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Politica monetaria e fiscale dell’Unione Monetaria Europea

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Academic year: 2021

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Politica monetaria e fiscale dell’Unione Monetaria Europea

Dispense del prof. Sergio Cesaratto Cesaratto@unisi.it

AA 2017-18 INDICE

Complementi introduttivi (vedi programma) Capitolo 1

Sostenibilità delle unioni monetarie: la teoria delle aree valutarie ottimali (vedi programma) 1.1. What is the appropriate domain of a currency area? Il contributo base di Mundell 1.1.1. Unioni monetarie fra paesi e fra regioni

1.1.2. Aggiustamenti asimmetrici e tendenze deflazionistiche in un’unione valutaria 1.1.3. Shock asimmetrici in un’unione valutaria: un’esposizione più standard 1.1.4. La flessibilità del cambio è davvero efficace?

1.1.5. Effetti flessibilità del cambio: un’esposizione più standard 1.1.6. La mobilità del lavoro

1.2. Sostenibilità di un’unione monetaria e diversificazione produttiva 1.3. Unioni monetarie complete implicano un bilancio federale

1.3.1. Fiscal capacity

1.3.2. Bilancio federale e trasferimenti fiscali in Europa e negli Stati Uniti 1.3.2. Trasferimenti fiscali fra regioni

1.4. Perdita della sovranità monetaria e debito pubblico 1.5. Unione monetaria e unione politica

1.6. Perché prevalse l’idea di farla: l’influenza della teoria dominante (+ costi di transazione).

Capitolo 2

Le idee che hanno influito nella creazione dell’UME (vedi programma) 2.1. Giustificazioni microeconomiche: diminuzione dei costi di transazione

2.2. Giustificazioni macroeconomiche

2.2.1. Differenze istituzionali nel mercato del lavoro.

2.2.2. Politiche monetarie nazionali, coerenza temporale e credibilità (il modello di Barro &

Gordon)

(2)

2.2.3. Modello B&G per economie aperte 2.2.4. Credibilità e costo di un’unione monetaria 2.3. Due diverse visioni della disoccupazione

2.4. Movimenti di capitale compensatori di squilibri commerciali 2.5. Una ragione più pragmatica per cui s’è fatto l’euro

2.6. Aspetti politici del processo di unificazione europeo 2.7. Euro e ultra-liberismo

2.6. Le triadi impossibili dei cambi fissi 2.7. Le triadi inquietanti

Capitolo 5 Politica monetaria (vedi programma)

5.1 - Politica monetaria – Obiettivi e regole

5.1.1. Regole di politica monetaria e il modello di inflation targeting 5.1.2 Obiettivi finali e intermedi della BCE

Capitolo 1

Sostenibilità delle unioni monetarie: la teoria delle aree valutarie ottimali1

La prima ed evidente questione che si deve affrontare in merito a un’unione monetaria (UM) è se la sua costituzione arrechi o meno dei vantaggi economici e sociali. Da questi dipenderà, da ultimo, se essa potrà o meno anche condurre a vantaggi politici, vale a dire a una spinta verso una maggiore unità politica fra i paesi membri. In assenza di tali vantaggi sarebbe dunque sconsigliabile procedere verso l’unificazione monetaria in quanto l’esito potrebbe essere una maggiore disunione politica, dunque l’arretramento del processo di unificazione politica. I termini della questione potrebbero però essere rovesciati. Laddove vi fosse una forte spinta politica all’unificazione politica, la solidarietà fra i paesi membri può portare a misure tali da attenuare gli eventuali

svantaggi del’unione monetaria. Errato sarebbe tuttavia ritenere che l’unificazione monetaria di per

1 Per confronto, si vedano anche i capitoli 1-4 di De Grauwe (2013), in particolare il capitolo 1.

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sé, vale a dire senza tener conto dei suoi possibili svantaggi, possa condurre a una maggiore unificazione politica. Purtroppo, come vedremo, quest’ultimo errore è stato compiuto, in buona o cattiva fede, dai governanti europei, nonostante gli avvertimenti di molti economisti.

Infatti il tema di una possibile unificazione monetaria europea è assai antico, risale infatti agli albori del processo di unificazione economica, dunque agli anni 1950.2 Sin d’allora gli

economisti si sono dunque occupati del tema se l’Europa fosse o meno una’area valutaria ottimale (AVO o Optimal Currency Area od OCA)), se cioè costituisse un’area alla quale un’unificazione valutaria avrebbe arrecato benefici netti. La risposta sembro essere stata piuttosto negativa. 3 In questo capitolo esamineremo alcuni importanti contributi al dibattito e cercheremo di spiegare perché negli anni 1980 prevalse un punto di vista diverso.

1.1. What is the appropriate domain of a currency area? Il contributo base di Mundell

Mundell (1961) definisce “currency area” un insieme di regioni che fissano i propri tassi di cambio e, al limite, adottano una moneta unica. Per le ragioni che vedremo, una regione è inoltre definita come quella all’interno della quale c’è mobilità dei fattori, mentre fra regioni non c’è mobilità dei fattori (ibid:658, n.6). Il quesito che Mundell si pone è dunque:

What is the appropriate domain of a currency area? (ibid: 41)

1.1.1. Unioni monetarie fra paesi e fra regioni

L’autore confronta la situazione di due paesi legati da un accordo di cambi fissi a quella di due regioni all’interno di una medesima nazione. Le nazioni/regioni sono fra loro disomogenee in termini di prodotti. Nel suo ragionamento Mundell ha in mente economie vicine alla piena occupazione,4 per cui spostamenti della domanda da una nazione/regione all’altra tendono a generare inflazione nella nazione/regione che beneficia dell’aumento di domanda per i propri prodotti.

2 Le vicende dell’unificazione economica europea sono ben narrate in G.Montani, L’economia politica dell’integrazione europea, UTET, Novara, 2008.

3 La teoria delle AVO informò l’opinione, generalmente scettica, degli economisti americani sull’unificazione monetaria europea. Un’utile rassegna al riguardo

è:http://ec.europa.eu/economy_finance/publications/publication_summary16343_en.htm che, pubblicata nel 2009, sembra celebrare l’euro come un successo e una smentita dello scetticismo americano proprio quando, ironia della sorte, l’Europa entrava in una crisi da cui non sembra uscire.

Un argomento spesso presentato è che gli economisti americani volevano difendere il ruolo

esclusivo del dollaro come moneta di riserva internazionale. In verità essi sembrano aver predetto i risultati dell’euro meglio di molti colleghi europei.

4 Si ricordi che nel 1961 siamo nel pieno dell’epoca Keynesiana, e anche Mundell appare molto meno conservatore di quanto si rivelerà successivamente.

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Mundell (ibid: 657) comincia col caso di due paesi, ciascuno con la propria divisa e legati da un accordo di cambio, supponendo che si verifichi uno spostamento della domanda dal paese B al paese A. Egli propone questo ragionamento:

Suppose first that the entities are countries with national currencies. The shift of demand from B to A causes unemployment in B and inflationary pressure in A. To the extent that prices are allowed to rise in A the change in the terms of trade will relieve B of some of the burden of adjustment. But if A tightens credit restrictions to prevent prices from rising all the burden of adjustment is thrust onto country B; what is needed is a reduction in B's real income and if this cannot be effected by a change in the terms of trade - because B cannot lower, and A will not raise, prices – it must be accomplished by a decline in B's output and employment. The policy of surplus countries in restraining prices therefore imparts a recessive tendency to the world economy on fixed exchange rates or (more generally) to a currency area with many separate currencies.

