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DEBITI di Leonardo Mazzei

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Academic year: 2022

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MA GUARDA UN PO’: SONO DEBITI… di Leonardo Mazzei

Ma guarda un po’, sono debiti…

Questa la sensazionale scoperta dell’impagabile Federico Fubini, che sulle pagine del Corriere del 7 settembre scopre l’acqua calda sul Super-Mes, pardon NextGenEu.

Alla vigilia della stesura degli autunnali documenti di bilancio – Nota di aggiornamento del DEF e Legge di Bilancio, cui si aggiunge quest’anno la bozza del Recovery Plan per attingere al fondo di cui sopra – il problema del governo sembra quello di come nascondere ciò che tutti sanno: che la cosiddetta “solidarietà europea” è fatta di prestiti, cioè di nuovi e giganteschi debiti per l’Italia.

Una verità che mette in crisi la narrazione dominante, quella che da mesi si sforza di far credere che i soldi europei siano

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“aiuti”, mentre si tratta invece di un nuovo e più pesante guinzaglio. Una catena talmente forte da far perdere all’Italia quel poco di sovranità rimasta.

Passata un’estate in cui si sono descritti i fondi predisposti dall’Unione Europea quasi come soldi da prendere gratis dal generoso tavolo di Bruxelles, arriva ora la verità autunnale.

Le cose stanno come abbiamo sempre detto – del resto ad un prestito corrisponde sempre un debito – ma quanto scritto da Fubini la dice lunga sui batticuore del governo italiano.

Leggiamo:

«Non sarà necessario per l’Italia presentare entro metà ottobre un piano già compiuto sui 209 miliardi di Next Generation EU, anche perché troppi dettagli restano da precisare a Bruxelles. Il più importante è apparentemente di natura tecnica, ma può avere profonde implicazioni finanziarie e politiche. La parte prevalente di «NextGenEU», il Recovery fund, non sarà infatti in trasferimenti diretti di bilancio ma in prestiti. A tassi quasi zero, rimborsabili in trent’anni e oltre, ma pur sempre prestiti. Per l’Italia questa parte vale circa 125 miliardi di euro nei prossimi anni. Il governo italiano ha dunque rivolto una domanda alla Commissione europea di recente: come vanno trattati sul piano contabile quei prestiti? Se andassero semplicemente aggiunti al calcolo del debito pubblico – uniti ai 28 miliardi del fondo europeo Sure per il lavoro – si arriva a 152 miliardi di oneri in più. È il 9% del prodotto interno lordo, che può diventare 11% nel caso si sommi anche il prestito sanitario del Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Il governo vuole dunque sapere se quelle somme vanno iscritte nella normale contabilità del debito pubblico – facendolo salire molto di più, quando già quest’anno sarà attorno al 160% del Pil – o possono essere trattate a parte».

Capite che cavalli di razza abbiamo a Palazzo Chigi e

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dintorni? Dopo decenni in cui si è drammatizzato il più piccolo zerovirgola di debito in più, adesso il problema non è più il debito – che in quanto targato Europa si è anzi accettato di far crescere a dismisura – bensì la sua formale contabilizzazione.

Ma il debito resta debito comunque lo si contabilizzi. Se la situazione non fosse drammatica ci sarebbe da ridere.

Con l’accordo di luglio, l’oligarchia eurista guidata da Berlino ha lanciato all’Italia (ma anche alla Spagna) la nuova parola d’ordine: indebitatevi, basta che lo facciate con noi!

Ovviamente con tutte le conseguenze del caso. Sapevano che sarebbe arrivato il signorsì, che anzi Conte e soci si sarebbero pure vantati del gran risultato…

Sulla disonestà intellettuale dei governanti italiani, e del giornalistume che li sorregge, possiamo tranquillamente fermarci qui.

Ma c’era un’alternativa a questo disastro? Sì, c’era: il debito non andava aumentato, andava invece monetizzato come hanno fatto tutti gli Stati più importanti.

Piccolo particolare, poiché la Bce mai e poi mai avrebbe accettato la monetizzazione, né l’accetterà in futuro, l’unica strada percorribile era ed è quella della riconquista della sovranità monetaria, dell’uscita dall’euro e dall’Ue, di un’Italexit che prima avverrà e meglio sarà.

UE: FEDERAZIONE RUSSA

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PUTINISTA PRIMO NEMICO di V.

D.

Riceviamo e pubblichiamo

Il Commissario europeo per l’energia, il tedesco Günther Oettinger, il 26 agosto, a Minsk, in Bielorussia, al vertice trilaterale Russia, Ucraina e Unione europea dichiarava che l’ambizione dell’UE è evitare, nell’immediato futuro, problemi relativi alla sicurezza dell’approvvigionamento per i paesi membri.

Il 27 agosto, nella città moldava di Ungheni, il commissario Oettinger, il primo ministro moldavo Ion Chicu e il premier romeno Victor Ponta hanno inaugurato un link tra la rete europea e la rete moldava in direzione ovest-est. Il gasdotto è chiaramente un’alternativa al percorso russo per estromettere Mosca e integrare Chisinau nella sfera d’influenza di Berlino e Varsavia.

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Il socialista Igor Dodon, presidente della Moldavia, ha posto all’ordine del giorno l’abbassamento del prezzo russo da 170 dollari ogni mille metri cubici a 100 dollari; il primo ministro, il già citato tecnocrate filosocialista Ion Chicu, ha alzato il tiro in sostanziale complicità con Berlino, con la richiesta di maggior gas rumeno sottolineando, tra le righe, la necessità strategica di disconnettersi da Mosca.

Il gasdotto di collegamento tra la rete europea e quella moldava, tra le città di confine di Iaşi e Ungheni, in Romania, sarebbe costato 28,5 milioni di euro, solca circa 11 chilometri di terra moldava ed è stato finanziato dalla BERS e dalla Romania.

La portata di cui dispone è di 500 milioni di metri cubi e a regime si arriverà comunque, a quanto pare, a 1,4 miliardi di metri cubi, un dato complessivo non di molto superiore all’attuale fabbisogno moldavo. L’obiettivo è ora quello di estendere la rete all’intera Moldavia, la cui struttura interna è di proprietà Gazprom, ma secondo i dati diffusi già da ora circa il 65% di fabbisogno medio di Moldavia e Transnistria potrebbe essere soddisfatto dal nuovo impianto.

Va considerato che la crisi bielorussa è iniziata mesi fa proprio sul prezzo del gas russo e, vista in una ottica un poco differente da quella della rivoluzione colorata a Minsk, come hanno giustamente sottolineato fuori dal coro Angelo V i n c o i n q u e s t o s i t o e S t e f a n o Z e c c h i n e l l i n e

“L’Interferenza”, se non fossero scoppiati i recenti disordini a agosto, non si sarebbe placata la diatriba sul prezzo.

Il socialista moldavo Dodon sembra quindi quasi voler ripercorrere la pregressa tattica di Lukashenko: mediare amichevolmente con Berlino e con Pechino con il fine di stremare e indebolire la controparte russa. Il gioco si svolge però sul filo del rasoio: circondata da basi NATO la Russia non può retrocedere più di troppo da Minsk, Belgrado, Chisinau, che ne costituiscono il simbolico ultimo bastione

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strategico prima della inevitabile “fase Kutuzov”.

Il Globalismo elitistico, irreligioso e nichilistico, ha da tempo individuato nel Putinismo cristiano-ortodosso l’unico concreto antagonista mondiale sul campo, politico, economico e c u l t u r a l e , m a l a U E , s i n o a p o c h i m e s i f a , n o n e r a particolarmente attiva sul fronte russofobo.

L’FSB russo, in collaborazione con l’intelligence bielorussa, ha di fatto intercettato un dialogo che mostrerebbe la regia del cancellierato di Berlino, in collaborazione con lo spionaggio polacco, sul caso del falso avvelenamento di Navalny:

Varsavia: L’avvelenamento è confermato, vero?

Berlino: Ascolta ……in questo caso non è poi questo fatto così importante. Siamo in guerra e in guerra tutti i metodi vanno bene…….

I popoli europei non sanno di essere in guerra con Putin, ma le élite militari e politiche europeistiche si dichiarano in guerra con la Federazione Russa e stanno di fatto battendosi per una loro guerra contro il presidente russo. Il responsabile di una frazione dell’intelligence all’estero, Sergey Nayshkin, ha infatti genericamente parlato di falsificazione dell’operazione Navalny e di falso avvelenamento, senza puntare specificamente o ripetutamente il dito sui tradizionali avversari dell’intelligence angloamericana, come avveniva solitamente in un contesto simile o come sarebbe avvenuto se vi fosse stato anche una poco più minima certezza.

