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CAPITOLO SECONDO

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CAPITOLO SECONDO

IL LICENZIAMENTO

NULLO

SOMMARIO: Introduzione 1. Le novità apportate dalla

l.92/2012 in materia di licenziamento nullo: omogeneità della tutela - 2. L’estensione dell’ambito di applicazione della tutela reale: la presunta identificazione tra licenziamento nullo e licenziamento ingiustificato - 3. Il licenziamento discriminatorio - 3.1. La teoria c.d. soggettiva della discriminazione e il motivo illecito - 3.2. Segue: critica alle teoria soggettiva. Verso una nozione oggettiva di discriminazione? - 3.3. Regime probatorio della discriminazione - 4. Il licenziamento per illiceità del motivo ai sensi dell’art.1345 c.c. e le altre cause di nullità previste dalla legge - 5. L’apparato sanzionatorio: la tutela reintegratoria «piena»; la «tecnica invalidante» - 5.1. Segue: l’ordine di reintegrazione come inibitoria -5.2. Segue: l’ordine di reintegrazione come pronuncia restitutoria -5.3. Segue: L’infungibilità degli obblighi di facere – 5.4 Segue: la «tecnica risarcitoria» – 6. Osservazioni sull’area del licenziamento nullo.

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Introduzione.

Il tema della nullità rappresenta, ai fini della dinamica della trattazione, un argomento di estrema importanza.

L’ambito di applicazione della tutela avverso il licenziamento nullo rappresenta l’area in cui residua la piena applicazione del vecchio regime dell’art.18, motivo che porta a prevedere un’inedita attenzione per le fattispecie ad essa sottoposte. In particolare sembrano acquisire centralità93, nell’economia

dell’apparato sanzionatorio, il licenziamento discriminatorio e quello intimato ex art.1345 c.c. dato che una loro interpretazione estensiva, unita alla previsione, di origine comunitaria, di un onere probatorio semplificato, potrebbe dilatare di molto il numero dei casi in cui verrà applicata la tutela reale.

Sotto un altro punto di vista l’analisi sul licenziamento nullo richiama l’attenzione su “vecchi” problemi: il tema della condanna alla reintegrazione e il “busillis” della sua eseguibilità.

1. Le novità apportate dalla l.92/2012 in materia di licenziamento nullo: omogeneità della tutela.

93 La casistica in materia, vigente il vecchio art.18, era molto limitata in quanto la sanzione corrispondente era identica a quella irrogata per il licenziamento ingiustificato, molto più semplice da provare per il lavoratore. Per queste considerazioni si veda infra par.3.4

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Come è stato accennato, la nuova formulazione dell'art.18 ha introdotto una griglia di tutele di differente intensità. Procedendo secondo l'ordine seguito dal legislatore, la sanzione che per prima si presenta all'occhio dell'interprete è quella che accorda il più alto grado di tutela al lavoratore illegittimamente licenziato.

Secondo il nuovo primo comma il giudice:

con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’articolo 35 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n.198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di

lavoro, imprenditore o non imprenditore, la

reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro.

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ha inteso prevedere un'unica risposta sanzionatoria94 che

permetta di far fronte ad ogni possibile caso di licenziamento nullo95. L'osservazione, per quanto elementare e di immediato

apprezzamento, non è di poco conto: l'aver introdotto un regime omogeneo applicabile in tutte le ipotesi di nullità permette una ricostruzione coerente e unificatrice della risposta sanzionatoria, obiettivo difficilmente raggiungibile prima della riforma.

Il vecchio art.18 infatti, per individuare le fattispecie da sottoporre alla tutela reintegratoria, faceva riferimento ad alcune ipotesi specifiche individuate attraverso un rinvio all'art.4 legge 15 luglio 1966 n.604. A questa previsione si è poi affiancato l'art.3 della legge 11 maggio 1990 n.108 il quale, pur estendendo la tutela garantita dallo statuto alle imprese rientranti nell'ambito della tutela obbligatoria, garantiva

94 Tra le varie sanzioni introdotte col riformulato art.18 la c.d. tutela reintegratoria rafforzata, prevista dal primo comma, è l'unica assimilabile a quella applicabile vigente il vecchio regime. Questo aspetto viene unanimemente sottolineato dalla dottrina: per tutti si veda O. MAZZOTTA, I molti nodi irrisolti nel nuovo art.18 dello

Statuto dei lavoratori, in Working Paper 159/2012 in http://csdle.lex.unict.it

95 L'obiettivo di ricondurre ad un'unica sanzione tutti i casi di nullità del licenziamento sembra trasparire dalla previsione di fattispecie a struttura aperta suscettibili di ricomprendere un ampio numero di ipotesi differenziate. In effetti il riferimento al licenziamento «riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile» sembra fungere da norma di chiusura ossia «un inciso dilatabile a piacere». Così F. CARINCI, Complimenti, dottor Frankenstein: Il disegno di legge

governativo in materia di riforma del mercato del lavoro, relazione tenuta al Convegno La riforma del mercato del lavoro, Roma, 13 Aprile 2012 p.20 del dattiloscritto.

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l'applicazione della norma in questione al solo licenziamento

determinato da ragioni discriminatorie96. Restavano così scoperte

alcune ipotesi di licenziamento le quali, o per espressa previsione del legislatore97 o in applicazione dei principi di

96 Il cardine della nozione di discriminazione nel rapporto di lavoro è stato costantemente individuato nell'art.15 dello statuto dei lavoratori, al quale l'art.3 della legge 11 maggio 1990 n.108 fa espresso rinvio, che individua una serie di «fattori di rischio» in presenza dei quali l'atto datoriale è da considerarsi nullo. Nel tempo l'elenco si è allargato tanto da far propendere parte della dottrina per una portata esemplificativa dei fattori in esso riportati. L'argomento verrà trattato più approfonditamente nei paragrafi successivi (par.3 e ss). Per il momento è sufficiente considerare che anche seguendo l'ipotesi dell'esemplificatività dei fattori di rischio non si avrebbe potuto comunque far fronte a tutti i licenziamenti nulli con la tutela prevista dallo statuto; non ha trovato infatti accoglimento in giurisprudenza l'interpretazione secondo cui «una volta acquisita dall'ordinamento la tecnica della tutela reale, essa appare utilizzabile sempre e comunque per sanzionare il licenziamento nullo», M. NAPOLI, I licenziamenti, (voce) in AA.VV.

Digesto delle discipline privatistiche sez.commerciale,1993, p.79. Segue questa

impostazione anche M. T. CARINCI, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi, Relazione

al XVII Congresso nazionale Aidlass, Pisa 7-9 Giugno 2012 p.23ss del dattiloscritto 97 Il licenziamento a causa di matrimonio è espressamente dichiarato nullo dall’art.1, co.2 e 3, legge 9 gennaio 1963, n. 7, poi trasfuso nell’art.35, d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 ( Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) il quale prevede espressamente che «con il provvedimento che dichiara la nullità dei licenziamenti di cui ai commi 1, 2, 3 e 4 è disposta la corresponsione, a favore della lavoratrice allontanata dal lavoro, della retribuzione globale di fatto sino al giorno della riammissione in servizio». Tali conseguenze sono del tutto identiche alle conseguenze derivanti dalla nullità civilistica: alla lavoratrice è corrisposta la retribuzione globale di fatto e non il risarcimento del danno previsto dalla tutela statutaria. Il licenziamento intimato in violazione del divieto di licenziare la lavoratrice dall’inizio della gravidanza sino al termine del periodo di interdizione al lavoro nonché fino al compimento di un anno del bambino è dichiarato nullo dall’art.54 d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità). La giurisprudenza è pressoché unanime ad assimilare questo divieto di licenziamento al divieto di licenziamento a causa di matrimonio applicando ad esso la nullità di diritto civile ex art.1418, considerando il rapporto di lavoro come mai interrotto e attribuendo per intero le retribuzioni spettanti ai lavoratori dal momento del licenziamento. Parte della dottrina si oppone a questa ricostruzione considerando il licenziamento intimato in violazione del divieto suddetto come discriminatorio.

