanmugam et al., 2009b; Ganapathy et al., 2009]. Tale fenomeno è conosciuto come glicolisi aerobia o “Warburg effect” (Figura 8) che, oltre a costituire una rapida via per la produzione di energia, rappresenta un’importante vantaggio adattativo per le cellule tumorali contribuendo alla produzione di nucleosidi e amminoacidi [Vander Heiden et al., 2009]. Al contrario, le cellule sane metabolizzano il glucosio per generare energia principalmente attraverso la fosforilazione ossidativa ricorrendo alla glicolisi in condizioni anaerobie [Shanmugam et al., 2009a; Shanmugam et al., 2009b; Ganapathy et al., 2009]. Warburg propose una teoria secondo cui la prima causa della trasformazione tumorale era da ricercare nella compromissione della respirazione cellulare; questa ipotesi fu però considerata troppo semplicistica, in quanto non riusciva a mettere direttamente in relazione il meccanismo molecolare della crescita cellulare incontrollata con il deficit respiratorio. Studi successivi hanno portato all’ipotesi che la compromissione della respirazione cellulare potrebbe essere il fattore che promuove la trasformazione e la progressione neoplastica, poiché provoca instabilità genomica e comparsa di mutazioni [Seyfried e Shelton, 2010]. Studi biochimici e molecolari hanno suggerito numerosi meccanismi attraverso i

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quali questa alterazione metabolica può contribuire allo sviluppo del cancro. Tra questi ultimi è possibile ritrovare malfunzionamenti mitocondriali, adattamenti all’ambiente ipossico tumorale ed anomalie nell’espressione degli enzimi metabolici [Pelicano et al., 2006].

Figura 8. L'effetto Warburg nelle cellule tumorali.

Come mostrato in figura, l'effetto Warburg è indotto principalmente dalla disfunzione mitocondriale. NADPH: nicotinamide adenina dinucleotide fosfato; ROS: specie reattive dell’ossigeno; UCP: proteina disaccoppiante; PEP: fosfoenolpiruvato; GLUT: trasportatori del glucosio; HK: esochinasi; G6P: glucosio 6 fosfato; MCT: trasportatori di acidi monocarbossilici; PPP:Shunt dei pentosi; PFK1: fosfofruttochinasi-1; LDHA / B: lattato deidrogenasi A / B [Fu et al., 2017].

Molti studi mostrano come le mutazioni di alcuni oncogeni, come ad esempio quelle dei geni K-RAS e TP53, possano influenzare le vie metaboliche cellulari favorendo l’instaurarsi di un fenotipo glicolitico [Flier et al., 1987]. L’aumentata dipendenza delle cellule tumorali nei confronti del processo glicolitico, fonte per la produzione di ATP, ha portato l’attenzione della ricerca verso lo studio di nuove stategie terapeutiche finalizzate a ridurre le cellule tumorali attraverso l’inibizione della glicolisi [Pelicano et al., 2006]. Le cellule eucariote sfruttano il processo glicolitico come fonte di energia, tale processo attraverso una serie di

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passaggi enzimatici porta alla produzione di adenosina-trifosfato (ATP) e piruvato a partire da glucosio [Bartrons e Caro, 2007]. La glicolisi si divide in due fasi: la prima è la glicolisi vera e propria, fase comune alle cellule normali e a quelle tumorali, in cui partendo da una molecola di glucosio vengono generati due residui di NAD ridotto, due di piruvato e due molecole di ATP. Tale meccanismo può avvenire anche in ambiente anaerobio e, per questo motivo, è molto sfruttato in natura per produrre energia. Nella seconda fase il piruvato, decarbossilato ad acetil-CoA, entra nel ciclo di Krebs o ciclo degli acidi tricarbossilici (TCA) e viene degradato a CO2 e H2O. Contemporaneamente il