I maggiori partiti politici tedeschi, a eccezione di una piccola frazione conservatrice della CDU e del movimento di nuova destra Alternativa per la Germania, chiedono ora la immediata sospensione del Nord Stream 2, una necessaria vendetta politica e geopolitica contro il Putinismo che avvelenerebbe gli oppositori. Heiko Maas , ministro esteri di Berlino, ha dichiarato domenica 6 settembre che la Germania bloccherà il Nord Stream 2 se la Russia non riconoscerà la

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propria responsabilità nel caso Navalny.

Allo stesso tempo, però, si rafforza l’asse Modi-Putin sia sul piano della collaborazione militare sia su quello della collaborazione sanitaria, basata sulla produzione, da parte di aziende indiane, dello “Sputnik V” che avrebbe superato tutti i test del caso nel 100% dei casi, come testimonia la rivista medica britannica, altamente indipendente, Lancet.

E la stessa mossa di Trump sul Kosovo-Metohija, un duro colpo sferrato a UE e a Erdogan, di certo non può che andare incontro ai desiderata di Mosca. Allison, in un recente saggio su cui si è molto discusso, “Destinati alla guerra”, paragonava sostanzialmente la Cina odierna alla Germania dello scorso secolo, prevedendo come inevitabile un conflitto caldo tra Stati Uniti e Cina, secondo la tradizionale logica della

“trappola di Tucidide”.

Viceversa, è a nostro avviso la Russia Putinista, non la Cina, a subire ormai da anni la fase strategica di accerchiamento (Einkreisung) sia da Occidente sia da Oriente; accerchiamento fino a ieri soprattutto politico e ideologico, da pochi anni anche economico.

C’è solo da augurarsi che cresca la fronda interna per far tornare sui propri passi la signora Merkel, che recherebbe gran danno a tutti i popoli europei nel persistere della sua durezza di fatale contrapposizione ai popoli ortodossi, dal Mediterraneo all’Europa centro- orientale.

NUOVA DIREZIONE: INVERSIONE

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AD U di Moreno Pasquinelli

«E allora ho subito afferrato il manigoldo per il colletto e che cosa è saltato fuori? Che quel dannato non aveva colletto».

Pëtr Dem’janovič Uspenskij. La strana vita di Ivan Osokin

I compagni di Nuova Direzione sono tornati sul luogo del delitto – La questione dell’Italexit – sferrando un secondo e più virulento attacco contro il Partito annunciato da Gianluigi Paragone. Se l’hanno fatto, evidentemente, è perché, essi stessi, hanno ritenuto il primo non troppo convincente.

Ahinoi, il secondo aggrava gli errori del primo.

Dobbiamo, a premessa, rispondere ad alcuni amici che ritengono il dialogo con Nuovo Direzione una perdita di tempo.

Dissentiamo con questo modo di vedere le cose e per due ragioni. La prima è che per noi il confronto teorico, anche quando polemico, è non solo necessario ma indispensabile.

Anzitutto perché una tesi non può pretendere di essere valida

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e predittiva se non regge alla critica (e ciò riguarda non solo le tesi altrui ma pure le nostre); in secondo luogo perché consideriamo Nuova Direzione il reparto migliore di ciò che resta della sinistra rivoluzionaria che fu.

Tornando a Nuova Direzione. Qui vogliamo solo segnalare che il gruppo, nell’ultimo anno, ha compiuto una inversione ad U.

Anzi, una giravolta.

Solo un anno fa, appena caduto il governo giallo-verde, Nuova Direzione diffondeva un comunicato (che dicemmo di condividere pienamente) con un titolo programmatico: “Un terzo polo alternativo al Pd e alla Lega”.

L’articolo così si concludeva:

«Per non morire né piddini né leghisti è necessario lavorare alla costruzione di un terzo polo alternativo al Pd ed alla Lega. Un vero polo del cambiamento. Un polo che avremmo potuto costruire in dialettica con il M5S se non avesse compiuto la scellerata scelta di questi giorni. Un polo che si ponga l’obiettivo di unificare un blocco sociale del cambiamento fondato soprattutto sulla classe numerosissima che oggi non ha una vera e propria rappresentanza, e cioè sui lavoratori. E poi su tutti i cittadini che si ribellano allo stato di cose presente: al declino culturale, civile, sociale, economico, ambientale e democratico. L’Italia non è grande paese sul piano territoriale e demografico, ma lo è sul piano culturale, sociale e, nonostante tutto, anche economico. La sua collocazione nel Mediterraneo è tale da consentirgli di essere ponte fra interessi e culture diverse:

fra est e ovest, fra sud e nord. Ma per essere ponte bisogna reggersi sui propri pilastri: la sovranità costituzionale, l’interesse nazionale e popolare, una struttura economica resa efficiente da un forte e rinnovato intervento pubblico.
Di questa discussione e lavoro Nuova Direzione si farà promotrice interloquendo con chi per il cambiamento ha o

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aveva optato per i 5S, a chi si è astenuto, a chi è sinceramente in cerca di nuove soluzioni e nuove direzioni senza settarismi e dogmatismi».

Sottolineiamo l’ultimo concetto: “nuove soluzioni e nuove direzioni senza settarismi e dogmatismi”.

Questa posizione a noi sembrò, non certo uguale, ma convergente con quella che esprimemmo solo due mesi prima quando per primi parlammo della necessità che nascesse un Partito dell’Italexit. Ne indicammo i cinque punti programmatici distintivi:

«(1) Disdettare i Trattati e gli accordi anti-nazionali da Mastricht in poi; (2) Uscire dalla gabbia della Ue; (3) Riguadagnare la sovranità politica e monetaria; (4) Ripristinare la democrazia; (5) Tornare alla Costituzione del 1948».

Chi abbia letto con attenzione la Piattaforma del nascente Partito Italexit con Paragone, non potrà non notare che esso ha fatto di questi cinque punti le sue fondamenta. Alla domanda: sono essi sufficienti per sostanziare un “terzo polo”

antagonista ai due blocchi sistemici? Chiunque abbia senso di realtà, non può che rispondere che sì, lo sono. Questo partito è anzi l’unico “terzo polo” possibile e auspicabile nel contesto dato.

Salta agli occhi la giravolta compiuta da Nuova Direzione.

Non pensiamo affatto che questa giravolta sia venuta fuori per caso, e nemmeno che essa possa spiegarsi come un cascame dell’aspra contesa interna che ha segnato la vita di Nuova Direzione negli ultimi mesi. La stroncatura del Partito Italexit con Paragone è l’effetto e non la causa, essendo quest’ultima, appunto, il ripensamento, non solo sulla prospettiva del “terzo polo”, bensì su tutta una serie di questioni connesse.

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Avremo modo, tempo permettendo, di indicare con precisione queste questioni ed i gravi errori, di analisi e di sintesi, contenuti nel secondo comunicato di attacco al Partito Italexit con Paragone. Qui abbiamo voluto limitarci a segnalare questa giravolta.

Possiamo solo anticipare questo, che Nuova Direzione è come se avesse compiuto un doloroso movimento circolare: partiti da una critica durissima ai dogmi della vulgata marxista, mollati gli ormeggi e avviatisi in mare aperto, appena intraviste all’orizzonte le avvisaglie di tempesta, hanno fatto dietrofront, finendo per rigettare l’ancora nella rada che si e r a n o l a s c i a t i a l l e s p a l l e . I n b u o n a s o s t a n z a l a riproposizione dell’idea del piccolo gruppo comunista di propaganda che immagina di poter lavorare sui tempi lunghi della storia (“quando saremo tutti morti”, disse Keynes).

Spaventati dal mare burrascoso hanno scelto insomma la ritirata. Dalla promessa di una nuova direzione, al ritorno a quella vecchia.

Leggiamo, ad un certo punto, nel comunicato di Nuova Direzione:

“È chiaro che costruire dal nulla un movimento politico costa grande fatica e molto lavoro”.

Potrebbe apparire, quello di considerarsi capaci di far sorgere l’Essere dal Nulla, un atto di presunzione —Ex nihilo nihil fit, dal nulla non può venire nulla —, invece qui trapela il senso di disperazione di chi da per certa la propria sconfitta.

Articoli correlati:

[1] NUOVA DIREZIONE? (prima parte) di Moreno Pasquinelli [2] NUOVA DIREZIONE? (seconda parte) di Moreno Pasquinelli [3] QUALE PARITO CI SERVE? di Moreno Pasquinelli

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I VINCITORI DEL COVID di Leonardo Mazzei

Chi ci sta guadagnando? Ecco una domanda che tutti dovrebbero porsi. Ma che pare oscena, come se si volesse anteporre l’economia all’epidemia, il denaro alla vita umana. E così, con questo trucchetto finto-umanista da quattro soldi, chi i soldi ce li sta facendo alla grande riesce ad occultare la gigantesca ridefinizione della piramide della ricchezza e del potere in atto.