In sostanza se c’è quello che i “moderni” libri di testo chiamano uno “shock asimmetrico” a sfavore dei prodotti del paese B a favore di quelli del paese A, la nazione avvantaggiata dovrebbe

idealmente lasciar correre domanda interna e inflazione, lasciar apprezzare il proprio tasso di cambio reale e perdere competitività a favore della nazione svantaggiata sì da accrescere le proprie importazioni e diminuire le proprie esportazioni. Sulla base dell’esperienza storica Mundell sembra pessimista che ciò accada.5 Quello che più probabilmente potrebbe accadere è che il paese B sia costretto a politiche recessive allo scopo di ridurre le proprie importazioni e riequilibrare la bilancia commerciale. Ciò avrà effetti negativi anche sul paese in surplus, che vedrà calare le proprie

esportazioni (la “recessive tendency” di cui parla Mundell nel passo ora citato).

A commento analitico osserviamo i seguenti punti:

- Il tasso di cambio reale del paese B, che sappiamo essere un indicatore di competitività, è in questo caso definito come er = pBen/pA, dove en è il tasso di cambio nominale, e pA e pB sono, rispettivamente, il livello dei prezzi nei paesi A e B. Poiché en è fissato

dall’accordo di cambio, il paese B perde competitività se pB aumenta.

- Seguendo la teoria monetarista, in un sistema di cambi fissi, in maniera del tutto simile al gold standard, il paese in disavanzo commerciale (o più in generale di partite

correnti)6 vede diminuire la propria base monetaria, mentre il paese in avanzo la vede

5 Al riguardo Mundell cita il comportamento “non cooperativo” di Francia e Stati Uniti, i paesi in surplus negli anni precedenti la grande crisi, e quello della Germania negli anni 1950 nei quali aveva già accumulato forti surplus commerciali proprio attraverso un attento controllo che

l’inflazione interna si mantenesse inferiore qaquella dei concorrenti (si veda al riguardo Cesaratto &

Stirati 2011).

6 Un iniziale disavanzo commerciale, se persiste, determina una posizione netta sull’estero negativa (indebitamento netto) e un pagamento di interessi sull’estero che, aggiungendosi al disavanzo commerciale, aggrava il disavanzo delle partite correnti.

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aumentare. Già questo induce una tendenza deflazionistica in B e una inflazionistica in A.7 Inoltre per evitare una svalutazione della propria divisa, B innalzerà il tasso di interesse per attirare capitali atti a finanziare il disavanzo estero, mentre,

simmetricamente il paese A dovrebbe diminuire i propri tassi per evitare una rivalutazione della propria valuta. I movimenti del tasso di interesse agevolano così l’aggiustamento commerciale che si svolge sia dal lato del paese in disavanzo che di quello in avanzo. Il paese in disavanzo importerà di meno nel breve periodo per la caduta del reddito – generata dagli effetti negativi dell’aumento del tasso di interesse sulla domanda aggregata e da una eventuale politica fiscale restrittiva - e riguadagnerà nel medio periodo competitività di prezzo per la minore inflazione; simmetricamente il paese in avanzo importerà di più per l’espansione della domanda interna e perderà competitività di prezzo nel medio periodo.

- Il paese A potrebbe, tuttavia, sterilizzare l’aumento di base monetaria dovuto al surplus commerciale impedendo in tal modo la spinta all’aumento della domanda interna e all’inflazione. Se inoltre esso fosse il cosiddetto “paese ennesimo”, quello rispetto alla cui valuta gli altri paesi fissano il cambio,8 esso non avrebbe necessità di evitare una rivalutazione del proprio cambio (in violazione dell’accordo di cambio), e saranno i paesi in disavanzo a dover accrescere i propri tassi di interesse per evitare una svalutazione della propria. In tal modo il peso dell’aggiustamento sarebbe completamente sui paesi in disavanzo.

Mundell ritiene dunque che, probabilmente, l’aggiustamento ricadrà su prezzi e salari del paese in disavanzo che riguadagnerà competitività attraverso un deprezzamento del proprio tasso di cambio reale. Nel dibattito corrente questa viene definita “svalutazione interna” per contrapporla alla tradizionale svalutazione “esterna” del tasso di cambio nominale. Riprenderemo fra poco le difficoltà che tale aggiustamento può comportare.

7 Questa visione è un po’ meccanica. Non è infatti detto che all’aumento di base monetaria (via canale estero) e a una eventuale diminuzione del tasso di interesse nel paese A segua una maggiore domanda di credito e una espansione della domanda aggregata. Sì può però ammettere che se il paese A è vicino al pieno impiego, l’aumento della domanda dall’estero potrà generare tendenze inflazionistiche. Queste saranno ancora più accentuate se il paese A agisce in modo da riequilibrare le bilance commerciali attraverso una politica fiscale espansiva. Mundell è pessimista che ciò accada, anzi il paese A potrà adottare politiche volte a impedire un rialzo dell’inflazione.

8 Per esempio gli n-1 paesi paesi potrebbero fissare il tasso di cambio rispetto al DM (o qualunque altra valuta di rifrrimento), mentre il paese n-esimo non se ne cura - nel senso che non fissa il tasso di cambio con nessuno, e dunque non si preoccupa di contribuire alla stabilizzazione dei cambi il cui peso rcade perciò sugli altri n-1 paesi. Si tratta di un accordo di cambio piuttosto asimmetrico.

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Dapprima esaminiamo il caso simmetrico di due regioni all’interno di un medesimo paese. La differenza col caso di due regioni (nazioni) legate da un accordo di cambio è che l’appartenenza a una medesima nazione implica una qualche forma di solidarietà politica fra le regioni che si manifesta, nell’illustrazione di Mundell, nell’accettazione da parte della regione in surplus di politiche espansive.9 La situazione è ora quella di:

regions within a closed economy lubricated by a common currency; and suppose now that the national government pursues a full-employment policy. The shift of demand from B to A causes unemployment in region B and inflationary pressure in region A, and a surplus in A's balance of payments." To correct the unemployment in B the monetary authorities increase the money supply. The monetary expansion, however, aggravates inflationary pressure in region A: indeed, the principal way in which the monetary policy is effective in correcting full employment in the deficit region is by raising prices in the surplus region, turning the terms of trade against B. Full employment thus imparts an inflationary bias to the multiregional

economy or (more generally) to a currency area with common currency. (ibid: 658-59) L’impegno alla piena occupazione – ricordiamo che Mundell scrive peraltro nel 1961 quando questo impegno era prioritario in seguito alla sfida del modello socialista – implica politiche

espansive che, in particolare, farebbero crescere l’inflazione nelle sub-regioni in piena occupazione, e se l’elasticità al prezzo della domanda dei prodotti delle due regioni è elevata, ciò può condurre al riequilibrio.10

Confrontando i due casi, quello di nazioni che stringano accordi di cambio e quello di regioni all’interno di una medesima nazione, Mundell intravede dunque una tendenza deflazionistica nel primo caso e una inflazionistica nel secondo concludendo dunque che:

The optimum currency area is not the world. (ibid: 659)11

***

Potremmo esporre il ragionamento di Mundel in forma grafica (figura J). Lo shock di domanda di prodotti rispettivamente negativo per l’Italia e positivo per la Germania si manifesta della parte superiore della figura come uno spostamento verso sinistra della curva IS italiana e verso

9 Vedremo come un riequilibrio si possa avere non solo con politiche espansive da parte delle regioni più competitive, ma anche con trasferimenti inter-regionali

10 Ciò non è detto, come ben sappiamo dall’esistenza di fenomeni di persistente arretratezza economica come nel Mezzogiorno d’Italia.

11 Un problema delle UM che è meno notato è quello del cambio esterno dell’UM, vale a dire verso paesi terzi. Come nota Meade (1957: 387) e sopratutto Fleming (1971: 469), i paesi membri di una UM potrebbero avere interessi divergenti circa il tasso di cambio esterno. I paesi con surplus commerciali esterni potrebbero per esempio osteggiare la richiesta di una

svalutazione/deprezzamento del cambio da parte dei paesi in disavanzo. Tale situazione è certamente parte delle attuali criticità dell’Eurozona.