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diritto comune dei contratti98, erano da ricondursi alla categoria

della nullità e quindi assimilabili alle ipotesi in cui il legislatore prevedeva espressamente l'applicazione della tutela statutaria. Per sopperire a questo vuoto di tutela, dottrina e giurisprudenza hanno fatto ricorso al diritto comune dei contratti: ai licenziamenti affetti da nullità non rientranti nell'ambito di applicazione della tutela reale statutaria, si è fatto

98 Un contratto può essere dichiarato nullo ai sensi degli artt.1345 e art.1418 se il motivo alla base di esso è illecito ossia contrario a norme imperative all'ordine pubblico e al buon costume, esclusivo e determinante. L'art.1345 è applicabile secondo unanime giurisprudenza (si vedano per tutte Cass. 19 ottobre 2005, n. 20197 ; Cass., 29 luglio 2002, n.11191) anche agli atti unilaterali, licenziamenti compresi, per il tramite dell'art.1324. C'è però da osservare come la giurisprudenza abbia adottato differenti orientamenti in merito alla tutela applicabile. Parte (maggioritaria) della giurisprudenza estende l'applicabilità della tutela reale ai licenziamenti nulli per illiceità del motivo (c.d licenzimenti ritorsivi) e in generale a tutti i licenziamenti assimilabili “quanto a ratio” al licenziamento discriminatorio. In questo senso si è espressa Corte Cost. 22 gennaio 1987 n.17 il cui orientamento è stato abbracciato da parte maggioritaria della giurisprudenza di legittimità: per tutte si vedano Cass., 8 agosto 2011, n. 17087; Cass., 18 marzo 2011, n. 6282. Un (seppur minoritario) filone giurisprudenziale ha continuato invece anche in tempi recenti a far uso della tutela accordata dal diritto civile ( si vedano ad esempio Cass., 9 luglio 1979, n. 3930 in Foro it., 1979, I, p.2333; Trib. Roma, 19 ottobre 1995, in Riv. it. dir. lav., 1996, II, 876, con nota di L. Zanotelli, Cass. 26 giugno 2009, n. 15093) soprattutto con riferimento alle imprese di minori dimensioni, alle quali non si sarebbe potuta estendere la tutela reale. Anche in dottrina convivevano impostazioni divergenti. Propende per l’applicabilità, con riferimento al vecchio testro, del regime di tutela statutaria al licenziamento tout court viziato da motivo illecito A. VALLEBONA, La riforma del lavoro 2012, Giappichelli, Torino, 2012, p.48,

nt.17. contra E. PASQUALETTO, Licenziamenti nulli: tutela reintegratoria rafforzata, in F. CARINCI, M. MISCIONE (a cura di) Commentario alla riforma Fornero, Diritto e pratica

del lavoro, supplemento n.33 del 15 settembre 2012, p.45 secondo la quale «alla

nullità del licenziamento per illiceità dell’unico motivo avrebbe dovuto conseguire, prima dell’entrata in vigore della l. n. 92/2012, l’applicazione della c.d. tutela reale di diritto comune». Segue questa impostazione anche G. VIDIRI, La riforma Fornero:

la (in)certezza del diritto e le tutele differenziate del licenziamento illegittimo, in Riv. it. dir. lav., 2012, I, p.617ss,

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fronte applicando la c.d tutela reale di diritto comune99.

Quest'ultima nient'altro è che l'applicazione dei principi generali in materia di contratti: il licenziamento nullo è improduttivo di effetti e il rapporto si considera come mai interrotto dall'atto unilaterale viziato. Questa conseguenza è propria anche della tutela statutaria ma a differenza di quest'ultima il lavoratore non avrebbe diritto alla misura minima di cinque mensilità100, non avrebbe la possibilità di

optare per l'indennità sostitutiva della reintegrazione e soprattutto non potrebbe ottenere l'ordine giudiziale di reintegra nel posto di lavoro101.

99 É giusto precisare che «non si può parlare, se non in una accezione del tutto atecnica, di tutela reale di diritto comune, perché la tutela assicurata dal diritto comune è statica e riguarda l'interesse dedotto dal lavoratore nel contratto (che è un interesse strumentale e di natura patrimoniale) mentre si ha tutela reale del posto di lavoro quando l'ordinamento tutela come un diritto l'interesse alla stabilità della condizione di occupato» come efficacemente osserva M. D'ANTONA,

Tutela reale del posto di lavoro, in Enciclopedia giuridica Treccani, 1994, vol.XXXI, p.441.

Per un'approfondita analisi sull'argomento si rinvia a P. TULLINI, La c.d. Tutela reale

di diritto comune, in Quad. dir. lav. rel. ind. , 1990 n.8 p.103ss.

100 Al lavoratore spetterebbe quindi una somma minore di quanto otterrebbe con la tutela statutaria se l'esclusione dal rapporto perdurasse per un periodo inferiore ai cinque mesi.

101 L'ordine giudiziale di reintegrazione è il vero elemento di divergenza tra la tutela reale statutaria e quella di diritto comune. Come osserva Massimo D'Antona : «La distanza tra diritto comune e diritto speciale, in materia di responsabilità del datore di lavoro per l'inattuazione del rapporto, è la distanza che intercorre, in ogni rapporto contrattuale di durata, tra la statica (la garanzia degli effetti vantaggiosi già prodotti) e la dinamica (la stabilità del rapporto nel tempo, come condizione per la soddisfazione durevole degli interessi che ampiamente vi si ricollegano) [...] le tecniche di tuela reale del posto di lavoro si distinguono dalle normali azioni contrattuali per rottura del contratto o per inadempimento degli obblighi ad esso inerenti, proprio perché mirano a realizzare non tanto l'interesse dedotto dal

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Secondo questa impostazione veniva a crearsi una bipartizione nella risposta sanzionatoria la quale sovente portava a creare delle disparità di trattamento dovute al fatto che, all’eliminazione degli effetti del licenziamento e alla conseguente persistenza del rapporto di lavoro, si perveniva attraverso l’applicazione di differenziate normative giuridiche102.

La reductio ad unum operata dal legislatore deve dunque essere salutata con favore, in quanto contribuisce a semplificare il sistema delle tutele prevenendo le incongruenze che si erano verificate vigente il vecchio regime. Quest'operazione porta però ad affrontare nuovi ambiti di discussione. È necessario infatti verificare se all'equiparazione della risposta sanzionatoria corrisponda anche un'omologazione delle singole fattispecie ad essa sottoposte. In altri termini bisogna stabilire se le singole ipotesi previste dal co.1 siano dotate di autonoma rilevanza e disciplina peculiare o se invece siano semplicemente

lavoratore nel contratto, che è fondamentalmente l'interesse alla retribuzione, ma

l'interesse del lavoratore al contratto ossia alla stabilità del complesso di beni che

trovano fondamento nella condizione di occupato (come la sicurezza del reddito e la protezione dal bisogno, lo sviluppo dei diritti pensionistici, la professionalità, la dignità sociale, la libertà di organizzazione sindacale, ecc.)». L’argomento verrà approfondito infra par.5ss

102 In questo senso G. VIDIRI, op. cit., p.625-626. La situazione sarebbe stata letta in maniera profondamente diversa optando per una ricostruzione alla luce del principio della priorità dell’adempimento (cfr. supra cap.I). La previsione di nullità avrebbe consentito alla parte inadempiuta di pretendere la condanna all’esatto adempimento del regolamento contrattuale. Si veda infra par.5ss.