Le notizie sul virus coprono tutto, in primo luogo il dramma sociale che la gestione dell’epidemia sta producendo. Guai a dubitare della narrazione ufficiale. Nel mondo il numero dei casi e delle vittime è stabile da mesi? Non lo si dica, che c’è il rischio di abbassare la guardia. In Europa i casi crescono, ma la letalità è ormai al livello di una normale influenza? Nessuno si azzardi a rilevarlo, che l’accusa di

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“negazionismo” è già pronta a scattare.

Chi scrive non crede al complotto, ma tende a guardare ai f a t t i . E d u n f a t t o c e r t o è l a s t r u m e n t a l i z z a z i o n e dell’epidemia da parte dei dominanti. Dato che paura ed emergenzialismo aiutano da sempre il potere, è perfino banale scorgere gli interessi politici che alimentano l’attuale narrazione catastrofista. Del resto, se moriremo tutti per il virus, che sarà mai qualche milione di disoccupati in più! Ma ci sono pure gli interessi economici. E sono giganteschi.

Ci siamo già occupati di questo aspetto fondamentale alla fine di maggio. Ma i tre mesi trascorsi hanno confermato alla grande le tesi esposte allora. Dentro ad una crisi economica disastrosa non tutti ci perdono, anzi.

«Dietro i record, si allarga la forbice tra vincitori e vinti di Wall Street: oltre il 60% dei titoli ancora in rosso con la pandemia», questo il significativo titolo de la Repubblica del 23 agosto. Tra le notizie riportate nell’articolo c’è ovviamente quella del raggiungimento del primato assoluto dei 2.000 miliardi di dollari di capitalizzazione borsistica raggiunti da Apple, l’enorme crescita del valore delle azioni di Amazon dall’inizio dell’anno, il boom di Abiomed (+87%) nel settore sanitario e di PayPal (+50%) in quello delle transazioni online.

Giusto per limitarci all’esempio di Apple, nei mesi in cui il Pil degli Usa calava del 32,9%, le vendite degli iPad saliva del 31%, quella dei computer Mac del 22%. Ma le stesse considerazioni potremmo farle per Amazon, Microsoft, Alphabet, Facebook, eccetera.

Per farla breve siamo andati a verificare i valori di Borsa delle 10 società con la maggiore capitalizzazione al mondo.

Tra queste società, ben 7 appartengono al cosiddetto websoft (internet e software), due alla finanza (di cui una è Visa, la regina delle carte di credito), una al settore energetico.

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Nella top ten non c’è più posto ormai per le società del settore manifatturiero, la prima delle quali (Johnson &

Johnson) appartiene comunque al farmaceutico. Tanto per dare l’idea…

Ma vediamo la graduatoria, in ordine di capitalizzazione in miliardi (md) di dollari (tra parentesi la variazione percentuale dal 2 gennaio al 2 settembre): Apple 2.000 md (+78,6%), Saudi Arabian Oil 1.780 md (+10,3%), Microsoft 1.580 md (+41,4%), Amazon 1.570 md (+84,3%), Alphabet (la società che incorpora Google) 1.020 md (+20,9%), Facebook 740 md (+40,8%), Alibaba (l’Amazon cinese) 680 md (+38,6%), Tecent (altra società cinese del websoft) 620 md (+42,5%), Bekshire (la società finanziaria presieduta da Warren Buffett) 500 md (-4,4%), Visa 420 md (+11,6%).

Piccola precisazione: per farla semplice, i valori della capitalizzazione sono ripresi dalla tabella del Corriere della Sera del 20 agosto, ma quelli di Apple sono già saliti da allora di altri 290 miliardi! A qualcuno il virus fa bene anche a fine estate!

I dati della graduatoria parlano da soli. Da notare come gli incrementi siano dall’inizio dell’anno, che se li avessimo calcolati dal punto più basso di marzo sarebbero stati ancora più grandi. Ma è giusto così, perché in questo modo si vede come i colossi di internet e dell’informatica abbiano saltato a piè pari l’epidemia, di cui hanno anzi approfittato per mettere a segno giganteschi guadagni che non avrebbero neppure potuto immaginare senza di essa. Questo non è complottismo (non siamo complottisti, eccetera, eccetera…), è un fatto.

Un fatto enorme, tanto più se confrontato con l’andamento borsistico di altri comparti economici di primaria importanza, come l’energia e l’automobile. Questi settori, non troppo tempo fa in cima alla piramide del capitalismo mondiale, vivono oggi una crisi gravissima. Ed i dati azionari, che ora andremo a vedere, esprimono in maniera abbastanza precisa il

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crollo del fatturato e degli utili.

In campo energetico abbiamo già visto il dato positivo di Saudi Arabian Oil (Aramco), ma questa è solo un’eccezione dovuta all’assestamento dei prezzi a seguito del suo recentissimo ingresso in Borsa avvenuto solo nell’autunno scorso. Nel resto del settore le cose vanno ben diversamente.

Vediamo le variazioni di alcune delle principali società dall’inizio dell’anno: Exxon Mobil -44,4%, Shell -53%, Chevron -31,6%, Bp -46%, Gazprom -29,1%, Eni -44,2%. Tutti pesanti segni meno. E qui – come potete verificare coi dati riportati nel già citato articolo di maggio – le cose hanno continuato a peggiorare anche negli ultimi tre mesi. Ora, siccome l’energia ci dice grosso modo come va la cosiddetta

“economia reale”, l’indicazione sembra piuttosto chiara.

E nel settore automobilistico? Queste le variazioni: Toyota -9,6%, Volkswagen -21,7%, General Motors -21,4%, Fca -31,8%, Ford -27,5%. Pure qui le cadute sono pesanti, anche se dopo il tonfo di marzo è in atto una lentissima ripresa. Un rimbalzino delle vendite che per ora non risolve certo l’enorme crisi del settore.

Prima di chiudere, un ultimo dato dell’Istitute for Policy Studies. Secondo questo studio, nei soli mesi di marzo e aprile i 600 uomini più ricchi degli Usa si sono arricchiti di altri 434 miliardi di dollari (+15%) portando la loro fortuna complessiva a 3.380 miliardi. In quel ristretto lasso di tempo Mark Zuckerberg (Facebook) si è arricchito di altri 30 miliardi, mentre Jeff Bezos (Amazon) ha fatto ancora meglio, arrivando ad un totale di 147 miliardi. Questo era a maggio, ma perché fermarsi? Difatti Bezos (viva il Covid, viva il Covid, viva il Covid…) adesso è arrivato a 189,4 (+42,4 md negli ultimi tre mesi). Più modestamente, Zuckerberg ha invece dovuto accontentarsi di un incremento nel periodo di “soli”

8,2 md.

Inutile dire come questa ricchezza venga dalla distruzione

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dell’economia su cui vivono centinaia di milioni di persone sul pianeta, come a questa offesa senza limiti corrisponda l’aumento esponenziale della disoccupazione, della precarietà e della povertà. Ma tant’è, lo vuole il virus… O perlomeno la sua narrazione.

Ora la domanda è questa: ma davvero si può pensare che il racconto catastrofista sul virus, quello che alimenta paura e terrore ogni dì sia davvero estraneo a questi interessi? I signori del websoft sono i padroni della rete, quelli che fra l’altro censurano ogni contenuto non allineato alla verità ufficiale. Ma i loro tentacoli, generalmente intrecciati agli interessi del potere politico, arrivano a tutti i mezzi di informazione. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

Di fatto, questi signori hanno tutto l’interesse che l’epidemia continui. Certo, costoro non comandano al Covid, ma sicuramente orientano e dirigono l’ancor più potente virus della disinformazione. Quello che arriva tutti i giorni nelle nostre case.

In palio non c’è solo il loro bottino personale, in gioco c’è soprattutto il potere a livello globale. Se vi par poco, fate voi.

Fonte: Liberiamo l’Italia

STATI UNITI: DISUGUAGLIANZE

SOCIALI ED ELEZIONI di Jaehee

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Choi e James Galbraith

Le relazioni tra crescita della disuguaglianza economica e risultati del voto nelle elezioni presidenziali sono analizzate in un nuovo studio a livello dei singoli stati degli Usa negli ultimi vent’anni. Cattive notizie in arrivo per i democratici.

Le relazioni tra crescita della disuguaglianza economica e risultati del voto nelle elezioni presidenziali sono analizzate in un nuovo studio a livello dei singoli stati degli Usa negli ultimi vent’anni. Cattive notizie in arrivo per i democratici.

