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QUADRO TEORICO DELL’INDAGINE

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Academic year: 2021

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PRIMO CAPITOLO

QUADRO TEORICO DELL’INDAGINE

1.1 Il rapporto tra consumo e identità

Il consumo e l’identità, come mostrato da un gran numero di studi, sono in una certa misura collegati.

I consumatori possono potenzialmente identificarsi con una varietà infinita di etichette categoriche: l’identità è definita da Reed II e colleghi [2012, p.312] come “una qualsiasi etichetta categorica alla quale un consumatore si auto-associa per scelta o per dotazione”. Alcune identità sono relativamente stabili e “oggettive” (madre, amico, italiano), mentre altre possono essere più transitorie e “soggettive” (Repubblicano, atleta, avvocato). Un’etichetta categorica – continuano gli autori – diventa un’identità una volta che il consumatore ha iniziato a incorporarla nel suo senso di sé e ha intrapreso il processo di diventare quel tipo di persona.

L’identità influenza le scelte dell’individuo, tra cui certamente ricadono le scelte di consumo. Le persone sono infatti motivate ad agire in maniera coerente alla propria identità (identity-based motivation): i comportamenti congruenti con l’identità sono percepiti come giusti, quelli non congruenti come sbagliati e quindi da evitare [Oyserman 2009].

La teoria dell’identità sociale, proposta da Tajfel & Turner [1979], sostiene che l’identità è costituita da due componenti: l’identità personale e l’identità sociale. L’identità personale corrisponde al senso di sé dell’individuo, e si riferisce ad auto-descrizioni che si basano su caratteristiche puramente individuali (per esempio “sono una persona amichevole”, “sono un amante del cinema”, “sono una persona generosa”). L’identità sociale è l’identità legata ai gruppi a cui l’individuo appartiene (per esempio “sono un uomo”, “sono un professore”, “sono un italiano”). L’intergroup bias (distorsione tra gruppi) è la tendenza a valutare il gruppo di appartenenza o i suoi membri in maniera più favorevole rispetto all’outgroup o ai suoi membri. A seconda del contesto in cui la persona si trova, si può attivare maggiormente una di queste due componenti dell’identità, che influenzerà il modo in cui l’individuo pensa, percepisce le cose e si comporta [White & Argo 2009, p.314].

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I beni che possediamo, come noto, hanno una funzione che spesso va oltre il loro aspetto meramente funzionale. Il ruolo creativo dei consumatori è stato di recente rivalutato: i consumatori acquistano un bene e possono assegnare a esso un valore simbolico, personalizzarlo, modificarlo, diffondere notizie riguardo a esso. L’identità influenza il consumo, ma è anche vero allo stesso tempo che il consumo influenza l’identità, perché i beni che possediamo ci permettono di costruire la propria identità e di comunicarla agli altri. Le marche permettono ai consumatori di soddisfare obiettivi rilevanti per la propria identità, come l’espressione di sé (self-expression) o la segnalazione della propria identità (identity-signaling). La prima si riferisce all’utilizzo di una marca perché coerente con la propria personalità (per cui un individuo compra una Jeep perché corrisponde alla visione che ha di se stesso, cioè quella di una persona dura); la seconda, come analizzeremo tra poco, si riferisce alla comunicazione di attributi non osservabili, come la rudezza, mediante un comportamento osservabile, come la scelta di una marca (per cui un individuo compra una Jeep per mostrare agli altri che è un tipo duro) [Kirmani 2009, p.272].

Belk [1988], in proposito, ha introdotto il concetto di extended self: i beni che possediamo diventano un’estensione di noi stessi, permettendo in qualche modo di costruire e comunicare agli altri la propria identità, venendo ad essere inclusi nel concetto di sé.

Il concetto di sé (anche detto visione di sé) può essere spiegato come l’insieme delle valutazioni e delle sensazioni dell’individuo relative a se stesso, che quindi concorrono a formare l’idea che una persona ha di sé. Il concetto di sé può influenzare il comportamento del consumatore, riguardo alla valutazione di alcuni prodotti, marche o punti di vendita: possiamo avere una valutazione positiva di una marca perché la consideriamo coerente con l’immagine che abbiamo e che vogliamo mostrare agli altri di noi stessi, oppure perché si adatta non alla nostra immagine attuale, ma a un concetto di noi stessi che vorremmo avere e proiettare agli altri. La differenza tra il sé ideale – come una persona vorrebbe essere – e il sé reale – come una persona è concretamente – è quella che spiega il desiderio e il bisogno dell’individuo [Dalli & Romani 2011, p.95– 97]. Una persona può anche avere più di un concetto di sé, a seconda dei suoi diversi ruoli sociali. La situazione in cui ci troviamo definisce come ci comportiamo – per esempio, una donna può avere un concetto di sé sul luogo di lavoro e presentarsi in maniera opposta al bar con gli amici – e questo comporta che il concetto di sé che una

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persona ha in un certo momento influenzi anche le scelte di acquisto [Dalli & Romani 2011, p.98].

1.2 Le minacce all’identità della marca e all’identità del consumatore

Una marca è “un nome, un termine, un simbolo, un design o una combinazione di questi elementi che identifica il produttore o il venditore di un prodotto o servizio” [Kotler & Armstrong 2009, p.264]. I consumatori vedono nella marca una componente importante del prodotto, che perciò può aggiungere valore al prodotto stesso. Anche le marche hanno una personalità, cioè anche alle marche possono essere attribuite caratteristiche umane. Aaker [1997] ha individuato cinque tratti fondamentali della personalità di marca: sincerità, emozione, competenza, raffinatezza, resistenza. Le marche più note presentano una spiccata associazione con una di queste caratteristiche, ad esempio Harley Davidson è sinonimo di resistenza in quanto le sue motociclette sono prodotti solidi, robusti e adatti agli spazi aperti. I clienti attribuiscono un significato alla marca e sviluppano dei rapporti con essa [Fournier 1998], e queste connessioni self-brand sono particolarmente pronunciate nel caso delle brand community, cioè comunità, non circoscritte geograficamente, di appassionati di una marca [Muniz & O’Guinn 2001]. I consumatori incontrano spesso messaggi negativi riguardo alle marche: uno dei casi più eclatanti tra quelli più recenti riguarda Toyota, che nell’aprile 2014 ha annunciato il richiamo, a causa di problemi tecnici, di 6.39 milioni di veicoli a livello mondiale. Perciò, determinare come le persone possano reagire a questo tipo di fenomeno è essenziale, e in particolare è utile determinare il comportamento dei consumatori più attaccati alla marca – e quindi più preziosi per l’azienda.

I fattori che minacciano una marca possono essere di diversa natura, per esempio imputabili direttamente alla marca oppure a un gruppo di utilizzatori indesiderati, e colpire vari aspetti della marca stessa. Uno dei possibili mediatori in grado di minacciare l’identità di una marca si può riscontrare in una minaccia alla sua autenticità, per motivi funzionali – come nel caso delle automobili Toyota che avevano problemi pratici di funzionamento – o per motivi simbolici – per esempio se in occasione del lancio di un nuovo prodotto l’azienda effettua una scelta di posizionamento non in linea con la sua tradizione. Un mediatore è una variabile che spiega la relazione tra due o più variabili, permettendo di capire come o perché si verificano certi effetti [Baron &

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Kenny 1986, p.1176]. Il concetto di autenticità è importante nell’ambito della presente indagine, dato che le tre tipologie di minacce utilizzate nel questionario si riferiscono proprio a una presunta perdita di autenticità della marca oggetto della nostra analisi. La richiesta di autenticità da parte dei consumatori esiste da secoli. Per esempio, Phillips [1997] mostra come, dal nono all’undicesimo secolo, si sviluppò un traffico significativo di reliquie religiose autentiche in Europa. Tuttora, una molteplicità di offerte di mercato tende a soddisfare la domanda di autenticità, basti pensare ai souvenir dei viaggi, al cibo etnico o ai biglietti per assistere alle rievocazioni storiche. Belk [1990] scrive che la superficialità e l’artificialità della nostra vita sono i fattori che ci spingono a cercare l’autentico, e le cose autentiche forniscono ai consumatori un senso di prova concreta e di conferma inequivocabile. Uno degli studi più salienti che trattano il concetto di autenticità è quello di Grayson & Martinec [2004]. La parola “autentico” è associata a “genuinità”, “realtà” e “verità”, ma occorre considerare che “genuinità” e “verità” possono significare cose diverse per consumatori diversi in contesti differenti. Infatti, per un individuo una collana dei nativi americani è autentica soltanto se è stata realizzata da un artigiano nativo americano, mentre per un altro individuo è sufficiente che la stessa collana abbia uno stile e dei colori particolari, a prescindere da chi l’abbia realizzata. Lo stesso discorso può essere fatto per il cibo: per una persona un pasto è veramente messicano solo se fatto in Messico e consumato dai suoi abitanti, mentre per un’altra non importa chi l’abbia preparato, purché gli ingredienti siano quelli giusti [Grayson & Martinec 2004, p.297].