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destra di quella tedesca.12 Dato il comune tasso di interesse, l’output cade in Italia e aumenta in Germania. Nella parte inferiore sono mostrate le curve di Phillips (le rette tratteggiate che legano i livelli di reddito nella parte superiore del grafico ai tassi di disoccupazione nella parte inferiore sono solo indicativi di un collegamento: tanto più alto è il reddito tanto minore il tasso di

disoccupazione). Al principio i due paesi hanno il medesimo tasso di inflazione ˆp . In seguito allo 0 shock asimmetrico il tasso di inflazione tende a diminuire in Italia e ad aumentare in Germania. Se questo accade, il livello relativo dei prezzi fra i due paesi si riaggiusta in maniera tale che il tasso di cambio reale dell’Italia diminuisce, vale a dire essa riacquista competitività (per esercizio lo si verifichi guardando alla formula er = enpI/pG). Con la ripresa delle esportazioni italiane e con la diminuzione di quelle tedesche le funzioni IS torneranno nelle loro posizioni originarie.13 Il tasso di inflazione torna il medesimo – ma durante il periodo in cui v’è stato un differenziale di inflazione i prodotti italiani sono diventati stabilmente più competitivi di quelli tedeschi.

12 La posizione nello spazio della funzione IS dipende, com’è noto, anche dal livello delle esportazioni.

13 Per semplicità ci riferiamo qui e altrove al caso di due paesi. Attraverso la deflazione dei prezzi peggioreranno le ragioni di scambio per il paese in disavanzo il quale dovrà cedere una quantità maggiore dei propri beni esportati (ceduti a un prezzo minore) in cambio della medesima quantità di beni dal paese in surplus. Questo comporta naturalmente una caduta del reddito reale nel paese in disavanzo che dovrà rinunciare a consumare parte dei beni che produce per accrescere, appunto, la quantità di beni da cedere al paese in avanzo.

(8)

i i

IS0 IS1

i0

IS1 IS0

YI YG

IG

1G

0I G0

p ˆ1I

uI uG

Figura J

1.1.2. Aggiustamenti asimmetrici e tendenze deflazionistiche in un’unione valutaria

In un importante contributo Fleming (1971) concorda con la conclusione di Mundell, da un lato, circa una tendenza deflazionistica in aree valutarie in cui la conduzione della politica monetaria e fiscale non sia coordinata al sostegno della piena occupazione nell’insieme dell’area e, dall’altro, circa una tendenza inflazionistica laddove tale coordinamento e sostegno si manifestasse (ibid: 481- 2).

Considerando il primo caso di Mundell, quello di un’unione valutaria fra paesi, Fleming (1971) ritiene che alla base degli squilibri vi possano essere i differenti tassi di inflazione associati ai livelli di piena occupazione nei diversi paesi membri (ibid: 468-9). In altri termini ciascun paese membro potrebbe avere una differente curva di Phillips (a parità di u, i tassi d’inflazione possono essere diversi). Politiche di mantenimento della piena occupazione, poiché associate a variazioni nei tassi di cambio reali e a squilibri nella competitività relativa fra paesi, richiederebbero flessibilità nei cambi nominali. In loro assenza e data la rigidità verso il basso che prezzi e salari mostrano

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nelle moderne economie (ibid: 471) appare, tuttavia, difficile affidare l’aggiustamento alla

flessibilità dei prezzi e salari nei paesi in disavanzo. In assenza di un atteggiamento “cooperativo”

dei paesi in avanzo, ciò implica che i paesi in disavanzo si troveranno con persistenti tassi di disoccupazione indesiderati (in modo da rendere il proprio tasso di inflazione simile a quello dei paesi più virtuosi nella relazione disoccupazione /inflazione espressa nella curva di Phillips) (ibid:

481-2).

Si suppongano due paesi (Italia e Germania). In un sistema di cambi flessibili, supponendo che i prezzi nei due paesi debbano essere i medesimi, ovvero pG enpI, dove en è il tasso di cambio nominale (DM per una £), si ha:

I G

n p p

eˆ  ˆ  ˆ ,

dove pˆ  p/p è il tasso di inflazione.

Se pˆI  pˆG, eˆ = 0, ovvero il cambio nominale è stabile. n

Se pˆI  pˆG , con cambi flessibili l’Italia manterrà la competitività di prezzo se eˆ < 0, vale a dire n se il cambio lira/DM deprezza (meno DM per una lira, ovvero più lire per un DM). In un sistema di cambi fissi saranno i prezzi italiani (ed eventualmente anche quelli tedeschi) a doversi aggiustare.

Tutto questo può essere anche visto utilizzando il concetto di tasso di cambio reale. Se pI epG, il tasso di cambio reale er =

G I n

p p e

ˆ

ˆ è uguale a 1. Se i prezzi italiani aumentano più di quelli tedeschi,

a parità di cambio nominate er aumenta e l’Italia perde competitività. Nell’EMU, in particolare, e = 1. Per questa ragione paesi aderenti a una unione monetaria sono vincolati a un medesimo tasso di inflazione. Questo ci rimanda a due determinanti dei prezzi, andamento dei salari nominali e andamento della produttività.

Ricordando la determinazione dei prezzi via mark-up ( ) per cui  (1) q

p w , dove q è il

prodotto per lavoratore ( q = Y/N).14 w/q è il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP o unit labout cost)

Applicando le derivate logaritmiche per ciascun paese otteniamo:

G G G

I I I

q w p

q w p

ˆ ˆ ˆ

ˆ ˆ ˆ

14 In pratica il prezzo è fissato applicando al costo del lavoro per unità di prodotto w/p (CLUP o unit labour cost ULC) un ricarico  .

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q q q dt dq

qˆ ( / )/  / è il tasso di variazione della produttività (prodotto per lavoratore), wˆ w/w è il tasso di variazione dei salari nominali e pˆ  p/p è il tasso di inflazione. Le equazioni

definiscono i tassi di variazione dei prezzi che, dato il tasso di variazione dei salari nominali e della produttività, mantengono costante la quota dei profitti sul reddito (infatti:  1w / pq ). Per esempio, se qˆ= 2% e wˆ= 5%, ne segue che pˆdeve essere pari al 3%. Se invece qˆ = wˆ ne risulta

pˆ = 0.

Supponendo che qˆG qˆI, allora pˆI  pˆG implica wˆI wˆG. Se qˆG qˆI, allora pˆI  pˆG implica

G

I w

wˆ  ˆ , ovvero

w ˆ

I

 q ˆ

IQueste condizioni vanno rispettate altrimenti una unione monetaria porterebbe a squilibri esterni alla lunga insostenibili. Come visto sopra, Fleming è al riguardo piuttosto pessimista.

Supponendo invece che in Italia si abbia wˆI  . mentre in Germania qˆIGqˆG, in Italia si avrà pˆ costante mentre in G I pˆ diminuisce sottraendo competitività all’Italia. Questa a detta di G alcuni è stata la condotta tedesca negli anni dell’UME. L’obiettivo di inflazione media europea era del 2% mentre la Germania, anche in virtù di importanti riforme del mercato del lavoro, è riuscita a mantenersi costantemente al di sotto. Naturalmente quello del 2% non era un criterio che Trattati europei chiedevano ai paesi esplicitamente di rispettare, ma secondo alcuni economisti era pur tuttavia implicito laddove si fosse voluta assicurare un’esistenza armonica dell’UME.

Per saperne di più:

http://www.rosalux.de/fileadmin/rls_uploads/pdfs/Studien/Studien_The_systemic_crisis_web.pdf

Lettura: da Fleming (1971)

disequilibrium might arise because differences between participants in the strength of trade unionism, in national attitudes to full employment or inflation, or in the rates of productivity growth, led to differences in the rates at which wage costs tend to rise at the nationally preferred levels of unemployment.

