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II ASPETTI METODOLOGICI

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Academic year: 2021

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II

ASPETTI METODOLOGICI

“I miei interlocutori più validi sono i vecchi, perché sanno. I vecchi sono narratori e attori straordinari. Accettano sempre il dialogo, hanno fame di parlare” (Nuto Revelli, Il mondo dei vinti)

1 Uno sguardo d’insieme alle interviste

Nella presente ricerca sono raccolte le interviste a diciassette donne, nate tra il 1914 e il 1933, che hanno passato buona parte o l’intera vita a Calci, paese del Monte Pisano. Il particolare determinante è che tutte hanno vissuto nel paese, anche se saltuariamente, nel periodo che va dai quindici ai venticinque anni, arco temporale che coincide con quello che gli studiosi di psicologia chiamano “picco di reminiscenza”, definizione che indica una fitta frequenza di ricordi proprio riguardanti questo delicato periodo di formazione dell’identità della persona1. Per queste che ora sono vispe “nonne”, cresciute sotto il fascismo e sposatesi quasi tutte negli anni del dopoguerra, il picco di reminiscenza è segnato dall’evento critico della seconda Guerra Mondiale il cui passaggio ha inevitabilmente imbevuto i ricordi riguardanti la loro giovinezza.

Le interviste sono state condotte (a parte una nell’ottobre 2005) tra il febbraio e l’aprile 2006, nel paese di Calci (eccezion fatta per quella di Rina avvenuta a Napoli). Sono state tutte videoriprese mediante una videocamera

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G. Leone, La memoria autobiografica. Conoscenza di sé e appartenenze sociali, Carocci, Roma 2002 , pp. 71-72

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digitale. La discrezione delle dimensioni dell’apparecchio e un delizioso senso di protagonismo malcelato («Vi dispiace se vi riprendo? Non vi imbarazzate mica, vero?» «Faccia! Faccia! Tanto siamo vecchie, ‘un si va mìa alla RAI!») hanno cancellato ogni mio timore sul fatto che la videocamera potesse inibire il racconto delle proprie memorie. In questa fase del lavoro è stata preziosa, direi anzi indispensabile, la collaborazione degli “intermediari” cioè di tutti i figli, nipoti e amici delle donne intervistate che hanno combinato e preparato l’incontro. Spesso alcuni di loro sono stati presenti durante l’intervista fornendo spunti per il ricordo o dando delucidazioni su qualche punto poco chiaro della narrazione. Le interviste sono per lo più singole tranne quella “a tre” di Rosina S, Fortunata e Gina (Rosina S e Fortunata sono sorelle e Gina è loro cugina), quella a Palmira e quella a Maria M, le quali hanno chiesto che all’intervista partecipassero anche i mariti che, a loro avviso, potevano fornirmi informazioni più dettagliate e interessanti riguardo la guerra. A poco è servito lo specificare che l’oggetto della ricerca erano sì le memorie del tempo di guerra ma delle donne, e il tentativo con i mediatori di spronare al dialogo le mogli e contenere le testimonianze dei mariti, cosicché le interviste di Palmira e Maria M si sono trasformate da singole a doppie dal momento che i rispettivi mariti, Mario e Renzo, hanno preso (tolto) molto spesso la parola alle loro signore. Poco male: anche se hanno arginato e condizionato abbastanza il racconto delle mogli, hanno reso

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evidente come i ricordi al maschile siano sostanzialmente differenti da quelli al femminile. Se infatti i ricordi delle donne interessano generalmente vicende capitate nei confini dello spazio familiare o del giro di amicizie del paese, gli uomini, come è comprensibile, citano con più frequenza avvenimenti della vita pubblica e politica ai quali hanno partecipato. Inoltre anche i punti di riferimento temporali sono diversi: per la donna contano le date del giorno di matrimonio, della nascita dei figli o del tanto atteso ritorno di un familiare dalla guerra. Per gli uomini le date del privato coincidono con i momenti salienti della grande Storia (l’otto settembre, il giorno della liberazione di Calci…) e un riferimento o un’interpretazione riguardante la vicende politiche di allora non manca mai. A parte qualche battibecco durante l’intervista, alimentato più da un risentimento del presente che dal puro intento di rettificare una versione dei fatti ritenuta erronea2, è raro che la moglie contraddica il marito, anche se il gioco degli sguardi e delle espressioni fa trasparire in alcuni momenti un certo disaccordo. Riguardo questa intervista così scriverò nel mio “diario di campo”:

“Ho cercato di scegliere soprattutto domande che potessero coinvolgere Palmira ma il primo a rispondere era quasi sempre Mario, Palmira soprattutto commentava, il più delle volte associandosi alla risposta di Mario cui lasciava molto spazio

Alla fine dell’intervista Mario dice: “Abbiamo passato un’oretta in compagnia” in realtà ne sono passate quasi due ma io le ho sentite

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tutte forse perché ossessionata dalla paura di non riuscire a far parlare abbastanza Palmira.

L’intervista condotta in coppia ha rivelato una certa “subalternità” della moglie al marito. Fino alla fine mi chiedono di far loro altre domande e la cosa mi dispiace un po’ perché è la riprova del non superamento della fase “cosa ti serve che io dica?”.

Non sono troppo soddisfatta dell’intervista eppure l’accoglienza è stata molto cordiale: “Torni a trovarci, siamo due vecchietti”. Mi sento prosciugata più che coinvolta. (17/02/06)

A casa, dopo due giorni, rivedo la registrazione e non la trovo poi così male. Concludo che, di sicuro, ero io a non essere ben disposta quel giorno. (19/02/06) ”

Nel caso invece di Rosina S, Fortunata e Gina, si assiste al sostanziale intento di fornire una memoria univoca: un po’ per una forniscono particolari di uno stesso tema, quasi a costruire un racconto unitario in cui alla fine è difficile ricostruire quale esperienza, e soprattutto quale parere, appartenga a chi. In una catena infinita, le vicende vissute da una, già condizionate dal ricordo raccontato dalle altre due, vengono a galla con una nuova veste e, una volta pronunciate, plasmano il successivo racconto delle due intervistate, tanto che si potrebbe dire di loro che hanno tre cuori e una bocca sola. Le ascoltatrici intanto sono tutt’altro che silenti e si preoccupano di precisare e confermare il racconto in corso ma senza mai contraddirlo apertamente.

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Nonostante i caratteri delle narratrici siano molto diversi tra loro, nessuna, nemmeno tra le più timide, si è tirata indietro: tutte mi hanno accolta con calore (e questo è sicuramente merito degli intermediari che si sono preoccupati di presentare me e il mio progetto alle intervistande) e, benché spesso si mostrassero stupite -ma in fondo lusingate- che per la confezione una tesi di laurea potesse essere di qualche aiuto raccontare la propria quotidianità, hanno dimostrato tutta la loro pazienza e il loro entusiasmo. Qualcuna mi ha detto di non aver dormito la notte prima dell’intervista a causa dei ricordi che le si affollavano nella mente, altre hanno insistito perché le andassi a sentire nuovamente perché avevano tante altre cose da dire, altre ancora si sono stupite e commosse per come certi ricordi, assopiti da tempo, si fossero risvegliati di colpo durante la narrazione come balzati fuori dal nulla. Tutte, anche quelle a prima vista più burbere o riservate, mi hanno chiesto di tornare presto a trovarle e soprattutto di informarle riguardo l’esito del lavoro.

Subito dopo ogni intervista, una volta a casa, ho scritto i miei commenti “a caldo” non solo su come si era svolto l’incontro, ma anche e soprattutto sulle emozioni che mi aveva lasciato. Queste riflessioni, che indubbiamente sono agli antipodi di quello che si potrebbe definire un “commento oggettivo”, hanno svolto la funzione di humus per a crescita di questo lavoro. Riguardo l’importanza del “diario di campo” e la necessità di ribadire che la relazione scritta di qualunque ricerca sul campo non possa