La parola “autentico” è utilizzata talvolta per descrivere qualcosa che si pensa non sia una copia o un’imitazione, quindi quando crediamo che un oggetto sia “l’originale”: gli autori si riferiscono a questo oggetto con il termine “indice” (indexicality). In maniera alternativa, la parola “autentico” può anche essere utilizzata per descrivere un’entità la cui manifestazione fisica assomiglia a qualcosa che sia indicalmente autentico: gli autori utilizzano il termine “icona” (iconicity) con riferimento a quelle che si potrebbero chiamare “riproduzioni autentiche”, cioè una cosa che è percepita come simile a qualcos’altro.

Un aspetto da non trascurare è il fatto che l’autenticità non è un attributo inerente a un oggetto, che appartiene alla sua essenza, ma è il risultato di una valutazione soggettiva di un singolo individuo in un particolare contesto, pertanto non è possibile stabilire criteri oggettivi per decidere se un’offerta di mercato sia autentica in senso indicale o iconico.

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La percezione di iconicità e indicalità, inoltre, è graduata, poiché le persone possono ritenere un’entità autentica in misura maggiore o minore, in relazione alle loro percezioni [Grayson & Martinec 2004, p.298–299]. Newman & Dhar [2014] in merito alla percezione di autenticità argomentano addirittura che, per alcuni consumatori, uno stesso prodotto è considerato più autentico se proveniente dallo stabilimento del luogo di origine dell’azienda, quindi dal luogo di produzione “originario” dell’impresa, piuttosto che da stabilimenti produttivi esterni.

Una minaccia che colpisce una marca, in certe condizioni, può essere avvertita direttamente dal consumatore, come se, in pratica, la minaccia arrivasse a colpire la propria identità. Nei prossimi paragrafi esaminiamo questo effetto e i diversi tipi di risposte che la letteratura ha finora considerato, e che vanno sostanzialmente in due direzioni: abbandono o difesa della marca minacciata. Inoltre, descriviamo gli altri due fattori moderatori che prenderemo in considerazione nella nostra analisi, ovvero il self-monitoring e il capitale culturale.

1.3 Le risposte dei consumatori alle minacce all’identità

Un gran numero di consumatori incorpora alcune marche nel proprio concetto di sé, cioè forma delle connessioni self-brand, e un fallimento della marca può avere un effetto personale su questi consumatori. I consumatori che sono particolarmente appassionati di una marca condividono un’identità sociale con gli altri appassionati e, se la marca viene criticata, è possibile che anche l’identità sociale di tali persone sia di conseguenza minacciata. In altre parole, questi individui possono percepire una minaccia all’identità della marca come una minaccia alla propria identità sociale, cioè all’identità legata ai gruppi – in questo caso gli appassionati della marca – ai quali appartengono.

Le ricerche effettuate suggeriscono che i consumatori, in risposta a una minaccia all’identità sociale, possono reagire essenzialmente in due modi diversi, a seconda dei fattori moderatori: per esempio, la tipologia di relazione sviluppata con la marca, le caratteristiche personali dell’individuo come il capitale culturale posseduto, l’autostima collettiva o il tipo di self-construal, oppure, punto focale della presente indagine che desideriamo verificare, la natura del prodotto (pubblica o privata). Un moderatore è una variabile qualitativa o quantitativa che influenza la forza o la direzione della relazione

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tra una variabile indipendente e una variabile dipendente [Baron & Kenny 1986, p.1174]. I consumatori che sperimentano una minaccia alla marca, abbastanza forte da arrivare a colpirli direttamente, possono abbandonare la marca, per evitare di essere associati agli altri utilizzatori indesiderati, oppure continuare a consumare la marca stessa, mantenendo la propria coerenza.

1.3.1 Le risposte dei consumatori alle minacce: abbandono

Le tipologie di gruppi di riferimento possono essere ricondotte a tre: gruppo di appartenenza (gruppo di cui si fa parte), aspirazionale (a cui desideriamo essere associati) e dissociativo (a cui al contrario non desideriamo essere associati perché non ne condividiamo valori e comportamenti) [Dalli & Romani 2011, p.246].

Berger & Heath [2007; 2008] soffermano l’attenzione sul processo di divergenza che gli individui spesso mettono in atto per distinguersi dagli altri o per abbandonare gusti che troppe persone, o le persone “sbagliate”, hanno nel frattempo adottato. Gli autori suggeriscono quindi che le persone spesso divergono per evitare di segnalare identità indesiderate, ed essere sicuri che gli altri facciano inferenze “giuste” su di loro. I gusti delle persone – i prodotti che acquistano, gli atteggiamenti che manifestano, le preferenze che hanno – possono segnalare la loro identità, comunicando informazioni rilevanti agli altri.

Il processo di divergenza, secondo la letteratura, può essere guidato da diversi fattori, che Berger & Heath [2008, p.594] enucleano in dettaglio, ma che, secondo il loro punto di vista, non riescono a spiegare del tutto i processi di divergenza:

 Divergenza dovuta allo status sociale degli altri: questo aspetto è stato descritto da vari sociologi novecenteschi, e si basa sul presupposto che gli individui desiderano distinguersi dai membri di altre categorie sociali. Simmel, nei primi anni del ‘900, ha dato un primo contributo a questa letteratura formulando la teoria del gocciolamento (trickle-down), che spiega il processo di diffusione della moda, secondo lui gerarchizzato dall’alto in basso: le classi sociali superiori detengono certi gusti e, non appena le classi inferiori cominciano ad appropriarsi dello stile delle classi superiori, queste ultime si differenziano di nuovo dalla massa sviluppando gusti del tutto nuovi, e il gioco ricomincia da

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capo [Corrigan 2010, p.259]. Tuttavia, ci sono casi – non solo nel campo della moda – in cui sono proprio le classi teoricamente “inferiori” a volersi distinguere dalle classi “superiori”: i neri spesso abbandonano certi stili una volta che sono stati adottati dai bianchi, e analogamente i ragazzi smettono di utilizzare certe frasi fatte una volta che entrano nel lessico abituale dei loro genitori.

 Divergenza dovuta a persone non gradite: un altro filone della letteratura predice che le persone divergono dalle altre persone che non sono loro gradite, e si è dimostrato anche che se un gruppo visto negativamente da un individuo apprezza un determinato gusto, l’individuo sarà più orientato a provare avversione nei confronti di tale gusto. Però, sebbene il gradimento nei confronti degli altri contribuisca a spiegare perché le persone abbandonano determinati gusti, si può agevolmente osservare che le persone spesso si differenziano anche da gruppi da loro apprezzati: per esempio, un giovane professore benestante può avere amici che sono ancora all’università, ma non vuole più vestirsi come loro.  Divergenza dovuta a persone simili: alcuni autori sostengono che le persone

vogliono sembrare il più possibile uniche, pertanto troppa somiglianza con altri condurrebbe a una reazione emozionale negativa. Comunque, le persone divergono spesso non solo da gruppi che sono simili, ma anche da quelli dissimili, e in quest’ultimo caso con un’intensità ancora maggiore: gli abitanti di Los Angeles potrebbero continuare a seguire uno stile di moda se viene adottato dagli abitanti di San Francisco, ma sarebbero più portati ad abbandonarlo se venisse adottato dai residenti di Des Moines.