If the participating countries remained free to meet incipient disequilibria by altering their exchange rates relative to each other and to outside countries they would be able, by non-recurrent or by repeated adjustments of par values, to maintain or restore payments equilibrium while preserving levels of aggregate demand compatible with the nationally preferred com-promises between full employment and price stability. If, however, such adjustments were precluded by adherence to a group with fixed relative exchange rates, then, if the external payments and receipts of the group as

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a whole were kept in balance through suitable adjustments of the uniform exchange rates,

participants in a relatively weak payments position would tend to be in overall payments deficit, and those in a relatively strong position would tend to be in overall surplus. The former, after they had exhausted their ability to run down reserves or to borrow, would be forced to tolerate, either temporarily or even (in the case of dynamic disequilibrium) indefinitely, a level of unemployment that was higher, and a rate of inflation that was lower, than would correspond to their preferred compromise between the two. The latter, on the other hand, might be compelled, through a technical inability to offset the effect of their surpluses on money stocks or flows, or through unwillingness to go on financing the accumulation of reserves by government borrowing from the private sector, to permit a rate of price inflation greater, and a level of unemployment lower, than would correspond to their preferred compromise between the two. (ibid: 468)

Where tendencies towards progressive relative disequilibrium existed within a unified exchange rate area because some of the participating countries had more favourable unemployment/inflation relationships than others, the following situation would tend to emerge and persist. Much the same rate of price inflation would prevail over the area as a whole, a rate somewhat higher than that preferred by the surplus members. The deficit members would be able to keep their rates of

inflation down to the common level only by tolerating indefinitely a level of unemployment higher than they would prefer if they were free to change their exchange rates and adopt their preferred positions on the unemployment/inflation curve. (ibid: 469).

…the fixation of exchange rates among a group of countries will probably worsen the

unemployment/inflation relationship for the area as a whole. That is, it will increase the amount of unemployment required to hold inflation at any given rate, and will increase the rate of inflation corresponding to any given level of unemployment. It does not follow that both inflation and unemployment must necessarily rise. In any arrangement in which the maintenance of a fixed exchange rate is given overriding priority the countries in payments surplus can usually maintain the rate by accumulating reserves while those in payments deficit may lack the reserves to spend in maintaining the rate. So long as demand management remains a national responsibility, and any balance of payments assistance among members is held to modest proportions, therefore, the deficit rather than the surplus countries are likely to have to assume the greater part of the burden of

removing the payments disequilibria by adapting the level of demand. The surplus countries may be able to stay fairly close to the preferred point on their employment/inflation curves while the deficit countries may have to depart considerably from theirs in a deflationary direction. In this event, the entire worsening in the unemployment/ inflation relationship in the area as a whole may take the form of increased unemployment, and the average rate of inflation in the area may decline. …

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What has been said above about the disinflationary effects to be expected from adherence to a fixed exchange rate area is true only so long as it operates in a decentralised fashion without too generous arrangements for financial assistance from surplus to deficit countries and without effective

centralisation of monetary and budgetary policies. Should such centralisation prevail, the anti- inflationary tendencies inherent in fixed parities may be offset or even outweighed by expansionary action on the part of the central authorities. Mere fixity of exchange rates, as we have seen, would be likely to force the deficit countries within the area to pursue policies involving more

unemployment and less inflation (or more deflation) than they would voluntarily have adopted in the absence of payments difficulties. In these circumstances it would not be unreasonable for any central monetary or financial authority to expand demand to a point at which the " surplus "

countries were suffering as much from unwanted inflation as the deficit countries from unwanted unemployment. (ibid: 481-2).

Alla luce delle tendenze deflazionistiche che un’unione valutaria può comportare per i paesi in disavanzo e che, da ultimo, si trasmette all’intera area valutaria,15 non sorprende dunque che

Mundell abbia accostato le tendenze deflazionistiche di un’unione valutaria a quelle del gold standard. In questo senso Mundell argomenta come:

many economists blamed [the gold standard] for the world-wide spread of depression after 1929. But if the arguments against the gold standard were correct, then why should a similar argument not apply against a common currency system in a multiregional country? Under the gold standard depression in one country would be transmitted, through the foreign-trade multiplier, to foreign countries. Similarly, under a common currency, depression in one region would be transmitted to other regions for precisely the same reasons. If the gold standard imposed a harsh discipline on the national economy and induced the transmission of economic fluctuations, then a common currency would be guilty of the same charges… (Mundell 1961:

660)

Questo passo è importantissimo perché mostra che l’assimilazione al gold standard di una UM mal concepita - senza cioè le istituzioni che ne correggano le possibili problematiche negative – risale a Mundell 1961. 16

15 La deflazione nei paesi in disavanzo comporta infatti una diminuzione del commercio internazionale svantaggiando così anche i paesi in surplus.

16 Mundell segnala una differenza fra il gold-standard (e anche un sistema di cambi fissi) e una unione monetaria: in quest’ultima la nazione/regione deficitaria non soffre di crisi di liquidità (perdita di oro o di riserve internazionali convertibili in oro) in quanto le banche possono affidarsi alla creazione di liquidità da parte della banca centrale (come fa, come vedremo, l’Eurosistema).

Ma ciò, dice Mundell, non cambia l’essenza della questione, ovvero il fatto che alla lunga il paese deficitario deve aggiustare i propri conti esteri: “It is true, of course, that interregional liquidity can always be supplied by the national central bank, whereas the gold standard and even the gold- exchange standard were hampered, on occasion, by periodic scarcities of internationally liquid

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Da notare come lungi da credere ciecamente nelle virtù taumaturgiche della flessibilità dei prezzi e salari nel paese deficitario, e a maggior ragione se questo è costretto a manovre recessive sulla domanda aggregata, il Mundell “più keynesiano” dei primi anni 1960 cita il “foreign-trade multiplier” come meccanismo di trasmissione internazionale della recessione.17 Torneremo sull’assimilazione al gold standard dell’unione monetaria.

Box – I costi della deflazione

Sia Mundell che Fleming sembrano riporre fiducia nella potenziale flessibilità di prezzi e salari nel riaggiustare l’equilibrio in un’unione valutaria fra due paesi. In questo essi sembrano trascurare gli effetti negativi della deflazione nel paese in disavanzo. Tali effetti negativi si manifestano in svariati modi:

- il valore reale dei debiti di famiglie e imprese aumenta, incluso il valore reale del debito estero se va restituito al cambio fisso. Ciò induce i soggetti indebitati – che vedono diminuire i propri introiti nominali, ma non il valore nominale del servizio del debito – a stringere la cinghia, aggravando la spirale recessiva.

- quando i prezzi cadono famiglie e imprese pospongono gli acquisti in attesa di prezzi più bassi.

- tassi di inflazione bassi o negativi accrescono il saggio reale di interesse scoraggiando la spesa finanziata dal credito.

La deflazione implica così ulteriore contrazione del mercato interno e ciò comporta la perdita di economie di scala e di produttività anche per le imprese esportatrici, costrette a un confronto impari con le imprese dei paesi in surplus.

Si veda al riguardo il bell’articolo di Fernando Vianello

http://politicaeconomiablog.blogspot.it/2013/11/krugman-e-vianello-sulla-deflazione.html

assets; but the basic argument against the gold standard was essentially distinct from the liquidity problem.” (660). Circa la distinzione fra sistema a cambi fissi e unione monetaria, v. Cesaratto 2013 mimeo (T2).

17 Livello del prodotto (e relativo tasso di crescita) in un paese sono vincolati nel lungo periodo al rispetto del pareggio della bilancia dei pagamenti (per evitare un crescente indebitamento estero).

Secondo l’approccio Kaldor-Thirlwall, l’ammontare e tasso di crescita delle esportazioni vincola in tal modo livello e tasso di crescita del prodotto. Dal modello:

M = mY E = E

E = M (equilibrio commerciale)

si deriva Y = E /m (moltiplicatore del commercio estero), ovvero Y  . Nel caso di più paesi, E politiche deflative in un paese B si ripercuotono sul paese A che vede calare le proprie esportazioni.

