La violenza, nel pensiero di numerosi studiosi, emerge come il segno distintivo del secolo appena trascorso e in quello odierno continua ad avere grande importanza esprimendosi con nuove modalità: guerre civili, conflitti interetnici, terrorismo globale, operazioni di polizia internazionale. L’epoca odierna vede un ulteriore cambiamento, infatti, offre una grande varietà di mezzi con i quali raccogliere immagini: foto e video-cellulari, macchine digitali e handycam si possono trovare in qualunque momento ed in qualsiasi luogo, e possono essere usati per registrare testimonianze. Renderle pubbliche, poi, è molto semplice: la rete è sempre pronta a d accogliere nuove immagini, che con pochissima spesa, vengono offerte ad un pubblico enorme.
Questa ricerca vuole occuparsi di un caso specifico, lo “scandalo Somalia” del 1997; in quell'anno il giornale “Panorama” pubblicò alcune foto relative a torture commesse dal contingente italiano inviato in missione di pace in Somalia nel 1993, in queste due serie si vedevano un uomo a cui venivano applicati elettrodi ed una donna violentata con un razzo illuminante. L'analisi delle fotografie del 1997 verrà effettuata ponendo a confronto le fotografie (scattate da professionisti e da amatori) ed i contenuti ideali e programmatici del colonialismo prima liberale e poi fascista per individuare aspetti comuni e differenze.
La maggior parte delle fotografie utilizzate sono edite1 per cui il lavoro non è di ricerca storica in senso stretto, ma tenta di dare una interpretazione di alcune foto post-coloniali in una prospettiva di creazione di “retoriche coloniali” che si sono mantenute nel tempo.
Il metodo di analisi parte dagli studi di Edward Said sull'Orientalismo2 ovvero dell'immagine che gli euorpei, per finalità imperialiste e classifcatorie, hanno creato dell'oriente e dei popoli orientali. L'occhio dei fotografi coloniali era influenzato, anche in maniera inconscia, da queste costruzioni e ciò ha determinato le loro scelte stilistiche profesisonali. I romanzi, i saggi, lo studio delle lingue orientali, la pittura,
1Le uniche fonti inedite sono una ventina di foto, scattate dal dott. Benedetto Celi e poi pervenute alla biblioteca civica di Massa. Avendo comunque poche informazioni su queste fotografie queste non sono citate diffusamente.
Per la collocazione: fototeca storica, busta 42, foto Africa Colonie Soldati, Massa, biblioteca civica S. Giampaoli.
2Said Edward W., Orientalismo. L'immagine europea dell'Oriente, Feltrinelli, Milano 2006.
la politica sono una parte di quelle forze che hanno contribuito a creare l'immagine dell'oriente ed a questi si aggiunge, dagli anni '40 dell'ottocento, la fotografia, che ha portato alle masse, in Italia soprattutto con la guerra d'Etiopia, l'immagine dell'Africa. Lo scopo del lavoro è appunto vedere quanto ha fatto presa questa immagine nella produzione di memorie fotografiche e quali siano le nuove dinamiche della rappresentazione dell'altro nell'era post-coloniale e post-guerra fredda.
Lo studio dell’impatto della violenza non compare molto spesso nei lavori antropologici sul campo della fine dell’ottocento e dell’inizio del novecento. Ciò può apparire strano: le popolazioni primitive venivano studiate proprio perché rischiavano di scomparire a causa della penetrazione massiccia degli europei. Le motivazioni di queste reticenze, comunque, sono molteplici ed è difficile dare un giudizio. Oggi, però, si cerca di colmare questa lacuna cercando di comprendere le ragioni che stanno alla base delle violenze dell’età contemporanea.