La crescente disuguaglianza economica negli Stati Uniti è strettamente legata all’elevata concentrazione della proprietà del capitale, in particolare patrimoni immobiliari e azioni delle imprese, e all’aumento del prezzo di tali attività negli ultimi decenni. Questi fenomeni a loro volta sono strettamente

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legati alla trasformazione strutturale dell’economia Usa negli ultimi cinquant’anni, in particolare il declino dell’industria manifatturiera con lavoratori sindacalizzati nel Midwest, l’ascesa della finanza sulla costa orientale del paese e delle attività ad alta tecnologia – soprattutto i settori legati alle tecnologie dell’informazione e all’aerospaziale – sulla costa occidentale.

A livello nazionale, questo processo ha avuto due effetti principali sulla vita politica americana. Uno è l’ascesa degli oligarchi e dei loro sostenitori, in particolare nel Partito Democratico, inizialmente nell’era di Clinton, al punto che oggi i miliardari contestano apertamente la nomina del partito alla Presidenza. Gli oligarchi hanno dominato a lungo il Partito Repubblicano, e così la politica americana è diventata in larga misura una contesa tra miliardari di diverso tipo, con la mediazione di altri miliardari che controllano i principali media, sia tradizionali che social. Ciò è ovvio per qualsiasi osservatore.

Molto meno ovvio è stato l’effetto delle nuove disuguaglianze americane sull’esito delle elezioni presidenziali. Il peculiare contesto istituzionale di quelle elezioni è che sono indirette, condotte attraverso un Collegio elettorale – il sistema di delegati che vota per il Presidente del paese – suddiviso approssimativamente in base alla popolazione ed eletto Stato per Stato, per lo più con un sistema maggioritario: chi prende più voti, ottiene tutti i delegati dello Stato. Se da un lato la crescente disuguaglianza a livello nazionale non ha avuto un chiaro effetto sul voto popolare ai due principali partiti, abbiamo dimostrato in un nuovo studio che nelle elezioni più combattute a partire dal 1992, le crescenti disuguaglianze all’interno degli Stati americani sono state un fattore decisivo nel determinare i risultati Stato per Stato, l’esito nel Collegio elettorale, e quindi la presidenza.

La logica di questa dinamica è nella base economica dei due

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grandi partiti americani. Un tempo i democratici erano un’alleanza multirazziale di lavoratori del Nord e bianchi del Sud nell’era del razzismo istituzionalizzato. Sono diventati poi una coalizione di abitanti benestanti delle città, per lo più professionisti e impiegati, e minoranze a basso reddito, sia nere che ispaniche. Il partito quindi in linea di massima prevale nelle due estremità della distribuzione del reddito, la più alta e la più bassa. I repubblicani, anche se sempre dominati dai ‘super-ricchi’ del paese, hanno ora la loro base elettorale nelle aree suburbane, nelle città minori e nelle aree rurali, in gran parte bianche e, in generale, con una posizione centrale nella distribuzione del reddito.

Il nostro approccio a quest’analisi si basa sulle tecniche sviluppate per misurare la disuguaglianza all’interno dei paesi, utilizzando dati settoriali su salari e occupazione, e a p p l i c a t i p e r o l t r e v e n t ’ a n n i n e l l ’ I n e q u a l i t y Project dell’Università del Texas. L’adattamento di queste tecniche ai dati sugli Stati Uniti ci ha permesso di sviluppare buone stime sul cambiamento della disuguaglianza all’interno degli Stati federali su base annua dal 1969 fino al 2014 e successivamente. Precedentemente, le misure della disuguaglianza all’interno degli Stati erano disponibili solo per gli anni prima del 2000 su base decennale, poiché molti Stati sono troppo piccoli per consentire al tradizionale Current Population Survey di fornire stime affidabili della disuguaglianza. Siamo stati così in grado di valutare la relazione tra le mutevoli disuguaglianze economiche dopo il 1969 in ciascuno Stato e i risultati del relativo Collegio Elettorale per tutte le elezioni di questo secolo, in particolare 2000, 2004, 2012 e 2016.

Fino agli anni ’80, la disuguaglianza all’interno degli Stati americani era generalmente maggiore nel profondo Sud, e rifletteva il divario razziale, il sottosviluppo economico e l’eredità della schiavitù nelle piantagioni. Negli anni più recenti, il luogo della crescita maggiore delle disparità si è

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spostato a Nord e a Ovest. La California, un esempio importante, un tempo era principalmente bianca e suburbana, e sosteneva in modo stabile i repubblicani, da Nixon a Reagan.

Oggi è una scacchiera di ricchezza tecnologica, ispano- americani e immigrati a basso reddito, tutti solidamente democratici.

Le nostre misure annuali sulla disuguaglianza in ogni Stato americano mostrano che i maggiori aumenti dal 1989 al 2014 si sono verificati in California, New York, Connecticut, New Jersey, Maryland, Nevada, Rhode Island, Massachusetts, Hawaii, New Hampshire, Washington, Illinois e nel distretto della Columbia. Tutti questi Stati hanno votato per Hillary Clinton nel 2016. E dei venti Stati con il minor aumento della disuguaglianza, tutti tranne due (New Mexico e Minnesota) hanno votato per Donald Trump, mentre nel caso del Minnesota il margine per Hillary Clinton è stato di un mero 1,2%.

Questa chiara relazione può far prevedere gli sviluppi in corso nella politica americana. Gli Stati dell’Upper Midwest, decisivi per l’elezione di Trump nel 2016 – Michigan, Pennsylvania e Wisconsin – si stanno allontanando dalla loro tradizionale fedeltà democratica, man mano che le loro città decadono, la loro popolazione lavoratrice declina, le minoranze invecchiano. Nel 2016 l’esito in questi Stati è stato molto combattuto e nel 2020 potrebbero essere vinti dai Democratici con un piccolo cambiamento nell’opinione pubblica generale, ma nei prossimi anni saranno sempre più difficili da conquistare o mantenere per i candidati democratici. Al contrario, nel Sud e nel Sud-Ovest, e in particolare in Arizona, Texas e Georgia, le città e le popolazioni non bianche stanno crescendo rispetto alle zone suburbane e rurali. L’Arizona potrebbe passare ai democratici (come già la California e il Nevada) già nel 2020; il Texas e la Georgia sono più lontani da questo ribaltamento e soggetti a estese campagne di limitazione del numero degli elettori (una vera e propria voter suppression) volte a scoraggiare il voto delle

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minoranze e a prolungare il dominio repubblicano. Ma i dati demografici sono inesorabili e quegli ostacoli cadranno con il tempo.

L’attuale dilemma per i democratici è che l’era di Roosevelt è finita da tempo e al tempo stesso la coalizione di Clinton non è più sufficiente, logorata dalla de-industrializzazione e dalla perdita di peso del sindacato – mentre la transizione del Sud non è ancora matura. Quindi i democratici nel 2020 hanno di fronte a sè la scelta tra tentare di recuperare l’Upper Midwest da un lato o lavorare per accelerare la nascita di un Sud democratico dall’altro. Ciascuna strategia è legata a politiche specifiche, in particolare per quanto riguarda gli scambi commerciali, le infrastrutture e i cambiamenti climatici, che possono non funzionare per i problemi dell’altra regione. E non vi è alcuna garanzia che le politiche e le promesse elettorali del 2020 – e eventualmente realizzate in caso di vittoria democratica – siano ancora appropriati per il 2024 e oltre.

È possibile, naturalmente, che le elezioni del 2020 saranno decise da altre questioni, come i gravi temi della guerra e della pace, o forse le profonde divisioni dell’opinione pubblica sul presidente in carica, Donald Trump. È anche possibile – sebbene lo riteniamo molto improbabile – che una crisi economica o una recessione possano sopraggiungere e decidere il risultato. Ma nel caso in cui il mondo sopravviva alla burrascosa apertura dell’attuale anno elettorale e l’economia americana continui nella sua crescita lenta ma costante, la cosa più probabile è che le linee di divisione del 2016 si formino di nuovo, e che le elezioni siano combattute sullo stesso terreno. In tal caso, possiamo prevedere che i risultati siano coerenti con quelli degli ultimi anni, con il Sud un po’ più conteso dai democratici rispetto al passato e il Midwest un po’ più difficile da conquistare per loro. Come nel 2016, un vantaggio democratico nel voto popolare complessivo potrebbe di nuovo rivelarsi

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i n u t i l e , p e r c h é n e l s i s t e m a a m e r i c a n o l e e l e z i o n i presidenziali sono combattute e decise negli Stati contendibili – e questi non sono né i più egualitari né i più diseguali.

* Fonte: sbilanciamoci.info

**Quest’articolo appare anche sulla rivista Intereconomics, www.intereconomics.eu. James Galbraith e Jaehee Choi fanno parte dell’University of Texas Inequality Project alla LBJ School of Public Affairs dell’Università del Texas ad Austin.