Berger & Heath [2007; 2008], a proposito della divergenza causata da persone simili, non negano l’importanza della precedente letteratura sull’unicità (uniqueness literature) descritta da Snyder & Fromkin [1980], o della teoria della distintività ottimale (optimal

distinctiveness theory) proposta da Brewer [1991]. La prima argomenta che le persone

hanno una spinta a sentirsi uniche, e troppa similarità porta l’individuo a una reazione emozionale negativa. La seconda teoria sostiene che le persone hanno due bisogni fondamentali e opposti che cercano di soddisfare: integrazione e somiglianza – cioè un bisogno di appartenenza – e differenziazione e distintività – cioè un bisogno di essere unici. Gli individui cercano di trovare un equilibrio tra questi due bisogni – appunto, una distintività ottimale – identificandosi con il proprio gruppo di appartenenza e

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distinguendosi dai membri dei gruppi esterni. L’osservazione degli autori [Berger & Heath 2008, p.594] è che, applicando queste due teorie ai processi di divergenza, si arriverebbe alla conclusione che le persone si differenziano dagli altri, comportandosi diversamente, perché sentono di essere troppo simili a loro: tuttavia, questo bisogno è a livello individuale, mentre in realtà la divergenza è un fenomeno che deve essere spiegato a livello sociale, tenendo in considerazione non solo le motivazioni personali ma anche le caratteristiche dei gruppi sociali di riferimento. Inoltre, questi approcci non spiegherebbero il motivo per cui la divergenza è più forte in certi domini piuttosto che in altri [Berger & Heath 2007, p.122].

Berger & Heath [2007; 2008] ritengono di conseguenza che la divergenza possa essere spiegata in maniera più completa e accurata adottando un approccio diverso, basato sulla segnalazione della propria identità (identity-signaling approach): le persone divergono per assicurarsi che gli altri capiscano veramente chi sono, e per evitare di inviare agli altri segnali indesiderati che potrebbero comunicare un’immagine di se stessi “sbagliata”.

Le persone acquistano i prodotti non solo per la loro utilità pratica, ma anche per il loro aspetto simbolico, infatti il già citato Belk [1988] afferma in merito che siamo ciò che possediamo. È noto anche che gli individui tendono a inferire vari aspetti degli altri semplicemente basandosi sulle loro decisioni d’acquisto. Un bene preso isolatamente, come spiega McCracken, è privo di significato, ma la funzione simbolica e la capacità dei vari oggetti di comunicare una certa identità derivano dal sistema in cui sono inseriti, e dalle persone che li utilizzano [McCracken 1988]. Le motociclette Harley sono caratterizzate dalla nota immagine di robustezza e rudezza in virtù del fatto che sono possedute da tipi decisi e duri, ma, se un gruppo di persone di estrazione sociale diversa inizia a mettersi alla guida delle Harley nel tentativo di apparire duro, l’oggetto perde ovviamente la sua autenticità, cioè la sua identità distintiva, nel senso che quest’ultima si affievolisce o arriva a segnalare una caratteristica diversa – nell’esempio non più la rudezza dei consumatori “originari” ma il desiderio di sembrare rude dei consumatori “nuovi”. Questo spiega perché alcune persone possano abbandonare determinati gusti se un gruppo a cui non vogliono essere accostate inizia a manifestarli, oppure, in maniera similare, possano evitare dal principio di scegliere certi beni che sono consumati dal mainstream, proprio perché tali beni non sarebbero capaci di segnalare un’identità chiara e distintiva, oppure farebbero pensare che chi li utilizza sia un conformista [Berger & Heath 2007, p.123].

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I due autori riscontrano che, se il processo di divergenza è guidato da questioni relative alla comunicazione della propria identità, allora gli individui dovrebbero essere più propensi a divergere in domini che gli altri utilizzano per dedurre la loro identità. A tale proposito, conducono uno studio preliminare da cui risulta evidente che i domini – cioè gli ambiti – che le persone utilizzano per dedurre l’identità degli altri, sono principalmente i campi della musica, dei mezzi di trasporto, dei gusti televisivi e cinematografici, dell’acconciatura, dell’abbigliamento e del cibo. Inoltre, come emerge, l’identità delle altre persone che hanno i medesimi gusti di un individuo ha una grande importanza sul suo processo di divergenza. Le persone spesso preferiscono avere gusti che possano distinguerli dai membri di altri gruppi, e abbandonano tali gusti quando membri di gruppi non graditi iniziano a ostentarli: dato che è meno probabile che le persone dissimili a un soggetto condividano con lui tratti rilevanti per l’identità, il soggetto dovrebbe essere più motivato a divergere quando altri dissimili adottano i suoi gusti. Il discorso potrebbe essere valido addirittura in campo sanitario: associare comportamenti rischiosi per la salute a un’identità sociale che un certo gruppo di individui non vuole segnalare, può influenzare il loro comportamento e indurli a compiere scelte più virtuose [Berger & Rand 2008].

White & Argo [2011], come estensione della teoria appena descritta, dimostrano che il processo di divergenza può essere guidato anche da un’eccessiva similarità con gli altri, arrivando a conclusioni diverse da quelle della teoria della distintività ottimale. Le autrici rilevano che essere imitati da una persona troppo simile compromette la distintività del consumatore, ma questo conduce a una conseguenza negativa, cioè all’abbandono del prodotto, solo quando il consumatore ha un self-construal indipendente, cioè considera più importanti i valori individuali, o quando il suo bisogno di unicità è alto. L’effetto negativo emerge soprattutto se il prodotto ha una natura simbolica e se gli sforzi compiuti per ottenere il prodotto sono stati notevoli.

Le persone, secondo Chan, Berger & Van Boven [2012], possono soddisfare allo stesso tempo le necessità di integrazione e differenziazione, anche in una stessa scelta di consumo, soddisfacendo le due diverse motivazioni in diverse dimensioni della scelta. Infatti, un individuo può scegliere un prodotto che gli permetta di comunicare l’identità sociale desiderata – per esempio la marca preferita dal suo ingroup – e al contempo differenziarsi all’interno dello stesso gruppo – per esempio scegliendo uno dei prodotti meno popolari tra quelli della marca considerata. Questa conclusione ha un’importante implicazione di marketing: la scelta delle aziende di creare numerose varianti di

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prodotto non solo può assecondare meglio le preferenze dei consumatori, ma anche permettere loro di differenziarsi, per esempio attraverso il colore del prodotto, o personalizzando il prodotto a seconda delle proprie preferenze [Chan, Berger & Van Boven 2012, p.571–572].

Berger & Heath [2007; 2008] si chiedono anche se la divergenza possa essere più semplicemente spiegata in relazione al grado di visibilità dei prodotti presi in considerazione. Altre indagini precedenti si sono focalizzate sulla differenza tra consumo pubblico e privato, che è cruciale ai fini dell’indagine da noi eseguita. Ratner & Kahn [2002] constatano che le persone incorporano più varietà nelle loro scelte di consumo quando il loro comportamento è soggetto a una valutazione da parte degli altri, perché si aspettano che gli altri valutino le loro decisioni più favorevolmente se scelgono un maggiore grado di varietà, selezionando anche prodotti diversi da quelli abitualmente preferiti, ma quanto detto non vale per i prodotti consumati in situazioni private. La pressione esercitata dagli altri ad apparire più interessante induce una maggiore ricerca della varietà tra coloro con alto self-monitoring piuttosto che tra coloro con basso self-monitoring, e i soggetti con alto self-monitoring preferiranno ricercare la varietà al fine di apparire più interessanti agli altri anziché effettuare scelte di consumo più razionali. L’influenza dei gruppi di riferimento di appartenenza, come rilevano altri autori, è generalmente maggiore per i prodotti consumati pubblicamente [Bearden & Etzel 1982; Childers & Rao 1992]. Berger & Heath [2007, p.124–125] concludono che, secondo il loro studio, quando la scelta è visibile dagli altri, si preferisce fare delle scelte moderate, evitando i prodotti posseduti da una risicata minoranza così come quelli posseduti da una larga maggioranza: questo perché il consumo pubblico è correlato alla presentazione di se stessi agli altri, pertanto si tenderà a scegliere prodotti che possano permetterci di dare un’immagine positiva di noi stessi, evitando le opzioni maggioritarie e minoritarie per non rischiare di essere visti come troppo conformisti o troppo strani. Gli stessi Berger & Heath [2008, p.598–600], in uno studio che ha preso a riferimento il cibo spazzatura, sono arrivati alla conclusione che le persone possono divergere in pubblico anche se non fanno lo stesso in privato. I partecipanti allo studio erano meno propensi a scegliere il cibo spazzatura quando questo era associato a gruppi dissimili, ma solo quando le altre persone potevano vedere le loro scelte; quando le scelte erano private, l’associazione con un gruppo di non appartenenza non influenzava la scelta.