La scomparsa del bipolarismo, lungi dal rappresentare la “fine della storia” ed il funzionamento corretto del sistema di sicurezza collettivo ha prodotto tensioni su base regionale che sembravano sopite ed ha ridato slancio al fanatismo religioso. Secondo l’antropologo americano di origine indiana Arjun Appadurai, la violenza odierna sfugge molto spesso al controllo statale perché praticata da organizzazioni, come i grandi gruppi terroristici tipo Al Qaeda, transnazionali che lui definisce “cellulari” opposte alle strutture
“vertebrate” degli stati. Il dibattito ha creato molti problemi metodologici, oltre a quelli interpretativi; uno di questi riguarda più direttamente questa ricerca ed è quello concerne delle fotografie di guerra o di soldati, che costituiscono la parte più rilevante del materiale fotografico coloniale che ci è pervenuto.
Vi sono differenze tra i vari tipi di violenza che si possono perpetrare e tra le fonti che le rappresentano. Ad esempio anche scattare una foto ad una bella ragazza etiope in posa “Venere del Botticelli” è da considerarsi una violenza dato che la persona viene trattata come una merce esotica. Alcune cartoline di propaganda che mostrano un nemico abbrutito, selvaggio e con tratti inumani sono lesive della dignità di un popolo. Mi ha colpito particolarmente una cartolina illustrata che ho
considerato volgare e razzista e che ha suscitato uno sdegno simile alle foto di impiccagioni. Viene rappresentata la caricatura di una coppia abissina davanti ad un bambino bianco. La didascalia recita:”Taitù incominciamo a civilizzarci questo è venuto bianco!”, mentre sul lato destro dell’illustrazione un bersagliere sorride sornione.3 Le cartoline illustrate, i quotidiani partecipano tutti alla formazione culturale dei fotgrafi ed influenzano le loro scelte stilisticheed insieme sono partecipi e contribuiscono a creare le retoriche analizzate dalla mia ricerca. Lo strumento privilegiato nella mia ricerca è la foto di guerra. I fotografi al seguito dei militari iniziarono ad apparire con la guerra di Crimea (1854-56) quando il britannico Roger Fenton ottenne l’incarico di fotografare la campagna militare per il governo inglese. La pesantezza delle macchine fotografiche, i lunghi tempi d’esposizione e le imposizioni del governo, che non voleva che si fotografassero morti o mutilati, ridussero l’immagine della guerra ad una “scampagnata per soli uomini” nelle retrovie. Già nell’800 si comprese che la fotografia non era, come molti ancor oggi credono, la realtà, ma una cornice che inquadra una scena. Le scene sono decise, oltre che dal mezzo tecnico, da colui che le cattura. La fotografia sceglie di inquadrare una scena, escludendo ciò che le sta intorno. Tra le prime foto di cadaveri che vengono scattate troviamo quelle di Felice Beato, un veneto naturalizzato inglese che segue l’ammutinamento indiano del 1857-58, che ritrae un palazzo cosparso di ossa4: queste non appartengono a persone morte recentemente, ma sono state sparse ad arte, componendo la scena. La foto, quindi, come fonte storica richiede una certa attenzione ed una preparazione specifica, ma può e deve essere considerata tra gli strumenti di lavoro dello storico, anche perché è uno dei mezzi di comunicaizione più importanti del'ultimo secolo:
Si può dire che quelle immagini siano la verità della guerra? No. Sono
“momenti di verità”, tessere di un mosaico che lo storico deve completare con
3 La cartolina è riprodotta in Luigi Goglia, Una guerra per l’impero,Roma, 1985.
4 Gli esempi sono stati presi dai primordi della storia fotografica quando la scarsa conoscenza del mezzo poteva creare problemi nella manipolazione dei soggetti rappresentati. Manipolazioni ci sono anche nella guerra civile americana, nelle guerre mondiali ed anche in foto di costume.
tutte le informazioni che gli derivano dal complesso delle ricerche e delle sue fonti.5
Certamente De Luna ha ragione a dire che la foto non è la realtà, ma è possibile, con la dovuta competenza, utilizzare le foto per ricavare informazioni, anche importanti, su alcuni avvenimenti.
Essa è anche una fonte per quanto riguarda l’antropologia: la scelta di inquadrare uno scorcio, di rappresentare un dato momento o un particolare di una determinata scena possono dire molto riguardo alle motivazioni dei fotografi.
