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Articolo 36 Costituzione italiana: spiegazione e commento

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Articolo 36 Costituzione italiana:

spiegazione e commento

Autore: Angelo Greco | 03/01/2022

Cosa dice e cosa significa l’art. 36 sulla tutela della retribuzione, delle ferie e del riposo.

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

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La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.

Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.

Sfruttare il lavoro è un reato ed un peccato

Il lavoratore – impone l’articolo 36 della Costituzione – ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa:

«libera» dai bisogni essenziali; e «dignitosa» affinché garantisca il libero e pieno sviluppo della personalità del lavoratore e della sua famiglia.

Lo stipendio non deve essere un mezzo di mortificazione delle persone, né un premio, ma il giusto compenso per ciò che è stato fatto. Sembra un’ovvietà, ma non lo è affatto. Basta rileggere Carlo Goldoni (Il bugiardo, 1750), nella scena dove il protagonista deve pagare una corsa da Napoli a Venezia al vetturino, e il pagamento in realtà consiste in una mancia, perché a quel tempo il salario non era fisso, bensì determinato dal buon cuore del cliente.

Nonostante il tono imperativo della Costituzione, mai la legge ha fissato il minimo salariale, lasciando tale spinosa questione ai contratti collettivi nazionali di lavoro. I cosiddetti Ccnl regolano il «minimo sindacale» in base al tipo di attività svolta, all’inquadramento e all’anzianità di servizio. Sotto tale soglia il datore di lavoro non può mai scendere, ma nulla esclude la possibilità di accordare uno stipendio superiore. In questo, secondo la Cassazione, il datore non è tenuto a rispettare il pari trattamento tra i dipendenti, ben potendo riconoscere ad alcuni di questi premi e incentivi non garantiti ad altri, purché ciò non nasconda un intento discriminatorio (ad esempio tra uomini e donne).

Al fine di evitare lo sfruttamento del lavoro, la legge vieta il pagamento “a cottimo”, ossia in base ai risultati conseguiti. Il dipendente presta le sue ore e per queste va retribuito, indipendentemente da quanto prodotto. Solo di recente la giurisprudenza si sta aprendo alla possibilità di licenziare il lavoratore per scarso rendimento, nel caso in cui la sua prestazione sia notevolmente inferiore alla media dei colleghi dello stesso settore.

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Nonostante l’articolo 36 della Costituzione, si sente spesso parlare di sfruttamento del lavoro. Ed abbiamo attribuito, a lungo, questo fenomeno al solo lavoro subordinato. Per secoli è stato così: il potere del datore si è trasformato in abuso, e l’abuso è diventato schiavitù. Ma non è ormai più solo nei rapporti di lavoro dipendente che si consuma lo sfruttamento. C’è quello ai danni dei lavoratori autonomi, a cui le pubbliche amministrazioni o le multinazionali affidano incarichi sottopagati, sapendo che in molti fanno a gara pur di lavorare con grosse realtà, anche ai soli fini curricolari; così il legislatore ha dovuto approvare la legge sull’equo compenso. C’è poi lo sfruttamento dei praticanti che vogliono imparare una professione ma che ricevono un “contributo spese” da fame pur sgobbando giorno e notte all’interno di studi affermati. C’è lo sfruttamento dei collaboratori universitari, giovani appena laureati che vogliono fare esperienza all’interno dell’ateneo, nella speranza di acquisire una posizione stabile, ma che di fatto finiscono per essere servi del docente, manodopera gratuita per sgravarsi di lavoro. Ed è anche “sfruttamento” quello ai danni dell’imprenditore o del professionista che, pur lavorando per il proprio cliente, non viene poi pagato.

Perché lo sfruttamento del lavoro consiste proprio in questo: svolgere una prestazione senza ricevere il giusto compenso, come invece gli articoli 35 e 36 della Costituzione impongono: «ogni lavoratore ha diritto a un retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».

Ed oggi esiste anche lo sfruttamento dei creators dei contenuti digitali, sfruttamento operato dalle piattaforme web che, coi loro algoritmi segreti e non verificabili, decidono se e quando un utente debba guadagnare con le proprie opere dell’ingegno.

Anche Papa Francesco ha detto che chi toglie il lavoro e la dignità alle persone commette un peccato gravissimo. «Guai a voi che sfruttate la gente, che sfruttate il lavoro, che pagate in nero, che non pagate il contributo per la pensione, che non date le vacanze». Quando non si paga il lavoro e lo si sfrutta – ha detto Bergoglio – si commette «peccato mortale, non si è in grazia di Dio». L’ingiustizia sociale e l’idolatria del denaro sono anche causa della perdita della libertà. Perché «le ricchezze hanno una capacità di sedurre tale che ci convertono in schiavi».

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La nuova povertà

Come mai, se l’inflazione è ormai da anni ai minimi storici e gli stipendi non sono diminuiti, si sente sempre più spesso parlare di nuova povertà e di incapacità delle famiglie ad arrivare a fine mese? Ci sono due modi per rendere povere le persone:

non dare loro la giusta paga oppure accrescerne i bisogni. Ed è quello che sta succedendo oggi alla nostra società. L’avvento delle nuove tecnologie, la sempre più crescente domanda di beni e servizi, le utenze, i servizi di entertainment in abbonamento, il consumismo hanno accresciuto i falsi bisogni della popolazione, rendendo di fatto non più sufficiente il tradizionale stipendio. Quello stesso stipendio che, un tempo, bastava a mandare avanti una famiglia e a mettere qualcosa da parte.

La gente ha perso la propensione al risparmio, si indebita oltre le proprie capacità ma non si fa mancare beni di lusso. Così si sperimenta una ricchezza effimera, transitoria, perché già superata dalla successiva collezione autunno-inverno o con l’avvento di un nuovo modello di smartphone.

L’insegnamento di Epicuro è passato inosservato: «Se vuoi rendermi felice, non soddisfare i miei desideri ma sfrondali».

I tre diritti indisponibili

Chiude l’articolo 36 della Costituzione l’elencazione di tre diritti indisponibili, a cui cioè il lavoratore non può rinunciare neanche dietro pagamento: il diritto a un limite massimo di ore lavorative giornaliere (che non possono superare 40 ore a settimana), il diritto ad un giorno di riposo settimanale (coincidente di norma, ma non necessariamente, con la domenica) e alle ferie annuali retribuite (secondo il calendario deciso dal datore di lavoro che deve comunque tenere conto delle esigenze del dipendente). Tali diritti sono rivolti a garantire il recupero delle energie psicofisiche del lavoratore, per preservare la sua salute e per consentirgli di disporre del tempo libero da dedicare a sé stesso e alla famiglia.

Il tutto in una dimensione “umana” del lavoro. In questo, l’Italia è distante anni luce dai popoli anglosassoni dove il lavoro è l’elemento centrale nella vita dell’uomo. Da noi è solo strumentale, non costituisce il fine ma il mezzo per vivere dignitosamente.

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Tali diritti sono irrinunciabili perché il riposo rappresenta una condizione indispensabile all’uomo. Questo significa ad esempio che un lavoratore che ha già un contratto di lavoro full-time non può sottoscrivere un secondo contratto di lavoro, superando così il limite di ore settimanali imposto dalla legge; non può rinunciare alle ferie per ottenere un extra sullo stipendio; non può essere costretto a lavorare tutti i giorni della settimana, neanche a Natale. E se il datore impone uno straordinario che non viene conteggiato in busta paga, ci sono cinque anni di tempo dalla cessazione del rapporto di lavoro per chiedere le differenze retributive.

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