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Trump [2014] riscontra che i consumatori che si identificano maggiormente con una marca rispondono in maniera sfavorevole se vengono a conoscenza di azioni negative di tale marca, indipendentemente dalla rilevanza di queste azioni per loro; lo stesso risultato è osservato anche per i consumatori debolmente attaccati alla marca.

L’autrice esamina anche la distinzione tra un fallimento della marca di tipo etico e uno riguardante un prodotto, trovando che un insuccesso relativo a un prodotto della marca fa diminuire la valutazione effettuata dai consumatori più connessi per i quali il fallimento del prodotto è self-relevant, ma non per coloro per i quali non è personalmente rilevante. Un’azione negativa della marca, ma di tipo etico, conduce a una valutazione più negativa della marca da parte di tutti i consumatori fortemente connessi, indipendentemente dalla rilevanza che per loro assume. Trump [2014], quindi, arriva a conclusioni diverse da quelle di altri autori, che riscontrano che i consumatori che hanno una forte relazione con una marca sono disponibili a trascurare o perdonare le azioni negative della marca [Ahluwalia, Burnkrant & Unnava 2000; Cheng, White & Chaplin 2012; Lisjak, Lee & Gardner 2012] e che adesso passiamo in rassegna.

1.3.2 Le risposte dei consumatori alle minacce: difesa

Una domanda che gli studiosi si sono posti è se una minaccia a una marca con cui le persone si identificano possa portare a una risposta di tipo difensivo.

A tale proposito, prima di esaminare gli studi in merito a questo aspetto, è utile introdurre il concetto di “atteggiamento”. L’atteggiamento è definito come l’orientamento psicologico complessivo espresso in termini di valutazione (positiva o negativa) relativo a un oggetto o a un comportamento, e caratterizzato da una certa durata. In parole più immediate, è il risultato di una valutazione che l’individuo compie riguardo a un prodotto, a una marca, a una persona o a un comportamento, da cui scaturisce un’opinione positiva o negativa in merito all’oggetto preso in considerazione [Dalli & Romani 2011, p.143–144]. L’atteggiamento può essere modificato dalle imprese con un’efficace stimolo (per esempio una campagna di comunicazione), volto a modificare le convinzioni (componente cognitiva), le valutazioni (componente affettiva) e le intenzioni (componente comportamentale) del consumatore [Dalli & Romani 2011, p.162]. Gli atteggiamenti, tuttavia, come riportano Kotler & Armstrong [2009, p.172] sono difficili da cambiare, perciò una strada che le imprese possono seguire è cercare di inserire i propri prodotti negli atteggiamenti esistenti, invece di cercare di modificarli.

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Per esempio, nel mondo delle bevande, i produttori devono tenere in considerazione i nuovi atteggiamenti delle persone rispetto a salute e benessere, e le nuove bevande dovrebbero essere in grado di soddisfare le richieste dei consumatori attenti a condurre uno stile di vita sano. Gli autori spiegano come, in questo modo, la marca Fuze di Coca-Cola sia diventata leader nella categoria delle bevande cosiddette “new age”. La misurazione degli atteggiamenti è di fondamentale importanza, in quanto si ritiene che in linea generale ci sia una correlazione positiva tra atteggiamento e comportamento: è più probabile che il consumatore acquisti un prodotto da lui valutato favorevolmente, anche se questo può non essere sempre vero. In effetti, ci sono vari fattori che possono spiegare i comportamenti incoerenti con gli atteggiamenti: tra questi possiamo citare il grado di coinvolgimento (si tende a credere che per prodotti a basso coinvolgimento affettivo ci sia meno correlazione tra comportamento e atteggiamento), la modesta correlazione tra convinzioni e valori (il consumatore può essere consapevole del fatto che un prodotto alimentare contiene un’alta quantità di grassi, e quindi valutarlo negativamente, ma poi acquistarlo lo stesso perché non si preoccupa molto della propria forma fisica), le modificazioni del contesto (posso acquistare una marca diversa da quella che in realtà preferisco perché la prima costa meno, ma questa decisione non modifica il mio atteggiamento verso la marca preferita) [Dalli & Romani 2011, p.168]. L’immagine di una marca può essere influenzata dal comportamento dei suoi consumatori: questo è quello che riconoscono Ferraro e colleghi [2013], in uno studio sugli effetti del consumo vistoso (conspicuous consumption) sulla diluizione della marca. Gli autori dimostrano che guardare un individuo che utilizza una marca in modo vistoso, porta coloro che lo osservano a dedurre che l’utilizzo del brand sia motivato da un secondo fine – per esempio, impressionare gli altri – invece che da ragioni di tipo funzionale o da un gradimento dell’oggetto. Tra gli osservatori per i quali il brand messo in mostra dall’individuo non è personalmente rilevante, l’atteggiamento verso l’utilizzatore subisce un decremento, e questo conduce a un atteggiamento meno favorevole anche nei confronti del brand. Tuttavia, perché questo si verifichi occorre che gli osservatori attribuiscano il comportamento vistoso a un secondo fine – impressionare gli altri, attirare l’attenzione, guadagnare l’approvazione degli altri – altrimenti l’effetto risulta attenuato. Al contrario, gli osservatori che si identificano fortemente con la marca tendono a proteggere la marca dalle azioni di un soggetto che si vuole semplicemente distinguere e, al di là del loro gradimento nei riguardi di quest’ultimo, l’atteggiamento verso la marca rimane invariato. Una possibile

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giustificazione della resistenza dei consumatori con una forte self-brand connection è data da Cheng, White & Chaplin [2012]: le persone con questa caratteristica mantengono una valutazione favorevole della marca minacciata perché vedono un suo fallimento come una minaccia alla propria autostima (il valore che diamo alle nostre capacità e a noi stessi), dato che il proprio sé è fortemente legato alla marca [Ferraro, Kirmani & Matherly 2013, p.485–486].

Ahluwalia, Burnkrant & Unnava [2000] focalizzano l’attenzione su una delle dimensioni più importanti dell’intensità dell’atteggiamento, ovvero l’impegno, che può essere interpretato come il grado di fedeltà alla marca, misurato dalla disponibilità ad acquistare o utilizzare i prodotti del brand in varie situazioni. I consumatori che hanno un maggiore impegno verso una marca sono più propensi a mettere in dubbio la validità della fonte dell’informazione che ricevono, o generare una controargomentazione che neutralizza l’impatto della pubblicità negativa del brand, e tendono a dare più importanza alla pubblicità positiva piuttosto che a quella negativa. Questi processi di difesa riducono la probabilità di un peggioramento dell’atteggiamento verso la marca minacciata, che invece si verifica per i consumatori poco fedeli alla marca.

Cheng, White & Chaplin [2012], cercando di andare oltre l’assunzione che l’intensità delle relazioni, l’impegno e la conoscenza dell’azienda portano a una reazione più positiva e tollerante in seguito a un insuccesso della marca, propongono una chiave di lettura basata sulla visione di se stessi che hanno i consumatori. Il criterio fondamentale in base a cui capire se aspetti esterni all’individuo, come i familiari e gli amici più stretti o i beni materiali più importanti, siano inclusi nel concetto di sé, è osservare se questi generano le stesse risposte emozionali che provocano gli aspetti interni al concetto di sé: una minaccia a un qualsiasi aspetto del sé esteso dovrebbe originare i medesimi processi di difesa che si avrebbero nel caso in cui ad essere minacciata fosse una proprietà fisica o psicologica dell’individuo. Quindi, quando gli amici più stretti o i beni materiali particolarmente rilevanti sono sottoposti a minaccia, se fanno parte del concetto di sé, dovrebbero essere difesi dall’individuo nella stessa misura in cui difende gli aspetti più centrali di se stesso. Per questa ragione, quando una minaccia al brand è percepita come una minaccia al proprio extended self, secondo questa chiave di lettura, le risposte difensive dei consumatori dovrebbero essere moderate dagli stessi fattori che influenzano le risposte alle minacce personali [Lisjak, Lee & Gardner 2012].