La verità rappresentata non è univoca: la foto, secondo Susan Sontag, mostra cose che spesso si è già disposti a credere. Infatti scrive che nella guerra che ha insanguinato l’ex Iugoslavia le stesse foto di bambini uccisi venivano mostrate sia dai serbi che dai croati.6 Nella nostra storia coloniale è un esempio in questo senso il volume di Eric Salerno “genocidio in Libia”, che narra le atrocità perpetrate dal regime fascista in questo paese: il libro, nel suo corredo fotografico, mostra foto dei campi di concentramento istituiti da Graziani in Cirenaica, dove morirono molti arabi.7 Le foto che Salerno inserì nel suo libro erano state tratte dal volume di autocelebrativo di Rodolfo Graziani, “Cirenaica pacificata”, in quel contesto, però, dovevano celebrare l’umanità del generale verso le popolazioni locali.8 Ciò che noi vogliamo credere molto spesso influisce su ciò che volgiamo vedere. Come ripete la Sontag
5 G. E Luna op. cit. introduzione pag. XXVI.
6 Susan Sontag op. cit. pag. 9
7 A seconda dei censimenti le stime sono da 40000 a 60000 persone uccise e di circa 20.000 che emigrarono verso l’Egitto, pari ad un quinto o ad un quarto della popolazione della colonia.
Fonti: G.Rochat, il colonialismo italiano, Loescher, Milano, 1971; A.Del Boca, gli italiani in Libia. Dal Fascismo a Gheddafi, Laterza, Bari, 1988, Eric Salerno, genocidio in Libia, Sugarco, Milano, 1979.
8 Il cantore delle gesta di Graziani Giuseppe Bedendo così descrisse i campi:
Je dette da magnà, tutto jè dette Medichi, medicine, garze, benne,
je dette stoffe pè fasse le tenne e je spedì financo le ricette.
In A. Del Boca, Gli italiani in Libia, op. cit.
Per i militanti l’identità è tutto. E ogni fotografia attende di essere spiegata o falsificata da una didascalia.9
La militanza politica influenzerà anche i lettori di “Panorama” che interpreteranno in maniera diversa le foto dello “scandalo Somalia” a seconda della loro opinione dei parà (un branco di esaltati neofascisti per la sinistra radicale o una fucina di italianità per la destra).
Nelle foto pensate per il pubblico bisogna pensare che queste possono essere recepite diversamente dagli obiettivi che si proponeva il fotografo. Foto di mutilati di guerra, che per l’autore degli scatti sono un monito al pacifismo possono suscitare propositi di vendetta
Le fonti utilizzate in questa ricerca sono sopratutto foto private: qualcosa spinge una persona a farsi fotografare con una testa mozzata in mano o in posa davanti ad un impiccato. La propaganda del regime fascista vietava sicuramente la diffusione di questo genere per due motivi: le inevitabili ripercussioni internazionali e sull’opinione pubblica.
I territori dell’impero, inoltre, rimanevano ancora in gran parte da conquistare ed erano controllati da consistenti nuclei di partigiani. La diffusione di fotografie di esecuzioni sommarie di guerriglieri poteva svelare le debolezze insite nella conquista dell'Etiopia. Anche per la shoah, ormai assunta a dimensione paradigmatica della violenza e della barbarie umana si ha notizia di un processo intentato da un comandante delle SS perché un sottoposto aveva fatto delle foto alle esecuzioni sommarie;10 l'ostilità dei governi repressivi a coloro che mostravano il loro volto più bieco era ribadita dal divieto di circolazione di un mezzo di espressione, come la foto, moltiplicabile all'infinito e quindi incontrollabile.
Riguardo alla guerra d'Etiopia la regia propagandistica e la tipologia delle immagini diffuse venero attentamente sorvegliate dal governo fascista, attraverso l'istituto Luce, alle dipendenze del governo.
9 Susan Sontag ibidem.
10 L’episodio è narrato in: Raul Hilberg, Carnefici, Vittime, Spettatori. La persecuzione degli ebrei, 1933-1945, Mondadori, Milano, 1994.
