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INTRODUZIONE A.N. Whitehead affermò che l’intera tradizione filosofica europea consiste in “una serie di note in calce a Platone”

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

A.N. Whitehead affermò che l’intera tradizione filosofica europea consiste in “una serie di note in calce a Platone”1.

Può sembrare bizzarro, ma l’idea del progetto di questa tesi nasce proprio dalla lettura di tale affermazione.

A mio parere sostenere che tutta la riflessione filosofica posteriore sia pensabile come una serie di note a Platone non significa sostenere che tutti i pensatori successivi abbiano accettato le concezioni platoniche come punto d’inizio della propria ricerca, bensì significa sottolineare come la riflessione platonica sia stata sempre percepita come un imprescindibile punto di riferimento con il quale è necessario confrontarsi. E se tutti i pensatori posteriori hanno sentito la necessità di confrontarsi con Platone, allora possiamo considerare la riflessione platonica non solo come la base di tutta la filosofia successiva, bensì come la base della filosofia stessa.

Tale ragionamento mi ha suggerito la necessità di “tornare” a Platone, come se nel suo pensiero fosse contenuto qualcosa di originario, in particolare quel senso originario del fare filosofia che noi moderni o abbiamo dimenticato o preferiamo ignorare. Per me, quindi, l’esigenza di tornare a Platone ha significato interrogarmi sul senso della filosofia o, per meglio dire, del fare e dell’insegnare a fare filosofia.

Cosa significa, per Platone, fare filosofia?

Questa è stata la domanda guida del progetto di questa tesi.

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Per Socrate, che non ha mai scritto niente, la filosofia è essenzialmente un’attività orale, una ricerca da svolgere entro i limiti della dimensione viva e aperta del dialogos estemporaneo tra due o più interlocutori.

Platone, al contrario del maestro, si dedica anche alla scrittura, ma le sue opere scritte non sono trattati, bensì dialoghi e, per la maggior parte, dialoghi in cui il protagonista è lo stesso Socrate. I dialoghi platonici, quindi, appaiono, almeno a livello drammatico, come riproduzioni scritte di quei dialogoi, vivi ed estemporanei, tenuti da Socrate.

Queste considerazioni mi hanno spinto a interrogarmi sul ruolo giocato dal rapporto tra la scrittura e l’oralità all’interno della riflessione platonica e, in particolare, a chiedermi se e in quali termini Platone considerasse lo scritto come uno strumento utile per l’acquisizione del sapere. Questa domanda, a mio parere, è fondamentale per comprendere l’idea platonica di far filosofia e di insegnare a filosofare.

L’imprescindibile punto di partenza di questa tesi è il Fedro.

L’analisi del dialogo, che occupa più della metà dell’intera tesi, è volta a dimostrare come qui l’intento platonico non sia descrivere la scrittura in termini totalmente negativi, né contrapporre l’oralità e la scrittura in sé, bensì distinguere due diverse tipologie di sapere: un sapere propriamente detto, vivo, interno, dell’anima, ed uno apparente, contenuto nei libri ed acquisibile in maniera meccanica attraverso la lettura o l’apprendimento mnemonico.

Una volta stabilito che il vero sapere è il risultato del consenso attivo e spontaneo dell’anima, non resta che stabilire se la situazione più idonea per l’insegnamento sia una situazione di scrittura oppure di oralità.

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Dalla lettura del Fedro emerge che la situazione ottimale per l’insegnamento e l’apprendimento è quella orale, caratterizzata dal dialogos, vivo ed estemporaneo, in cui il maestro, attraverso il proprio logos, può più facilmente condurre l’anima dell’allievo verso la virtù e la conoscenza. E’ a questa attività, svolta con metodo dialettico, che il filosofo si dedica con seria cura. La scrittura, al contrario, è soltanto uno svago, un gioco, ma ciò, ovviamente, non implica che lo scritto filosofico sia di scarso livello contenutistico. Lo scopo del discorso scritto è essenzialmente quello di essere una traccia, un segno di un percorso di conoscenza già percorso o da percorrere.