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esemplificazione di una più ampia e uniforme categoria unitaria di licenziamento tout court discriminatorio103.

Prima di affrontare queste problematiche è però necessario verificare l'estensione dell'ambito di applicazione della tutela reale «piena», in particolare è di preliminare importanza stabilire se l'elencazione prevista dal primo comma sia idonea a ricomprendere ipotesi classicamente ricondotte nell'alveo del licenziamento viziato da carente giustificazione.

2. L'estensione dell'ambito di applicazione della tutela reale «piena» e la presunta identificazione tra licenziamento nullo e licenziamento ingiustificato.

Le fattispecie sottoposte alla tutela reintegratoria «piena» sono individuate dal primo comma con un elenco da considerarsi esaustivo. Il legislatore associa infatti riferimenti a fattispecie circoscritte e determinate — si pensi ad esempio al licenziamento intimato nel periodo di irrecedibilità per gravidanza-maternità o a quello a causa di matrimonio— a riferimenti a fattispecie aperte e di più ampio respiro, come il

103 Questa ricostruzione è stata proposta in M. T. CARINCI, Il rapporto di lavoro,cit. La riconduzione di tutte le ipotesi di nullità del licenziamento alla più grande categoria del licenziamento discriminatorio è stata proposta da parte della dottrina anche prima delle modifiche introdotte dalla legge 92/2012. Per una trattazione più approfondita dell'argomento si rinvia ai paragrafi 3 e ss.

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licenziamento intimato per motivo illecito comune e determinante o l'ancora più generico riferimento alle altre cause

di nullità previste dalla legge, «vera e propria norma di chiusura

onnicomprensiva»104.

Questa ampiezza dei riferimenti normativi ha condotto all'elaborazione di un'ipotesi ermeneutica dotata di grande carica innovativa105: l'elenco, di cui al comma primo, avrebbe

carattere meramente esemplificativo, costituendo le fattispecie ivi previste solo dei modelli rappresentativi della più ampia categoria del licenziamento nullo perché discriminatorio106. La

teoria qui in discussione prende le mosse dall'accrescimento nel tempo del numero di fattori di discriminazione legalmente previsti, per arrivare ad affermare che il nuovo articolo 18 sarebbe la conclusione di un iter, che avrebbe condotto alla perfetta sovrapposizione tra licenziamento ingiustificato e licenziamento discriminatorio. Il novero degli interessi vietati si sarebbe dilatato «fino a ricomprendervi qualunque finalità,

104 Così la definisce C. CESTER, Licenziamenti: la metamorfosi della tutela reale, in F. CARINCI, M. MISCIONE (a cura di), Commentario alla riforma Fornero, Diritto e pratica

del lavoro, supplemento n.33 del 15 settembre 2012

105 Si fa riferimento a M. T. CARINCI, Il rapporto di lavoro, cit. La ricostruzione proposta viene ulteriormente approfondita dall'autrice in M.T. CARINCI, Il

licenziamento discriminatorio o «per motivo illecito determinante» alla luce dei princìpi civilistici: la causa del licenziamento quale atto unilaterale fra vivi a contenuto patrimoniale, in Riv.giur.lav., 2012, n.4, p.641ss

106 Sulla riconducibilità delle fattispecie previste dal primo comma alla nozione di licenziamento discriminatorio si vedano infra i paragrafi 3 e ss. di questo capitolo.

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oggettivamente perseguita, diversa da quelle positivamente

ammesse dall’ordinamento»107.

L'evoluzione della normativa antidiscriminatoria avrebbe dunque portato a considerare come uniche cause legittime di risoluzione del rapporto le esigenze tecnico-organizzative sintetizzate nell'unica finalità tipica ammessa dall'ordinamento ossia:

l’interesse, di rilievo costituzionale a disporre di un’organizzazione in vista dello svolgimento di un’attività, che si specifica poi ulteriormente nell’interesse a modificare (giustificato motivo oggettivo di tipo economico) e a garantire la funzionalità dell’organizzazione, senza rimanere vincolato ad un contratto di cui risulti alterata, in fase funzionale, la causa, vuoi per inadempimento del lavoratore (giusta causa e giustificato motivo soggettivo), vuoi per impossibilità sopravvenuta, non imputabile, della prestazione (giustificato motivo oggettivo di tipo personale)108

Il ragionamento sembra seguire una logica binaria: il licenziamento o è legittimo in quanto pienamente rispondente alle caratteristiche richieste dall'ordinamento o è discriminatorio in quanto non giustificato quindi

107 M. T. CARINCI, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi, Relazione al XVII Congresso nazionale Aidlass, Pisa 7-9 Giugno 2012

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inevitabilmente collegato a caratteristiche, opinioni, scelte della

persona del lavoratore prive di attinenza con la prestazione lavorativa109.

La tesi, pur di indubbio interesse e acutamente argomentata, rimane esposta ad alcune osservazioni. Innanzitutto una ricostruzione di tal genere avrebbe come conseguenza una larga applicazione della tutela reintegratoria rafforzata, esito certamente agli antipodi dell'impianto di una riforma che avrebbe inteso rimodulare l'apparato sanzionatorio dell'art.18 «adeguando contestualmente alle esigenze del mutato contesto di riferimento la disciplina del licenziamento»110.

La ratio della nuova normativa deve essere ravvisata infatti nella graduazione delle tutele modulate in base alla gravità del vizio da cui è affetto il licenziamento, mentre la lettura qui in commento avrebbe come effetto l'unificazione dell'intero sistema sanzionatorio sotto il regime della tutela reintegratoria rafforzata con conseguente utilizzo residuale della tutela reintegratoria attenuata – introdotta espressamente dal legislatore in caso di insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo soggettivo e in caso di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del giustificato

109 Ivi, p.25.

110 Così espressamente l'art.1 co.1 lett.c della legge 92/2012, articolo intitolato “disposizioni generali, tipologie contrattuali e disciplina in tema di flessibilita' in

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motivo oggettivo − e della tutela indennitaria111.

C'è da osservare, inoltre, che l’ipotesi qui riassunta finisce per « unire laddove bisogna distinguere»112. A ben vedere, già nel

sistema pre-riforma, il legislatore teneva ben distinti il licenziamento nullo e quello ingiustificato, associando ad essi conseguenze differenziate. E tale distinzione ha un sostrato teorico che la riforma non sembra scalfire: nel caso del licenziamento nullo vi è totale carenza del potere di licenziare mentre per quanto riguarda il licenziamento ingiustificato il potere di licenziare sussiste, ma è esercitato in violazione dei limiti posti dalla legge mediante la regola della doverosa giustificazione113114.