(14)

1.1.3. Shock asimmetrici in un’unione valutaria: un’esposizione più standard (DG) Un’esposizione più standard del modello di Mundell utilizza l’apparato convenzionale delle curve AS-AD (v. per esempio De Grauwe 2013, cap. 1). Si supponga che Francia e Germania formino un’unione monetaria (fig. M). Uno shock asimmetrico sposta la domanda di prodotti dalla F verso la G (per esempio a causa di un mutamento dei gusti o un’innovazione nei prodotti tedeschi).

PF PG

AD1 AD0 AS AD0 AD1 AS

P0

YF YG

F1

Y YF0 YG0 YG1 Fig. M

Assumendo che vi sia piena occupazione si genera un aumento della disoccupazione in Francia e inflazione in Germania. L’aggiustamento può avvenire attraverso una variazione dei salari relativi:

wF diminuisce e wG aumenta per cui le funzioni AS si spostano – quella della Francia verso il basso e quella della Germania versi l’alto - sino a ristabilire il livello iniziale dei rispettivi redditi e

l’equilibrio commerciale (quest’ultimo non visibile nella figura K).

(15)

PF PG

PG1 EG AS1 AS0

AD1 AD0

P0 E E

PF1 EF

AS0 AS1 AD0 AD1

YF0 YG0

Fig. K

Il prezzo dei prodotti francesi è diminuito e quello dei prodotti tedeschi aumentato per cui la Francia ha perso ragioni di scambio con la Germania.

La ragione di scambio è data dal tasso di cambio reale.

G F n

r P

P e  e

A parità di tasso nominale, se PF diminuisce, i francesi dovranno cedere più prodotti in cambio della medesima quantità di merci tedesche.

L’equazione del tasso di cambio reale mostra come tale riaggiustamento nelle ragioni di scambio sia alternativamente ottenibile con un mutamento del tasso di cambio nominale

(impossibile però in una unione valutaria).

1.1.4. La flessibilità del cambio è davvero efficace?18

Nel saggio di Mundell – e in genere nella letteratura originaria sulle OCA – c’è fiducia che

mutamenti del tasso di cambio reale, ottenuti via svalutazione interna (deflazione di prezzi e salari nel paese in deficit)19 o esterna (via variazioni del tasso di cambio nominale) possa ripristinare

18 Vedi anche Dominik Salvatore (2016), cap. 20.

19 Come sopra illustrato, la deflazione nel paese in disavanzo (o la svalutazione esterna) sarà tanto minore quanto più il paese in avanzo lascia espandere la propria domanda interna e inflazione.

(16)

l’equilibrio. Spesso con riferimento al classico articolo di Friedman 1953, la svalutazione esterna è tuttavia ritenuta più efficace della svalutazione interna:20

In the international trade example, if demand shifts from the products of country B to the products of country A, a depreciation by country B or an appreciation by country A would correct the external imbalance and also relieve unemployment in country B and restrain inflation in country A. This is the most favourable case for flexible rates based on national currencies. (Mundell 1961: 659)

Nei termini della fig. J (sopra), l’aggiustamento del cambio fra Italia e Germania ripristinerebbe le funzioni IS loro posizione originaria, ovvero nei termini della fig. M (sopra) le funzioni AD nella loro posizione iniziale.

Il dibattito fra gli economisti è da sempre molto vivo sugli effetti degli aggiustamenti di cambio. Coloro che ritengono che tali aggiustamenti siano inefficaci nel lungo periodo basano tale conclusione sul fatto che l’aumento del prezzo dei beni importati che consegue a un

deprezzamento/svalutazione della valuta può determinare un aumento dei salari monetari, volto al recupero del potere d’acquisto, tale da annullare i vantaggi dell’aggiustamento.21 Viene talvolta citata l’esistenza sempre maggiore delle “catene globali del valore”, per cui un prodotto del paese X ha un fortissimo contenuto di componenti provenienti dal paese Y, Z ecc. Per cui una svalutazione della divisa del primo paese rispetto agli altri comporterebbe un aumento dei costi di produzione del prodotto in oggetto. Nel caso dell’Italia, tuttavia, c’è da chiedersi se questo argomento, forse valido per le grandi imprese multinazionali, si applichi al tessuto delle piccole e medie imprese.

20 Si osservi che sebbene una svalutazione esterna conduca in genere a un aumento dell’inflazione a causa dell’aumento di prezzo in moneta nazionale dei beni importati, questo diminuisce il valore reale dei debiti interni (che sono denominati in valuta nazionale), e non lo accresce come nel caso della svalutazione interna. Si accresce però il valore reale dei debiti esterni se denominati in valuta estera.

21 Gli effetti benefici degli aggiustamenti sulla competitività di prezzo possono naturalmente essere insufficienti a compensare gli svantaggi sulla qualità dei prodotti esportati. Se però l’iniziale svantaggio competitivo del paese in disavanzo è stato causato da un suo più elevato tasso di inflazione (e non da uno svantaggio relativo alla concorrenzialità nella qualità dei prodotti), l’aggiustamento di cambio può essere, ceteris paribus, efficace. Nel caso dell’Italia negli anni dell’euro, per esempio, si potrebbe ritenere che la sua perdita di competitività sia stata soprattutto dovuta al suo zoccolo inflazionistico rispetto ai concorrenti piuttosto che all’obsolescenza del mix produttivo (che, seppur concentrato in settori tradizionali, ha anche aspetti di innovatività, design, ecc) o ad andamenti divergenti della produttività, almeno nei periodi in cui la domanda aggregata non l’ha sostenuta. Si può anche ritenere che in caso di shock relativi a linee di prodotto che diventano meno richieste, una svalutazione possa comunque rafforzare la competitività delle linee di prodotti ancora concorrenziali.

(17)

Gli effetti della svalutazione sulla competitività si manifestano se c’è almeno una parziale illusione monetaria, per cui i salari nominali adeguano solo parzialmente all’aumento dei prezzi dei beni importati. Secondo Mundell tale illusione monetaria è meno probabile per paesi piccoli i quali mostrano in genere un’incidenza maggiore delle importazioni sul reddito rispetto ai paesi grandi.

Questo implica che gli effetti di una svalutazione su prezzi e salari reali sarebbero più percepibili dando più probabilmente luogo a fenomeni di resistenza salariale, annullando i vantaggi

concorrenziali della svalutazione stessa:

The thesis of those who favour flexible ex-change rates is that the community in question is not willing to accept variations in its real income through adjustments in its money wage rate or price level, but that it is willing to accept virtually the same changes in its real income through variations in the rate of exchange. In other words it is assumed that unions bargain for a money rather than a real wage, and adjust their wage demands to changes in the cost of living, if at all, only if the cost-of-living index excludes imports. Now as the currency area grows smaller and the proportion of imports in total consumption grows, this assumption becomes increasingly unlikely. It may not be implausible to suppose that there is some degree of money illusion in the bargaining process between unions and management (or frictions and lags having the same effects), but it is unrealistic to assume the extreme degree of money illusion that would have to exist in small currency areas. (Mundell 1961: 663)

Pur dando credito a questi argomenti, coloro che propugnano l’efficacia degli aggiustamenti di cambio ne sostengono l’efficacia proprio per aggirare l’inflessibilità di prezzi e salari che rende la svalutazione interna non percorribile se non al prezzo di un’aumento della disoccupazione tale da piegare la resistenza alla diminuzione dei salari nominali. Così per esempio Milton Friedman nel suo classico saggio del 1953:

If internal prices were as flexible as exchange rates, it would make little economic difference whether adjustments were brought about by changes in exchange rates or equivalent changes in internal prices. But this condition is clearly not fulfilled. The exchange rate is potentially flexible in the absence of administrative action to freeze it. At least in the modern world, internal prices are highly inflexible. They are more flexible upward that downward, but even on the upswing all prices are not equally flexible. The inflexibility of prices, or different degrees of flexibility, means a distortion of adjustments in response to changes in external conditions. The adjustment takes the form primarily of price changes in some sectors, primarily of output changes in others.