Se la propaganda non ne voleva la diffusione perché vennero scattate fotografie di azioni di cui, secondo i nostri canoni, non si poteva essere orgogliosi? Le testimonianze di persone coinvolte in casi simili possono forse aiutarci a comprendere il loro agire.
Nel processo a cui venne sottoposta nel 2004 la soldatessa Lynndie England, nota per le torture ai prigionieri iracheni del carcere Abu Ghraib le prove erano costituite dalle foto che lei ed il marito scattavano ai prigionieri. La soldatessa ha dichiarato ai giudici:”Pensavamo che fosse divertente e così scattammo delle foto” o ancora:
“Nella foto 000015 essenzialmente compariamo noi due che facciamo gli scemi.”11 Nel 1916 in Texas venne recapitata una cartolina postale che raffigurava il cadavere di uomo di colore bruciato, la quale recava questa didascalia sul retro: “Questo è il barbecue che abbiamo fatto ieri sera. Io sono quello contrassegnato con la crocetta.
Vostro figlio Joe”.12 In questo caso la tolleranza di cui godevano questi spettacoli da parte dell'autorità permetteva addirittura che cartoline di questo genere passassero attraverso i normali canali postali senza alcun problema, la violenza delle comunità bianche del Sud era quindi diventata un fatto accettato da tutti.
Un altro aspetto, sottolineato da Goldhagen è la reiterazione della violenza, che mediante la foto, si esplica nella ripetizione eterna del gesto, conferendo agli aguzzini il potere che deriva dal fissare l’umiliazione in un supporto e poterne dare testimonianza in qualsiasi momento.
La dissacrazione personale avveniva per di più di fronte alla macchina fotografica, così che la vergogna della vittima sarebbe esposta per gli anni a venire. Bastava quel gesto per comunicare senza possibilità di equivoci- al tedesco, all’ebreo o a chiunque lo vedesse in futuro – il potere virtualmente illimitato del tosatore sulla vittima.13
11 In Giovanni Fiorentino, op. cit.
12 In De Luna op. cit. p 69. Il linciaggio pubblico dei neri nel Sud degli stati Uniti era molto diffuso ed assumeva la forma di uno spettacolo pubblico. Cfr Twain M., Gli Stati Uniti del linciaggio in Alla persona che siede nelle tenebre. Scritti sull'imperialismo, Spartaco, Santa Maria Capua Vetere (Caserta) 2003
13 Goldhagen, i volenterosi carnefici di Hitler, Mondadori, 1996. p 259. L’autore si riferisce a foto in cui i tedeschi tagliano la barba agli ebrei, da qui il termine tosatore.
E’ interessante, poi, la riflessione svolta da Christopher Browning nel suo saggio
“Uomini comuni”, dove si nota che ci si può abituare persino a diventare assassini di massa. Tra i riservisti del battaglione 101, che si è occupato dell’uccisione e della deportazione di ebrei in Polonia, figuravano padri di famiglia, non gente particolarmente fanatica e ideologizzata eppure essi si abituarono al loro compito e qualcuno mostrò addirittura comportamenti sadici.14
Le foto dei torturati ad Abu Ghraib, come dice Fiorentino, fanno parte di una
“routine che può anche essere divertente.”15Le violenze, le torture, l’oltraggio sui cadaveri possono diventare un lavoro16 e finire accanto alle foto del paesaggio e degli amici. David Jonah Goldhagen nel suo “I volenterosi carnefici di Hitler”
esamina le stesse azioni di Browning traendone conclusioni diverse: Hitler non sarebbe che l’esecutore di un progetto, che faceva capo alla corrente dell’antisemitismo elinimazionista, parte cultura tedesca fin a Lutero e che si è esplicitato nel ‘900. L’apparato fotografico del suo libro mostra foto di tedeschi
“comuni” dei vari battaglioni di polizia che torturano ebrei.