In più non va dimenticato che la tutela prevista dal primo comma è applicabile, in virtù del richiamo all'art.3 della legge

111M. T. CROTTI, M. MARZANI, La disciplina del licenziamento per motivi discriminatori

o illeciti, in M. MAGNANI, M. TIRABOSCHI (a cura di), La nuova riforma del lavoro,

Commentario alla legge 28 giugno 2012 in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita, Giuffrè, Milano, 2012, p.221ss

112G. DE SIMONE, Tra il dire e il fare. Obiettivi e tecniche delle politiche per il lavoro

femminile nella riforma Fornero, in Lav.dir., 2012, p.606

113 M. V. BALLESTRERO, Declinazioni di Flexsecurity. La riforma italiana e la deriva

spagnola, in Lav.Dir., 2012, n.3-4, p.454. Nello stesso senso anche V.SPEZIALE, La riforma del licenziamento individuale, cit., p.547: «Quando l'atto interruttivo del

rapporto è basato su discriminazioni la legge reprime un illecito»; L. NOGLER, La nuova disciplina dei licenziamenti ingiustificati alla prova del diritto comparato, in Giorn. dir. lav e relazioni ind., 2012, n.4, p.679

114 La riprova di questa distinzione sostanziale sembra ritrovarsi nell’orientamento giurisprudenziale che in presenza di un licenziamento idoneamente giustificato esclude qualsiasi rilevanza alla discriminatorietà. Sul punto si vedano infra i paragrafi successivi.

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11 maggio 1990 n.108, «quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro», quindi, anche in ambito di tutela obbligatoria, la sanzione per la mancata giustificazione sarebbe comunque la tutela reale, con la conseguente sparizione dall'ordinamento della tutela indennitaria specificatamente prevista per le imprese di minori dimensioni115.

Più in generale non sembra comunque corretto affermare che il licenziamento ingiustificato sia per questo sicuramente discriminatorio. Può ben darsi invece che un licenziamento sia ingiustificato ma non discriminatorio. Un recesso basato su una causa giustificativa diversa da quelle tecnico organizzative non è per questo necessariamente collegato a caratteristiche, opinioni,

scelte della persona del lavoratore prive di attinenza con la prestazione lavorativa. Il licenziamento può ad esempio dipendere dalla

erronea valutazione, da parte del datore di lavoro, della gravità di un comportamento considerato come tale da incidere sul vincolo fiduciario ma che, invece, non ha le caratteristiche volute dalla legge116. Oppure sulla insufficiente considerazione

delle condizioni economiche (carattere strutturale della crisi, impossibilità di repechage, ecc.) che possono configurare un giustificato motivo oggettivo. In definitiva si sarebbe in presenza di valutazioni errate del datore di lavoro sulla

115V. SPEZIALE, La riforma, cit., p.521ss 116 Ibidem

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sussistenza di interessi organizzativi dell'impresa che legittimerebbero il recesso, senza che vi sia la finalità di colpire la dignità del lavoratore per scopi riprovevoli117.

Sembra dunque necessario, per una ricostruzione quanto più possibile coerente con le innovazioni legislative ma anche in accordo con il sistema che si è venuto a consolidare in materia di licenziamenti, tenere ben distinte le sfere della nullità da quella dell'annullabilità, della mancanza radicale del potere dal mancato rispetto dei presupposti per il suo corretto esercizio. In sostanza l'elenco previsto dal primo comma, pur vasto, non può essere privo di confini: le fattispecie in esso ricomprese sono dilatabili a piacere ma non possono in alcun modo invadere la sfera ricoperta dalle ipotesi di mancanza della giustificazione.

Solo tenendo a mente tale distinzione di fondo possiamo affrontare la questione, in precedenza introdotta118, sulla

possibile riconducibilità delle singole ipotesi elencate ad una macro-categoria ─ quella del licenziamento discriminatorio─ che le uniformi non solo dal punto di vista sanzionatorio ma anche dal punto di vista dell'onere della prova e dei fatti costitutivi necessari ad integrarne la fattispecie. Per rispondere a tale quesito è necessario analizzare l'elenco di ipotesi

117 Ibidem

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sottoposte alla tutela prevista dal primo comma ed in particolare quella di licenziamento discriminatorio, sulla quale sembra influire in maniera rilevante il diritto di matrice comunitaria.

3. Il licenziamento discriminatorio.

La prima ipotesi di licenziamento nullo individuata nell'elenco del primo comma del nuovo art.18 è quella del licenziamento discriminatorio. La norma, pur occupandosi di indicare con precisione il regime sanzionatorio, individua le fattispecie ad essa sottoposte solo per relationem, ossia richiamando la fonte normativa entro cui queste trovano già una disciplina. In particolare il licenziamento discriminatorio viene individuato facendo riferimento all'art.3 della legge 11 maggio 1990, n.108, il quale definisce questo tipo di licenziamento attraverso ulteriori rinvii, in specie all'art.4 della legge 15 luglio 1966, n.604, ed all'art.15 dello Statuto dei Lavoratori quest’ultimo come modificato prima dall’art.13 della legge 9 dicembre 1977, n.903 e poi dall’art.4, co.1, d.lgs. 9 settembre 2003 n.216, i quali hanno

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ulteriormente allungato l’elenco dei fattori di rischio119 previsti

nell’originaria versione dell’articolo120.

Come è stato giustamente osservato «l’utilizzo della tecnica del rinvio è coerente con la scelta (almeno formale) di occuparsi solo di sanzioni»121.

Seguendo quest’impostazione, che sembra caratterizzare l’intero intervento di riforma in materia di licenziamenti, il

119 Si utilizza il termine «fattore di rischio» a preferenza di «motivo» per non ingenerare confusione nella trattazione. Il termine “motivo” può infatti portare ad intendere le singole previsioni dell’elenco come attinenti alla sfera psicologica interna del datore, elemento la cui necessarietà non è da tutti condivisa in dottrina. Utilizzano in tal senso il termine« fattore di rischio» A. LASSANDARI, Il licenziamento discriminatorio, in F. CARINCI (a cura di), Il lavoro subordinato, Trattato

di diritto privato diretto da M. BESSONE, tomo 3°, Il rapporto individuale di lavoro:

estinzione e garanzie dei diritti, coordinato da S. MAINARDI, Giappichelli, Torino, 2007; G. DE SIMONE, Dai princìpi alle regole, Eguaglianza e divieti di discriminazione nella disciplina dei rapporti di lavoro, Giappichelli, Torino, 2001; D.IZZI, Eguaglianze e

differenze nel rapporto di lavoro. Il diritto antidiscriminatorio tra genere e fattori di rischio emergenti, Jovene, Napoli, 2005; G. BOLEGO, Il licenziamento discriminatorio tra motivo illecito e frode alla legge, in A. VISCOMI (a cura di), Diritto del lavoro e società multiculturale, editoriale scientifica, Napoli, 2011, p.685

120 La versione originaria dell’art.15 dello Statuto prevedeva: “È nullo qualsiasi patto od atto diretto a:

a)subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero ne cessi di farne parte;

b)licenziare un lavoratore, discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.

Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica o religiosa”.

A tale elenco la legge 903/1977 ha aggiunto i fattori discriminatori basati su “razza, lingua e sesso” mentre il testo tuttora vigente è quello risultante dall’integrazione operata dal d.lgs.216/2003 che ha inserito i fattori di “età, disabilità, orientamento sessuale o convinzioni personali ”

121Così C. CESTER, Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti: prime

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legislatore finisce però per delegare all’interprete l’arduo compito di identificare la nozione di discriminazione da associare al licenziamento. E tale compito richiederà un notevole sforzo esegetico. La nozione è infatti al centro di accesi dibattiti in dottrina: ad una concezione di tipo soggettivo, improntata alla valorizzazione dell’intento discriminatorio datoriale, si contrappone una concezione di tipo oggettivo, che si limita a richiedere il solo effetto discriminatorio dell’atto122.

Inoltre non va dimenticato che «mai come in questo ambito, l’intersezione tra licenziamento e discriminazione, la visione domestica e/o quella proiettata alla valorizzazione del diritto dell’unione europea manifestano tutta la loro concreta rilevanza»123.