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rappresentare in alcun modo una riproduzione in scala 1:1 dell’esperienza eliminandone i segni della presenza del ricercatore, il quale, volente o nolente, è esso stesso parte integrante della ricerca antropologica, si è espresso James Clifford3 sostenendo che la scrittura non può essere ridotta a “metodo” per mettere ordine tra i risultati e che la scienza si trova comunque all’interno, non all’esterno, dei processi storico- linguistici. Gli appunti degli incontri mi sono inoltre tornati utili per ricreare lo stato d’animo che mi aveva accompagnata durante le conversazioni e per puntare l’attenzione non solo sulle mie impressioni riguardo la narratrice ma soprattutto su l’effetto che aveva il suo racconto su di me che lo accoglievo. Ne riporto come esempio alcuni stralci:

“Elda vive a Roma e torna ogni tanto a visitare i luoghi del suo passato. Abitava a Navacchio e fu sfollata a Calci. Ci siamo incontrate la mattina del 21 ottobre 2005. è una bella giornata, il tempo di salutarci e presentarci e mi chiede di cominciare subito a raccontare magari passeggiando per il paese.(…) Parla con un’inflessione mista tra il toscano e il laziale. La videocamera non la imbarazza e non è la prima volta che racconta il suo passato, lo fa volentieri soprattutto perché “i giovani non dimentichino” perché dice che oggi ci raccontano un sacco di bugie. Mi vieta di darle del Lei perché potrei essere sua nipote. Le riprese fanno venire il mal di mare perché riprendo mentre cammino. Man mano che ripercorriamo le vie del paese affiorano i ricordi; alcuni episodi sono divertenti, altri tristi: ride parlando del suo innamoramento adolescenziale per

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J.Clifford, G. E. Marcus (a cura di), Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia, Meltemi, Roma 2001.

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Sergio e si commuove nella cappellina dell’ex seminario quando ricorda i morti. Sono molto coinvolta e seguo simpaticamente i suoi racconti ridendo e commovendomi anche io. Ogni luogo suggerisce un aneddoto, man mano che Elda li rammenta io non posso fare a meno di immaginare i protagonisti della narrazione che camminano con noi, che fanno capolino dalle finestre, che ripetono i gesti e le espressioni di allora come degli attori. Racconto dopo racconto, passa un’ora senza quasi accorgercene. Deve andare via. Mi dispiace.(21/10/2005)

Non riesco a smettere di pensare a quello che mi ha raccontato e riferisco del nostro incontro ai miei e alle amiche, anche se non me lo chiedono e magari vorrebbero anche parlare di altro”(22/10/2005).

“Nonna Rina vive a Vico Equense (Na) praticamente da quando si è sposata, torna a Calci solo per qualche settimana in estate, nonostante questo (o forse anche per questo?) è molto legata al suo paese natale per il quale prova una grande nostalgia. Quando viveva a Calci (e prima che il padre sperperasse a cuor leggero tutti gli averi della famiglia) godeva di una posizione sociale medio-alta: il nonno era proprietario di diverse terre e, in virtù del fatto che conosceva le lingue, si occupava delle “pubbliche relazioni” per i frati della Certosa. Poi la guerra ha funzionato da “livella”. (…) Per la sua famiglia il problema della fame non era così pressante, eppure la narrazione è pervasa da un senso di amarezza che si riassume nella sua frase: “Certo se uno potesse rifare le cose due volte…”. Mi viene in mente la citazione “anche i ricchi piangono”: i poveri piangono perché la guerra porta miseria, ma una vita non agiata li ha abituati a godere delle piccole cose e dei sentimenti autentici; al contrario i ricchi piangono perché la guerra ha interrotto i loro sogni di gloria e,