Wage rates tend to be among the less flexible prices. In consequence, an incipient deficit that is countered by a policy of permitting or forcing prices to decline is likely to produce

unemployment rather than, or in addition to, wage decreases. The consequent decline in real income reduces domestic demand for foreign goods and thus demand for foreign currency with which to purchase these goods. In this way it offsets the incipient deficit. But this is clearly a highly efficient method of adjusting to external changes. If the external changes are deep-seated and persistent, the unemployment produces steady downward pressure on prices and wages, and the adjustment will not have been completed until the deflation has run its sorry course. (Friedman 1953: 165).

(18)

E con una famosa metafora Friedman compara gli effetti di un aggiustamento del cambio al cambio dell’ora legale:

The argument for a flexible exchange rate is, strange to say, very nearly identical with the argument for daylight savings time. Isn’t it absurd to change the clock in summer when exactly the same result could be achieved by having each individual change his habits? All that is required is that everyone decide to come to his office an hour earlier, have lunch an hour earlier, etc. But obviously it is much simpler to change the clock that guides all than to have each individual separately change his pattern of reaction to the clock, even though all want to do so. The situation is exactly the same in the exchange market. It is far simpler to allow one price to change, namely, the price of foreign exchange, than to rely upon changes in the multitude of prices that together constitute the internal price structure. (ibid: 173).

Vianello (2005) così evoca la metafora la cui prima formulazione attribuisce a Irving Fisher:

“Una variazione del tasso di cambio è equivalente, dal punto di vista della concorrenzialità dei prodotti di un paese, a una variazione del livello generale dei prezzi. Sui costi sociali del tentativo di far diminuire i salari monetari e i prezzi, e su come essi possano essere evitati ricorrendo alla svalutazione della moneta, ha richiamato l’attenzione Keynes (1923). Irving Fisher ha paragonato la variazione dei tassi di cambio all’adozione dell’ora legale: come è assai più semplice mettere avanti di un’ora tutti gli orologi che convincere ciascun abitante del paese ad alzarsi un'ora prima la mattina, così è assai più semplice far variare il tasso di cambio che fare affidamento, per ottenere lo stesso risultato, sulla variazione di una moltitudine di prezzi e di redditi monetari (cfr. Fisher, 1923, p. 101).”

La metafora può così essere riformulata: la svalutazione interna è un modo di imporre l’ora legale solo ad alcuni, mentre la svalutazione esterna la impone a tutti.

Una risposta definitiva circa gli effetti degli aggiustamenti di cambio sulle bilance commerciali non può essere data. Si tratta di verificare caso per caso se la resistenza salariale all’aumento di prezzo dei beni importati sia o meno tale da annullare i vantaggi dell’aggiustamento di cambio. La svalutazione interna si baserebbe infatti su un meccanismo più certo per piegare la resistenza a una diminuzione dei salari reali, vale a dire l’aumento della disoccupazione.

1.1.5. Effetti della flessibilità del cambio: un’esposizione più standard (DG)

Consideriamo un equilibrio AS-AD per la Francia e supponiamo uno spostamento sfavorevole della AD per i prodotti francesi (fig. T). La AD si sposta verso basso-sinistra (punto B). Una svalutazione la potrebbe riportare nella posizione originaria (A). Quello che tuttavia accade è che aumenta il prezzo dei beni tedeschi importati e ciò comporta una diminuzione dei salari reali. Se i lavoratori francesi reagiscono chiedendo salari nominali più elevati, la AS si sposta in alto a sinistra annullando gli effetti della svalutazione (punto C).

(19)

PF

C AS

A

B AD

Y1 Y0 YF

Figura T

Il livello dell’output ritorna dunque al livello originario Y0, cioè l’economia ritorna nel punto A, solo se i lavoratori sono disponibili ad accettare una riduzione del salario reale che è implicita in una svalutazione. Quindi, da ultimo, sia la svalutazione interna che quella esterna conducono al riequilibrio commerciale se i salari reali cadono. Le conclusioni di De Grauwe (2013: 51) al riguardo ci sembrano pertinenti:

Pertanto, le condizioni necessarie per ristabilire il livello iniziale di output sono le stesse in entrambi i regimi [svalutazione interna o esterna]: i lavoratori … devono accettare la riduzione dei loro salari reali anche se è una soluzione difficile da adottare in entrambi i contesti. La domanda che sorge e la seguente: in quale regime questa condizione può essere soddisfatta nel modo più semplice e meno gravoso? In un mondo perfetto, privo di illusione monetaria, non c’è differenza. Se i lavoratori … si oppongono alla riduzione dei loro salari reali, lo faranno sia nel caso di unione monetaria sia nel caso di cambio flessibile. In entrambi i regimi sarà difficile ottenere la variazione del prezzo relativo e quindi ritornare al livello iniziale di output. Sennonché, in un mondo meno perfetto, i lavoratori affetti da illusione monetaria potrebbero contrastare la riduzione dei salari reali causata dalla diminuzione dei salari nominali più fortemente di quanto farebbero se la stessa riduzione fosse causata da un aumento nei prezzi (mantenendo costante il valore dei salari nominali). Pertanto, si può dire che in una realtà del genere, l’aggiustamento dello squilibrio creato da uno shock da domanda sarà molto più difficile e costoso, in termini di output sacrificato, nel caso di unione monetaria anziché nel caso contrario.

1.1.6. La mobilità del lavoro

Riprendendo le fila dell’esposizione di Mundell, egli ritiene dunque che mentre una UM fra due nazioni imprima una tendenza deflazionistica all’economia internazionale, una UM fra due regioni possa imprimere una tendenza inflazionistica (para. 1.1.1). L’analisi di Fleming portava a conclusioni analoghe.

(20)

Arriviamo ora al cuore della tesi di Mundell: se fra due nazioni/regioni pur disomogenee o colpite da eventi negativi asimmetrici v’è mobilità dei fattori produttivi (in particolare del lavoro), allora esse possono costituire una OCA. Supponiamo che il paese B subisca una riduzione della domanda internazionale per i propri prodotti. In luogo di una deflazione di prezzi e salari, o di politiche recessive,22 lavoratori si possono spostare dal paese B verso quello A. Sulla scorta della definizione di regione sopra enunciata, A e B costituiscono in verità una sola regione e, dunque:

The optimum currency area is the region. 660

Ma i lavoratori del paese B troveranno lavoro nel paese A? Un supplemento di spiegazione lo troviamo in un altro classico sulle OCA, Kenen (1969: 43). Supponendo che il paese A sia in piena occupazione (cosa che Kenen non specifica), la maggiore domanda per i prodotti di A si tradurrà in maggiore domanda di lavoro (eccesso di domanda di lavoro come s’usa dire) mentre nel paese B la minore domanda di lavoro si tradurrà in disoccupazione. Con perfetta mobilità del lavoro questi disoccupati muoveranno da B ad A dove troveranno occupazione. Ciò che accade non

sarebbe dissimile a quanto accadrebbe in un Paese singolo laddove, a parità di domanda aggregata, mutasse la composizione di quest’ultima a sfavore di una industria in declino e a favore di una in espansione: a parte il periodo di transizione, nel lungo periodo non si genererebbe disoccupazione poiché i lavoratori muoveranno da un settore all’altro.23

Ci si può ora domandare se l’UME è un’AVO sotto il profilo della mobilità del lavoro. La risposta tende a essere negativa in quanto sebbene la mobilità sia relativamente elevata per le figure professionali più alte, essa è più ridotta per motivi linguistici e culturali per le figure professionali più modeste. Gli Stati Uniti costituiscono invece sotto questo profilo un’AVO.