SCISMA NELL’EBRAISMO MONDIALE di F.f.

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

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Note sulla nuova destra sionista israeliana

Il 19 luglio 2018, giorno in cui la Knesset approva pur con stretta maggioranza la legge che definisce Israele “Stato nazionale del popolo ebraico”, rappresenta certamente una sorprendente rottura di paradigma nella storia israeliana.

Identità ebraica e democrazia rappresentativa inclusiva erano i due cardini su cui si reggeva il sionismo storico, di radice laicista e illuminista.

Per quanto la legge venga emendata delle parti più controverse dopo l’intervento del presidente Reuven Rivlin (Likud), è di certo una vittoria storica della destra nazionale religiosa israeliana sulla sinistra internazionalista sionista e globalista, di quella stessa destra nazionale israeliana r a p p r e s e n t a t a , n e l l o s c o r s o s e c o l o , d a f r a z i o n i ultraconservatrici che andavano dal Partito revisionista di Ze’ev Jabotinsky al Brit Ha’Birionim (Alleanza degli uomini leali) di Abba Achimeir, Uri Greenberg e Joshua Yeivin, sino al cananismo social-nazionale di Ratosh.

Bentzion Netanyahu, padre dell’attuale premier e insigne rappresentante della destra radicale israeliana, considerava oggettivo nemico politico non tanto il nazionalismo palestinese o panarabista ma soprattutto quel tradizionale ed egemonico sionismo di sinistra, molto più potente del revisionismo israeliano di destra tra le elite globaliste occidentali e, almeno sino al 1952, anche di quelle sovietiche, rappresentato da Chaim Weizman, David Ben Gurion, Golda Meir.

La legge del 2018 è, anche, una vittoria storica della destra israeliana più intransigente contro la stessa frazione Sharon, laica centrista e liberale, che aveva anche questa ottime entrature nell’elitismo globalista di sinistra dell’ebraismo internazionale e dell’intero Occidente. Durante il passaggio della legge, la frazione di Benjamin Netanyahu (Likud), attuale premier, ha rigettato lo stesso testo predisposto in senso correttivo da Benny Begin, figlio del premier ed

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ideologo nazionalista conservatore Menachem Begin, il primo, nella storia israeliana, a esautorare dal potere la sinistra socialista o socialdemocratica di Tel Aviv(1977). Benny Begin, in seguito al rigetto della sua proposta da parte della direzione del Likud, ha sostenuto che il nazionalismo israeliano dell’attuale destra avrebbe aperto una nuova fase storica e culturale rispetto al tradizionale sionismo, la cui eredità sarebbe stata cancellata e liquidata dalla frazione Netanyahu.

Vi è, effettivamente, a nostro avviso, una netta rottura e inversione di tendenza sul piano dei principi base. Per la sinistra israeliana e per l’ebraismo mondiale progressista, laico o Reform, Israele sarebbe una conquista storica e politica in quanto Stato secolarizzato quale espressione della storica e originaria essenza socialista e di sinistra del sionismo. Questa tendenza incarna, pur con le varie differenze e sfumature, il concetto di “Medinat Yisra’el”. Viceversa, la frazione nazionalista del Likud si fa promotrice del concetto religioso e atemporale di “Eretz Ysra’el” il quale è stato da Avi Dichter, promotore della legge, sintetizzato nell’immagine di Terra israeliana come fondamento identitario sacrale e originario dello Stato (Medinat), che ne sarebbe parziale contenitore di successiva istanza.

Come la sinistra laburista e globalista è frammentata, così lo è anche la destra nazionalconservatrice. Abbiamo infatti la Nuova Destra israeliana di Bennet e di Ayelet Shaked, ex ministra della giustizia, i cui spot elettorali rimandano esplicitamente al profumo di fascismo che si leverebbe dalla Tel Aviv sovranista e antiglobalista e alla democrazia nazionalista autoritaria, sostenitrice critica del Likud, abbiamo poi la frazione “russa” di Avigdor Lieberman, linea nazionalista e militaristica ma non religiosa con ottime entrature nell’esercito e nell’intelligence, abbiamo infine il neosionismo messianico di “Lehava”, i seguaci di Benzi Gopstein, un discepolo del noto rabbino Mehir Kahane,

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movimento molto radicato nel fronte dei coloni, che divenne noto alle cronache quando, nel 2010, intimò alla top model israeliana Bar Refaeli di interrompere seduta stante la promiscua relazione con il “cattolico romano” Di Caprio.

“Lehava” contesta da destra, con posizioni ultrascioviniste e razziste, la frazione Netanyahu e in più casi il presidente israeliano Rivlin (Likud) ha definito il movimento d’estrema destra una seria minaccia per il “governo democratico” di Tel Aviv. Sempre alla destra del Likud, abbiamo una circonferenza di movimenti settari messianici nazional-religiosi particolarmente rappresentati nel mondo dei coloni. Il sionismo messianico, a differenza di quello antisionista dei

“Guardiani della città” (Neturei Karta), ha paradossalmente democraticizzato la metafisica escatologica ebraica, pur da posizioni politiche e sociali di destra ultraconservatrice:

l’inclusione potrebbe inverarsi sul piano nazionale-religioso, evento questo inconcepibile per la rigorosissima ortodossia rituale e religiosa dei “Guardiani della città”, che è viceversa su posizioni politiche genericamente di sinistra e antimperialiste.

L’osservatore politico che voglia essere disincantato deve trarre alcuni elementi per ora definitivi dalla questione israeliana. Sul piano internazionale, l’ascesa della frazione Netanyahu ha voluto dire, per la prima volta nella storia israeliana, il predominio di un Israele a trazione antioccidentale.

Durante la presidenza statunitense di Obama, Putin e Netanyahu, i principali antagonisti mondiali del globalismo obamiano, in più casi marciarono assieme per disarcionare il piano strategico mediorientale della Casa Bianca. Potremmo addirittura affermare, con la prudenza del caso, che il premier israeliano e Erdogan sono sul piano globale i due statisti più “sovversivi” e con il più notevole intuito tattico da statista.

Inoltre, vi è in ballo, nella odierna lotta di frazione

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dell’ebraismo mondiale, l’egemonia culturale, che significa l’avanzata di una nuova identità ebraica e l’annientamento dell’altra. Edward Luttwak, analista statunitense di origine ebraica, legato alla vecchia frazione Kissinger e neocon, che in Israele voleva dire Ehud Barak-Ariel Sharon, sconfitta su tutta la linea dalla Nuova Destra sionista israeliana di Netanyahu, ha scritto in un interessante articolo che la Silicon Valley è in un certo senso la concretizzazione di una utopia ultraprogressistica e tecnico-scientifica ebraica. A questa utopia ebraica, globalista, progressista e di sinistra liberale, si sta opponendo da anni con fermezza assoluta la contro-utopia neo-israeliana della nuova destra sionista, nazionale e religiosa di Partito-stato di Bibi Netanyahu.

L o s c o n t r o n o n è e c o n o m i c o , n o n p u ò e s s e r e e t n i c o evidentemente. E’ perciò di visione del mondo.

QUEL DEMONIO DI ELON MUSK di

Piemme

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«Ci vorranno anni per le applicazioni sull’uomo, ostacoli tecnici e dubbi etici sono tanti, ma una porta è stata aperta:

dopo AI e VR, gli acronimi di Intelligenza Artificiale e Realtà Virtuale, sentiremo sempre più parlare di BCI, Brain Computer Interface».

Elon Musk ha presentato l’altro ieri negli USA la sua ultima impresa, trasferire internet e intelligenza artificiale nel cervello umano. Si tratta di un macro-chip grosso come una moneta da un euro con 1024 elettrodi e filamenti sottilissimi da impiamtare nella corteccia cerebrale. Ce ne da conto Massimo Gaggi, sul CORRIERE DELLA SERA del 30 agosto 2020.

Il miliardario Musk ha già fatto sperimentare l’aggeggio (che per adesso registra solo l’attività neuronale) su un maiale (Gertrude) da una delle sue aziende il cui nome è un programma: Neuralink. La società ha già chiesto e ottenuto dalla Food and Drug Administation una sorta di semaforo verde.

Ci dice Gaggi che “l’agenzia federale ha riconosciuto il valore rivoluzionario del suo progetto”.

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Notare come come “Rivoluzionario”, per sua natura un aggettivo polisemico, ove venga usato con significato politico abbia un senso dispregiativo, mentre assume valenza elogiativa se riferito a qualche nuova mercanzia e più ancora se connota un’invenzione tecnologica.

