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Il Collezionista - parte 1

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Academic year: 2022

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Il Collezionista - parte 1

a magione del Collezionista poggiava le sue imponenti fondamenta su di un’isola galleggiante nel cielo, una delle tante che riempivano l’immenso spazio aereo di Caeles. Era lontana sia dai centri abitati disposti miglia e miglia al di sotto di essa sulla terraferma, sia da quelli in cielo. Un luogo isolato, perfetto per tenere fuori dalla portata di ladri ed impiccioni tutti i preziosi cimeli ed artefatti che il Collezionista aveva reperito, nel corso degli anni, durante i suoi viaggi in giro per il mondo. Closèrpio, questo il suo vero nome, era un burbero ometto alto poco più di un metro e mezzo, con una scintillante pelata e lo sguardo sempre torvo dietro l’immancabile monocolo d’oro.

Aveva le sopracciglia molto folte, benché curate, e portava due lunghissimi e sottili baffi; uno dei due era arricciato a formare una piccola stella. Una bizzarria estetica degna di lui.

Era solito vestire con camicie sgargianti, dai colori vivaci, i cui materiali provenivano dalle lontane isole esotiche che spesso visitava nei momenti di pausa, tra un’asta e l’altra, per accaparrarsi nuovi preziosi oggetti per la sua sconfinata collezione. Amava i suoi cimeli, più di qualunque altra cosa.

Possedeva antichissimi tomi, appartenenti a maghi del passato,

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che raccoglievano formule ed incantesimi micidiali, o testi più recenti – autentiche edizioni limitate – scritti da illustri eruditi dell’Archivio che catalogavano per pericolosità, rarità o provenienza geografica tutte le creature di Caeles; e ancora manufatti magici, pietre dallo sconfinato potere intrinseco, armi appartenute a valorosi guerrieri che avevano scritto la storia e persino l’arto mozzato di un Manàrvago. Quello, in particolare, era l’articolo preferito di Closèrpio poiché – senz’ombra di dubbio – rappresentava uno dei più grandi misteri che il pianeta Caeles potesse offrire. Cos’erano i Manàrvagi? Da dove arrivavano? Qual era il loro scopo? Perché c’era tanta ferocia in quelle mostruose creature oscure come il peggiore degli incubi?

Domande a cui nessuno sapeva ancora dare risposta.

Tanto era l’attaccamento morboso dell’ometto verso quell’oggetto che lo aveva posto nella stanza delle reliquie di alto livello – all’ultimo piano del torrione che, come una lancia, fendeva il cielo nella parte centrale della magione – all’interno di una cupola di vetro rinforzato e schermante, per evitare anche solo che residui del miasma tossico di quella creatura potessero annebbiargli la mente e condurlo alla follia.

Ogni sera, all’imbrunire, Closèrpio eseguiva una ronda di controllo per tutta la sua proprietà, stanza per stanza, soffermandosi spesso e volentieri a rimirare, con occhi pieni di soddisfazione, i suoi inestimabili tesori. Partiva sempre dalla stanza delle reliquie di alto livello, nel torrione, e procedeva verso il basso fino ad arrivare nelle cantine, dove conservava reliquie di basso livello (ma non meno rare!). Era un tipo preciso e puntuale e non impiegava mai più di trenta minuti per concludere tutto il giro. Poi, dopo una lauta cena, era tempo per

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lui di coricarsi ed addormentarsi fantasticando su quale altro gingillo avrebbe messo le mani nelle settimane successive.

Ma il Collezionista non sapeva che, di lì a poco, avrebbe affrontato il suo incubo peggiore.

La stanza era immersa nell’oscurità più totale, fatta eccezione per alcuni fasci di luce che facevano capolino dai lati dell’imponente tenda di velluto viola che copriva l’unico finestrone che si ergeva sul lato opposto dell’entrata.

Concentrandosi e sforzando la vista si potevano distinguere diversi oggetti di varie dimensioni disposti lungo le pareti.

L’aria era pulita e non vi era traccia di polvere. Ogni cimelio era posizionato seguendo una logica ed in perfetto ordine.

