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intervengono negli anni a tappare i buchi: marciapiedi, aree verdi, illuminazione, fognature, bitumature, etc

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Perugia,Italia…

PERIODICO DI INFORMAZIONE CITTADINA E DELL’UMBRIA (Tutti possono scriverci inviando un testo o commento)

Direttore: Luigi F. Direzione, Redazione, Amministrazione, via del Castellano, 7 -06121 Perugia

n. 16 del 15 settembre 2003

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FONTIVEGGE

Abbiamo parlato in precedenti numeri di Gherlinda, dell’Ottagono, del centro commerciale di Collestrada, di Monteluce che verrà, valutandone il valore urbanistico nell’odierna città di Perugia.

Fontivegge, che è stato vent’anni fa il primo polo urbano fuori del centro storico completamente pensato e pianificato ex novo, merita attenzione, anche perché è rimasto una pagina aperta, non conclusa.

Tralasciamo la polemica sulla cancellazione dell’ex Perugina e Poligrafico, tanto ormai non possiamo più farci niente (rimangono belle fotografie in bianco e nero).

Il nuovo disegno del quartiere, o meglio del centro direzionale di Fontivegge -che del quartiere è parte- fu opera di un architetto di grido, Aldo Rossi milanese, ora scomparso. Egli fu chiamato dall’amministrazione perugina dopo alcuni primitivi disegni, che dalla quantità enorme di volumetria prevista non riuscivano a ricavarne scenari senza una forte sensazione di caos e casualità di volumi.

Aldo Rossi concentrò i volumi in pochi grandi edifici (peraltro disegnati con i suoi tipici stilemi d’epoca, chiamati post moderno), dando al luogo una piazza e un ordine.

Tuttavia la piazza del Bacio -ormai si può ben dire- non è mai decollata; è un non- luogo della città, la vita e i flussi gli girano intorno senza riuscire a forarne la corazza, senza beneficiarla.

Due grandi errori la castrano: l’alta scalinata che la separa dalla piazza della stazione e il porticato degli edifici che prospettano sulla piazza del Bacio.

L’alta scalinata, che occupa l’unica apertura di piazza del Bacio verso il baricentro della stazione, è un ostacolo psicologico. Non solo una barriera architettonica insormontabile dai disabili (e si che le leggi già esistevano), ma insormontabile nella percezione, nella appetibilità della gente comune. Più in generale tutto il progetto si chiude alla stazione, che invece meritava il massimo dialogo e relazioni di spazi, volumi e percorsi.

Invece il porticato degli edifici, che voleva essere un invitante perimetro interno alla piazza, presenta la pessima caratteristica di pilastri larghi pressappoco quanto il vuoto. Nei porticati classici -si pensi al centro storico di Bologna- il pilastro è meno

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di mezzo metro e il vuoto tra un pilastro e l’altro è almeno cinque sei metri (oltre ad altezze considerevoli): ovvio che il porticato risulta invitante, arioso, spazioso, luminoso; un valido filtro tra il pieno degli edifici ed il vuoto della piazza, adattabile per i tavolini dei bar, per l’esposizione di merce, per la variegata convivenza dei pedoni, chi sbircia le vetrine, chi cammina, chi fa capannello.

Il porticato di Piazza del Bacio stringe il cuore: i molti negozi che vi si sono avvicendati (con alto tasso di rotazione) hanno sempre avuto grossi problemi perfino per la semplice insegna.

A questi errori architettonici si sono aggiunti i difetti di una urbanistica ancora lontana dai comuni standard occidentali: in tutto il mondo civile (compresi numerosi paesi d’Africa e d’Asia) chi costruisce il nudo volume destinato alla vendita (appartamenti, uffici, negozi) viene chiamato a realizzare (direttamente o con contributi significativi), in tutto o comunque per parti decisive, anche le infrastrutture e le attrezzature di cui il nuovo quartiere abbisogna, per farlo ben funzionare e non creare congestione: nuove strade, parchi, servizi.

E che il disegno di Rossi aveva in buona parte previsti: l’edificio per un nuovo grande teatro (previsto sul lato nord, ora rimasto a prato) e la cosiddetta autostrada urbana, cioè una nuova strada soprelevata che avrebbe dovuto servire il centro direzionale, scavalcando in un qualche modo Madonna Alta per ricongiungersi alla superstrada attuale.