NADH viene riossidato a livello della respirazione mitocondriale [Vander Heiden et al., 2009]. Complessivamente da una molecola di glucosio si ottengono circa 36 molecole di ATP. In assenza di un adeguato apporto di ossigeno si ha l’attivazione di una differente via metabolica che porta alla riduzione del piruvato a lattato per mezzo dell’enzima lattato deidrogenasi (LDH) e la contemporanea conversione del NADH in NAD+. Il bilancio complessivo di questa via metabolica è solo di 2 moli di ATP per mole di glucosio metabolizzata [Bartrons e Caro, 2007]. Tale via, nelle cellule normali viene attivata solo in condizioni di ridotto apporto di ossigeno come nel caso del muscolo in superlavoro e nello sviluppo embrionale, mentre nelle cellule tumorali questo processo, chiamato glicolisi aerobia, viene attivato anche nel caso in cui ci sia un buon apporto di ossigeno. Essendo le cellule tumorali in continua proliferazione, traggono vantaggio da questo processo nonostante abbia una scarsa resa energetica; infatti riescono a produrre acidi nucleici attraverso una via ossidativa alternativa del glucosio (shunt dei pentosi) a partire da prodotti intermedi della glicolisi [Vander Heiden et al., 2009]. Un'altra condizione metabolica che permette alle cellule tumorali di creare un ambiente favorevole per la loro proliferazione è rappresentata dall’accumulo di acido lattico prodotto dalla glicolisi aerobia, che provoca l’acidificazione del microambiente tumorale, rendendolo così più favorevole allo sviluppo dell’infiammazione cronica, all’invasione tumorale, alla degradazione della matrice extracellulare e all’angiogenesi [Fisher et al, 2007; Gottfried, 2006; Mendler et al, 2012]. Sebbene la relazione causa-effetto tra l’aumentato processo glicolitico e la carcinogenesi non sia ancora del tutto chiara [Zu e Guppy, 2004],

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un aumento della glicolisi è stato osservato in molte cellule tumorali di varie origini tissutali [Semenza et al., 2001], suggerendo che l’alterazione di questa via metabolica è un aspetto comunemente riscontrato nel cancro. L’effetto Warburg può essere considerato un rilevante sintomo biochimico delle cellule tumorali, rappresentando così un indispensabile cambiamento nel loro metabolismo energetico [Pelicano et al., 2006].

1.3 Trasportatori del glucosio (GLUTs)

Il glucosio, data la sua natura idrofilica, necessita di specifiche proteine trasportatrici per attraversare la membrana citoplasmatica cellulare. Tale funzione viene svolta dai trasportatori del glucosio che sono divisi in due famiglie di carriers: le proteine per il trasporto facilitato del glucosio (GLUT) e le proteine per il co-trasporto sodio/glucosio (SGLT). Le prime si occupano del trasporto del glucosio secondo gradiente di concentrazione; le seconde, a differenza dei GLUTs, necessitano di energia per svolgere la loro funzione di carrier in quanto lavorano contro gradiente di concentrazione [Thorens e Mueckler, 2010; Joost e Thorens, 2001; Uldry e Thorens, 2004]. I GLUTs (Tabella 2) sono una famiglia di proteine transmembranali formata da 14 sottofamiglie che differiscono in base alla funzione ed espressione tissutale. Queste proteine mostrano un alto livello di conservazione strutturale condividendo una porzione comune della sequenza proteica (12 domini transmembrana con estremità ammino-terminale e carbossi-terminale intracellulari), per questo motivo sono suddivise in tre classi principali in base alla posizione del loop extracellulare [Joost e Thorens, 2001] :

 Classe I, a cui appartengono GLUT -1, GLUT-2, GLUT-3 e GLUT-4 che sono stati i primi ad essere studiati e meglio caratterizzati;

 Classe II, che include GLUT-5, GLUT-7, GLUT-9 e GLUT-11, i quali hanno la capacità di trasportare il fruttosio;

 Classe III, comprende 6, 8, 10, 12 e GLUT-13, ultima classe ad essere stata scoperta e le cui conoscenze sono ancora ridotte [Uldry et al., 2002].

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Tali proteine trasportano non solo il glucosio, ma anche altre molecole quali il fruttosio, galattosio, mannosio, glucosamina, xilosio, acido deidroascorbico (DHA), urato e mioinositolo in modo differente [Barron et al., 2016].

Tabella 2. Classificazione dei trasportatori del glucosio (GLUTs).