Contrariamente a quanto riporta Hilberg egli dice che alcune fotografie venivano mandate a casa per posta ai tedeschi perché questi ne traessero orgoglio, ma Goldhagen non riporta se vengono inviate attraverso canali privati o ufficiali17. Queste foto finivano vicino a quelle dei tedeschi sorridenti con dei bambini polacchi o delle feste del battaglione facendo pensare che non ci fosse un distacco tra le azioni genocide e la quotidianità dell’esistenza. L’episodio riferito da Browning e Goldahagen sull’uomo che non aveva ancora “fatto colazione” cioè non aveva ammazzato nessun ebreo riporta a questa continuità tra i massacri e la vita di tutti i giorni.18
Farsi fotografare con un cadavere può essere anche avere la prova della propria virilità. Tra i Galla l’evirazione del nemico ucciso serviva ad avere con se una prova
14 Christopher Browining, Uomini comuni. Polizia tedesca e soluzione finale in Polonia, Einaudi, Torino, 1994.
15 Giovanni Fiorentino, op. cit. pag. 9.
16 Alcuni autori dei massacri dei Tutsi in Ruanda nel 1992 paragonavano le uccisioni col machete all’agricoltura.
17 David J. Goldhagen, op. cit. Pag. 422
18 Browning, op. cit. p 133, e Goldhagen op. cit. p 258.
del valore in battaglia.19 In modo simile l’SS processata voleva, ad esempio, far vedere le foto ad una moglie e non ad una organizzazione internazionale. Forse in questi casi si può parlare di “occhio che uccide” e lo scatto diviene anch’esso un atto di violenza, come hanno fatto notare Susan Sontag o esteti della guerra come Ernst Junger. Lo sguardo dell'altro è una violenza e la foto è un prolungamento della visione che consente l'appropriazione di quella parte della nostra essenza che il fotografo ha deciso.
Le foto hanno anche per noi valore di testimonianza, ma il messaggio che vogliamo trasmettere sono le motivazioni profonde dietro a questi gesti.
Il secondo strumento di indagine di cui si avvale la mia ricerca è costituito dall’interpretazione delle retoriche e soprattutto delle retoriche comuni nelle colonie ed in situaizoni di violenza come quelle che costituiscono le foto di “Panorama”. La violenza, come abbiamo visto, è comparsa molto di recente nell’ambito dell’antropologia culturale, ma ha posto diversi problemi.
Uno di questi è certamente quello del linguaggio: come riferire adeguatamente? E’
possibile analizzare aspetti così truci con lo stesso distacco delle tradizioni alimentari, dei costumi, dell’abbigliamento?
Giovanni De Luna ha tentato di rispondere a queste domande all’inizio del suo ultimo libro, quando parla dei meccanismi di autoconservazione che si innescano di fronte all’efferatezza:
“Questo libro parla di guerra, di morte e di corpi. E’una storia delle guerre del novecento e di quelle che segnano la nostra più stretta contemporaneità. L’ordine in cui è costituito ne suggerisce una lettura quasi manualistica [...]. Ma la compostezza rassicurante di questo impianto è anche una sorta di barriera protettiva, il tentativo di controllare il disagio profondo che scaturisce da un percorso affollato di cadaveri, punteggiato da una quantità impressionante di pratiche efferate messe in atto da uomini nei confronti di quelli che avevano appena cessato di essere uomini.”20
19 Nell’attacco degli uomini di Ras Immirù al cantiere di Gondrand in Eritrea gli etiopi compirono evirazioni sui caduti. Le foto dei cadaveri mutilati circolavano clandestinamente tra i soldati italiani. De Luna, op. cit. Una di queste foto si trova in Goglia, op. cit.
20G. De Luna, Il corpo del nemico ucciso, Einaudi, Torino, 2006
Un simile atteggiamento si può trovare nella testimonianza di una fotografa che lavorò durante la liberazione dei campi di concentramento nazisti, questa disse che la macchina fotografica fungeva da sottile barriera tra lei e le immagini che fotografava.21 Gli studiosi o i professionisti cercano di difendersi dall’orrore, mettendo una barriera, tra questo e loro. Ciò che impressiona della violenza è la sua dimensione umana ,nello stesso tempo è così lontana dal testimone, ma anche così vicina: infatti basta poco perché anch’egli vi possa cadere. Cristopher Browning e David Jonah Goldhagen, nei loro studi hanno sottolineato, con conclusioni diverse, la partecipazioni di “uomini comuni” alla Shoah.22 La barriera che si può mettere tra noi e l’orrore può creare un’illusoria distanza dal fatto che esseri uguali a noi hanno compiuto azioni che noi troviamo incomprensibili.