Quella era proprio la stanza del tesoro di un fanatico. Al centro della parete adiacente alla finestra vi era un piedistallo di legno intarsiato che sorreggeva una strana campana di vetro che emanava un’aura minacciosa. Accanto ad essa, più in basso, un baule di legno pregiato sigillato da un gigantesco lucchetto abbellito da stupendi fregi dorati. Sulla parete opposta, invece, si poteva intravedere una gigantesca armatura appartenuta a chissà quale condottiero del passato.

Una figura incappucciata si stava muovendo lentamente e silenziosamente nella stanza, in cerca di qualcosa…

«Dove sei?», disse tra sé e sé. «Forse qui? No…».

L’oscurità della stanza impediva a quel personaggio di trovare con facilità ciò che stava cercando, ma era il giusto prezzo da pagare poiché di certo egli non era lì con buone intenzioni né con il permesso del proprietario di casa. Dopo aver vagato per

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buoni cinque minuti a passo di lumaca, cercando di non fare rumore o incespicare nei tappeti e tastando con cautela tutto ciò che incontrava, finalmente la figura si fermò di fronte al baule.

«Bingo!» esclamò trattenendo a stendo l’emozione. Purtroppo però la sua espressione di gioia si tramutò subito in una di sconforto.

«Un lucchetto… C’è uno stramaledetto lucchetto!».

Subito gli venne in mente una simulazione di ciò che gli avrebbe detto il suo amico Satchel se fosse stato lì con lui in quel momento.

«A regazzì, è ovvio che ce sta ‘n lucchetto! Stai a rapinà er Collezionista! Che t’aspettavi? Porte aperte e ‘n calice de vino?

Io me so’ offerto de aiutatte, ma te hai voluto fà de testa tua!1».

Satchel era un abilissimo ladro, più grande di lui di soli due anni ma con all’attivo centinaia di missioni svolte in giro per il mondo sotto il vessillo dei Lunarplume di Okafiuma.

A stento trattenne una sonora risata. La bizzarra è particolare parlata di Satchel era tipica del suo paese natale, XXX, situato nelle isole a sud di YYY, il continente più esteso di Caeles.

Dopo un buon minuto per riprendere la concentrazione e ritrovare la serietà che quell’operazione richiedeva, il giovane tirò fuori da una tasca il set di grimaldelli che proprio Satchel gli aveva prestato poco prima della sua partenza. Durante la loro conoscenza, il ladro di XXX gli aveva insegnato un paio di trucchetti del mestiere, abilità di base per un furfante, che sicuramente gli sarebbero tornate utili durante una delle tante missioni che avrebbe affrontato. Di nuovo, un pensiero nitidissino.

1 «Ragazzino, è ovvio che c’è un lucchetto! Stai rapinando il Collezionista! Che ti aspettavi? Porte aperte ed un calice di vino? Io mi sono offerto di aiutarti, ma tu hai voluto fare di testa tua!»

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«Avis, guardame bene… Se chiama Pietro, perché…?2», disse Satchel cantilenando ed agitando il kit che teneva in mano.

Sbuffando, Avis rispose cantilenando a sua volta «…perché torna indietro. Si, lo so! Non preoccuparti!»

Satchel era gelosissimo dei suoi strumenti.

Scelti quelli più adatti, Avis procedette a scassinare la serratura.

«Ok, vediamo... Infilo questo qui, quest’altro così e poi…».

Un delicato suono meccanico sancì la vittoria del giovane incappucciato. Il lucchetto cadde sul pavimento di legno producendo un rumore sordo, inudibile dal Collezionista che, ormai, ronfava della grossa.

Avis aprì lentamente lo scrigno. Dal suo interno proveniva una fioca luce azzurra accompagnata da una strana nebbia spettrale.