I trasportatori del glucosio di classe I, prima famiglia ad essere descritta e caratterizzata, contiene le proteine GLUT1 e GLUT4 le quali sono state le più comunemente studiate [Frolova e Moley, 2011]. Nel 1985 GLUT1 è stata la prima isoforma proteica ad essere clonata e si trova maggiormente espressa negli

Trasportatore Classe Espressione Affinità per il glucosio Espressione nel cancro GLUT-1 I Ubiquitario (abbondante nel cervello e negli

eritrociti)

Alta Sovraespresso GLUT-2 I Fegato, retina, cellule

insulari del pancreas Bassa Anormale GLUT-3 I Cervello Alta Sovraespresso GLUT-4 I

Muscoli, tessuto adiposo,

cuore

Alta Anormale GLUT-5 II Intestino, testicoli, rene,

eritrociti Molto bassa Anormale GLUT-6 III Milza, leucociti, cervello Bassa Non rilevabile GLUT-7 II Fegato, intestino, colon,

testicoli, prostata Alta

Non determinabile GLUT-8 III Testicoli, cervello Alta Sovraespresso GLUT-9 II Fegato, rene, cellule

Pancreatiche Alta Non rilevabile GLUT-10 III Fegato, pancreas Alta Non rilevabile GLUT-11 II Cuore, muscoli Bassa Non rilevabile GLUT-12 III

Cuore, prostata, muscoli,

intestino, tessuto adiposo

Alta Anormale

HMIT III Cervello No Non

determinabile GLUT-14 I Testicoli Non

determinabile

Non determinabile

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eritrociti, nella placenta, nelle cellule endoteliali e a livello della barriera ematoencefalica. Alterati livelli di questa proteina sono stati riscontrati in condizioni di differenziazione e trasformazione cellulare, in presenza di fattori di crescita, insulina e stress [Jun et al., 2011]. Rispetto agli altri trasportatori GLUTs, GLUT 1 mostra un elevata affinità per il glucosio, giocando così un ruolo fondamentale nei tessuti che necessitano di un elevato consumo di glucosio per produrre energia [Luo et al., 2010]; elevati livelli di espressione di tale trasportatore sono stati riscontrati in molti tumori sia solidi che ematologici [Jun et al., 2011; Luo et al., 2010 ; Grabellus et al., 2012]. Una sovraespressione di GLUT 1 è stata riscontrata in molteplici tipi di tumore, tra cui il linfoma diffuso a grandi cellule B (DLBCL), carcinoma colon-rettale, carcinoma epatocellulare, tumore stromale gastrointestinale (GIST), carcinoma prostatico, tumore della tiroide, ipernefroma maligno, carcinoma polmonare, tumore del pancreas e sarcomi. Esistono elementi a favore e a sfavore che mettono in correlazione i livelli sovraespressi di GLUT 1 con la stadiazione del tumore e i risultati clinici [Luo et al., 2010; Reinicke et al., 2012; Sakashita et al., 2001; Fang et al., 2010; Basturk et al., 2011; Chan et al., 2011; Amann e Hellerbrand, 2009; Carvalho et al., 2011]. I GLUT 2 hanno mostrato invece una bassa affinità per il glucosio e si trovano espressi principalmente nelle linee cellulari tumorali di intestino tenue, rene, seno, insulinoma, colon e pancreas. I GLUT 2, insieme ai GLUT 5, sono i principali trasportatori adibiti alla mobilitazione del fruttosio nelle cellule umane, anche se i GLUT 2 lo sono in misura minore [Medina e Owen, 2002; Augustin, 2010; Reinicke et al., 2012]. I trasportatori di classe II, denominati anche “odd GLUTs”, rappresentano una classe di proteine transmembranali in grado di trasportare il fruttosio [Medina e Owen, 2002]; il GLUT 11, ultimo trasportatore di questo gruppo, si trova principalmente localizzato nella membrana plasmatica ed è espresso in varie cellule tissutali tra cui le cellule cardiache, placentari, renali, muscolari scheletriche, adipose e pancreatiche [Augustin, 2010; McBrayer et al., 2012]. Per quanto riguarda i trasportatori di classe III, il GLUT 6 mostra una bassa affinità per il glucosio e il suo mRNA si trova principalmente a livello cerebrale, nella milza e nei leucociti periferici [Doege et al., 2000]. Sebbene le informazioni riguardanti il legame tra l’espressione di GLUT 6 e i tumori non