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da un momento all’altro, hanno dovuto “riconvertire” le proprie vite e le proprie ambizioni senza mai esserne stati abituati. Quelle dei poveri sono lacrime dolorose, quelle dei ricchi amare. Ma il dolore sfoga, magari violentemente, poi si consola, si esaurisce; l’amarezza, come il pessimismo, continua a scorrere sotto pelle, avviluppa ogni sentimento, non si dilegua mai e nasconde alla vista le cose belle della vita. (…) Impossibile seguire lo schema della griglia tematica: se pongo domande puntuali la risposta è breve, talvolta nulla. Rina segue i suoi pensieri che le si propongono “aneddoticamente” legati tra di loro da associazioni che spesso non è facile individuare. Ci sono lunghe pause di silenzio tra la narrazione di un episodio e un altro come se il ricordo si affacciasse alla sua memoria per lente “riemersioni” di immagini. Durante queste pause di silenzio Rina è talmente assorta che sembra non sentire nemmeno le domande che le si fanno. Non so che darei per sapere cosa le frulla nella mente, come si inseguono i pensieri lì dentro, ma il suo carattere riservato traspare anche da questo suo modo di non mostrare mai il suo pensiero per intero.”(21/02/06)

“Entro in casa di Rosina, che non vede l’ora di cominciare, ha persino rassettato casa e pulito le scale, manco fossi il prete che viene a benedire! Mi accoglie con un gran sorriso, sul fuoco una pentola di minestra di verdure. Mi chiede un po’ stupita se la videocamera è per registrare quel che dice lei(…) Comincia a parlare da subito e il primo argomento che tocca è quello del marito. È incredibile: le brillano gli occhi, è ancora innamorata, nonostante lui non ci sia più. (…)È una donna semplice e onesta, dice di se stessa che è un po’ permalosa, a me pare onesto anche questo suo modo di presentarsi con le proprie virtù e i propri difetti, secondo l’ottica di equilibrio che la permea.(…) Sorride molto quando racconta e si

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commuove quando parla del ritorno del fratello dal fronte del quale non aveva più notizie da due anni.

Commenta i fatti di oggi con la pacata saggezza di chi ne ha passate tante, di chi conosce il mondo, che vorrebbe dare un giudizio severo ma che non lo fa per non cadere nell’impertinenza. È una chiacchierata davvero piacevole, mi mette di buonumore, il tempo è volato, tanto che, a fine intervista, Rosina si accorge che non mi ha nemmeno offerto un caffè, ci rimane male, le prometto che tornerò un’altra volta appositamente per prendere il caffè. La invito alla futura discussione, sorride apertamente ancora una volta e capisco che l’invito le ha fatto piacere, poi esita un momento e mi risponde: «Se ci viene mio figlio…» ancora una volta il senso della misura. Non avevo mai conosciuto un’umiltà tanto sorridente, ne sono affascinata.”(10/03/06)

Prima di cominciare gli incontri avevo programmato una griglia tematica dalla quale prendere spunto per le domande che però si è rivelata piuttosto inutile: in alcuni casi, il solo fatto di presentarmi col blocco degli appunti con delle domande preparate aveva il risultato di far sentire l’interlocutrice nei panni di una persona che dovesse rispondere ad un questionario, e questo produceva un’inibizione del proprio flusso di ricordi e il dare per scontato che ciò che non veniva domandato non fosse degno di essere raccontato; In altri casi invece, la griglia tematica veniva semplicemente ignorata, riscuotendo solo risposte laconiche per lasciare spazio alla narrazione dei ricordi che l’intervistata desiderava raccontare e che a volte esulavano dagli argomenti previsti. Per ovviare all’inconveniente, per

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alcune interviste successive ho lasciato che le donne seguissero un proprio ordine espositivo e, solo quando si esauriva la discussione, suggerivo nuovi argomenti da trattare. Questo mi è servito per individuare i temi verso i quali spontaneamente vertevano più di frequente le testimonianze e mi ha permesso di stilare una nuova griglia tematica per “indirizzare” in maniera non invasiva le interviste successive così da facilitare il confronto di argomenti comuni. La nuova griglia tematica, molto più sintetica della precedente e ricavata direttamente dalle interviste, aveva il duplice vantaggio di poter essere facilmente memorizzata evitando così la presenza fisica di un questionario, e di risultare affine al campo dei ricordi delle intervistate accompagnando più che inducendo alla narrazione del ricordo. I paragrafi che indicano la ripartizione delle trascrizioni della presente ricerca, sono conformati grosso modo su questa griglia espositiva che si può così riassumere:

- L’infanzia (la scuola; i giochi; la prima comunione; la festa del patrono)

- L’amore (il fidanzamento; il matrimonio; il viaggio di nozze; la vita in casa dei suoceri)

- La maternità (la levatrice; il parto; l’allattamento)

- Il lavoro (i mestieri in casa; la mezzadria; la “scuola” di cucito; altri lavori)

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- Il fascismo (la divisa, il sabato fascista ed altre consuetudini; episodi di violenza in paese; i “rossi”; quando viene allo scoperto la “vera faccia” del fascismo; rame fedi e lana donati al Fascio per sostenere l’Italia in guerra)

- La guerra (i bombardamenti; la paura; l’informazione durante la guerra; intimidazioni e saccheggi tedeschi; i militari Tedeschi; gli Alleati; i Partigiani; la ritirata dei Tedeschi; la fine della guerra; i militari inglesi e indiani; l’attesa e il ritorno dei parenti)

- Lo sfollamento (la solidarietà; l’approvvigionamento di cibo; il mercato nero)

Benché le testimonianze raccolte siano presentate in questo lavoro divise in due parti principali: la quotidianità e le memorie di guerra (la prima volta a delineare la cornice in cui le protagoniste si sono formate come donne e la seconda per presentare come queste stesse donne hanno affrontato il “tempo di guerra”), è importante sottolineare come i riferimenti alla guerra compaiano in ogni argomento come se essa aleggiasse su tutti i ricordi della vita di chi ne è stato testimone. Inoltre i ricordi di guerra sono quelli più corposi e organici che vengono raccontati con più facilità forse perché, essendo sicuramente stati narrati già molte volte, hanno una loro struttura cristallizzata frutto delle ripetute narrazioni avvenute durante gli anni. In fondo la guerra rappresenta il “turning point” principale, il momento in cui l’individuo si mette totalmente in gioco per preservare attimo dopo attimo

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la vita propria e di chi gli sta intorno, forse la sfida più grande che la vita gli ha messo davanti, sfida che queste donne hanno vinto e che, pur non considerandosi eroine, desiderano raccontare .

A intervista conclusa, riascoltando l’intero nastro, ne ho stilato delle indicizzazioni (ora, minuto e secondo di registrazione e corrispondente argomento trattato) al fine di visualizzare meglio il corpo dell’intervista e rintracciare più velocemente i temi per la trascrizione.

La durata delle interviste varia da un minimo di mezz’ora a un massimo di due ore e mezza a seconda della loquacità delle protagoniste, per un totale di circa venticinque ore di registrazione4. Le donne sono indicate ciascuna col proprio nome di battesimo e, nel caso di omonimia, con l’iniziale del cognome. Per il lettore sarà forse utile avere sottomano l’anno di nascita delle donne interpellate:

Nome Anno di nascita Data dell’intervista

Elda 1927 21/10/2005 Bianchina 1929 16/02/2006 Palmira (e Mario) 1923 17/02/2006 Rina 1916 19-21/02/2006 Rosina A 1923 10/03/2006 28/03/2006 Paola 1914 12/03/2006 4

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Maria M (e Renzo) 1930 13/03/2006 Anna A 1924 14/03/2006 Giuliana 1930 15/03/2006 Fortunata, Rosina S, Gina 1926-1924-1928 17/03/2006 Auretta 1927 24/03/2006 Maria C 1920 25/03/2006 Asia 1921 27/03/2006 Anna M 1922 30/03/2006 Milena 1933 05/04/2006

È anche importante specificare che Rina è mia nonna. È a lei che si riferiscono i diversi “tua nonna” delle intervistate che spesso menzionano anche il suo eccentrico padre Rigoletto.