Il diritto di matrice comunitaria ha infatti permeato sempre più nel tempo il nostro ordinamento, introducendo un micro-sistema

normativo di contrasto alle discriminazioni dotato di peculiari

122La ricostruzione per sommi capi delle teorie sulla nozione di discriminazione sarà oggetto dei prossimi paragrafi. Per una ricostruzione più approfondita del dibattito dottrinario tra sostenitori della teoria soggettiva e oggettiva della discriminazione si rinvia a R. PESSI, Lavoro e discriminazione femminile, in Giorn. dir.

lav. e relazioni ind ., 1994, n.61, p.413ss; Per una ricostruzione del dibattito con

specifico riferimento al licenziamento si vedano: L. CORAZZA, Il licenziamento

discriminatorio, in Diritto del lavoro, Commentario diretto da F. CARINCI, Il rapporto

di lavoro subordinato: garanzie del reddito, estinzione e tutela dei diritti, a cura di M. MISCIONE, II ed., Utet giuridica, Torino, 2007; A. LASSANDARI, op. cit., p.160

123 Così L.CALAFÀ, Sul licenziamento discriminatorio, in F. AMATO, R. SANLORENZO (a cura di), La legge n.92 del 2012(Riforma Fornero): un’analisi ragionata, in

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nozioni, procedure ed assetti in merito al riparto dell’onere probatorio.

Per questi motivi sarà necessaria una grande attenzione nella scelta della nozione di discriminazione da associare al licenziamento. Per riuscire a calibrare correttamente le conseguenze —sul piano processuale ma anche a livello di coerenza sistematica— che tale scelta può comportare, non si può prescindere da un’analisi delle diverse opzioni ermeneutiche che l’hanno nel tempo interessata.

3.1 Le c.d. teorie soggettive della discriminazione e il motivo illecito.

La teoria c.d. soggettiva trae le proprie origini dai primi commenti allo Statuto dei lavoratori124 − quando i fattori di

124C. ASSANTI, Commento all’art.15, in C. ASSANTI-G. PERA, Commento allo Statuto dei

diritti dei lavoratori, Cedam, Padova, 1972, p.165ss ; L. MONTUSCHI, Commento agli

artt. 15, 16, in G. GHEZZI, G. F. MANCINI, L. MONTUSCHI, U. ROMAGNOLI, Statuto

dei diritti dei lavoratori(artt.14-18), 2a ed., in A. SCIALOJA, G. BRANCA (a cura di)

Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Zanichelli-Il Foro italiano,

Bologna-Roma, 1981, p.20ss

.

Un’opzione ermeneutica di questo tipo era giustificata dal numero esiguo dei fattori di discriminazione all’epoca contemplati (limitati ai soli motivi di ordine sindacale, politico o religioso) che se interpretata restrittivamente avrebbe introdotto una «gravissima contraddizione, insieme politica e tecnica, ritrovando lo statuto dei lavoratori la sua funzione storicamente determinante nella tutela della libertà e dignità dei lavoratori» Così G. GHEZZI, Commento agli art.15-16, in G. GHEZZI, G. F. MANCINI, L. MONTUSCHI, U. ROMAGNOLI, Statuto dei diritti

dei lavoratori, in A. SCIALOJA, G. BRANCA (a cura di) Commentario del codice civile

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discriminazione erano limitati ai soli motivi di ordine sindacale, politico o religioso per il rinvio operato dall’art.18 di allora al

solo art.4, l.15 luglio 1966, n.604− ed ha riscosso consenso

crescente in dottrina sulla scorta della progressiva inclusione nell’elenco previsto dall’art.15 –richiamato espressamente dall’art.3 della legge 11 maggio 1990, n.108− di nuovi fattori 125,

tra i quali assume particolare rilevanza il riferimento alle «convinzioni personali»126.

L’evidente ampiezza di tale riferimento e la progressiva espansione dei fattori vietati, sembrerebbero infatti aver confermato che «il legislatore non avrebbe fatto altro che esplicitare, o portare alla luce, alcune, e certo le più comuni, manifestazioni esteriori di un comportamento comunque qualificabile come illecito»127.

L’elencazione di fattori andrebbe dunque considerata come una serie di ipotesi rappresentative di una più un ampia fattispecie che per esse funga da raccordo. Ciò ha portato ad adottare come chiave di volta l’art.1345: i fattori discriminatori previsti dall’art.15 st. lav., lungi dall’essere elementi di riconoscimento

125 Per le modifiche apportate all’art.15 Statuto dei lavoratori si veda supra la nota 25.

126 Il riferimento alle «convinzioni personali» è stato introdotto con l’art.4, co.1, d.lgs. 9 settembre 2003 n.216 che ha dato attuazione nel nostro alla direttiva 2000/78/CE.

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70

della fattispecie «licenziamento discriminatorio», autonoma e distinta dagli altri casi di nullità, sarebbero solo delle esemplificazioni di motivi vietati, riassumibili nella formula «motivo illecito» ossia contrario a norma imperativa, all’ordine pubblico o al buon costume.

Secondo questo orientamento, «fine dell’atto» doveva essere «quello di operare una discriminazione» e in particolare si riteneva dovesse emergere «un motivo illecito determinante secondo la nota definizione civilistica contenuta nell’art.1345 c.c.»128.

Tale tecnica, che utilizza l’art.1345 come norma-contenitore di tutte le fattispecie di licenziamento nullo, ha l’evidente pregio di consentire di ricondurre alla nozione di discriminazione situazioni

non immediatamente riferibili ai fattori vietati.

Si comprende allora il motivo per cui la nozione soggettiva di discriminazione in materia di licenziamenti sia stata accolta da giurisprudenza quasi unanime129: il ricorso all’art. 1345 c.c. «ha

permesso alla giurisprudenza di estendere la nozione di

licenziamento discriminatorio, riconducendolo al licenziamento

128 A. LASSANDARI, op.cit., p.161, nel quale una ricostruzione (con forti accenti critici) dell’orientamento soggettivo.

129Per tutte Cass. 19 marzo 1996, n.2335, in Mass. giur. lav., 1996, p.381; Cass. 26 maggio 2001, n.7188, in Not. giur. lav., 2001, p.795

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71

nullo per illiceità del motivo»130 e, conseguentemente, di

affermare l’applicazione della reintegrazione anche nelle ipotesi

non tipizzate131 e a prescindere dalle dimensioni dell’impresa132 . Ogni

licenziamento può essere sottoposto al vaglio secondo i dettami dell’art.1345 c.c.133 e risultare discriminatorio se le ragioni

illecite retrostanti ad esso siano tali da essere sufficienti a motivare in maniera esclusiva134 e determinante l’intimazione

dell’atto unilaterale interruttivo del rapporto. Un esempio dell’utilizzo della tecnica del motivo illecito per espandere la nozione di discriminazione a fattispecie non tipizzate è la creazione della figura del licenziamento di ritorsione ossia costituente ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento

130L. CORAZZA, op.cit., p. 401. Il corsivo è aggiunto. Nello stesso senso si esprime anche P. CHIECO, Il licenziamento nullo, in P. CHIECO (a cura di), Flessibilità e tutele

nel lavoro, commentario della legge 28 giugno 2012 n.92, Cacucci, Bari, 2013, p. 294.