Un altro problema interpretativo è costituito dall'analisi: quali strumenti utilizzare per una categoria così complessa dei comportamenti umani. L'analisi quantitativa è certamente utile per inquadrare il fenomeno, ma nche questa rischia di finire nella banalizzazione contabile così è necessaria anche un'analisi qualititiva di questi comportamenti:
l'importanza simbolica della violenza – sia la violenza dello Stato e della legge che la violenza della protesta – può non avere alcuna correlazione diretta con la quantità. [...] Né il terrore né il comportamento possono esaurireil loro significato alla luce di un esame pesantemente quantitativo, perché le quantità vanno viste dentro un contesto globale e questo comprende un contesto simbolico che attribuisce valori differenti a differenti forme di violenza.23
L'analisi da parte dello storico della violenza deve essere, per quanto possibile rigorosa, attenta a tutti gli aspetti del fenomeno, ma non a quelli di giudizio morale,
21 Giovanni Fiorentino, L’occhio che uccide, Meltemi, Roma, 2004
22 Christopher Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e soluzioni finale in Polonia, cit e Daniel J. Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler, Mondadori, cit.
23 Citato in Pavone C., Una guerra civile. Saggio sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1992. p. 415
facendo proprio l'assunto di Bloch “comprendere, non giudicare”, lasciando i porblemi e cercando solamente di contestualizzare il fenomeno.
E tuttavia lo studioso di storia non può sottrarsi al compito di collocare nel flusso del tempo e di contestualizzare la situaizone che vide sorgere le manifestaizoni della violenza in cui si imbatte nel corso della sua ricerca. Nel far ciò egli non dovrebbe dimenticare che esiste un problema della vita e della morte che non tocca alui risolvere. Lo studioso di storia può solo illustrare le forme in cui questo problema è venuto manifestandosi attraverso i secoli...24
Questo tipo di indagine, come abbiamo visto si muove si un filo sottile poiché sono molte le trappole che si pongono allo studioso con un argomento così delicato in cui si è portati a parteggiare, ad emozionarci, a provare sentimenti o ad abbandonarci all'estetismo romantico.
(ins Derridà Filosofia del terrore?)
La violenza, infatti, può anche assumere una valenza estetica ed è anche ciò è rischioso perché si può scadere nel semplice elenco macabro ad uso e consumo dei fruitori. Un esempio, in cui l’estetica ha affievolito le intenzioni dell’autore può essere “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad. Nel romanzo, la violenza coloniale viene condannata, ma il personaggio negativo di Kurtz esercita un notevole fascino, tanto alcuni critici ne hanno visto un eroe dello spirito. Questo aspetto emerge anche in un film che si è ispirato al libro (anche se con un’altra ambientazione) Apocalipse Now (Usa 1974)di Francis Ford Coppola. Per restare fermi alla nostre avventure coloniali si pensi alle le poesie di Marinetti e di D’Annunzio sulla guerra di Libia dove si trova un forte accanimento verso i dettagli cruenti, in alcune memorie di esploratori come Bottego che descrivono compiaciuti i massacri di villaggi o nelle memorie della guerra d'Etiopia, dove si sentiva anche l'influenza dell'ideologia fascista.
Uno dei più famosi scrittori di guerra della Germania, Ernst Junger, veterano della prima guerra mondiale e convinto nazista portò con se “Cuore di tenebra” a Parigi
24Ibidem p 414
nel 1942 dove era vice-comandante dell’occupazione. I suoi contributi alla mistica della violenza fanno capire quali possono essere i rischi dell’estetizzazione:
Uccidere è il nostro mestiere, ed è nostro vanto e dovere svolgere questo lavoro bene accuratamente ed a regola d’arte...