Cheng, White & Chaplin [2012] notano che, quando i consumatori percepiscono una forte self-brand connection, considerando in pratica la marca come un riflesso di se

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stessi, rispondono all’esposizione a un’informazione negativa riguardante la marca nella stessa maniera in cui rispondono a un fallimento personale, in quanto avvertono una minaccia alla loro positiva visione di se stessi. Perciò, le tendenze che avrebbero i consumatori più connessi a mantenere una valutazione favorevole della marca dopo un suo fallimento, non sarebbero il risultato di rigettare o reinterpretare queste informazioni negative, ma invece il risultato della necessità e del bisogno di ripristinare le valutazioni relative a se stessi. A supporto di questa ipotesi, le autrici dimostrano che, anziché respingere e ignorare le notizie negative riguardo alla marca, i consumatori con una maggiore identificazione esprimono valutazioni del proprio sé inferiori dopo avere visto un’evidenza oggettiva del fallimento della marca. Pertanto, invece che essere meno colpiti dal fallimento del brand, i consumatori più connessi sono in realtà più colpiti. Inoltre, quando viene data loro l’opportunità di auto-affermarsi a seguito di un fallimento della marca, essi non mantengono più valutazioni così favorevoli della marca stessa, ma sono più inclini a ridurle – questo perché l’auto-affermazione riduce l’identificazione con la marca, almeno temporaneamente. Un discorso diverso vale per i consumatori con poco attaccamento alla marca, i quali non cambiano la loro autovalutazione a seguito di un’azione negativa dell’azienda.

Le conclusioni salienti della ricerca di Cheng, White & Chaplin [2012] possono pertanto essere sintetizzate come segue:

 Le ricerche precedenti si sono focalizzate sulle varie forme di relazione che legano i consumatori alle marche. Fournier [1998] conclude che tra gli individui e le marche si possono instaurare, per citare alcuni esempi, rapporti di conoscenza, amicizia, parentela, matrimoniali e di dipendenza. Cheng e colleghi [2012], invece, adottano una prospettiva diversa, esaminando come i consumatori possano considerare le marche come parte di loro stessi, quindi del proprio sé. Se i consumatori trattano la marca come un amico o un socio d’affari, un caso di insuccesso della marca arriva a minacciare la forza o la qualità di tali relazioni, invece i consumatori che ritengono la marca una parte di sé, in realtà, tendono a difenderla in caso di fallimento, proprio come difenderebbero se stessi se fallissero in una determinata situazione.

 I consumatori con una spiccata connessione con la marca difendono la marca stessa non perché rispetto agli altri abbiano una conoscenza più approfondita o

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una fiducia maggiore nei suoi confronti, ma al fine di mantenere una visione di se stessi positiva in seguito alla percezione di una minaccia al proprio concetto di sé. Questa reazione difensiva non si riscontra quando i consumatori hanno una maniera alternativa per ristabilire la normale visione di se stessi.

 Un compito di auto-affermazione, secondo studi precedenti, dovrebbe ridurre l’effetto della minaccia sulle valutazioni complessive della marca, oppure migliorare l’umore del soggetto, portando allo stesso modo a una valutazione più favorevole. Al contrario, secondo la teoria delle tre autrici, le valutazioni della marca e la forza della relazione dei consumatori maggiormente connessi, in realtà, dopo l’auto-affermazione, peggiorano. Se i consumatori con una

self-brand connection elevata hanno una maniera per difendere se stessi senza

difendere direttamente il brand, le valutazioni nei confronti della marca saranno di conseguenza peggiori, nonostante il forte attaccamento ad essa. I consumatori con una forte self-brand connection, però, non peggiorano le loro valutazioni riguardo alla marca se non hanno l’opportunità di auto-affermarsi.

Lisjak, Lee & Gardner [2012], per testare l’ipotesi che le persone difendano la marca sottoposta a minaccia per proteggere il proprio extended self, hanno esaminato alcuni dei moderatori che influenzano la maniera in cui le persone rispondono quando il loro

self è minacciato. I fattori che moderano la misura in cui le persone diventano difensive

quando sono minacciate, sono l’autostima (specialmente l’autostima implicita), l’attivazione del sé e l’auto-affermazione [Lisjak, Lee & Gardner 2012, p.1122]. Le autrici dimostrano che, quando le persone ricevono informazioni negative riguardo a una marca con cui si identificano, nella condizione in cui il loro sé venga sottoposto a minaccia, originano delle risposte di tipo difensivo che risultano in una valutazione ancora più positiva della marca. Questo dovrebbe essere particolarmente probabile quando il sé è attivato, e tra coloro con una bassa autostima, che difendono la marca per difendere in primo luogo se stessi. Tuttavia, se agli individui è concessa un’opportunità di auto-affermarsi – cioè di affermare la propria autonomia e competitività – in un dominio differente da quello minacciato, la necessità di sostenere la marca dovrebbe affievolirsi, in quanto hanno già avuto una possibilità di ristabilire la propria

self-integrity.

In sostanza, quindi, i consumatori che sono fortemente connessi a una marca non sembrano reagire negativamente a notizie contrarie riguardo a quella marca [Cheng,

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White & Chaplin 2012; Lisjak, Lee & Gardner 2012], in quanto tale marca fa parte del proprio extended self e il consumatore percepisce la minaccia non come riguardante la marca, ma direttamente come una minaccia a se stesso, aumentando la considerazione nei confronti del brand per ristabilire e mantenere una visione di se stesso positiva. Le aziende spesso cercano di legare i loro prodotti a un aspetto dell’identità sociale del consumatore, come il genere, la nazionalità o l’etnia, attraverso le qualità del prodotto o le scelte di posizionamento, ma questo potrebbe anche avere un risvolto negativo, nel caso in cui i consumatori sperimentino una minaccia che colpisca un aspetto della loro identità sociale.

White & Argo [2009] analizzano il ruolo che l’autostima collettiva può avere nel moderare le risposte dei consumatori, esaminando le condizioni in cui i consumatori tendono a evitare prodotti associati a un aspetto minacciato della loro identità sociale (l’identità sociale è la componente del concetto di sé che deriva dall’effettiva o percepita appartenenza a un gruppo sociale). Un’ampia letteratura precedente ha dimostrato che le persone tentano di mantenere una stima di se stessi positiva, non soltanto tramite il loro sé individuale, ma anche tramite il loro sé sociale; considerando questo fatto, emerge che le persone sono talvolta motivate a evitare prodotti associati con un aspetto temporaneamente minacciato della loro identità sociale. White & Argo [2009] dimostrano, tramite un esperimento, che c’è una relazione tra la minaccia all’identità sociale e la valutazione dei prodotti: coloro che avevano letto un testo contenente informazioni negative sul proprio genere avevano mostrato una preferenza più debole per i film fortemente correlati al genere di appartenenza (maschile o femminile) rispetto al gruppo di controllo. Le autrici spiegano che la tendenza a evitare un aspetto minacciato della propria identità sociale è moderato dall’autostima collettiva (collective self-esteem), che è definita come la misura in cui l’individuo si considera un valido membro del suo gruppo sociale e considera l’identità sociale importante per il proprio concetto di sé. Le persone che non si identificano particolarmente con un gruppo sociale – cioè coloro con una bassa autostima collettiva – tendono a proteggere il proprio sé individuale evitando associazioni con tale gruppo se esso viene minacciato, pertanto sono più inclini a distaccarsi dal gruppo anziché dimostrare solidarietà nei confronti degli altri membri. Il lavoro di White & Argo [2009] mostra che coloro con una bassa autostima collettiva intraprendono azioni di risposta per proteggere il proprio sé dissociandosi dall’appartenenza al loro gruppo sociale se minacciato, ma, all’opposto, coloro con un’alta autostima collettiva mantengono il loro senso di