131 Vedi infra nt. 40 e par. 4 di questo capitolo

132L’orientamento che estende la tutela reale a tutte le ipotesi di licenziamento nullo, sottraendole così al regime di invalidità del diritto comune, è stato accolto dalla Corte Costituzionale. Si vedano ad esempio Corte Cost. 30 novembre 1982, n. 204; Corte Cost. 22 gennaio 1987; Corte Cost. 24 Marzo 1988, n.338. In particolare nella sentenza 22 gennaio 1987,n.17 si è affermato che “l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, nell'ambito della disciplina del rapporto di lavoro, non è né speciale né eccezionale ma dotato di forza espansiva che lo rende riferibile ed applicabile anche a casi diversi da quelli in esso contemplati e tuttavia ad essi però assimilabili sotto il profilo della identità di ratio”. A questo orientamento ha sovente aderito anche la Corte di Cassazione. Si veda ad esempio Cass., 23 novembre 1990, n.11311 che applica l’art.18 a prescindere dalla dimensione dell’impresa. Sul punto si veda il par.1 di questo capitolo.

133 Una delle prime prospettazioni sull’utilizzo dell’art.1345 fu elaborata, per limitare il potere datoriale di recesso ad nutum, da U. NATOLI, Sui limiti legali e

convenzionali della facoltà di recesso “ad nutum” dell’imprenditore, in RGL, 1954, I, 261

134 Contra, pur aderendo alla teoria soggettiva, L. MONTUSCHI, Commento, cit., p.43ss

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legittimo del lavoratore135.

Orbene, secondo parte della dottrina, l’impostazione in commento avrebbe trovato conferma nelle modifiche introdotte dalla legge 92 del 2012.

Argomento in questo senso si trarrebbe dalla previsione della medesima risposta sanzionatoria tra licenziamento «determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art.1345 del codice civile» —per la prima volta contemplato espressamente in una norma di legge come ipotesi di nullità del licenziamento—e licenziamento discriminatorio136.

Il riferimento al motivo illecito, congiuntamente a quello alle «altre cause di nullità previste dalla legge», sarebbe dunque stato introdotto solo per confermare l’ampio ambito applicativo della tutela reale, «con l’intento di non lasciare fuori alcunché di giuridicamente riprovevole dall’ombrello aperto dal co. 1, sia dato questo dal mancato rispetto di un disposto imperativo o

135 La definizione del licenziamento ritorsivo si ritrova in varie sentenze della Cassazione. Per tutte si veda Cass., 8 agosto 2011, n. 17087, in CED Cassazione che lo equipara al licenziamento discriminatorio. La collocazione sistematica del licenziamento di ritorsione alla luce del nuovo testo è problematica. L’argomento verrà trattato infra par.4

136 M. T. CARINCI, Il rapporto,cit.,p.24. Secondo l’autrice infatti la macrocategoria rappresentata dal licenziamento tout court discriminatorio «trova ora ulteriore conferma nel d.d.l. n. 3249 [ora legge 92/2012] che, prevedendo per entrambi il medesimo regime di tutela, equipara il licenziamento determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c.». Sul punto concorda F. CARINCI,

Ripensando il “nuovo” art.18 dello Statuto dei lavoratori, in Dir. rel. ind., 2013, n.2/XXIII

p.36. Dello stesso avviso sembra essere la ricostruzione di M. MARAZZA, L’art.18,

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73

dal perseguimento di uno scopo illecito»137

Ne segue che il distinguo fra licenziamento discriminatorio e licenziamento per motivo illecito di cui all’art. 18, co. 1, non

sottrae affatto il primo all’art. 1345 c.c. ma serve solo a ribadire che

oltre alle ipotesi tipizzate dall’art. 4 l. n. 604/1966 e dall’art. 15, co. 2, della stessa legge n. 300/1970, sono ad esso sottoposte anche quelle non tipizzate.138.

Altro argomento a favore dovrebbe dedursi dal rinvio all’art.3 della legge 11 maggio 1990, n.108. La norma, come noto, utilizza la locuzione «licenziamento determinato da ragioni discriminatorie» e l’utilizzo di tale terminologia darebbe l’idea «di una prevalenza dell’elemento intenzionale/soggettivo rispetto a quello teleologico- oggettivo»139.

In virtù di tali constatazioni sarebbe dunque presumibile aspettarsi che i giudici continueranno a confermare il tratto necessariamente esclusivo della volontà illecita del datore di lavoro; quindi l’idoneità del licenziamento a estinguere il

137F. CARINCI, Ripensando il “nuovo” art.18, cit., p.36

138 Ibidem. L’autore però rileva che la progressiva estensione delle ipotesi tipizzate di discriminazione «fino a ricomprendere le “convinzioni personali”, sia venuta a ridurre al massimo la rilevanza delle seconde[quelle non tipizzate ndr]»

139F. CARINCI, Ivi, p.32. Questo argomento era già stato utilizzato in vigenza del vecchio art.18, anch’esso facente riferimento all’art. 3 l.108 del 1990. In particolare resterebbe immutato il contrasto con la dizione “diretto a” dell’art.15 St. Lav., la quale sarebbe assimilabile ai “comportamenti diretti a” dell’art.28 St. Lav., ricondotti da giurisprudenza dominante ad una valenza teleologico/oggettiva. Per l’analisi di questi argomenti nel veddhio regime si rimanda a R. PESSI, op.cit., p. 443.

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vincolo quando vi siano delle circostanze che integrino la nozione di giusta causa o di giustificato motivo che si aggiungano al profilo ritorsivo-discriminatorio140, con le

notevoli conseguenze che ne deriverebbero in merito all’onere della prova.

L’animus nocendi del licenziante continuerà ad essere richiesto come fatto costitutivo della discriminazione, per cui il lavoratore che vorrà ottenere dal giudice la dichiarazione di nullità dovrà dimostrare, non solo l’esistenza di una disparità di trattamento, ma anche che tale disparità sia stata specificatamente voluta dal datore a fini discriminatori (o ritorsivi)141.

La giurisprudenza inoltre seguiterà a richiedere che il motivo,

140Così G. CANNATI, Profili di incostituzionalità della riforma sui licenziamenti, in Riv.

it. dir. lav., 2013, n.1, p.208. Sembra contribuire a superare questo indirizzo la lettera

del nuovo Art.18, co.1 laddove fa riferimento al «motivo illecito determinante», senza alcun esplicito richiamo al requisito dell’«esclusività». Dunque potrebbero aprirsi varchi per un’interpretazione soggettivistica —richiedente l’animus nocendi — che possa far ritenere discriminatorio il licenziamento anche se provvisto di giusta causa o giustificato motivo. Sul punto si veda infra par.4.

141 La giurisprudenza è pressoché unanime nel richiedere l’intento discriminatorio e numerose sono le sentenze della Corte di Cassazione che propendono per una simile ricostruzione: per tutte si vedano Cass. 19 marzo 1996, n.2335, in Mass. giur. lav., 1996, p.381; Cass. 26 maggio 2001, n.7188, in Not. giur. lav., 2001, p.795.

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oltre che determinante, sia anche esclusivo142, con l’effetto pratico

che al datore di lavoro, per evitare una qualsiasi indagine sulla discriminatorietà dell’atto, basterà provare l’esistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo143. E solo qualora non

riesca resterà esposto alla contro-prova del lavoratore circa la presenza di un licenziamento ritorsivo/discriminatorio, caratterizzato dall’animus nocendi e dal carattere esclusivo 144.