Da bravo piazzista Musk (se chiedete all’oste com’è il vino che volete vi risponda?) ha giustificato la sua impresa dicendo che serve soprattuto per applicazioni mediche. Ha affermato che la sua tecnologia servirà, oltre tutto, “per restituire l’uso dell gambe ai paraplegici, la vista ai chiechi”. Siamo oltre al titanismo e al prometeismo. Siamo allo scimmiottamento dei miracoli di Gesù.

N o n è u n segreto che i l v e r o o b i e t t i v o della setta d e g l i

“accelleraz i o n i s t i ” ( u n a

costola di q u e l

transumanes i m o c h e a n n o v e r a quasi tutti i

miliardari d e l l a

S i l i c o n Valley, Musk tra questi, e che in Italia trova in Beppe Grillo uno dei suoi testimonial — vedi immagine a fianco) è la simbiosi tra uomo e macchina, ovvero fabbricare i famigerati cyborg, esseri ibridi che altro non sono che super-uomini

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dotati oltre che di forza straordinaria forza e resistenza fisica, di una “intelligenza” che sopravanzerà quella umana.

Che poi questa “superiore intelligenza” equivalga ad una superiore coscienza umana, ad una più potente ragione, non è affatto detto. Anzi. Sta di fatto che se questo futuro distopico si realizzasse si potrebbe avverare l’incuno nazista di una razza superiore. Dati i costi salatissimi di smili protesi indovinate un po’? Avremo una razza di classe, ovvero le classi dominant che si faranno razza.

Nello stesso mondo della scienza, per non parlare di quello dei filosofi e dei giuristi, sono in molti a segnalare l’allarme etico e politico di simili imprese.

Pentagono e Darpa, l’agenzia tecnologica dei militari USA, da anni investono ingenti somme per creare soldati-centauri dotati di super-poteri — lo stesso Musk ha spiegato che la tecnologia che dovrebbe dare la vista ai chiechi potrebbe anche consentire all’uomo di avere una vista potenziata con la tecnologia del’infrarosso e dei raggi X o ultravioletto.

Per non parlare del rischio che regimi e classi dominanti potrebbero usare simili tecnologie per controllare le menti e quindi meglio soggiogare i cittadini, potendo controllare (il 5G potrebbe essere funzionale a questo scopo) le loro emozioni e financho i loro pensieri. E nel caso che siano pensieri ribelli agire per debellarli.

Non vi pare che questa macchina guidata da simili Frankestein e lanciata a tutta birra verso l’abisso debba essere fermata?

Segnaliamo ai lettori gli articoli relativi al transumanesimo apparsi su SOLLEVAZIONE

POSTUMANO: BIOFILIA O NECROFILIA? di Alessia Vignali

SILICON VALLEY: DAL NEOLIBERISMO AL NEOFASCISMO di Elliott Gabriel <

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LA CYBORG-SINISTRA di Jorge Aleman LE TENEBRE DEL TRANSUMANO di Eos

FASSINA: “O CONTE O MORTE!”

di Sandokan

Eccoci di nuovo ad occuparci di Stefano Fassina.

Ne avevo parlato l’anno scorso, quando motivò il suo appoggio a prescindere (ovvero prima ancora di vedere di che bestia si sarebbe trattato) a quello che poi sarebbe passato agli annali come “governo giallo-rosso” o Conte bis.

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T e n e t e b e n e a m e n t e i l tweet [vedi immagine] con cui sostenne la sua mossa:

“voto a favore del governo per arginare mercato unico e euro, svalutazione lavoro e rianimare democrazia cosituzionale”.

Dopo un anno si può tirare un bilancio: abbiamo più Unione europea e più vincoli euristi — cosa ammessa dallo stesso Fassina; più svalutazione del lavoro — ce lo dice il recentissimo rapporto INPS: assunzioni crollate del 43%

rispetto all’anno scorso.

Peggio ancora vanno le cose per quanto riguarda la democrazia costituzionale. Invece che la “rianimazione” la democrazia è stata sospesa a botte di DPCM del Presidente del consiglio e stati d’emergenza intollerabili e ingiustificati — cosa ammessa, haimé, dallo stesso Fassina.

Logica vorrebbe che il nostro, se avesse a cuore, oltre alla logica, la coerenza, avrebbe dovuto da tempo ritirare la sua fiducia al governo Conte bis.

Invece…

Invece, miracoli dell’ubiquità politica, stracciando la logica e fottendosene della propria coerenza, incredibilmente Fassina ha addirittura perorato di votare Sì al prossimo referendum costituzionale (tenete conto che in Parlamento aveva sempre

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votato No alla riduzione dei parlamentari).

Lo comunica in un arzigogolato intervento del 26 agosto.

Fassina conclude in modo perentorio e predittivo:

«Non c’è alternativa di segno sociale progressivo alla attuale maggioranza parlamentare… il Sì è l’unica partita politica possibile».

Temo che con questo “me ne fotto della coerenza, o Conte o Morte” mestamente si concluda la parabola di un uomo a cui tanti di noi, malgrado tutto, vogliono ancora bene.

NUOVA DIREZIONE CONTRO

PARAGONE

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I compagni di Nuova Direzione, dopo il primo del 13 giugno, hanno diffuso un secondo comunicato di durissimo attacco al nascente Partito Italexit con Paragone.

Ripromettendoci di darne un giudizio ponderato riteniamo doveroso pubblicarlo, anche perché quanto scrive Nuova

Direzione pare sia una risposta alle nostre critiche. Per la precisione:

NUOVA DIREZIONE (prima parte) di Moreno Pasquinelli NUOVA DIREZIONE (seconda parte) di Moreno Pasquinelli

Sullo stesso tema: I “bottegai”, l’ultimo argine? Spunti per una politica oltre purismo e subalternità. Di Diego Melegari e Fabrizio Capoccetti. La risposta di Alessandro Visalli a

Melegari e Capoccetti: Delle contraddizioni in seno al popolo:

Stato e potere.

* * * SULLA QUESTIONE DELL’ ITALEXIT Comunicato

1- Alcune note preliminari sulla situazione

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Nuova Direzione è nata per fare lotta politica e culturale. La s u a d i m e n s i o n e n o n p e r m e t t e a l m o m e n t o d i d a r s i un’organizzazione politica strutturata in forma partito.

Siamo ormai abituati al nanismo di quelle organizzazioni della sinistra che si autodefiniscono ‘partito’ pur potendo contare su poche migliaia di attivisti, ma scendere al livello delle centinaia rischierebbe il ridicolo.

Un’associazione formata da un paio di centinaia di attivisti può e deve impegnarsi su due fronti: da un lato lo sforzo teorico (produrre analisi politica, economica e sociale e condurre discussione pubblica), dall’altro quello pratico (partecipare alle lotte sociali, con il duplice obiettivo di comprendere cosa si muove nella società e di promuovere il conflitto tramite il confronto e il dialogo nei luoghi di lavoro, l’adesione e il supporto alle istanze dei lavoratori, la spinta a formularne di nuove).

Cioè essere nelle lotte attuali, per le lotte da organizzare, formulando sintesi dalle lotte in corso.

Un approccio che nulla ha a che fare con l’attendismo o il ritiro nella torre eburnea.

L’associazione non ha mai promesso di partecipare a tornate elettorali per far eleggere i propri iscritti nelle amministrazioni pubbliche. Non ne abbiamo la forza e non è il nostro obiettivo primario.

Come si può desumere dalle Tesi Politiche ampie ed ambiziose che abbiamo prodotto, vogliamo promuovere un cambio di paradigma sistemico e lottare per contribuire nella misura del possibile a cambiare i rapporti di forza all’interno della società, perché i cambiamenti a livello istituzionale possano avvenire e non essere facilmente neutralizzati.

Altrettanto chiaro è il nostro posizionamento ideologico:

abbiamo sviluppato una durissima critica verso la sinistra che è sempre stata rivolta contro la sua adesione al liberalismo, questo senza mai assorbire elementi di destra, neppure

‘sociale’.

Per noi lo slogan ‘né di destra né di sinistra’ vuol dire lottare per il Socialismo e contro la sinistra liberale.

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Ad esempio, la nostra critica all’Unione Europea è ed è sempre stata durissima. Tuttavia, su questo siamo stati sempre molto chiari: crediamo che l’uscita dall’Unione sia un mezzo e non un fine.

Può sembrare una distinzione capziosa, da intellettuali sulla torre, ma il succo è semplice: il modo di uscire ha valore per noi più della stessa uscita in sé.

Malgrado nel capitolo finale di “Il tramonto dell’Euro” (2012) Bagnai annunciasse la rottura finale per l’anno 2013, siamo ancora qui.

E la rottura non è stata provocata dai mercati, non da un governo ‘sbagliato’ come non da uno ‘giusto’.