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siano ancora chiare, solo uno studio, in seguito a diagnosi immunoistochimica, ha evidenziato la presenza di tale trasportatore nel cancro al seno, al pancreas e nel leiomioma uterino [Godoy et al, 2006]. Numerosi studi hanno evidenziato che l’inibizione del trasporto del glucosio possa portare ad apoptosi e ad un decremento della proliferazione tumorale. Come precedentemente descritto, il trasportatore GLUT 1, ha mostrato un elevato livello di espressione in numerose neoplasie e pertanto è stato preso come oggetto di studio in quanto possibile target per nuove strategie terapeutiche [Zhang et al., 2010; Wang et al., 2012]. Gaowa Share et al., in seguito ad uno studio di meta-analisi hanno provato che vi è una stretta correlazione tra l’aumentata espressione di GLUT 1 e un basso indice di sopravvivenza in pazienti affetti da carcinoma pancreatico. In particolare è stato evidenziato un legame tra la sovraespressione di GLUT 1 e una dimensione tumorale maggiore di 2 cm e la presenza di linfonodi metastatizzati [Gaowa et al., 2017]. Ciò rende questa proteina trans-membrana un ottimo bersaglio di attacco per la terapia del tumore [Macheda et al, 2005].

1.3.1 “Gluco-coniugati come nuova strategia

terapeutica”

Attualmente il fenomeno conosciuto come ”effetto Warburg ” rappresenta una delle caratteristiche principali del meccanismo di adattamento delle cellule tumorali [Hanahan e Weinberg, 2011]. Gli enzimi glicolitici, così come i trasportatori del glucosio insulino-indipenti GLUT 1, sono ampiamente sovraespressi nei tumori solidi e, i livelli di sovraespressione di tali proteine in campioni bioptici, sono strettamente correlati con una prognosi infausta catturando così l’attenzione come possibili target terapeutici [Ohba et al., 2010; Kunkel et al., 2007; Koukourakis et al., 2011; Gong et al., 2012]. Negli ultimi anni, il possibile utilizzo dell’effetto Warburg come target terapeutico nella terapia antitumorale ha suscitato enorme interesse, sia con l’utilizzo di piccole molecole in grado di inibire la funzione degli enzimi metabolici precedentemente

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citati [Vander Heiden, 2011; Granchi e Minutolo, 2012], sia con l’utilizzo di composti gluco-coniugati alla ricerca di terapie antitumorali mirate e selettive per le cellule tumorali. Quest’ultima strategia terapeutica si è ispirata all’ utilizzo clinico del 2-deossi-2-(18F)-fluoro-D-glucosio (18F-FDG), radiomarcatore analogo del glucosio, che è stato impiegato per la diagnosi per immagine di tumori e relative metastasi, grazie alla tendenza che le cellule tumorali hanno di sfruttare più glucosio rispetto alle cellule normali [Herrmann et al., 2011; Ben-Haim e Ell, 2009]. L’ambito inerente alla sintesi e allo sviluppo dei composti gluco-coniugati come farmaci antitumorali è stato riportato per la prima volta in letteratura nel 1995 e negli anni, in seguito a studi clinici avanzati, ha acquisito sempre più rilevanza con l’utilizzo del primo coniugato glufosfamide [Calvaresi e Hergenrother, 2013] (Figura 9). Inizialmente riportata in letteratura da Wiessler et al. nel 1995, la glufosfamide è stato il primo gluco-coniugato ad essere sintetizzato ed analizzato come composto citotossico antitumorale. Lo scopo della sintesi della glufosfamide era quello di ridurre la tossicità andando allo stesso tempo ad incrementare la selettività nei confronti delle cellule tumorali tramite la sua componente agliconica, ovvero la mostarda azotata ifofosfamide dotata di un’attività alchilante nei confronti del DNA. Sebbene la potenza della glufosfamide fosse equiparabile a quella del suo aglicone, la capacità antitumorale di questo gluco-coniugato risultò essere ridotta in seguito ad un co-trattamento con GLUT 1-inibitori quali floretina e florizina alla concentrazione di 0.1μM, suggerendo così che la sua entrata all’interno delle cellule fosse mediata, almeno in parte, dai trasportatori GLUT [Pohl et al., 1995]. La glufosfamide è un pro farmaco che viene attivato in seguito a clivaggio del glucosio attraverso idrolisi spontanea o attività enzimatica della glicosidasi [Arafa, 2009]. Nell’ultimo decennio sono stati effettuati studi clinici riguardanti l’efficacia della glufosfamide contro i tumori del pancreas. Tali studi, che sono stati supportati dall’attenuazione dei sintomi in un paziente affetto da carcinoma pancreatico durante studio clinico, sono stati condotti con la speranza di ovviare agli effetti collaterali riscontrati a livello renale [Briasoulis et al., 2000].