Non appena egli protese le mani all’interno, la nebbia cominciò ad avvilupparle e ad arrampicarsi, con fare sinuoso, lungo le sue braccia, lasciandogli addosso una sensazione di forte disagio accompagnato da brividi gelidi. Cautamente tirò fuori dallo scrigno un oggetto tanto prezioso quanto singolare. Era una lanterna argentata, di modeste dimensioni, dalla forma vagamente a diamante, decorata con piccole fiammelle scolpite lungo i lati della gabbia. In cima c’era una maniglia rotonda posta lì per facilitarne il trasporto. Ciò che aveva di particolare era certamente il contenuto dell’ampolla di vetro, il fulcro dell’intero oggetto: una piccola cinigia azzurra, dai colori tiepidi; l’anima di un defunto, quasi sopita.

«Non so da quanto tu sia in attività, amico mio…», disse Avis a bassa voce «ma ti prometto che questo sarà il tuo ultimo incarico.»

2 «Avis, guardami bene… Si chiama Pietro, perché…?»

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Poi ripose gentilmente la lanterna all’interno di una grossa borsa di pelle che portava a tracolla, sotto la mantellina, e la chiuse saldamente con due cinghie.

«Bene! Missione compiuta. È ora di tornare alla base. Il vecchio sarà felice di sapere che me la sono cavata alla grande, anche senza l’aiuto di Satchel!». Sul suo volto si stampò un’espressione di rivalsa, aveva appena dimostrato che poteva cavarsela anche in situazioni estreme che non rientravano nell’ambito delle sue mansioni (e delle sue abilità!).

Fece per alzarsi e voltarsi in direzione della porta quando la borsa contenente il prezioso bottino urtò il piedistallo che sorreggeva la campana di vetro ed i resti del Manàrvago. Non fece in tempo né ad arrestarne la caduta, né ad esclamare alcunché. In quell’unico e lunghissimo secondo che intercorse tra “missione compiuta” e “disastro totale”, gli balenò in mente un’unica immagine, nitidissima: il suo abile amico ladro, testa inclinata di lato, mano protesa in avanti, in procinto di recitare la sua frase tipica nel suo inconfondibile dialetto.

«Eccallà!3»

Il piedistallo di legno cadde rumorosamente a terra scheggiandosi in più parti mentre la campana esplose spargendo frammenti di vetro per tutta la sala. Quel frastuono doveva aver riecheggiato per tutta la magione e presto Avis si sarebbe ritrovato in grossi guai. E non tardarono ad arrivare.

Con un clangore stridente, qualcosa alle sue spalle si mosse e prese vita. Due occhi rossi si accesero nel buio totale ed illuminarono la stanza di un colore scarlatto poco rassicurante.

Una voce gracchiante risuonò.

3 «Eccola là!»; letteralmente “eccola là”, espressione che può significare “ecco, ci risiamo” o “l’hai fatto di nuovo”

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«Bzzzt…Rile-vata-mi-naccia Manà…r-va…Bzzzt.»

Durò un istante. La parete e parte della pavimentazione esplosero verso l’esterno. Grossi macigni di pietra e parti carbonizzate di ciò che rimaneva di quella parte di stanza furono scaraventate per decine di metri nello spazio aereo frontale del torrione, finendo nella piccola foresta che abbracciava il lato nord della magione. Una grossa nube di fumo ora si innalzava dalla voragine che deturpava la sala del tesoro, sparendo in alto nel cielo. Tutta la stanza fu invasa dalla fredda luce lunare, permettendo ora di vedere chiaramente tutto ciò vi albergava. Fu in quel momento che Avis capì con cosa aveva a che fare. Quella che aveva intravisto subito dopo aver messo piede in quella stanza non era solo una gigantesca armatura.

I GOLEM – così vennero chiamati dal suo costruttore migliaia di anni prima – erano costrutti meccanici alimentati dalla magia.

Erano alti più di due metri e pesavano svariate tonnellate. Due gambe di metallo rinforzato sorreggevano un grosso ingranaggio che fungeva da bacino, ed ancor più su una gigantesca corazza, nel mezzo della quale si apriva un alloggiamento sferico per una pietra magica, fulcro e vita dell’intero colosso. Possedevano due braccia lunghe quasi fino al terreno, che culminavano con mani prensili che potevano brandire spade, lance o asce gigantesche. Sugli avambracci pezzi di armatura grandi e resistenti. Sulla testa, che quasi scompariva all’interno della sproporzionata corazza, portavano un elmo più lungo che largo, con due fessure circolari che lasciavano intravedere solo i due lucenti occhi.