2 Le ragioni della trascrizione

Sull’importanza di includere i dialoghi avvenuti nel contesto della ricerca sul campo, ha insistito Dennis Tedlock, propugnatore di quella che definisce “antropologia dialogica” la quale riporta nero su bianco anche i discorsi che sono stati parte integrante della ricerca effettuata, in contrapposizione ad una “antropologia analogica” volta invece a creare un

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discorso di sintesi in cui tutto il processo di dialogo sia stato normalizzato e metabolizzato similmente a quanto avviene nell’ambito delle scienze naturali. L’antropologia dialogica, oltre a ritrarre l’incontro tra due soggetti che si conoscono l’un l’altro durante il percorso di indagine, ha il merito di rendere fruibile tutta la rete di dialoghi che ha reso possibile l’indagine stessa. Va da sé che, nella ricerca che si avvale di fonti orali, il metodo dialogico diventa imprescindibile più che consigliabile.

Per aumentare la fruibilità delle fonti orali e facilitare il lavoro su di esse, una volta suddivise le testimonianze per temi, le ho trascritte cercando di attenermi fedelmente alla lingua parlata e di rendere il più possibile il “suono” della conversazione. Non sono state dunque aggiunte né tolte parole o ripetizioni ad eccezione di qualche “mezza parola” ripetuta che avrebbe appesantito eccessivamente il testo rendendolo di lettura poco fluida. Prima di questo lavoro non avevo avuto alcuna esperienza di trascrizione dal “dialetto” toscano, ho quindi preso spunto dal modello proposto da Luciano Giannelli, glottologo dell’Università di Siena, illustrato nell’introduzione al volume “Io so' nata a Santa Lucia” di Valeria di Piazza5, e dal lavoro “Io me lo ricordo come ora” curato da Barbara Panzetta6, la quale ha seguito i criteri di trascrizione proposti da Giannelli con qualche piccola variazione.

5

Di Piazza V., Mugnaini D., Io so' nata a Santa Lucia. Il racconto autobiografico di una donna toscana tra mondo contadino e società d'oggi, Società storica della Valdelsa. Castelfiorentino 1988. Introduzione alla lettura. “Il testo come documento di lingua” di Luciano Giannelli. pp 43-62

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Tra parentesi uncinate < > sono indicati quelli che potremmo chiamare “farfugliamenti” che non sarebbero facilmente riproducibili in forma scritta ma di cui si intende perfettamente il significato nel sentirli pronunciare; le parentesi quadre [ ] racchiudono invece le parole sott’intese o i chiarimenti sui vocaboli che possono essere di difficile interpretazione; infine tra parentesi tonde ( ) sono indicati i commenti relativi al contesto.

Ovviamente nell’atto di trascrivere non c’è la minima presunzione di sostituire “il parlato”, cosa che risulterebbe per altro impossibile anche con l’impiego delle tecniche più rigide di trascrizione fonetica (le quali avrebbero comunque lo svantaggio di rendere difficilmente leggibile il testo). Il fatto è che sembra un controsenso fissare sulla carta testimonianze orali che sono di per sé un flusso di pensiero di forma provvisoria e asistematica; a questo proposito Alessandro Portelli scrive che

“Raccogliere racconti orali significa renderli permanenti: l’intervista registrata e trascritta è come un fotogramma bloccato, un ritratto che resta uguale mentre il soggetto cambia. (…) lo scetticismo sulle verità definitive non esime dal bisogno di punti fermi operativi provvisori. Così, come dice Theodore Rosengarten, «Qualcosa si perde e qualcosa si acquista nella trasformazione di queste storie orali in letteratura scritta. La pubblicazione segna la fine di un lungo processo di creazione e ri-creazione…le storie, tuttavia, vengono preservate» la storia orale è dunque una sistemazione sovrimposta su

6

Barbara Panzetta (a cura di), Io me lo ricordo come ora, quaderni del Centro di Documentazione-1, Cooperativa Sociale Progetto Lavoro, Poggibonsi 2004. pp 5-12

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materiali asistematici; una violenza sul materiale e una condizione per dargli nuova vita”7

Benché si tratti di una sorta di “finzione letteraria”, il fine della trascrizione è quello di fornire un testo che cambi il più possibile il ruolo del “lettore” in quello di “spettatore”, di trovare una forma a metà tra una trascrizione vagamente fonetica e la “traduzione” ad un italiano da carta stampata. Qualcosa che renda l’idea della dinamicità dei discorsi, che ne metta in evidenza la musicalità e non si vergogni di presentarne i tentennamenti, talvolta gli errori. Qualcosa in sostanza di assolutamente “sincero” nel senso etimologico di “senza cera”, senza imbellettamenti, un testo schietto, da leggere come se si stesse ascoltando.