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30 O OH HO HO HO O P O HN Cl H N Cl

Figura 9. Struttura chimica della glufosfamide.

1.4 Il solfuro di idrogeno

Il solfuro di idrogeno (H2S), scoperto per la prima volta nel 1777 da Carl Wilhelm

Scheele, è una molecola dal caratteristico odore di uova marce comunemente conosciuta come potente agente tossico. Questa molecola gassosa è poi stata riconosciuta come membro della famiglia dei gas trasmettitori insieme all’ossido nitrico (NO) e al monossido di carbonio (CO) [Vandiver e Snyder, 2012; Wang, 2012; Li e Moore, 2011; Szabo, 2007; Kolluru et al, 2013; Fukuto, 2012; Olson et al., 2012; Olson, 2012]. Una fonte importante di H2S è rappresentata dalla flora

battrica intestinale, in quanto l’epitelio intestinale esprime specifici sistemi enzimatici che degradano efficacemente il solfito in tiosolfato e solfato, per proteggersi presumibilmente da alte concentrazioni di solfiti prevenendo così l’eccessiva entrata di H2S nella circolazione sistemica [Fiorucci et al., 2006; Furne

et al., 2001].

1.4.1 Chimica e biosintesi del solfuro di idrogeno

Il solfuro di idrogeno (H2S) è un gas incolore a temperatura e pressione

ambiente [Nicholls e Kim, 1982; Cooper e Brown, 2008; Hellmich et al., 2015] con caratteristiche di acido debole (pKa = 6.98 a 25°C) che, in soluzione acquosa, si dissocia in H+ e HS- ; a sua volta, l’anione bisolfuro (HS-) può dissociarsi in H+ e anione solfuro (S2-) secondo la seguente reazione:

(31)

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Secondo l’equazione di Henderson-Hasselbach, circa il 20% del solfuro totale, a temperatura e pH fisiologici esiste come acido indissociato mentre, il restante 80% è presente sottoforma di HS-. La contemporanea presenza, in tali condizioni, di quantità rilevanti di H2S e HS-, fa ipotizzare che entrambe le forme

contribuiscano all’effetto biologico finale del “gas trasmettitore”; al contrario, i livelli della specie ionica S2- possono essere trascurabili poichè una significativa dissociazione di HS- richiederebbe la presenza di un ambiente più alcalino rispetto a quello fisiologico [Dorman et al., 2002; Dombkowski et al., 2004; Hughes et al., 2009]. Grazie alla sua elevata lipofilicità l’H2S attraversa

liberamente le membrane biologiche, penetrando così con facilità in tutti i tipi di cellule [Furne et al., 2008; Whitfield et al., 2008]. Il solfuro di idrogeno è prodotto nei mammiferi sia attraverso una via enzimatica sia attraverso una via non enzimatica. Tra queste la seconda, sebbene risulti essere la meno importante, prevede la riduzione dello zolfo elementare (S0) ad H2S e vede coinvolti gli

equivalenti di riduzione ottenuti dall’ossidazione del glucosio. Il bilancio di questa reazione prevede la produzione di tre molecole di acido lattico, tre molecole di anidride carbonica e sei molecole di solfuro di idrogeno a partire da due molecole di glucosio, come riassunto nella seguente reazione:

2 C6H12O6 + 6 S0 + 3 H2O → 3 C3H6O3 + 6 H2S + 3 CO2

Nonostante la produzione di H2S sia principalmente supportata dal glucosio,

anche altri substrati sono coinvolti in tale meccanismo. Ad esempio, in lisati cellulari di eritrociti umani, è stata evidenziata una certa capacità di stimolare la produzione di H2S da parte dei trasportatori di elettroni NADH e NADPH così

come da parte del glutatione (GSH), ritenuto probabilmente il diretto responsabile della produzione di questo “gas trasmettitore”. Il NAD(P)H, a sua volta, è in grado di operare la reazione di riduzione del glutatione ossidato (GSSG) in modo tale da renderlo riutilizzabile [Searcy e Lee, 1998; Wang, 2002]. La biosintesi del solfuro di idrogeno è assicurata da enzimi citosolici piridossale-5-fosfato (Vit.B6)

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dipendenti [Snyder e Vandiver, 2012] quali cistationina β-sintasi (CBS) e cistationina γ-liasi (CSE) [Stipanuk, 2004]. La produzione di H2S è inoltre

garantita dalla compartecipazione tra l’enzima cisteina amino transferasi (CAT) e 3-mercapropiruvato solfotransferasi (3-MST) [Stipanuk, 2004; Mikami, et al., 2011; Ishigami, 2009]. Questi enzimi assumono differente importanza in base alla loro localizzazione nei tessuti [Kamoun, 2004]; ad esempio CBS, enzima considerato maggiormente espresso a livello del sistema nervoso centrale [Robert et al., 2003], è solitamente assente a livello del tessuto vascolare dove la sua espressione potrebbe essere indotta in seguito a particolari condizioni endogene. Al contrario CSE rappresenta la maggior fonte di produzione di H2S nel sistema

cardiovascolare [Ishii et al., 2004] dove il livello di H2S prodotto sembra essere

compreso in un range tra 3-6 nmol/min/g di tessuto. Sebbene quest’ultimo enzima fosse stato inizialmente identificato a livello delle cellule della muscolatura liscia vascolare e non nelle cellule endoteliali [Zhao et al., 2001; Wang, 2003], successivi studi immunoistochimici hanno suggerito la sua prevalente localizzazione a livello dello strato endoteliale e una minor espressione nelle cellule muscolari lisce vascolari. È stato osservato inoltre che la presenza di alterazioni a carico del gene che codifica per CSE si traduce in un decremento della concentrazione ematica di H2S a livello del sistema cardiovascolare di ratti,

accompagnato da una risposta ipertensiva e da un ridotto effetto vasorilasciante [Yang, 2008]. Nei mammiferi il solfuro di idrogeno viene prodotto attraverso quattro differenti vie biosintetiche:

 Il primo processo di biosintesi di H2S prevede la reazione di idrolisi

dell’amminoacido L-Cisteina il quale, per mezzo di cistationina β-sintasi (CBS), porta alla formazione di L-Serina e solfuro di idrogeno in quantità equimolari (Schema 1) [Porter et al., 1974].

L-Cysteine L-Serine

CBS

Vit.B6

+

H

2

S

(33)

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 Il secondo passaggio di questa via biosintetica prevede il coinvolgimento di due molecole di Cisteina che reagiscono per formare un dimero di L-Cisteina (L-Cistina), successivamente scisso attraverso una reazione catalizzata dalla cistationina γ-liasi (CSE) in tiocisteina, piruvato e ammoniaca. La tiocisteina così formata può andare incontro ad un processo non enzimatico che porta alla produzione di L-Cisteina e H2S

[Cavallini et al., 1962] oppure ad un processo enzimatico che, catalizzato da CSE in presenza di composti contenenti un gruppo tiolico (R-SH) come cisteina o glutatione, porta ai prodotti di reazione H2S e CysS-R (Schema

2) [Yamanishi e Tuboi, 1981; Stipanuk e Beck, 1982].

2 L-Cysteine Dimerization L-Cystine Vit.B6 Thiocysteine + Pyruvate + NH3 + RSH CysSR + H2S Non enzimatically L-Cysteine + H2S

CSE

CSE

Vit.B6

Schema 2. Biosintesi di H2S: secondo processo.