Questo, però, non deve indurci a ritenere che la situazione d’oralità sia, di per sé, garanzia di trasmissione ed acquisizione del sapere.

Nella seconda sezione della tesi, non a caso, affronto più da vicino la questione circa l’oralità e in una prima parte la riflessione mira a mostrare come l’errata concezione del sapere e, quindi, dell’apprendimento, sia specchio di un certo tipo di mentalità, una mentalità che, nell’ottica platonica, dovrebbe essere abbandonata.

La mentalità del V secolo è una mentalità essenzialmente orale, o poetica, ma è proprio tale mentalità, come emerge dall’analisi di alcuni libri della Repubblica, che costituisce il maggiore ostacolo del Platone educatore: quella poetica, infatti, è una mentalità concreta, doxastica, capace di esprimere solo dati condizionati temporalmente. Ciò che per questa risulta impossibile, quindi, è esprimere un enunciato nel linguaggio degli universali, cioè un enunciato ottenibile attraverso quel processo di astrazione che permette di raggruppare la molteplicità in unità e che nel Fedro viene descritto come uno dei due procedimenti della dialettica. In altre parole, la mentalità dominante del V secolo

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è una mentalità che ignora la dialettica. Ma ignorare la dialettica significa no n essere in possesso di quei procedimenti essenziali per intraprendere un percorso di ricerca su un qualsiasi oggetto di conoscenza. Di conseguenza, colui che non riesce a sollevarsi dal piano della doxa non può essere un sapiente, quindi il suo discorso, anche se orale, non può trasmettere alcun sapere.

L’analisi svolta nella prima e nella seconda sezione di questa tesi ha lo scopo di mostrare come per Platone ciò che è essenziale è la qualità del discorso. Solo il discorso pensato e costruito secondo i procedimenti della dialettica può essere un discorso potenzialmente istruttivo. Stabilito questo, in ogni caso la situazione migliore per l’apprendimento rimane quella dialogica, quella caratterizzata dall’incontro-scontro dei logoi, vivi e animati, del maestro e degli allievi.

Ora, se la migliore condizione d’insegnamento è rappresentata dal dialogo, allora dobbiamo concludere che per Platone fare filosofia e insegnare a fare filosofia significhi, in ultima analisi, dialogare. Quella dialogica è una dimensione particolare: qui non abbiamo un maestro che dall’alto della propria conoscenza “distribuisce” dottrine agli allievi. Se così fosse, allora non ci sarebbe molta differenza tra l’ascoltare la voce del maestro e leggere un libro, né si porrebbe la distinzione tra un sapere vero ed uno illusorio, acquisibile in maniera meccanica. Quella dialogica è una dimensione in cui un ruolo fondamentale è svolto anche dall’allievo che, con il proprio logos, partecipa alla discussione, la fa crescere, la anima.

Lo scopo del dialogos non è l’acquisizione di un certo numero di nozioni, bensì indicare una strada, un percorso di ricerca che l’allievo deve intraprendere.

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Al di là degli esiti della speculazione platonica, credo che per Platone insegnare a far filosofia voglia dire insegnare a dialogare.

A chiudere la mia ricerca, la terza ed ultima sezione di questa tesi è occupata dall’analisi della VII Lettera e, in particolare, del suo importante excursus filosofico. Qui emerge in maniera esplicita che per Platone fare filosofia no n significa apprendere una dottrina; il maestro può solo indicare un percorso di ricerca, ma in ogni caso gli esiti di tale ricerca non sono esprimibili attraverso quel mezzo imperfetto che è il logos umano. Detto questo, tutti coloro che pretendono di poter mettere per iscritto gli esiti della ricerca o che pretendono di averli letti, in realtà non sanno cosa sia la ricerca e quindi non sanno cosa sia la filosofia.

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