Più prudentemente in “L’Italia può farcela”, due anni dopo, lo stesso autore poi andato con la Lega, dichiarava per i

“prossimi anni, se non mesi” la bancarotta italiana o l’uscita dall’Euro.

Il punto è che se mai ci sarà la rottura diventerà decisivo in quale direzione metteremo il Paese. Quindi quali alleanze geopolitiche, quale struttura dei rapporti sociali, quale dominio sarà istituito e verso chi; che forma di cooperazione, che forma di internazionalismo avremo la forza di imporre.

Sarà decisivo se prenderemo una nuova direzione o se sostituiremo il vincolo esterno con altre forme del solito vincolo interno che le nostre élite economiche, sociali e politiche da sempre impongono al resto del Paese.

Il punto politico che ND intende proporre era chiarissimo fin dalla rinuncia al progetto con Fassina e ‘Patria e Costituzione’: volevamo e vogliamo esprimere un chiaro “no”

alla subalternità alla sinistra, un “no” al tenere il moccolo all’Unione europea per cambiarla da dentro, poi un “no” al populismo comunicazionista ed un “no” al prestarsi come spalla alla destra sovranista, infine un “no” alla politica dei due tempi e all’uscita come fine.

2- L’Italexit è la soluzione?

A porre la domanda in questo modo è una nuova forza politica

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che, appena annunciata, viene accreditata di qualche punto percentuale nel mercato elettorale.

La risposta potrebbe anche essere sì, ma la domanda è incompleta.

La questione non è infatti se l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea, sull’esempio britannico, sia la soluzione, ma di cosa lo sia.

Uno strano consenso si raggruppa infatti sotto questo slogan, aggregando un’area che va dalla sinistra euroscettica alla d e s t r a s o c i a l e , i n c l u d e n d o n o n p o c h i o r f a n i d e l l a semplificazione introdotta dal neopopulismo del Movimento Cinque Stelle e della retorica salviniana primo modello (quella ispirata dal duo Bagnai-Borghi).

Condivide un sentimento di ribellione e il senso del tradimento della promessa di benessere e promozione individuale che la svolta neoliberale degli anni ottanta e novanta portava con sé. Viene egemonizzato da quei ceti che sono stati illusi dalla rivoluzione neoliberale e sono cresciuti nella convinzione di poter raggiungere il benessere con le proprie sole forze. Ceti che oggi vedono come il gioco si praticasse con carte truccate.

Sembra a tratti lo slittamento del sentimento antistatalista inculcato in decenni di propaganda neoliberale a reti unificate verso lo pseudostato europeo, visto come camicia di forza alla liberazione dei desideri individuali e delle relative energie.

Ci sono dibattiti come quello sul Covid o le nuove reti di telecomunicazione che lo lasciano intravedere.

Si tratta di un intreccio di forze eterogenee e di sentimenti reattivi che, secondo le speranze della novella forza politica fondata dal senatore Paragone, potrebbe trascinarla oltre la soglia di sbarramento, andando a replicare l’operazione riuscita per il rotto della cuffia a Leu nella legislatura in corso (ma fallita con PaP). La speranza è di entrare nel Parlamento con qualche deputato e senatore, e porre le basi di un processo di radicamento.

Restando ai due esempi citati ci sono poche somiglianze e

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molte differenze: entrambi i tentativi nel campo della sinistra erano sostanzialmente delle coalizioni di forze eterogenee con agende diverse, tenute insieme dal tentativo di fare una lista ed entrare in Parlamento, rinviando la creazione del soggetto politico ad una fase successiva; il programma era vago e non privo di contraddizioni. Il nascente partito, invece, raccoglie a sua volta forze eterogenee, ma immagina di partire dal soggetto politico per farne derivare la lista; inoltre cerca di replicare la parabola del Movimento 5 Stelle, fino alla scelta di intestare la comunicazione ad una società specializzata (facendo del suo titolare il comproprietario del marchio) e personalizzando tutto nella figura di Gianluigi Paragone.

Si ha quindi un uomo, una scelta, un partito di scopo. La scelta è uscire dall’Unione Europea. L’uomo è il senatore Gianluigi Paragone, comproprietario del marchio. Il Partito è

“Italexit”, allo stato con un Manifesto ma senza organi e statuto.

Nella narrativa proposta l’Unione Europea è individuata come il male assoluto e come un vincolo che dall’esterno impedisce all’Italia di essere, come potrebbe, forte, libera ed indipendente. Che ostacola il Paese ed il suo popolo, entrambi al singolare, nelle sfide che dovrà affrontare nel mondo m u l t i p o l a r e e d i f r o n t e a l l ’ a r r e t r a m e n t o d e l l a globalizzazione. Infine, che, impedendogli di esercitare la propria sovranità monetaria, lo costringe a privarsi delle politiche industriali, fiscali e del lavoro indispensabili per tornare a crescere.

A questo livello di definizione non si potrebbe essere che d’accordo. Ma è proprio vero che l’Unione Europea nata a Maastricht (ma anche la Comunità Economica Europea che la precedeva) è un “vincolo esterno”?

Ed è proprio vero che il soggetto della liberazione è “il popolo” ed il suo oggetto “il paese”?

L’esperienza di chiunque si sia avvicinato alla tradizione marxista impone di mettere questa immagine organica in discussione.

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Al cuore del sociale è la lotta, non l’unità.

La mossa da compiere è dissolvere le false rappresentazioni unitarie, espressione dell’egemonia data, per discriminare le posizioni soggettive create dai rapporti produttivi e dalle distribuzioni che ne derivano.

Non è la ‘globalizzazione sfrenata’ a provocare la crisi, ma ciò che la causa: il pieno dominio del capitalismo e dell’imperialismo occidentali. L’Unione Europea, il dominio dei “mercati”, la mobilità dei fattori e la stessa mondializzazione sono la proiezione di rapporti sociali e produttivi costituenti il funzionamento del Paese come esso è.

Esprimono relazioni di potere che non si limitano a interessare dall’esterno un corpo “sano”, ma determinano in profondità la posizione di ciascuno.

La questione non si dovrebbe porre, dunque, partendo dalla testa (ovvero dall’uscita dallo strumento), ma va posta sulle gambe: individuata a partire dalla messa in questione dei rapporti di produzione, della distribuzione dei prodotti sociali, dalla democratizzazione effettiva, dal superamento della competizione come principio di ordine e del capitalismo come suo motore primo.

Muovendo da queste questioni bisogna accumulare la forza non già per entrare nel Parlamento, bensì per creare le condizioni di forza tra le classi e le diverse forze sociali perché si rompano insieme strumento e mano che lo brandisce.

E’ chiaro che se si dovesse uscire dalla Ue per ricreare l’assetto degli anni cinquanta saremmo in presenza di un ambiguo progresso.

Non è affatto stato il ‘connubio tra la piccola e media impresa con le banche pubbliche, la grande industria di Stato e la pubblica amministrazione (istruzione, trasporti, sanità, ecc.)’ a fare del terzo quarto del secolo scorso un’epoca di emancipazione ed avanzamento, ma sono stati la forza e la pressione del movimento dei lavoratori, dei giovani, dei tanti movimenti civili di rivendicazione del riconoscimento e dei diritti.

L’Italia ha avuto, in tutto il percorso che va dal dopoguerra

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agli anni ottanta, una fortissima crescita industriale ed economica, in parte sussidiata dallo Stato, ed ha costruito un modello di capitalismo misto che contiene in sé alcuni elementi di grande valore (come in questi anni l’esempio cinese mostra al mondo).

Ma è solo la lotta instancabile dei lavoratori per partecipare ai risultati di questa espansione di ricchezza, e non la concessione dall’alto di questa, ad aver consentito, se pure in parte, di superare l’effetto autoritario dell’unione di monopoli pubblici a privati e a farne un elemento di emancipazione.

Q u e s t o m o d e l l o d i c a p i t a l i s m o , c h e s e m b r a e s s e r e nell’immaginario trasfigurato della nuova formazione, era per sé enormemente distruttivo per l’ambiente e la natura; in se stesso foriero di costante crescita delle ineguaglianze;

fondato sulla svalutazione del lavoro non meno di quello neoliberale (che ne è la continuazione con altri mezzi).

Se pure è quindi fondamentale recuperare la sovranità monetaria, stimolare una rinascita industriale, garantirsi la sovranità alimentare, il lavoro per tutti, il diritto alla salute e la cooperazione internazionale su piede di parità, bisogna subito individuare quale è la discontinuità che si chiede.

Altrimenti si rischia nel migliore dei casi di essere facilmente neutralizzati, come è capitato al Movimento 5 Stelle, in altri di portare acqua al nemico, come è capitato a Leu.