1.2. Sostenibilità di un’unione monetaria e diversificazione produttiva

Kenen (1969) aggiunge due elementi alla questione della sostenibilità di una OCA. Il primo è che se i membri di un’UM presentano strutture produttive molto diversificate, essa sarà meno soggetta a ripercussioni aggregate di primaria grandezza in seguito a mutamenti sfavorevoli della domanda per i prodotti di alcuni paesi (Kenen 1969: 49). Eventuali “shock asimmetrici” tenderanno cioè a

compensarsi fra loro nel tempo in quanto ora colpiranno un paese, ora l’altro, ed essendo inoltre

22 Il calo della domanda e delle importazioni dovuto alla minore domanda di prodotti nazionali può non essere sufficiente a ristabilire l’equilibrio commerciale: fare esempio.

23 Le due industrie potrebbero naturalmente utilizzare tecniche a diversa intensità di lavoro e questo potrebbe avere effetti sull’occupazione (Kenen 1969: 43-44)

(21)

ciascun paese molto diversificato gli effetti saranno relativamente minori. In questo senso i paesi più grandi sarebbero meglio predisposti rispetto ai più piccoli all’adesione a un’OCA.

Un’influente studio preparatorio all’unificazione monetaria predisposto dalla Commissione Europea (EU 1990) giudicò la probabilità di shock di domanda concentrati in un solo paese come improbabili. Secondo questa tesi la progressiva integrazione e l’aumento del commercio che seguirebbe l’unificazione monetaria porterebbe alla ricollocazione delle varie attività o di diverse fasi del ciclo produttivo nei paesi membri sì da accrescere la diversificazione e la resistenza shock asimmetrici. A questa tesi viene in genere contrapposta quella di Paul Krugman per cui l’esistenza di economie di scala porta alla concentrazione regionale di determinate attività (cioè a una divisione internazionale del lavoro).

La posizione della Commissione ha trovato sostegno nella tesi di Frenkel and Rose (1996) secondo cui la similarità fra gli stati membri si accrescerebbe proprio in seguito all’aumento del commercio che risulterebbe dall’unificazione. Per questa ragione questa tesi è stata definita teoria dell’”OCA endogena”. La questione è stata naturalmente molto dibattuta e criticata (De Grauwe 2013: cap. 2). In particolare gli effetti positivi attesi dell’unificazione monetaria sul commercio infra-EZ pare siano stati molto esagerati. Inoltre, alla luce di quanto vedremo in seguito, gli squilibri europei non sembrano essere tanto derivati da “shock asimmetrici” su singole produzioni, ma da

“shock asimmetrici” che hanno riguardato il complesso della domanda aggregata in questi paesi. Le politiche di “austerità” con cui l’EZ ha affrontato la crisi hanno successivamente comportato seri processi di “de-industrializzazione” nei paesi della periferia europea ragione per cui v’è da ritenere che in seguito a ciò la disomogeneità produttiva fra i paesi membri sia grandemente cresciuta.

Il secondo elemento introdotto da Kenen è illustrato nel prossimo paragrafo.

L’economista francese Artus si è domandato quali siano stati gli effetti della crisi sugli eventuali processi di convergenza all’interno dell’UME. Le sue valutazioni sono assai negative.

(vale la pena leggere tutto l’articolo: http://cib.natixis.com/flushdoc.aspx?id=70753). In assenza di trasferimenti fiscali, l’aggiustamento degli squilibri esterni fra le economie è stato effettuato via

“svalutazione interna”. La mortificazione della domanda interna che ne è seguita ha a sua volta determinato processi di deindustrializzazione e di emigrazione di forze di lavoro qualificate.

It is now well understood that the euro zone’s key problem is the structural heterogeneity of the member countries, combined with the lack of federalism. The disappearance of exchange-rate risk facilitated the various countries’ productive specialisation according to their comparative advantages, leading to an initial deindustrialisation of the peripheral countries to the benefit of the core euro-zone countries, mainly Germany.

(22)

From the creation of the euro until 2008, this led to increased external deficits among the peripheral countries, given their specialisation in services and construction; and the crisis broke out when their external debts became too large to be financed.

The lack of federalism means that no flows of public money or transfers have circulated between the member countries, from the countries posting a trade surplus to countries with trade deficits, in order to prevent external debts from accumulating and a crisis. It also means that the troubled countries have not benefited from any support for job creation or reindustrialisation.

One could then think that the crisis could have corrected part of the heterogeneity. The most troubled countries are experiencing a decline in their wages and an improvement in their competitiveness, due to declining activity and rising unemployment (which we have decided to call

"internal devaluations"). This should have enabled them to attract new investments, regain market shares, and should therefore have made the euro zone more homogenous.

But the effect of the euro-zone crisis on the zone’s economy has been completely different. The situation of the countries already facing problems with their external deficits and deindustrialisation has worsened and, accordingly, the heterogeneity of the euro zone has been made even worse instead of being corrected. In these countries, a significant decline in domestic demand has been required to wipe out the external deficits and stabilise the external debts, which could no longer increase. The decline in domestic demand and the resulting recession have led to a sharp rise in company bankruptcies, a marked deterioration in the situation of banks associated with a high level of interest rates and, accordingly, a massive decline in business investment.

As a result, industrial production capacity has declined drastically in these countries: the concentration of euro-zone industry in the core countries (Germany) has gathered momentum instead of correcting. Accordingly, the euro zone’s situation has worsened instead of improving: the heterogeneity has become more pronounced, and the deindustrialisation of the periphery to the benefit of the centre has gathered momentum, which for the time being condemns the peripheral countries to stagnating activity and impoverishment.

(23)

Moreover, given the migration of the labour force and young graduates within the euro zone, which previously was very low but has become substantial since 2011, the peripheral countries are

doomed to an unsustainable situation: hollowing-out of the economy and skilled youth leaving their

(24)

home countries, while the requirement to service the public and external debt remains unchanged, despite a productive base and a tax base that have contracted. This paints a very worrying picture, with the exception that it is beginning to be understood that Germany and the European authorities are apparently becoming more aware that the extreme heterogeneity towards which the euro zone is heading will be unsustainable without the implementation of stabilising mechanisms: joint

investments, pooling of elements of social welfare, European resolution funds for banking crises, support to young job seekers, discussions on a counter-cyclical euro-zone budget and on a fund to help structural reforms.

1.3. Unioni monetarie complete implicano un bilancio federale

Regioni con strutture produttive simili e ben diversificate e/o con facile mobilità del lavoro potrebbero dunque costituire una AVO. Quella dei trasferimenti fiscali fra regioni di un’unione valutaria è una terza possibilità per rendere sostenibile un’UM. Una struttura di trasferimenti fiscali fra regioni più ricche verso le regioni più disagiate implica un bilancio federale. Questo agisce in due modi.

(a) Nel caso di uno shock asimmetrico, l’area svantaggiata verserà meno contributi al bilancio federale mentre vedrà probabilmente accrescere i trasferimenti a suo favore (sussidi di disoccupazione per esempio). L’opposto accade nella regione in surplus. Questo allevia i costi dell’aggiustamento (via salari o mobilità del lavoro). De Grauwe (DG) definisce questo sistema una sorta di assicurazione pubblica. Gli economisti “mainstream” individuano una difficoltà nell’instaurare questo tipo di assicurazione reciproca, difficoltà basata sul rischio di “moral hazard” da parte dei paesi colpiti negativamente da shock asimmetrico. La regione svantaggiata, una volta sussidiata, potrebbe infatti non effettuare gli aggiustamenti

“strutturali” – come le famose riforme, vale a dire le liberalizzazioni del mercato del lavoro che favoriscono l’aggiustamento dei salari reali.

(b) Gli squilibri fra paesi o regioni di un’UM potrebbero avere natura strutturale, cioè derivare da un ritardo storico nel loro sviluppo rispetto ai paesi più avanzati piuttosto che da shock asimmetrici. Per costituire una AVO un’UM dovrebbe dunque idealmente dotarsi di

trasferimenti strutturali (cioè durevoli nel tempo) per accelerare lo sviluppo industriale delle aree in ritardo (per esempio sostenendo investimenti, infrastrutture, istruzione e ricerca ecc.). Queste aree – definiamole periferiche - saranno peraltro anche le meno diversificate, e spesso con tassi di inflazione più elevati rispetto a quelle più sviluppate – definiamole

(25)

centrali o “core”.24 Per questa ragione essa saranno anche più esposte a shock asimmetrici o a sopravvalutazione del tasso di cambio reale.