Quest’autostrada urbana non vide la luce per altri motivi, per l’opposizione dei residenti di Madonna Alta che molto comprensibilmente aborrirono l’idea di un viadotto vicino alle finestre (forse c’è qualche analogia con l’attuale minimetrò). Però gli 80 miliardi per realizzarla erano già stati trovati: anas, provincia, regione ed anche comune.

Nulla però a carico dei costruttori, a cui l’allegra urbanistica italiana ed umbra consente di godere della polpa urbanistica (vendere i puri volumi), lasciando alle casse pubbliche le dure ossa (infrastrutture ed attrezzature).

Ugualmente per il teatro: non s’è mai realizzato né mai lo sarà, a meno che il comune non stanzi un bel giorno una ventina di miliardi.

Perfino le panchine al capolinea dei bus sotto l’Upim/Coop le ha dovute comprare il comune; perfino per la fontana il comune dovette trovare i soldi (oltre cento milioni di allora); l’ascensore e il servo scala del sovrappasso pedonale non hanno mai funzionato; una seconda passerella Rossi l’aveva disegnata nella parte alta, nei pressi della statua in metallo che disegna il profilo di un volto, ma non s’è mai fatta.

In verità tra la matassa di leggi urbanistiche vigenti, c’è senz’altro la possibilità (sol che si voglia) di un’urbanistica moderna e civile: realizzare volumi e infrastrutture contestualmente, e soprattutto senza gravare sulle casse pubbliche.

Invece per la compiacenza dei comuni verso i superprofitti dei costruttori (evidentemente ammanicati), spesso le nuove urbanizzazioni sono occasione di salasso, perché i comuni evitano di essere stringenti coi costruttori ma addirittura

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intervengono negli anni a tappare i buchi: marciapiedi, aree verdi, illuminazione, fognature, bitumature, etc…

Fontivegge inoltre presenta altre occasioni perse: i parcheggi.

Ben 2500 sono i posti auto protetti realizzati in tutto il quartiere, però per incuranza nel momento opportuno da parte del comune (cui la legge in verità conferiva il coltello dalla parte del manico), l’uso pattuito con i rispettivi proprietari non ha favorito minimamente l’interesse pubblico: il cittadino automobilista che arriva nella zona non trova facile parcheggio, se non a pagamento, eppure molte centinaia di posti rimangono largamente sottoutilizzati, vedasi i quattro piani di parcheggio degli uffici finanziari. Migliaia di posti riservati ai soli impiegati degli enti proprietari: ognuno il suo feudo, il popolo s’arrangi.

Altra occasione persa è stata il lungo edificio parallelo al viale Angeloni, fronteggiante il centro direzionale, quello ricco di negozi, uffici e abitazioni. La perimetrazione urbanistica del centro direzionale (decisa anni prima) stranamente lasciò fuori da sé questo comparto, che così, mentre tecnici e amministrazione si arrabattavano a concepire il centro direzionale, poté partire con largo anticipo, e così drenare la gran parte delle risorse private desiderose di insediarsi a Fontivegge. Infatti è questo edificio il vero luogo vitale del quartiere, molto più del centro direzionale e della sua piazza del Bacio, che è un bacio tirato al vento, senza gote capaci di accoglierlo.

Questa furbizia speculativa, alla lunga però, non ha giovato neanche ad esso; sì a chi costruì e vendette subito, ma non a chi investì i suoi denari in questo lungo e vetrato edificio sul lato destro (per chi sale) di viale Angeloni: il disegno frettoloso non vi ha previsto alcuna piazzetta o luogo di incontro; le piccole aree libere sono solo parcheggi; i negozi sono dislocati sui perimetri senza mai fondare un baricentro, un luogo topico, un punto identitario; nessun collegamento con la fonte di Veggio e il retrostante parco. Le tipologie costruttive prescelte, molto veloci e standardizzate (pareti vetrate e pannelli prefabbricati), notoriamente non sono il massimo in termini di rifiniture, risparmio energetico, manutenzioni.

I valori immobiliari e commerciali infatti non brillano di certo.