C’è anche, ovviamente, il peggiore dei casi: portare retoriche ed immaginario verso la riproposizione di un capitalismo da anni cinquanta (e non sessanta).

Un sistema nel quale: la ricostruzione, almeno nel primo decennio, fu finalizzata a consolidare sotto altra forma, dopo la ‘guerra di liberazione’, il dominio degli stessi ceti e c l a s s i d i s e m p r e ( s o t t o l a r e g i a U s a ) ; a l l a l o t t a all’inflazione sotto il golden standard seguì la lotta all’inflazione, magari sotto la protezione del Piano Marshall;

al contenimento dei salari sotto il fascismo conseguì il

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contenimento ‘democratico’ sotto la Democrazia Cristiana; al vincolo ‘interno’ del regime altri vincoli non meno forti;

a l l e r e t o r i c h e s u l s u d d e l r e g i m e u n a p o l i t i c a d i industrializzazione del Nord, con eliminazione dei “doppioni”;

alla dittatura la crescita di un sistema clientelare di consenso, sussidiato nella misura necessaria a comprarlo.

Tornando alla domanda, quindi, di cosa l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea sia soluzione bisogna chiedersi se si tratta di superare la condizione di subalternità dei lavoratori tutti nella distribuzione e produzione imposta dal capitalismo contemporaneo che subordina tutto al proprio illimitato accrescimento, mercificando ogni relazione.

Oppure se l’uscita sia solo una soluzione al problema del rango e della posizione del capitale italiano nel contesto della competizione internazionale, e quindi alla difesa del proprio ruolo sub imperialista, magari più strettamente interconnesso con il centro statunitense e più ostile ai suoi sfidanti.

In sintesi, e per concludere con uno slogan: se la fuga dagli anni venti del XXI secolo deve ispirarsi agli anni cinquanta del XX, guerra fredda inclusa, noi non siamo della partita.

3- Due chiarimenti a proposito del “fare politica” e dello

“sporcarsi le mani”

C’è un profondo fraintendimento su cosa voglia dire ‘fare politica’. Taluni lo interpretano come presentarsi alle elezioni e/o aderire a un organismo già organizzato.

È chiaro che costruire dal nulla un movimento politico costa grande fatica e molto lavoro. Entrare in un partito con un capo ed esserci (confondendo la partecipazione con la presenza), è da questo punto di vista molto più semplice.

L’attivismo viene scambiato con il tifo e la critica con l’esprimere opinioni sui social, attività che non influiscono sulla realtà.

In più rispecchiarsi in un leader visibile e potente trasmette un senso di appagamento e permette di coltivare la propria

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immagine autoreferenziale.

Tutto questo non è politica.

Altri invece intendono il “fare politica” come occupare posizioni di piccolo o grande potere, fruendo delle risorse pubbliche direttamente o indirettamente connesse con l’accesso alle istituzioni. Ci sono Partiti che si specializzano nel montare ‘Liste’ eterogenee solo per partecipare a questo gioco.

Da quando la sinistra radicale ha perso la possibilità di superare in modo indipendente gli sbarramenti elettorali, con il fallimento della lista della Sinistra Arcobaleno nelle politiche del 2008, e la nascita di SEL (la quale nella sua breve parabola dal 2009 al 2016 arriva fino a 35.000 iscritti e si presenta alle politiche del 2013 in alleanza al PD) è stato un continuo ricercare sigle e cartelli.

L’ attrattiva di questa tipologia di partiti consiste in sostanza nel nutrire le ambizioni di chi cerca un’occupazione politico-amministrativa.

Anche questo può dare la parvenza che si fa qualcosa, mentre gli altri non fanno niente.

Fra quelli che non fanno niente, ci sono le persone che fanno analisi (politica, economica, sociale), e svolgono attività sindacale, dialogando con soggetti e parti sociali.

Tutte funzioni considerate non funzionali alla politica perché inutili dal punto di vista elettorale.

Veniamo ora allo “sporcarsi le mani”. Questo termine deriva dal concetto di lavoro, perché in genere è lavorando che ci si sporca le mani, con la terra, col grasso.

Il lavoro che sporca le mani è spesso disperato, perché l’esito è incerto e i risultati si vedono dopo molto tempo; è il lavoro che si fa là dove non si arriva ad incidere con gli slogan, là dove le condizioni materiali sono terribili.

Oggi il termine “sporcarsi le mani” viene viceversa scambiato con la disponibilità a toccare la merda pur di raggiungere gli obiettivi rapidamente, senza troppa fatica.

Viene spesso richiamata la fortunata immagine di Rino Formica sulla politica come “sangue e merda”. Dimenticando che il

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primo termine è “sangue”, la politica è forza, radicamento, determinazione e volontà, obiettivo fino al sacrificio di sé.

Rovesciare i termini, fuor di metafora, significa essere disponibili a fare alleanze di scopo con chi, una volta raggiunto il suo obiettivo, potrebbe trasformarsi nel carnefice della parte più debole. Ci si ‘sporca le mani’

perché si stipulano alleanze con il diavolo, sapendo che è tale.

La questione non è mantenersi “puri”, avere le mani pulite. Ha piuttosto a che fare con ciò che con queste mani vogliamo fare, con che ‘sangue’ abbiamo.

Per prendere una nuova direzione occorre fare molta attenzione ai lupi travestiti da agnelli, a coloro che vogliono tornare a prima degli anni della sollevazione popolare diffusa che prese avvio con le mobilitazioni operaie del 1963, quando il Paese era sotto il dominio statunitense, orientato alla domanda estera grazie ad una selvaggia compressione del lavoro, al controllo della moneta, alla deflazione provocata da manovre austeritarie.

Allora non avevamo ancora sottoscritto Trattati della Ue, ma la piccola e media impresa italiana esprimeva la stessa feroce determinazione a schiacciare i lavoratori.

Le mani dunque sporchiamocele pure, ma scegliamo anche a chi stringerle.

Se alleanze sono necessarie, bisogna che i patti siano chiari e bisogna partire dal ‘sangue’, non dalla ‘merda’.

4- Sulla classe di riferimento e sulle opzioni possibili

Abbiamo sempre pensato che fosse importante ridare partecipazione e voce a chi non ce l’ha, in particolare alle periferie sociali ed economiche, ai lavoratori subalterni, alle partite Iva forzate, ai dipendenti pubblici, ai giovani precari che non hanno famiglie facoltose alle spalle, ai Neet.

Altri questa voce ce l’hanno già. La classe imprenditoriale piagnona, grande e piccola, che denuncia la mancanza di aiuto da parte dello Stato e contemporaneamente la pigrizia dei lavoratori sfruttati con paghe da fame, non ha di questi problemi. Tramite le sue potenti associazioni riesce a

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pubblicare le proprie lagne sui giornali, e lo fa ogni giorno.

Senza voce non è neppure la classe giovanile intellettuale di sinistra, alla quale non mancano le testate on-line su cui scrivere le proprie analisi. Alla fine è sempre dare più voce a chi già ha voce, dare potere politico a queste categorie, non a quelle escluse.

Sono anni che esiste un’area socialista/comunista anticapitalista che porta avanti la critica all’Unione europea in quanto incarnazione della più becera economia di mercato, della distruzione del potere contrattuale del lavoro, dell’esaltazione del capitale, della competizione intra ed extra europea, di una visione bipolare del mondo, di totale assenza di democrazia sostanziale e sovranità popolare.

Per quest’area il tema dell’uscita dall’Unione europea è legato a doppia mandata a quello della necessità di dover cambiare il sistema, ribaltare il paradigma di mercato, andare a incidere sui rapporti di forza all’interno della società per rendere possibile e duraturo quel cambiamento. E questo comporta alla fine un profondo disaccordo con il mondo sovranista e la sua logica dei due tempi, con i finti CLN fuori del tempo e delle condizioni materiali.

Un mondo che punta in sostanza a costruire un fronte con il capitalismo nazionale, a ridare potere alle classi padronali e imprenditoriali che sono rimaste fuori dal grande gioco.

Segmenti di classe dominante spiazzati dal capitale europeo – che erroneamente identificano con un’intera nazione, “la Germania” – e per questo scontenti.

Nella guerra tra i capitali, che non è nazionale quanto di natura funzionale ed organizzativa, si trovano molte cose, ma non la sovranità popolare.

Quando si parla di popolo e volutamente si ignorano le classi, è perché si stanno facendo gli interessi di una a discapito di altre e queste non devono accorgersene, finché non sono ben incaprettate. Capiranno quando tenteranno di muoversi e il nodo alla gola si stringerà.

Seguire il dibattito di questi giorni, tra blocco o meno dei licenziamenti, polemiche sui lavoratori, velati annunci di

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