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appartenenza al gruppo anche quando la loro identità sociale è minacciata, riaffermando la loro lealtà al gruppo di appartenenza perché per loro l’identità sociale è una componente importante della loro immagine complessiva e non potrebbero respingere o rifiutare una parte importante di loro stessi. Perciò, le persone con una bassa autostima eviteranno prodotti che hanno un legame con la loro identità quando questa è sottoposta a minaccia, mentre le persone con un’alta autostima collettiva resteranno unite nel gruppo e manterranno il loro legame con i prodotti correlati all’identità minacciata. Le persone appartenenti a culture differenti hanno interpretazioni del sé (self-construal) notevolmente diverse: per esempio, in molte culture asiatiche si enfatizza la fondamentale connessione degli uni con gli altri, mentre nella cultura americana gli individui cercano di mantenere la propria indipendenza dagli altri, ritenendo più importanti i loro attributi personali che quelli del gruppo [Markus & Kitayama 1991]. Il concetto di self-construal si riferisce alla misura in cui il sé è visto come separato e distinto dagli altri, oppure, al contrario, interconnesso con gli altri. Gli individui con self-construal indipendente si considerano autonomi, unici e cercano di soddisfare i propri obiettivi individuali, mentre quelli con self-construal interdipendente si considerano inevitabilmente connessi agli altri, fortemente collettivisti e comunitari. Swaminathan, Page & Gürhan-Canli [2007] trovano, come Ahluwalia e colleghi [2000], che i consumatori con una connessione sé-marca particolarmente forte, per i quali la marca è usata per esprimere un aspetto significativo della propria identità, tendono a ignorare le informazioni negative e a formulare argomentazioni contrarie, e dimostrano che questo effetto è ancora maggiore se il self-construal è di tipo indipendente.

White, Argo & Sengupta [2012] dimostrano che, quando coloro con un self-construal più indipendente sono sottoposti a una minaccia riguardante un aspetto della propria identità sociale, il desiderio di ristabilire la propria autostima diviene di primaria importanza, portando a evitare prodotti collegati all’identità. In questo modo, dissociandosi da un’identità vista negativamente, gli indipendenti arrivano a vedere il proprio sé in una maniera nuovamente positiva. Al contrario, quando coloro con un self-construal interdipendente sono esposti a una minaccia alla loro identità sociale (per esempio quando gli studenti sono esposti a informazioni negative sulla propria università), diviene centrale il bisogno di rimarcare la propria appartenenza al gruppo, seppure minacciato, e ciò conduce a una valutazione ancora più favorevole dei prodotti collegati all’identità. Quindi, gli indipendenti sono spinti dal bisogno di proteggere la propria autostima e soddisfano questa necessità dissociandosi dal gruppo minacciato,

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mentre gli interdipendenti sono guidati dal bisogno di appartenere a gruppi da loro apprezzati, e soddisfano questa necessità connettendosi ai vari gruppi per loro importanti, incluso quello che è stato minacciato, e acquistando o utilizzando prodotti legati a queste identità. In accordo all’ipotesi che gli indipendenti si dissociano allo scopo di proteggere il proprio sé, le autrici rilevano che se viene loro offerta un’opportunità alternativa di auto-affermazione – come l’espressione di valori per loro importanti – si attenua l’effetto dissociativo; analogamente, dato che gli interdipendenti esibiscono una risposta associativa allo scopo di soddisfare il desiderio di appartenenza a un gruppo, si arriva alla conclusione che un compito che permette loro di rafforzare questo senso di appartenenza con gruppi per loro importanti mitiga l’effetto associativo.

Il lavoro di White, Argo & Sengupta [2012], riassumendo, è importante almeno sotto due diversi aspetti:

 Ribadisce l’esistenza di risposte di tipo associativo alle minacce all’identità sociale, oltre alle già conosciute risposte di tipo dissociativo o neutrale. Il tipo di reazione è infatti moderato dal self-construal dell’individuo: per gli indipendenti, la risposta di tipo dissociativo a una minaccia all’identità sociale è dovuta al desiderio di mantenere un’autostima positiva, mentre per gli interdipendenti la risposta di tipo associativo è spinta dalla necessità di soddisfare il bisogno di appartenenza.

 Offre un’utile informazione alle aziende riguardo al modo in cui impostare le comunicazioni di marketing. Infatti, nel caso in cui, come spesso accade, si voglia collegare un prodotto a un aspetto dell’identità sociale del consumatore, se i responsabili della comunicazione riescono ad attivare un construal interdipendente, i consumatori potrebbero avere valutazioni positive dei prodotti fortemente legati all’identità anche quando la loro identità sociale venisse sottoposta a minaccia. Le aziende possono infatti manipolare il self-construal attraverso la scelta delle parole nei messaggi pubblicitari, pertanto se i propri clienti hanno un self-construal interdipendente la comunicazione dovrà essere incentrata sull’esaltazione dei valori legati all’identità sociale, mentre se i clienti presentano un self-construal indipendente è apprezzabile fare leva su valori importanti per la propria autostima, allo scopo di avere un qualche tipo di difesa in caso di eventuali minacce alla marca.

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1.4 Il self-monitoring

Il concetto di self-monitoring è stato introdotto da Snyder [1974].

Gli individui differiscono rispetto al grado in cui monitorano (osservano e controllano) il loro comportamento espressivo e la loro self-presentation, cioè l’insieme dei comportamenti adatti a proiettare un’immagine riguardo a se stessi alle altre persone. Alcuni sono più attenti di altri a monitorare la propria immagine così come viene percepita dagli altri.

Un individuo con alto self-monitoring è una persona che è particolarmente sensibile all’espressione e alla self-presentation degli altri in contesti sociali, e utilizza questi segnali come una guida per monitorare la propria presentazione di sé e il proprio comportamento espressivo. Al contrario, una persona non self-monitoring si preoccupa poco dell’appropriatezza della sua immagine e delle sue espressioni, presta minore attenzione alle espressioni degli altri, e monitora e controlla poco la propria

self-presentation – in altre parole, tende a comportarsi e a proiettare un’immagine di se

stessa in funzione delle reali sensazioni che prova. Le persone self-monitoring si preoccupano dell’appropriatezza sociale delle loro espressioni, per cui per esempio sono più inclini a ridere guardando un film in compagnia piuttosto che da soli; il comportamento delle persone non self-monitoring tende a cambiare relativamente poco a seconda della situazione e, guardando un film, le loro risate dipendono da quanto effettivamente si stanno divertendo [Snyder 1974, p.528].

La scala per la valutazione del livello di self-monitoring misura il grado in cui un individuo impiega consapevolmente strategie di gestione dell’impressione nelle interazioni sociali (la gestione dell'impressione è il processo attraverso il quale gli individui tentano di controllare la percezione della loro immagine da parte degli altri). In sostanza, la scala stabilisce la misura in cui uno manipola i segnali non verbali che invia agli altri e adatta il proprio comportamento a seconda delle situazioni. Un punteggio da 0 a 8 è considerato basso, uno tra 9 e 14 intermedio, mentre gli individui con alti valori di self-monitoring dovrebbero riportare punteggi compresi tra 15 e 22. L’individuo con alto self-monitoring, per fare alcuni esempi pratici tratti da questa scala, non avrebbe difficoltà a cambiare il proprio comportamento per adattarsi a persone differenti e situazioni differenti, cambierebbe le proprie opinioni (o il modo in cui fa le cose) per fare piacere a qualcun altro o ottenere la loro approvazione, e avrebbe considerato l'idea di diventare un uomo di spettacolo.

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Snyder, nel suo studio, fornisce prove affidabili della validità della scala, osservando che, in comparazione con soggetti con basso monitoring, quelli con alto self-monitoring erano considerati dai loro pari migliori nel controllo delle emozioni e nel comprendere come comportarsi appropriatamente in contesti sociali per loro nuovi. Inoltre ha constatato che, come ci si potrebbe aspettare, gli attori professionisti tendono a riportare punteggi più elevati nella scala rispetto agli studenti, i quali a loro volta riportano punteggi superiori a quelli dei pazienti di un ospedale psichiatrico [Snyder 1974, p.536].