 Nel terzo passaggio si ha il coinvolgimento dell’enzima cisteina amino transferasi che funge da catalizzatore per la reazione tra L-Cisteina e α-chetoglutarato, portando alla formazione di L-glutammato e 3-mercapto-piruvato. Quest’ultimo derivato può essere successivamente desolforato dalla 3-mercapto-piruvato solfotransferasi per dare piruvato e H2S [Kuo et

al., 1983; Shibuya et al., 2009]. In alternativa, quando gli ioni solfito (SO3

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lo ione solfito in tiosolfato (S2O32- ) ad opera di CAT. A questo punto, il

tiosolfato ottenuto dal precedente passaggio reagisce con glutatione ridotto (GSH) per formare H2S, SO32- e glutatione in forma ossidata (GSSG)

(Schema 3) [Martelli et al., 2012].

L-Cysteine + -Ketoglutarate 3-mercaptopyruvate + L-glutamate

Pyruvate + H2S + SO3 2-Thiosulphate + Pyruvate GSH H2S + H2SO3 + GSSG CAT Vit.B6 CAT Zinc MPST

Schema 3. Biosintesi di H2S: terzo processo.

 Nel quarto ed ultimo processo enzimatico L-Cisteina e ione solfito sono convertiti ad opera della cisteina liasi in L-Cisteato e H2S [Li et al., 2009a]

(Schema 4).

L-Cysteine + SO3

2-Cysteine Lyase

Vit.B6

L-Cysteate +

H

2

S

Schema 4. Biosintesi di H2S: quarto processo.

L’attività di CBS e CSE può essere influenzata da molti fattori sia endogeni che esogeni. Ad esempio, nel cervello l’attività di CBS è regolata dalla concentrazione

(35)

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di ioni calcio (Ca2+) e dalla calmodulina, pertanto la produzione di H2S

CBS-dipendente risulta essere maggiore in seguito ad un aumento dei livelli intracellulari di calcio [Dominy e Stipanuk, 2004], indotto da agonisti dei recettori N-metil-D-aspartato (NMDA) e α-amino-3-idrossi-5-metil-4-isoxazolone propionato (AMPA). Al contrario CBS, la cui attività sembra essere inattivata dall’ossido di azoto (NO), vede un miglioramento della sua attività in vitro indotta da nitroprussiato di sodio (NO-donor). Tale fatto, considerato paradosso, è indipendente dalla sua capacità di rilasciare ossido di azoto e la sua spiegazione è da attribuire ad una modificazione diretta di CBS [Eto e Kimura, 2002; Eto et al., 2002; Taoka e Banerjee, 2001]. A livello cardiovascolare, invece, la sintesi di solfuro di idrogeno CSE-mediata sembra intensificarsi in seguito alla somministrazione di NO-donors in modo cGMP-dipendente. Sulla base di queste osservazioni è stata trovata una relazione tra gli inibitori della NO-sintasi ed il conseguente decremento della produzione di H2S [Zhao et al., 2003].

1.4.2 Catabolismo del solfuro di idrogeno

Recenti studi riguardanti il solfuro di idrogeno, hanno mostrato che tale gas trasmettitore subisce un processo metabolico mitocondriale grazie all’attivazione di numerosi enzimi tra cui solfuro chinone ossidoreduttasi (SQR), zolfo diossigenasi (SDO) e solfotransferasi rodanasi [Hildebrandt e Grieshaber, 2008; Bouillaud e Blachier, 2011; Lagoutte et al., 2010], i quali cooperano per ossidare il solfuro acido portando al prodotto finale solfato [Wu et al., 2015]. Il meccanismo di ossidazione procede attraverso vari step enzimatici, mediati dagli enzimi sopracitati, che portano alla formazione del tiosolfato il quale viene ulteriormente bio-trasformato dalla rodonasi in solfito. Il solfito così ottenuto è a sua volta ossidato a solfato dalla solfito ossidasi (SO) [Goubern et al., 2007; Hildebrandt e Grieshaber, 2008]. Sebbene il solfato inorganico sia il prodotto finale più stabile del catabolismo del solfuro di idrogeno, non può fungere da indicatore specifico della concentrazione ematica del gas poichè gli ioni solfato possono originare anche da processi alternativi tra cui, l’ossidazione diretta della

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