E’ questo il punto vitale del centro direzionale, ma insoddisfacente e dispersivo, peraltro staccato irrimediabilmente dalla stazione, l’altro punto forte e vitale di Fontivegge: due debolezze che non fanno una forza.

In verità tutta l’operazione immobiliare di Fontivegge poté concretarsi grazie alla droga del denaro pubblico: tutto è partito con la garanzia che la regione avrebbe comprato i cospicui volumi necessari per i suoi uffici. I costruttori insomma avevano già sulla carta gli acquirenti assicurati.

Del famoso “steccone”, cioè il lungo edificio parallelo al viale Angeloni sul lato sinistro, se n’è costruito solo un pezzetto, un mozzicone, perché il mercato vero, quello senza il denaro della politica, si fermò assai presto: si tentò perfino, per un

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certo periodo (1992-93), di rifilare anche quest’ultimo edificio alle casse pubbliche, con la storia che gli uffici regionali appena occupati non erano salubri, facevano venire la grattarella…

A tutto questo si aggiunga la frana di Fontivegge, causata dagli enormi sbancamenti di terreno che vennero eseguiti per la fondazione dei vari edifici della nuova Fontivegge: l’acqua che impregna il colle perugino improvvisamente risultò emunta e il terreno più vicino alle vene sotterrane si contrasse, facendo scricchiolare pilastri e fondazioni di numerosi palazzi di via S. Prospero.

I miliardi necessari per la bonifica naturalmente li mise lo stato…

Al di là delle parole, dei convegni e dei volumi patinati, questa è la storia di un quartiere moderno italiano, pomposamente chiamato centro direzionale.

Nel complesso la nuova Fontivegge fu disegnata col difetto capitale di tenere ben ferma la partizione delle diverse proprietà delle aree, quando invece una buona urbanistica:

- disegna ignorando le proprietà

- disegna immaginando il miglior scenario possibile

- poi, per non far torto a nessuno, fa di tutta l’area un unico comparto (come suggerito dalla legge urbanistica del 1942) ove rendita e oneri urbanistici vengano ripartiti equamente cioè proporzionalmente tra tutti i proprietari di aree.

In altra occasione diremo cosa oggi si può ancora fare per tentare di raddrizzare le sorti di Fontivegge.

* * *

Dopo vent’anni si può fare un breve conto economico dell’operazione Fontivegge.

Bisogna premettere chi sono i soggetti nelle cui tasche andiamo a sbirciare, che sono tre: i costruttori, i privati che comprarono i volumi (case, negozi, uffici) e la collettività (che paga o guadagna per mezzo dell’ente pubblico).

I costruttori, grazie ai meccanismi raccontati, massimizzarono il loro guadagno;

molto meno i privati acquirenti, che pagarono un prezzo di mercato ove il valore della zona (la centralità di Fontivegge, la promessa di farvi il centro direzionale) pesava molto più dell’intrinseco valore edilizio dei singoli edifici, si pensi solo che senza refrigeramento estivo non sono vivibili (alto costo di gestione e manutenzione).

La collettività ha perso tutti quei soldi messi per la frana, per le infrastrutture, per l’acquisto di volumi destinati ad una burocrazia largamente inutile se non oppressiva, per gli arredi, oltre al danno di un quartiere congestionato, incassando solo ici e analoghe tasse.

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Un’urbanistica moderna e civile, senza far danno a chicchessia e certamente riconoscendo il legittimo profitto di ognuno, dovrebbe offrire agli acquirenti immobili capaci nel tempo di incrementare il proprio valore immobiliare; la collettività -come avviene in tutt’Europa- dovrebbe trarre da ogni urbanizzazione almeno un piccolo guadagno annuale, poco ma guadagno, senza di che le risorse dei comuni non basteranno mai per le molteplici esigenze di una città.

Riconquistare le amministrazioni locali e comunque pubbliche (lo stato) all’interesse precipuo della comunità (fatta di una miriade di singole imprese, famiglie e persone), sottraendole al grumo di potere costituito da Partiti-Burocrazia-Imprese ammanicate, è il vero orizzonte della politica italiana e delle singole amministrazioni cittadine.

Luigi Fressoia

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Perugia,Italia…

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