1.5 Il capitale culturale

Il concetto di capitale culturale è stato introdotto dal sociologo francese Bourdieu [1984], il quale sostiene che le differenze nelle scelte di consumo tra le varie classi sociali sono determinate da una diversa dotazione di tre tipologie di capitale:

 Capitale economico: livello di reddito percepito e risorse ereditate.  Capitale culturale: cultura trasmessa dalla famiglia e livello di istruzione.  Capitale sociale: quantità e qualità delle relazioni sociali.

L’opera di Bourdieu è il risultato di una ricerca empirica – condotta a Parigi e Lilla negli anni ’60 – sui vari gruppi che componevano la società francese. Bourdieu determina una mappa degli stili di vita che contraddistinguono specifici gruppi sociali: ciascuna posizione sociale è caratterizzata, secondo la sua teoria, da una determinata combinazione di pratiche culturali e di consumo, che la distinguono – da qui il titolo della sua opera – dalle altre. In pratica, i diversi gusti espressi dai francesi da lui intervistati possono essere interpretati in funzione della classe sociale di appartenenza. Il merito di Bourdieu sta nel superare la tradizionale relazione causale professione-reddito-consumo, proprio perché le scelte di consumo sono influenzate, seppure in misura minore, anche dagli aspetti relazionali e culturali.

Il capitale culturale ricorda un concetto già espresso dal sociologo statunitense Veblen, cioè che non basta solo consumare, ma bisogna anche consumare nel modo giusto e approvato dalla società, spendendo tempo e denaro per istruirsi [Corrigan 2010, p.55– 56].

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Holt [1998, p.3] precisa che il capitale culturale può essere rappresentato da conoscenze e abilità pratiche implicite, oppure attestato in forma ufficiale da certificati e diplomi. Lo stesso Holt [1998] ritiene la teoria di Bourdieu ancora valida per studiare le differenze tra le classi sociali attuali – la sua indagine empirica ha come riferimento gli Stati Uniti – purché ci si focalizzi sulle pratiche di consumo, e non più sui singoli oggetti di consumo. Infatti, grazie alle innovazioni tecnologiche e a un generale miglioramento delle condizioni di vita, non risulta più agevole come un tempo indovinare la classe sociale delle persone semplicemente osservando i beni da loro posseduti. La distinzione si fonda, nell’epoca moderna, sul modo in cui consumiamo gli oggetti e possiamo mostrare agli altri che sappiamo consumarli nella maniera adeguata. Per esempio, se gli oggetti d’antiquariato iniziano a diffondersi tra la popolazione, non cessano di essere di per sé segni di distinzione sociale, ma sarà ancora possibile distinguersi dagli altri acquistando i pezzi di maggiore qualità o mostrando che sappiamo combinarli con gli altri complementi d’arredo nella maniera più appropriata [Dalli & Romani 2011, p.243–244].

1.6 Sintesi

Un gran numero di studi ha dimostrato l’esistenza di un collegamento tra l’identità e il consumo. Infatti, è ormai noto che l’identità influenza il consumo, perché le persone sono spinte a comportarsi in maniera coerente alla propria identità [Oyserman 2009], e allo stesso tempo il consumo influenza l’identità, poiché i beni che possediamo ci consentono di costruire la propria identità e comunicarla agli altri [Belk 1988; Kirmani 2009]. L’identità, secondo Tajfel & Turner [1979], si compone di due elementi: l’identità personale, che si riferisce ad auto-descrizioni che si basano su caratteristiche esclusivamente individuali, e l’identità sociale, che è quella parte dell’immagine che un individuo si fa di se stesso, che deriva dalla consapevolezza di appartenere a uno o più gruppi sociali. Il comportamento è guidato dall’interazione di questi due aspetti “estremi” dell’identità e, dato che alcune appartenenze a un gruppo sono più importanti di altre, la loro salienza può variare nel tempo e a seconda delle situazioni in cui ci troviamo, influenzando così il nostro modo di agire. Una persona può rispondere agli stimoli del contesto in maniere coerenti con uno dei molteplici possibili aspetti della sua identità sociale (per esempio “padre”, “italiano”, “golfista”). Appare perciò probabile

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che la componente personale e quella sociale dell’identità siano entrambe rilevanti per mantenere una visione di se stessi positiva, e quindi che, a seconda del contesto, un consumatore potrà essere motivato a evitare quella particolare identità sociale che viene temporaneamente ad assumere una connotazione negativa [White & Argo 2009, p.314]. Una minaccia a una marca a cui il consumatore è particolarmente legato può minacciare la sua particolare identità sociale rappresentata, appunto, dall’essere un fan di quella marca e appartenere al gruppo degli appassionati della marca stessa, e diviene interessante capire come possa reagire in una situazione simile. Il problema in questione è di particolare interesse per le aziende, dato che sovente si incontrano messaggi negativi relativi a vari prodotti o imprese sui diversi mezzi di comunicazione, tra cui i social network che, negli ultimi anni, hanno sperimentato una crescita enorme. La letteratura prospetta due possibili reazioni del soggetto: egli può valutare in maniera più negativa un prodotto di una marca minacciata, essendo propenso al suo abbandono [Berger & Heath 2007; 2008], o al contrario può aumentare la sua considerazione nei confronti della marca, e quindi incrementare il gradimento nei confronti del prodotto o la sua probabilità d’acquisto [Ahluwalia, Burnkrant & Unnava 2000; Cheng, White & Chaplin 2012; Lisjak, Lee & Gardner 2012]. Berger & Heath [2007; 2008], ad esempio, studiano i processi di divergenza e, secondo il loro approccio, basato sulla segnalazione dell’identità, le persone divergono per evitare di inviare agli altri segnali indesiderati, che potrebbero comunicare un’immagine di se stessi “sbagliata”. Le persone possono abbandonare certi gusti se vengono fatti propri da un gruppo a cui non vogliono essere associate, oppure possono evitare di acquistare determinati beni che sono consumati dalla massa, proprio perché tali beni non sarebbero capaci di segnalare un’identità chiara e distintiva. Un altro filone di letteratura si è al contrario focalizzato sulle risposte di tipo difensivo, originate dai consumatori particolarmente connessi con una marca, nel caso in cui quest’ultima sia sottoposta a minaccia. I consumatori che conoscono in maniera approfondita una marca sono più inclini a mettere in dubbio la validità della fonte dell’informazione che ricevono, o a generare una controargomentazione che riduce l’impatto della pubblicità negativa del brand, e tendono a dare più importanza alla pubblicità positiva piuttosto che a quella negativa [Ahluwalia, Burnkrant & Unnava 2000]. Ulteriori studi hanno rilevato che i consumatori più legati a una marca rispondono all’esposizione a un’informazione negativa riguardante la marca nella stessa maniera in cui rispondono a un fallimento personale, in quanto avvertono una minaccia alla loro positiva visione di se stessi [Cheng, White & Chaplin 2012] e, inoltre, sembra

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che anche un compito di auto-affermazione possa avere un ruolo fondamentale, infatti se i consumatori con una forte self-brand connection hanno la possibilità di difendere se stessi in una maniera alternativa, la necessità di sostenere la marca dovrebbe attenuarsi [Cheng, White & Chaplin 2012; Lisjak, Lee & Gardner 2012].

Le variabili in grado di moderare la risposta dei consumatori sono molteplici: per citare alcuni casi di rilievo nella letteratura, il dominio a cui appartiene il prodotto o i potenziali utilizzatori indesiderati [Berger & Heath 2007; 2008], l’attaccamento alla marca [Cheng, White & Chaplin 2012; Lisjak, Lee & Gardner 2012], l’autostima collettiva [White & Argo 2009] o il tipo di self-construal [Swaminathan, Page & Gürhan-Canli 2007; White, Argo & Sengupta 2012].