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In tempi remoti, durante il regno dell’Imperatore Nonno, i GOLEM venivano impiegati in ogni città e villaggio come difesa contro i Manàrvagi. Erano stanziati all’ingresso o in prossimità di piazze e luoghi affollati, dormienti. Se appariva un Manàrvago, loro si risvegliavano dal profondo sonno e li ingaggiavano in un combattimento micidiale. Con quelle creature non si scherzava ed anche una sola di esse poteva causare ingenti danni. Per questo ai GOLEM era stata data la capacità di utilizzare la magia. Con essa, potevano spazzare via qualunque minaccia oscura gli si fosse parata dinanzi.

E proprio una fiammata magica aveva devastato il torrione. Il GOLEM si era riattivato non appena l’arto del Manàrvago fu libero dalla campana di vetro. Certamente quell’artiglio deforme non avrebbe potuto decretare la fine dell’intera magione, ma avrebbe potuto attrarre un suo simile e mettere in serio pericolo la vita del Collezionista e degli abitanti della città più vicina. Doveva essere disintegrato. E così fu. La magia di fuoco aveva incenerito fino all’ultimo atomo ciò che restava di quella creatura immonda, scongiurando il peggio.

Avis, che si era salvato per il rotto della cuffia da quel colpo mortale, giaceva a terra confuso ed un po’ bruciacchiato, con gli occhi strabuzzati. Per prima cosa, controllò il prezioso carico.

La lanterna era salva. Poi, con un’agile scatto si tirò su. Davanti a lui, l’imponente GOLEM, i cui occhi erano diventati gialli, stava ricalibrando i suoi sensori.

«Cavolo, c’è mancato poco che mi arrostisse!», esclamò Avis mentre, in posizione difensiva, attendeva cercando di capire se fosse o meno in pericolo di vita.

I GOLEM erano stati progettati per annientare solo e soltanto i Manàrvagi, e reagivano solamente alla loro presenza. Ora che

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l’artiglio di quella creatura era stato vaporizzato, il gigante meccanico si sarebbe rimesso a dormire in attesa di ingaggiare un altro scontro che, con molta probabilità, non sarebbe mai arrivato.

Con un agghiacciante rumore di ingranaggi che non vengono oliati da decenni, l’imponente colosso si voltò in direzione del giovane ladro, puntando verso di lui il braccio destro. Il palmo ben aperto. Gli occhi di nuovo rossi e minacciosi.

Avis era diventato il nuovo bersaglio del GOLEM, riprogrammato – per volere del Collezionista – per attaccare qualunque essere vivente minacciasse la sua sfavillante collezione (fatta eccezione del suo padrone). Benché fosse tendenzialmente poco sveglio, Avis intuì immediatamente quale fosse la mossa giusta da fare, l’unica che gli avrebbe permesso di salvarsi da morte certa.

«Eroclèmecoooo!», urlò Closèrpio svegliandosi di soprassalto.

«Cos’accidenti hai combinato stavolta?!».

L’ometto scese dal letto, si infilò le pantofole ed uscì dalla camera, pronto a sgridare il suo animaletto domestico che, da quando non era più cucciolo ed era cresciuto a dismisura, spesso e volentieri combinava qualche danno in giro per casa, destando l’ira del suo padrone. A volte scavava grandi buche nel giardino per seppellire ossa od oggetti a lui preziosi, a volte inceneriva un angolo della foresta – con un soffio di fuoco – mentre cacciava qualche animaletto selvatico. Era decisamente poco pratico allevare quella bestia così imprevedibile, ma col tempo Closèrpio aveva imparato ad apprezzarla e, sotto sotto, non voleva ammettere che si era anche affezionato molto ad essa,

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fin dal giorno in cui la trovò vagare spaventata nella foresta Vattelappesca. Aveva deciso di prenderla con sé e trasformarla in un perfetto guardiano dei suoi tesori.