1.3.2. Bilancio federale e trasferimenti fiscali in Europa e negli Stati Uniti

A confronto con gli Stati Uniti, il bilancio federale europeo è minuscolo sebbene le differenze nel reddito pro-capire fra i paesi europei siano ben superiori a quelle fra gli Stati americani. Una prima tavola tratta da Barba e De Vivo (2013) mostrano come negli Stati Uniti sia i bilanci degli Stati ed enti locali che quello federale si collochino su valori cospicui in rapporto al Pil con un bilancio federale più ampio in rapporto al Pil di quelli locali. Dotati di un bilancio federale, la politica fiscale americana ha potuto aggredire la crisi a livello federale. All’opposto, il bilancio comune dell’UE non raggiunge l’1% del Pil comunitario, a confronto di bilanci nazionali di dimensione cospicua.

Le due tavole successive mostrano i trasferimenti netti pro-capite negli Stati Uniti a confronto con l’UE (in altre parole se in termini pro-capite un singolo Stato è beneficiario o datore netton nella redistribuzione inter-regionale). La lettrice può osservare la scala dei trasferimenti misurati in migliaia di dollari nel primo caso e centinaia di euro nel secondo.

24 In queste dispense l’origine dell’inflazione è vista nel conflitto distributivo. Questo è talvolta più esacerbato in economie meno sviluppate dove le risorse da spartire sono più limitate, e più sotto controllo in quelle più ricche dove le risorse sono più ampie.

(26)

Nel loro ottimo articolo Barba e De Vivo (2013) esaminano la questione degli squilibri regionali nell’Eurozona a confronto con quelli degli Stati Uniti osservando come:

(27)

a) Le differenze nel reddito pro-capite fra gli Stati membri sono più significative nell’EZ rispetto agli USA (sebbene la diseguaglianza fra i cittadini sia in genere maggiore negli USA, com’è noto).

b) Negli Stati Uniti il governo Federale effettua una significativa azione perequativa nei livelli del reddito pro-capite fra i diversi Stati, azione che in Europa viene sostanzialmente

condotta solo all’interno degli Stati fra le rispettive regioni.

Da un punto di vista analitico (Barba e De Vivo 2013) è importante osservare come l’azione perequativa inter-regionale svolta dal settore pubblico non vada meramente considerata come un dono delle regioni più affluenti a favore di quelle più svantaggiate. La spesa pubblica torna infatti come domanda di prodotti rivolta principalmente alle regioni più ricche.25 In questo senso non si tratta di uno scambio di “qualcosa in cambio di nulla”, ma di uno scambio di “qualcosa per qualcosa”. La spesa pubblica perequativa fra regioni genera infatti un aumento delle esportazioni nelle regioni più ricche e un aumento delle entrate fiscali (o dei risparmi destinati all’acquisto dei titoli pubblici se la spesa è in disavanzo), essa dunque si “autofinanzia”. Ma lascia anche un aumento di reddito e occupazione che non si sarebbe verificato senza quella spesa.

Questa forma di finanziamento degli squilibri commerciali dentro un’area valutaria comune è anche superiore al finanziamento privato via movimenti di capitale che lascia un’eredità di posizioni debitorie dei membri in disavanzo che può sfociare in una crisi finanziaria. Vale a dire, in alternativa ai trasferimenti fiscali, i membri più svantaggiati di una UM possono finanziare i loro disavanzi esterni indebitandosi coi paesi più forti. Questo può tuttavia sfociare in una crisi debitoria, come vedremo essere successo proprio in Europa.

1.3.1. Fiscal capacity

Sponsorizzato dall’allora Presidente del Consiglio Europeo, Herman Van Rampuy, nel novembre-dicembre 2012 si è discusso a livello europeo di un budget europeo in esclusiva funzione anti-ciclica e di dimensione ridotta, comunque più vicina alla proposta di un budget assicurativo federale contro disturbi asimmetrici che a un bilancio federale. Quest’ultimo implica trasferimenti volti a perequare le condizioni socio-economiche fra le regioni, oltre che a

25 I trasferimenti fiscali possono essere visti:

a) Come perequativi di squilibri commerciali che maturano con l’Unione Monetaria;

b) Come funzione perequativa dei redditi pro-capite fra regioni pur in presenza di un equilibrio commerciale fra di esse; in questo caso sono proprio i trasferimenti che, accrescendo il potere d’acquisto nelle regioni più disagiate generano uno squilibrio commerciale. La bilancia dei pagamenti (le partite correnti) fra regioni ricche e povere rimane tuttavia in pareggio essendo il disavanzo commerciale compensato dai trasferimenti.

(28)

svolgere funzione assicurativa in caso di shock asimmetrici. Tale fondo europeo è stato

denominato “fiscal capacity”. Al tempo della discussione la Germania riteneva accettabile una fiscal capacity attorno fra lo 0,2% e lo 0,3% del Pil europeo, mentre la Francia sosteneva una dimensione fra l’1,5% e il 2%. Le fonti di finanziamento di tale fondo non furono discusse approfonditamente, se non per menzionare la tassa sulle transazioni finanziarie (la famosa

“Tobin tax”), un deus ex machina dalla dubbia efficacia e che viene evocato quando si vogliono finanziare iniziative europee senza spaventare i contribuenti. Fu anche detto che una fiscal capacity europea di sostegno a shock asimmetrici già esisteva nell’European Stability

Mechanism (di cui ci occuperemo più avanti), un istituto a capitale europeo che può emettere titoli a sostegno di Stati in difficoltà. Van Rampuy sostenne che, tuttavia, mentre lo ESM è uno strumento per le emergenze, la fiscal capacity doveva essere un intervento per squilibri più di routine. Comunque, i tedeschi si sono alla fine intimoriti che tale fondo potesse essere il principio di un vero bilancio federale di base alla temuta “transfer union”, cioè una struttura significativa di trasferimenti inter-regionali, per cui non se n’è fatto nulla. Negli ultimi mesi se n’è cominciato a riparlare, e probabilmente in autunno dopo le elezioni tedesche qualcosa del genere sarà rimessa nell’agenda europea.

 Aggiornamenti sul dibattito europeo su Chi non rispetta le regole (cap. 4)

1.4. Perdita della sovranità monetaria e bilancio pubblico

I teorici delle AVO avevano avvertito circa i pericoli di un’UM europea. Un elemento sembra essere tuttavia sfuggito ai più: la perdita della sovranità monetaria ha delle forti implicazioni sulla sostenibilità dei bilanci pubblici. Per ciò che mi consta, solo alcuni economisti legati alla cosiddetta Modern Monetary Theory (come Randall Wray e Stephanie Kelton) avevano per tempo avvertito circa queste conseguenze. Solo a crisi europea già ben avviata economisti come Paul de Grauwe, probabilmente orecchiando queste tesi, hanno cominciato a sostenere tesi simili.

Fondamentalmente l’idea è che nessun governo può fallire fintanto che esso possiede una banca centrale sovrana disponibile a finanziare il rinnovo del debito pubblico. Vedremo come nella crisi europea la BCE abbia svolto la sua tradizionale funzione di “prestatore di ultima istanza” (lender of last resort) nei confronti delle banche, ma solo in ritardo (col QE) nei riguardi dei debiti sovrani.

Vale la pena offrire una lunga citazione da De Grauwe (2013: 19-20) che confronta casi del Regno Unito (fuori dell’UME) e della Spagna (dentro l’UME) e spiega perché i tassi sui titoli pubblici possano differire:

“il governo inglese, non potendo trovare i fondi per rinnovare il debito a tassi di interesse ragionevoli, costringerebbe certamente la Banca d’Inghilterra a fornire i contanti per

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