142 C’è però da rilevare che parte della dottrina, pur sostenendo la necessità dell’elemento soggettivo, abbia sovente ammesso che sia ben possibile che un licenziamento possa essere discriminatorio anche se sorretto da adeguata giustificazione e anzi l’indagine sui moventi soggettivi permetterebbe di considerare discriminatorio anche un licenziamento perfettamente rispettoso dei dettami legali. In questo senso L. MONTUSCHI, Commento agli artt. 15, 16, cit., p.43ss

143La giurisprudenza, facendo leva sul requisito dell’esclusività del motivo, è costante nell’escludere che il licenziamento possa ritenersi discriminatorio qualora il datore fosse riuscito a dimostrare la presenza di una valida giustificazione,. Per tutte si vedano Cass. 9 13 dicembre 2000, n. 15689, in Mass. giur. lav., 2001, p. 380; Cass. 22 agosto 2003, n.12349; Cass. 5 agosto, 2010, n.18283, 2010 in CED

Cassazione; Cass. 9 marzo 2011, n. 5555 in Mass. giur. lav., 2011, p.665

144 Così F. CARINCI, Ripensando il “nuovo” art.18, cit., p.31 secondo il quale: «Il nuovo art.18 si ripropone con l’identico spirito e ruolo di cui alla l. 604/1966, di strumento

al servizio del principio di giustificazione del licenziamento per cui è il datore chiamato

in prima battuta a dar una prova dell’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo, che qui, coerentemente, è piena. Se non la da si espone ad un duplice rischio: quello certo, di ricevere una sanzione, oggi, modulata fra reintegra ed indennità risarcitoria; quello possibile, di vedere provato dal lavoratore la presenza di un motivo discriminatorio, oggi come ieri, rilevante né più né meno come motivo illecito ex art.1345 c.c. con tutto quello che ne consegue quanto all’animus nocendi»(il corsivo è di chi scrive).

(27)

76

3.2 Segue: critica alle teoria soggettiva. Verso una nozione oggettiva della discriminazione?

La ricostruzione c.d. soggettiva della discriminazione ha sollevato notevoli perplessità in ambito dottrinario.

In essa, come è stato rilevato145, le nozioni di discriminazione e

di motivo illecito determinante si fondono e si confondono creando «un’unica categoria il “licenziamento ritorsivo” (comprendente sia motivi ritorsivi tipizzati sia quelli non tipizzati), e l’articolo 1345 del codice civile ha trovato in questa categoria una applicazione generalizzata, a prescindere dal fatto che il motivo discriminatorio fosse o meno tipizzato»146.

La giurisprudenza giunge in effetti storicamente ad affermare l’applicazione della reintegrazione anche nelle ipotesi non tipizzate, sulla base della rilevata presenza di un motivo illecito determinante, ma lo ha fatto riconducendo all’art.1345 pure la nullità stabilita per le figure discriminatorie individuate dal legislatore, in aperto contrasto con la nozione mutuata dalle

145M. T. CROTTI, M. MARZANI, La disciplina del licenziamento, cit., p.224

146 Ibidem. Nello stesso senso si esprimono anche A. LASSANDARI, op.cit.,p.169 secondo il quale: «inaccettabile sembra la soluzione fatta propria dalla giurisprudenza maggioritaria. Secondo tale indirizzo, tutti i licenziamenti (definiti per lo più di ritorsione o rappresaglia, trovino o meno origine in ragioni prefigurate dalla legge) sono nulli in base agli artt.1328, 1418 e 1345 c.c.: ciò costituendo spiegazione del tutto plausibile dell’origine delle implicazioni sulla necessaria presenza dell’intento discriminatorio nonché sulla incompatibilità di concause determinanti ». Concordi con queste affermazioni sono anche, L.CALAFÀ,

op.cit, p.128; L. CORAZZA, op.cit., p.401. Per quest’ultimo riferimento si veda supra la

(28)

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direttive di derivazione comunitaria in materia di discriminazione. Le fattispecie in queste contemplate infatti, non fanno alcuna menzione della necessarietà dell’elemento intenzionale.

Ai sensi dell’art.43, co.1 d.lgs. 25 luglio 1998, n.286, testo unico sull’immigrazione viene in rilievo:

ogni comportamento che, direttamente o indirettamente comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza […] e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica

Per l’art. 2, co.1, lett. a d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215147 e l’art. 2, co.1

lett. a d.lgs. 9 luglio 2003, n.216148, si ha discriminazione diretta

quando:

per la razza o l’origine etnica (d.lgs. 215/2003) per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale (d.lgs. 216/2003) una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra

147Che ha attuato la direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, sull'attuazione del principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica.

148Che ha attuato la direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

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in situazione analoga

Per l’art. 25, co.1 e 2 d.lgs. 11 aprile 2006, n.198 (nel quale è confluito l’art.4 125/1991) codice sulle pari opportunità:

costituisce discriminazione diretta qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga.

Come si può agevolmente evincere dalle norme succitate, la nozione di discriminazione derivata dalle direttive comunitarie e recepita nel nostro ordinamento mette l’accento sulla sola

rilevanza degli effetti prodotti dall’atto datoriale prescindendo da

un’analisi sulla volontà di conseguirli. Ciò che rileverebbe ai fini della definizione di un licenziamento come discriminatorio, sarebbe solo l’oggettiva idoneità dell’atto a ledere il bene protetto e la dimostrazione del nesso causale tra questo e la lesione di quel bene149.

Ma, a ben vedere, propendere per nozione oggettiva non è solo una —pur legittima— questione di maggior aderenza al dettato

149M. BARBERA, Il licenziamento

,

cit., p.

;

E. TARQUINI, I licenziamenti discriminatori, in M. CINELLI , G. FERRARO, O. MAZZOTTA, Il nuovo mercato del lavoro dalla riforma Fornero alla legge di stabilità 2013, Giappichelli, Torino, 2013, p. 256-257

(30)

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normativo150.

Ancorare la discriminazione unicamente all’effetto di compromissione del bene protetto significherebbe superare l’aspetto di certo più stridente con la realtà del concreto svolgersi dei rapporti di lavoro, ossia il consolidato «sillogismo giurisprudenziale secondo cui la giustificazione del recesso fa necessariamente aggio sulla sua discriminatorietà»151.

Come è stato giustamente osservato, un simile ragionamento finisce per essere «fuorviante»152.

Invero ammettere che una giustificazione relativa alle ragioni dell’impresa possa impedire la configurazione di una discriminazione, significa subordinare alla logica dell’impresa un interesse —la tutela contro le discriminazioni— che per l’ordinamento ha un valore preminente153. Gli specifici interessi

tutelati dal divieto di discriminazione, infatti, prevalgono nella gerarchia espressa dall’ordinamento, su quelli che hanno condotto a tipizzare ulteriori corrette modalità di esercizio dei poteri datoriali.

Sembra inoltre intuitivo osservare che sul piano pratico «è ben

150 L’esigenza di conformare la nozione di discriminazione a quella derivante dal dettato normativo è diffusa in dottrina. Per tutti si vedano

151O. MAZZOTTA, I molti nodi irrisolti, cit., p.14.

152M. BARBERA, Il licenziamento alla luce del diritto antidiscriminatorio, in Riv. giur.

lav., 2013, n.1, p.153

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raro, se non da escludere radicalmente, che discriminazioni o illiceità si presentino da sole per lasciarsi giudicare come tali».154

Al contrario nella maggior parte dei casi una discriminazione sarà celata dietro un provvedimento perfettamente legittimo alla luce della razionalità economica interna all’impresa155.

Tirando le fila delle considerazioni svolte sembrerebbe allora opportuno rivedere le acquisizioni giurisprudenziali in materia di discriminazioni156.