Ma qualcosa non gli tornava. Solitamente, quando Eroclèmeco combinava qualche guaio, lo si sentiva gridare da qualunque punto dell’isola. Stavolta c’era un silenzio di tomba, fatta eccezione per un rumore sordo che proveniva dalla cima del torrione. Subito intuì.

«No, no, no, NO!», urlava Closèrpio mentre percorreva a passo svelto i lunghi corridoi della magione illuminati da lampade a cristalli di fuoco.

Era paonazzo e sudava freddo. Nei vent’anni passati a mettere insieme la sua fortuna, mai una volta aveva subito intrusioni o, peggio ancora, furti. Non era certo un pezzo grosso che poteva essere costantemente preso di mira da furfanti della peggior specie, ma possedeva qualche manufatto di incredibile valore.

Benché la sua passione lo portasse a viaggiare per il mondo e ad incontrare parecchie persone, il Collezionista era un tipo solitario ed aveva scelto accuratamente dove edificare la sua dimora: nel bel mezzo del nulla, in alto nei cieli, lontano da occhi indiscreti e da qualsiasi rotta commerciale. Forse qualche ladruncolo da strapazzo aveva puntato gli occhi su di lui e ne aveva seguito gli spostamenti fino a localizzare la sua magione.

Si diresse subito nella sala principale, che dava accesso alle scale che portavano fin su nel torrione. Fece i gradini due a due, incespicando più volte poiché le sue corte gambette (e la sua stazza) non gli permettevano tanta agilità. Ogni tanto si fermava per riprendere fiato, ma subito ripartiva la scalata più furioso e preoccupato di prima.

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Fu durante una di quelle pause che lo vide da una finestra, intento a sonnecchiare beatamente sotto un albero, ed ignorando completamente cosa stesse accadendo ai piani alti del torrione.

«Eroclèmecoooo! Dannato il giorno in cui ti ho preso con me, stupido pollo gigante!», gli urlò contro Closèrpio, agitando il pugno verso di lui, rosso di rabbia. «È così che mi ripaghi?! Fai il tuo dovere, ingrato!»

Quando arrivò in cima, la scena che gli si parò davanti gli gelò il sangue nelle vene. Un’enorme voragine squarciava una delle pareti della stanza e un denso fumo grigio aveva riempito tutta la sala rendendo difficoltosa la respirazione. Closèrpio riuscì solo ad intravedere ciò che accadde di lì a poco.

Avis deglutì, e senza pensarci oltre si lanciò dalla torre, cadendo in picchiata verso il terreno. Il GOLEM ne seguì il movimento col braccio puntato.

«Speriamo che gli stivali del vecchio funzionino a dovere o qui ci lascio la pelle!», disse il giovane ladro mentre, reggendosi il cappuccio della mantellina, precipitava a grande velocità.

Sopra la sua testa, il secondo colpo magico lanciato dal GOLEM sfrecciava impietoso, illuminando tutto lo spazio circostante.

Il pavimento era sempre più vicino. Ora si vedeva chiaramente la fontana posta al centro di un ampio piazzale che divideva in due la strada che conduceva dalla porta d’ingresso della magione al piccolo molo d’attracco dell’aeronave del Collezionista. A pochi metri dal toccare terra, Avis sfiorò i suoi stivali di cuoio e si preparò all’atterraggio. Le gemme incastonate ai lati di entrambe le calzature si illuminarono di

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verde, e sotto gli stivali – in prossimità di due rientranze nel tacco e nella punta – apparvero due grosse bolle d’aria semi- trasparenti. Poi arrivò l’impatto – *ppPoOonF*

Le due bolle si compressero così tanto che per un attimo Avis pensò che sarebbe stato rispedito in cielo al doppio della velocità, quasi come se stesse indossando delle molle. Infine, scoppiarono delicatamente, arrestando del tutto la caduta del ragazzo.

«Atterraggio perfetto! Come al solito, le Tecnomagicks® del vecchio sono una garanzia!»