La nostra ricerca si propone proprio di verificare se una minaccia all’autenticità di una marca ha un effetto significativo sulla visione di se stessi degli individui e sulla loro valutazione di due oggetti della marca, di cui uno di uso principalmente “privato” e l’altro principalmente “pubblico”. In altre parole, intendiamo rilevare se alcuni consumatori subiscono l’effetto appena descritto, cioè si sentono minacciati in una delle loro molteplici identità sociali, dopo avere letto una critica alla marca, e approfondire la loro reazione. Le variabili che prendiamo in considerazione in questa sede sono l’identificazione del soggetto con la marca, la natura del prodotto, il self-monitoring e il capitale culturale. Il grado di attaccamento alla marca, come dimostrato da numerosi studi precedenti, è una variabile in grado di influenzare le valutazioni dei consumatori nei confronti di una marca o di un prodotto di cui ricevono informazioni negative. La natura del prodotto potrebbe essere rilevante e originare risposte diverse in relazione al grado di visibilità dell’oggetto stesso: è possibile che, nel caso in cui i consumatori ricevano informazioni negative riguardo a una marca, i giudizi espressi relativamente a un prodotto di utilizzo pubblico siano diversi rispetto a quelli espressi relativamente a un prodotto che normalmente si utilizza in un contesto in cui nessuno può osservarli. Il concetto di self-monitoring [Snyder 1974] riguarda il grado in cui le persone desiderano monitorare la propria presentazione di sé e il proprio comportamento espressivo in pubblico. Alcune persone sono particolarmente attente al proprio comportamento quando si trovano in compagnia degli altri, mentre altre agiscono coerentemente alle reali sensazioni che provano, senza attribuire un peso eccessivo all’appropriatezza sociale delle loro espressioni. Il capitale culturale [Bourdieu 1984] può essere descritto come la risultante di tre fattori: la ricchezza materiale, la cultura e l’istruzione, e la rete di relazioni instaurate con gli altri. Il concetto di capitale culturale è di grande interesse,

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perché si è dimostrato che le scelte di consumo sono influenzate anche dagli aspetti relazionali e culturali, e non soltanto dalla ricchezza monetaria a disposizione.

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SECONDO CAPITOLO

METODOLOGIA DELLA RICERCA

2.1 L’esperimento nelle scienze sociali

Un esperimento è utile per dimostrare una relazione di causa-effetto, ed è comunemente applicato nelle scienze sperimentali e nelle scienze sociali, con la differenza che nelle scienze sociali non è ovviamente possibile trovare due individui identici da esporre a due diversi stimoli, e quindi è necessario procedere in maniera diversa.

2.1.1 Lo scopo e le caratteristiche di un esperimento

Lo scopo di un esperimento è quello di analizzare relazioni di causa-effetto e, per poter dimostrare in maniera empirica una relazione causale tra due o più variabili, è necessario concentrare l’attenzione su tre aspetti [Corbetta 2003, p.72–75]:

 Covariazione fra variabile indipendente e variabile dipendente: dobbiamo poter osservare una variazione della variabile indipendente e, allo stesso tempo, anche una variazione della variabile dipendente. La variabile indipendente, che è la causa ipotizzata di ciò che vogliamo dimostrare, nella terminologia della psicologia sperimentale è detta “trattamento” o “stimolo”, mentre la variabile dipendente “osservazione” o “risposta”.

 Direzione causale: al variare della variabile indipendente dovrebbe seguire una variazione della variabile dipendente, ma non deve essere vera l’affermazione contraria.

 Controllo delle variabili estranee: dobbiamo essere sicuri che la covariazione fra la variabile indipendente e la variabile dipendente non sia dovuta a terzi fattori, correlati alla causa ipotizzata, ma sia soltanto un effetto della manipolazione della variabile indipendente.

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Le strade possibili per verificare la veridicità di una relazione causale sono due: l’analisi della covariazione nel contesto naturale in cui si verifica e, appunto, l’esperimento, in cui il ricercatore interviene producendo una variazione della variabile indipendente in una situazione controllata, per misurare successivamente le risposte dei soggetti.

L’esperimento è caratterizzato da due condizioni fondamentali che lo distinguono dall’analisi della covariazione: manipolazione della variabile indipendente e controllo delle terze variabili, ottenuto con il processo di randomizzazione, cioè di assegnazione casuale dei soggetti ai gruppi [Corbetta 2003, p.79]. Il processo di randomizzazione garantisce che i gruppi di individui partecipanti all’esperimento siano equivalenti dal punto di vista statistico, vale a dire diversi per tutte le variabili solo per aspetti accidentali, ossia piccoli e dovuti al caso; se sottoponiamo i gruppi a diversi valori della variabile indipendente e osserviamo i risultati medi, siamo in grado di quantificare l’effetto causale medio, cioè la differenza di risposta tra i gruppi [Corbetta 2003, p.86]. Il metodo sperimentale permette di isolare il fenomeno sociale oggetto d’analisi e di concentrare l’attenzione su di esso, controllando che variabili esterne non intervengano a modificare le risposte. Lo svantaggio, invece, è che i risultati di un esperimento in molti casi non sono generalizzabili all’intera popolazione, cioè non è possibile fare inferenza, per due motivi: l’ampiezza del campione – spesso poco rappresentativo perché costituito da un numero ristretto di individui – e il criterio di selezione dei soggetti partecipanti – se vengono semplicemente scelti tra quelli più facilmente raggiungibili per ragioni di comodità [Corbetta 2003, p.115–116].

2.1.2 Le tipologie di indagine e i piani di campionamento

L'indagine è lo strumento statistico mediante il quale si acquisiscono informazioni su uno o più fenomeni riguardanti una popolazione. L’indagine può essere completa – se l’informazione è acquisita osservando tutte le unità componenti la popolazione – o campionaria – se ci limitiamo a osservare soltanto parte di esse.

Le indagini, in generale, possono essere di natura esplorativa, descrittiva o causale. L’obiettivo della ricerca esplorativa consiste nella raccolta preliminare di informazioni allo scopo di definire il problema e formulare ipotesi. L’obiettivo della ricerca descrittiva risiede nella descrizione di aspetti come il potenziale di mercato di un prodotto o gli aspetti demografici e l’atteggiamento del consumatore. La ricerca causale

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è finalizzata invece a provare le ipotesi inerenti i rapporti di causa-effetto [Kotler & Armstrong 2009, p.121].

Un’indagine può essere di tipo qualitativo o quantitativo. Le ricerche qualitative hanno una finalità prevalentemente esplorativa: aiutano a trovare indicazioni utili per la soluzione di un problema, permettono di raccogliere, analizzare e interpretare le affermazioni delle persone, e individuano pertanto elementi all’origine di comportamenti e atteggiamenti, mettendo in luce i meccanismi individuali profondi attraverso i quali essi si formano. L’obiettivo delle indagini qualitative non è quello di formulare stime quantitative ma di conoscere in dettaglio tutti gli aspetti che caratterizzano l'argomento da analizzare. Le principali tecniche utilizzate nell’ambito delle indagini qualitative sono il focus group e le interviste individuali in profondità. Le indagini quantitative vengono effettuate per stimare le dimensioni quantitative del fenomeno preso in considerazione, e in questo caso, al fine di riuscire a fare stime quantitative attendibili – al contrario di quanto accade per le tecniche qualitative – è fondamentale coinvolgere nell'indagine un campione statisticamente rappresentativo dell'universo di riferimento. Le tre tipologie di ricerca quantitativa più comuni nel marketing sono l’osservazione, il questionario e l’analisi dei dati secondari [Peter, Donnelly & Pratesi 2009, p.76–77].

Analizzando le tipologie di campionamento, un campionamento probabilistico è un tipo di campionamento in cui a ciascun membro della popolazione è assegnabile a priori una stessa probabilità di selezione, strettamente maggiore di zero, e il campione è selezionato mediante un “meccanismo” casuale. Un campionamento che non rispecchia questi requisiti, e quindi non permette di calcolare il margine d’errore, si definisce non probabilistico. Il campionamento non probabilistico non fornisce a ciascuna unità della popolazione la stessa occasione di essere parte del campione: alcuni gruppi o individui hanno maggiore probabilità di essere scelti rispetto ad altri. Tra i campioni probabilistici possiamo citare il campione casuale semplice – se ogni membro della popolazione ha una probabilità uguale e dichiarata di essere selezionato – il campione stratificato – in cui la popolazione viene divisa in gruppi tra loro esclusivi e si estraggono campioni casuali da ogni gruppo – e il campione a grappoli – se la popolazione viene divisa in gruppi tra loro esclusivi e il ricercatore estrae un campione di gruppi da intervistare. I principali tipi di campioni non probabilistici sono i campioni di convenienza – se il ricercatore seleziona i membri della popolazione da cui secondo il suo giudizio è più semplice ottenere le informazioni desiderate – i campioni ragionati – se le unità

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