154Così C. CESTER, Il progetto di riforma, cit., p.567. L’orientamento giurisprudenziale criticato è stato definito «un ragionamento che si chiude in un circolo vizioso tale da escludere ogni rilievo alla tutela antidiscriminatoria» da O. MAZZOTTA, Diritto

del lavoro, IV ediz., in G. IUDICA, P. ZATTI (a cura di) Trattato di diritto privato, Milano,Giuffrè,2011, p.692

155 Ibidem, ove si osserva che: «Il controllo di non discriminazione non è diretto ad accertare che i poteri datoriali siano esercitati per realizzare l’interesse economico per il quale sono riconosciuti». Dello stesso avviso A. LASSANDARI, op.cit., p.164 che

giustamente afferma che tra i due controlli (quello di non discriminazione e quello sulla giustificatezza) «non vi è contraddizione o conflitto poiché la valutazione di antigiuridicità concerne il comportamento datoriale analizzato sotto differenti profili»

156 Sebbene questa ricostruzione sia la più rispondente ai dettami provenienti dal diritto comunitario, di essa si trovano solo rarissime tracce in giurisprudenza. Tutte pronunce di merito: Pret. Milano, 17 novembre 1980, in Orient. giur. lav., 1980, p.81 secondo la quale «L'atipicità strutturale degli atti discriminatori fondati sul sesso (come degli altri atti discriminatori di cui all'art. 15 lett. b) statuto lavoratori, come novellato dall'art. 13l. 9 dicembre 1977, n. 903) consente di ritenerne sufficientemente provata l'esistenza qualora tali atti, considerati nella loro incidenza oggettiva sulla reciproca posizione di donne e di uomini (come già acquisito in relazione alla condotta antisindacale ex art. 28 statuto lavoratori), siano di fatto idonei a recare pregiudizio»; Pret. Lecce, 13-12-1997, in Riv. Critica Dir. Lav., 1999, p.129 in cui si argomenta così un caso di discriminazione per sesso: «Il giudice deve chiedersi non per quale motivo soggettivo il datore di lavoro abbia tenuto un certo comportamento nei confronti della lavoratrice, bensì se nella situazione data esso avrebbe agito nello stesso modo nei confronti di un lavoratore

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81

Indicazioni importanti in questo senso sembrano provenire dal testo del nuovo co.1 dell’art.18.

Innanzitutto il legislatore stabilisce —come del resto già faceva nell’art.3 della legge 11 maggio 1990, n.108— che il licenziamento nei casi contemplati dal co.1 sia nullo «indipendentemente dal motivo formalmente addotto» e quindi, se ben s’intende, a prescindere dalla sussistenza o meno di una giustificazione157. Un altro argomento a favore

sembrerebbe derivare dalla previsione del comma 7:

Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo.

Questa disposizione potrebbe essere letta, affinché non sia «meramente ripetitiva ed inutile»158, come indicativa della non

sufficienza, ai fini dell’esclusione della natura discriminatoria di un licenziamento, della prova della sussistenza di un

di sesso maschile; se la risposta è negativa, sussiste discriminazione»

157 Fa riferimento alla formulazione letterale dell’art.3 l.108/1990 e del nuovo art.18 c.1 O. MAZZOTTA, Diritto del lavoro, cit. p. 712.

158P. ALBI, Il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo dopo la riforma Monti-Fornero, in

Working Paper 160/2012 in http://csdle.lex.unict.it, p. 16. La norma infatti finirebbe per riflettere ciò che è «nell’ordine naturale delle cose» ossia che «difficilmente (fatta eccezione per l’auto-lesionismo che, sul piano tecnico-giuridico, può tradursi nella confessione ex art. 2730 c.c.) il datore di lavoro dichiarerà di intimare un licenziamento per ragioni discriminatorie ovvero che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo trova il proprio “vero” fondamento in una mai dichiarata valutazione fortemente negativa sull’adempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore» (Ibidem).

(33)

82

giustificato motivo oggettivo159.

Infine, dato forse ancor più significativo, il licenziamento per motivo illecito è espressamente richiamato «come ipotesi di

nullità distinta e separata rispetto a quella del licenziamento

discriminatorio»160. E la formulazione letterale sembra

prevalere sulla constatazione che le due fattispecie siano regolate alla stessa stregua sul versante sanzionatorio. Per vero, come è stato osservato, tale equiparazione «non deve indurre a confondere ciò che deve rimanere distinto»161.

Anzi, e a ben vedere, la stessa estensione della tutela reale a tutte le ipotesi di nullità del licenziamento —utilizzata, come visto, quale argomento a favore della teoria soggettiva della

159 Ivi, p.18: «sarebbe dunque insufficiente che il datore di lavoro alleghi e provi il giustificato motivo oggettivo ove il lavoratore provi che il licenziamento è determinato da ragioni discriminatorie: siffatta interpretazione consentirebbe dunque di superare l’orientamento giurisprudenziale secondo cui ove risulti provato il fondamento oggettivo del licenziamento non residuerebbe spazio per indagare sulla natura discriminatoria del recesso».

160Così C. PEDERZOLI, Licenziamento nullo e conseguenze: che cosa è cambiato? Note

minime sul nuovo testo dell’art.18, comma 1-3, in QFMB Saggi/Ricerche, 2012, n.3, p.9

Rilevano questa distinzione anche M. T. CROTTI, M. MARZANI, op. cit., p.225; M. BARBERA, Il licenziamento alla luce del diritto antidiscriminatorio, in Riv. giur. lav.,

2013, n.1, p.151; P. CHIECO, op. cit., p.294; G. DE SIMONE, Tra il dire e il fare. Obiettivi

e tecniche delle politiche per il lavoro femminile nella riforma Fornero, in Lav.dir., 2012,

p.606. L’ipotesi è rilevata, in forma più dubitativa, anche da C. CESTER, op.cit, p.567 secondo il quale: «A volersi sbizzarrire in ipotesi ermeneutiche un po’ ardite, si potrebbe rovesciare il ragionamento e –assodata la necessaria unicità del motivo, proprio in virtù del richiamo all’art.1345 c.c.− ritenerla viceversa non più necessaria perché non richiamata, né direttamente né indirettamente nel caso di licenziamento discriminatorio»

(34)

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discriminazione162— non renderebbe più necessario il ricorso

alla tecnica del motivo illecito per estendere la tutela reale ad ipotesi non espressamente contemplate come discriminatorie163.

Se queste argomentazioni risultano fondate, allora sarà necessario far riferimento ad una nozione che si sganci dall’articolo 1345 c.c., per fare riferimento a criteri obiettivi di identificazione, i quali, in aderenza alle direttive comunitarie, permettano l’emersione di una discriminazione anche in presenza di atti datoriali apparentemente legittimi.

C’è però da rilevare che, laddove si accettasse la definitiva separazione tra discriminazione e motivo illecito, si aprirebbe un nuovo problema: quello relativo alla collocazione delle ipotesi non tipizzate dalla normativa antidiscriminatoria164.

In particolare si presenterebbero all’interprete due possibili opzioni165: o considerare l’elenco dei fattori di discriminazione166

come non tassativo e quindi ritenere discriminatori anche

162 L’argomento è stato sostenuto, come visto, da M. T. CARINCI, Il rapporto,cit.,p.24 e da F. CARINCI, Ripensando il “nuovo” art.18, cit., p.36. Per questi due riferimenti si

vedano supra le note 38 e 39

163 Rileva questa possibilità L.CALAFÀ, op.cit, p.126

164 Come visto supra par. 3.1, la giurisprudenza aveva utilizzato l’art.1345 per estendere la nozione di discriminazione alle ipotesi non espressamente contemplate dal legislatore. Il caso più importante è quello del licenziamento c.d. ritorsivo sul quale infra par.4.

165 Rileva il problema A. LASSANDARI, op.cit., p.170.

166 Il quale attualmente comprende le ipotesi di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua, di sesso, di età, basata sulla disabilità, sull’orientamento sessuale, sulle convinzioni personali. Per la progressiva espansione a mezzo di successivi interventi legislativi si veda supra la nt.25.

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