Con un ghigno di soddisfazione si inoltrò nel fitto della foresta in direzione del bordo esterno dell’isola.

Il Collezionista, dall’alto del torrione, assisteva alla fuga del ladro. Sulla sua testa, ormai rossa come un pomodoro, tante piccole venuzze pulsanti indicavano la portata della sua rabbia.

Ancora una volta prese fiato a pieni polmoni ed urlò mille improperi verso il suo animaletto domestico. Nella foga del momento tirò anche due calci al GOLEM e per poco non si fratturava un piede. Tanto era la sua collera che il monocolo gli schizzò via dall’orbita, cadendo giù dalla torre. Era sicuramente una scena comica vista dall’esterno, ma per Closèrpio era veramente una tragedia.

Avis scattava nella foresta, seguendo i sentieri perfettamente curati che si snodavano in tutte le direzioni. Alla sua destra riusciva ad intravedere, in lontananza, l’aeronave del Collezionista. Era di media grandezza, costruita in legno pregiato decorato con sfarzosi intarsi d’oro che correvano lungo tutta la murata. A poppa sorgeva una piccola cabina che occupava un terzo dell’intera nave e presentava tre piccole finestre verticali che si affacciavano sulla prua, adibita allo

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stoccaggio dei preziosi cimeli che l’ometto andava comprando in giro per il mondo. Un’impalcatura, che sorreggeva un telo saldamente ancorato in più punti alla nave, li proteggeva dalle intemperie e tutta l’area era illuminata da tre piccole lanterne.

All’interno della cabina vi erano la ruota del timone, proprio dietro le finestre ed un piccolo tavolo rettangolare adibito allo studio delle mappe di navigazione. Rimaneva giusto lo spazio per qualche cassa contenente provviste ed un paio botti di acqua e vino, per i viaggi più lunghi. Dietro la cabina, nella parte restante del cassero, vi era l’ingresso al piano inferiore, sede del motore magico che alimentava l’intera struttura. Era semplicemente un impianto in legno e ferro al centro del quale era alloggiato un cristallo del vento. Quel solo frammento intriso di magia poteva mettere in moto l’intera nave che arrivava a pesare anche svariate centinaia di tonnellate.

Sicuramente era la parte più importante di quel mezzo, senza il quale non avrebbe potuto solcare i cieli, ma ciò che gli permetteva di muoversi liberamente erano i due motori ad elica posti ai lati dell’enorme pallone aerostatico che sovrastava l’intera nave, superandola di un paio di metri a poppa e a prua.

Quel pallone era pieno di un gas leggero, ragion per cui quel bestione se ne stava tranquillamente a galleggiare ancorato al molo con delle semplici corde.

Ma non era quello il mezzo col quale sarebbe fuggito Avis, non avrebbe fatto in tempo a rubare quell’aeronave. Gli era bastato il passaggio di sola andata che aveva preso qualche ora prima per arrivare lì, proprio sotto al naso di un ignaro Collezionista che rientrava a casa dopo aver fatto scorta di viveri e strumenti di viaggio presso Market Town. E di lì a poco lo avrebbe avuto

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alle costole accompagnato dal GOLEM e forse anche da quel buffo pollo gigante che non aveva alzato una piuma per difendere gli interessi del suo padrone. Avis arrivò in prossimità del bordo esterno, già intravedeva la recinzione di legno e corde che abbracciava l’intera isola.

«Oh! Si vede l’uscita.», esclamò «Questo ora non mi serve più.»

Con un unico movimento Avis si tolse la mantellina che aveva celato la sua identità agli occhi del Collezionista, lasciando i suoi capelli a punta liberi di scompigliarsi al vento. Sopra la camicia bianca ed al gilet marrone sbottonato indossava una strana pettorina che gli arrivava a ridosso delle costole. Al centro vi era incastonata una pietra rossa, dalla quale partivano dei disegni incisi sulla pettorina stessa che, girando sul fianco e poi sulla schiena, si collegavano a due rientranze grandi quanto un pugno. Era la stessa tecnologia impiegata per gli stivali che indossava.