A questo punto mi sono trovata a fare i conti anche con l’inevitabile tentazione di far sparire dal testo le mie domande e i miei interventi, avvalendomi della scusa che forse è meglio lasciar parlare solo l’intervistata tagliando le mie goffe interruzioni a vantaggio di un discorso più unitario: una bella “foglia di fico” piazzata ad hoc sulla vergogna derivante dal disagio che tutti proviamo nel vedere i nostri “errori” scritti nero su bianco, perché siamo abituati da sempre al fatto che qualunque affermazione che voglia vantare un minimo di ufficialità debba essere espressa con un linguaggio il più possibile forbito e grammaticalmente ineccepibile. Mi sono poi lasciata convincere dal mio personale parere che ritiene che sia

7

Alesando Portelli, Biografia di una città, storia e racconto: Terni 1830-1985, Torino, Einaudi, 1985 p.13

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proprio il linguaggio dei documenti “ufficiali” con la loro ingessata precisione a creare larghi margini di incertezza e interpretabilità e ad essere soprattutto poco adatti alla descrizione di stati d’animo e ricordi di esperienze che, benché accaduti in passato, in molti casi sono ancora oggi tagli sul vivo.

Una trascrizione fedele di una fonte orale è dunque un’operazione di giustizia: non fa sconti a nessuno e mette tutti i soggetti sullo stesso piano, che siano essi contadini o figli di proprietari terrieri, che abbiano la terza elementare o siano quasi laureati.

3 Il montaggio finale

Una volta completate le trascrizioni, e superato il problema di selezione degli obiettivi individuando due parti principali “quotidianità” e “ricordi di guerra” a loro volta organizzate in temi più specifici, giunge finalmente il momento del montaggio. A tal proposito così scrive Willa Baum, studiosa che si occupa dell’uso delle fonti orali nella storia locale:

“«La storia orale è un’arte, e se non vi piace prendere decisioni, lasciatela perdere”» (…) La domanda, oggi così frequente e forte, di metodologie garantite, di strumenti di oggettivazione che assolvano dalla responsabilità di prendere decisioni e di correre rischi, è una

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domanda destinata con le fonti orali ad avere delle risposte negative”8

Devo ammettere di aver trovato più di qualche difficoltà, soprattutto all’inizio, nel trovare una forma di accostamento di testimonianze che fosse completa ma non ripetitiva, lottando col desiderio di includere il maggior numero possibile di trascrizioni. Questo accade perché, tutti i racconti, anche se trattano argomenti a prima vista banali, una volta ascoltati e fatti propri, diventano tanto densi di significato a tal punto da risultare difficilmente distinguibili in ricordi “cestinabili” e non. Ad ogni modo le testimonianze riportate in questa ricerca sono frutto di diverse “scremature” che spero siano servite a rendere l’elaborato organico ma non ridondante. L’intento era quello di permettere a tutte le protagoniste di dire la propria su ogni tema. Citando Barbara Panzetta:

“Ho preferito che, sulla carta, i protagonisti di questa iniziativa dialogassero tra loro, anche se non lo avevano mai fatto durante gli incontri”9

Da questo punto di vista la gratificazione più grande sarebbe che il lettore avesse l’illusione di essere anch’ egli presente, in qualità di ascoltatore, a questa esperienza di ricordo congiunto, per “assaporare” e non solo “conoscere” il prezioso tesoro che è la storia di vita delle nonne calcesane.

8

Movimento di Cooperazione Educativa (a cura di), Tempo memoria identità, La Nuova Italia, Firenze, 1986. Contributo di Alessandro Portelli, Memoria collettiva e racconto orale. p.137

9

Barbara Panzetta (a cura di), Io me lo ricordo come ora, quaderni del Centro di Documentazione-1, Cooperativa Sociale Progetto Lavoro, Poggibonsi 2004. p.31

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