Il bordo ora era a pochi metri di distanza. Accelerò il passo e si lasciò sfuggire una risata nervosa.

«Questo salto è decisamente più alto!»

Ma ancora una volta, senza esitazione, si lanciò nel vuoto affidandosi alle prodigiose invenzioni del vecchio Okafiuma.

Analogamente a quanto fatto con gli stivali, portò la mano sinistra verso il petto e sfiorò la pietra. Lasciò fluire la magia dal suo corpo fino nella pietra, mero catalizzatore elementale.

Questa si illuminò di rosso, e due serpenti di fuoco percorsero rapidamente i solchi incisi nella pettorina fino a gettarsi nelle due rientranze che combaciavano con le scapole del ragazzo.

Immediatamente, la pettorina sprigionò due grandi fiammate che presero le sembianze d’un paio di ali. Planando a tutta velocità, Avis si allontanò dall’isola volante del Collezionista,

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gridando a squarciagola per l’eccitazione. Andava così veloce che ormai non sarebbe mai più stato rintracciato da colui che aveva appena derubato. Finalmente Avis aveva compiuto il primo passo per la realizzazione del suo obiettivo.

Durante il viaggio di ritorno si abbandonò ai ricordi, ripensando al percorso che lo aveva portato ad entrare a far parte della gilda Lunarplume.

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Romance Dawn – l’alba dell’avventura Tre anni prima

anana.

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Il Collezionista - parte 2

arket Town ospitava uno dei più grandi mercati del continente YYY, nonché atelier di famosi artigiani ed officine dei migliori armaioli del luogo. Ogni giorno, nel distretto 5, attraccavano decine di aeronavi che trasportavano centinaia di persone nuove provenienti da tutta Caeles, di tutte le razze e levatura sociale, chi in cerca di materiali per le proprie attività, chi in cerca di fantastiche offerte su armi e pozioni magiche, chi in cerca di svariati altri servizi.

Non era raro quindi vedere un frogfolk fare sosta nella Via dei Bazaar per comprare polveri elementali e composti da impiegare nelle loro tipiche miscele alchemiche o un beastfolk valutare la qualità di una lama ed attaccar briga con l’armaiolo per avere uno sconto sul prezzo d’acquisto. O ancora vedere i piccoli picofà sfrecciare a mezz’aria, scansando al pelo l’incessante fiumana di persone che popolavano le strade, e lanciare dal grosso zaino che trasportavano senza fatica la posta del giorno e poi far ritorno alla sede della Picoposta.

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Molti giungevano a Market Town anche per visitare una delle tante gilde di mercenari nate nel giro di pochi anni, da quando belve feroci e Manàrvagi venivano avvistati più di frequente in prossimità di città e villaggi. Le gilde offrivano i servizi più disparati, da quelli legali come poteva essere la scorta di qualche facoltoso uomo d’affari o la caccia a bestie pericolose, a quelli meno legali o del tutto fuori legge, come furti e rapimenti.

Una delle gilde più famose di Market Town era senza ombra di dubbio Lunarplume, fondata dal vecchio Okafiuma ormai più di un trentennio addietro, ma in attività su quell’isola da circa la metà del tempo. Le abilità dei mercenari di Okafiuma erano ineguagliabili, e i numerosi clienti che richiedevano i loro servigi rimanevano sempre soddisfatti. Dopotutto, il vecchio beastfolk bazzicava su Caeles da ben più di un secolo, sapeva il fatto suo. Inoltre Okafiuma, che aveva occhio per gli affari, aveva visto bene di espandere l’attività della gilda ed aprirvi all’interno una taverna che potesse dissetare e sfamare tutti i nuovi arrivati sull’isola. Veniva da sé che, un boccale di birra dietro l’altro, le persone decidevano di scegliere Lunarplume per risolvere i loro problemi.

L’imponente taverna era stata edificata proprio davanti la piazza principale della città, affollata come sempre a tutte le ore del giorno, persino di notte. Motivo per cui Market Town era conosciuta anche come la città che non dorme mai.

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