Di fatto ogni epoca si esprime non solo nella vita costruttiva, nell’amore nella scienza, nelle arti, ma anche nell’orrore. Compito del soldato deve essere la cura dell’orrore.25
Collegato ai problemi di repulsione e seduzione vi è un altra questione, quella del linguaggio, secondo Michael Taussig quello asettico delle scienze sociali, troppo vicino a quello delle burocrazie che coprono i massacri, funge da effetto anestetizzante. Dall’altra parte, però, vi è la seduzione allucinatoria che in ”Cuore di tenebra” può “far cadere in trance il lettore facendolo annegare nella corrente delle visioni”26.
Si pensi a Georges Bataille, uno dei grandi teorici dell’erotismo, che teneva sulla scrivania una foto di una tortura atroce scrisse:
“Questa fotografia ha avuto un ruolo decisivo nella mia vita, sono sempre stato ossessionato da questa immagine del dolore al tempo stesso estatica ed intollerabile.”27
L’analisi della violenza nel contesto antropologico si muove su un terreno difficile, coinvolgendo emotivamente, sia il lettore 28 sia lo scrivente. Un linguaggio formale ha il difetto di non rendere la tragicità degli eventi, mentre dall’altro lato uno stile troppo drammatico ha il difetto di scadere nel racconto romanzesco perdendo di vista il fine scientifico. Anche la fotografia è un linguaggio con le sue regole sintattiche e questo genere di affermazione può valere anche per le foto che saranno
25 Ernst Junger, Feuer und blut, Magdeburg, 1925 in Eric J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale.
26 Michael Taussig, Cultura del terrore, spazio della morte in Fabio Dei (a cura di), Antropologia della violenza, Meltemi, Roma, 2005, il passo si riferiva ad una critica a Cuore di tenebra del 1979.
27 Citato in Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003
28 In “Poetiche e politiche del ricordo” i giovani ricercatori che hanno lavorato sulla memoria delle stragi nazifasciste hanno detto di aver avuto una compartecipazione con il punto di vista degli ascoltatori mentre eseguivano le interviste ai testimoni. Pietro Clemente, Fabio Dei, Poetiche e politiche del ricordo. Memoria pubblica delle stragi nazifasciste in Toscana,Carocci, Roma, 2005
prese in esame. Una foto di un quadro deve ridare il maggior numero possibile di dettagli dello stesso, mentre la mano del fotografo deve essere invisibile; per contro una foto artistica ci fa conoscere il punto di vista del fotografo su di una determinata scena e ci comunica le sue sensazioni o suoi obiettivi; una foto in un articolo di cronaca ha lo scopo di catturare l'attenzione del lettore e di rendere partecipe immediatamente lo stesso delle idee espresse nel pezzo e così via.29
Il genere di fotografie di cui è oggetto questa ricerca è quella coloniale; il colonialismo si sviluppò in un tempo ed in uno spazio ben precisi ed in tutte le terre dove gli europei riuscirono ad imporsi si consumarono orrori per tutta la durata della loro occupazione ed altre forme di violenza meno evidenti al tessuto sociale e culturale della popolazione ed alla loro dignità.30 La società coloniale è il luogo, secondo Tzevetan Todorov dove concentrare la violenza che non si può sfogare in patria. Lo studioso bulgaro divide le società in due categorie: quelle del sacrificio e quelle del massacro. Nelle prime, come quella atzeca, la sopravvivenza della comunità viene posta sopra quella della vittima del sacrificio Il sacrificio, però esige precise regole riguardo l’identità del sacrificato e che sia svolto alla presenza di tutta la comunità. Le società occidentali, invece, appartengono alla seconda categoria, cioè sfogano la violenza attraverso il mezzo incontrollato ed indiscriminato del massacro:
“Il massacro, invece rivela la debolezza del tessuto sociale, il venir meno dei principi morali che garantivano la coesione del gruppo.
E’compiuto di preferenza in luoghi lontani, dove la legge stenta a farsi rispettare[...]. Il massacro è dunque intimamente legato alle guerre coloniali, condotte lontano dalle metropoli. Più i massacrati sono lontani e stranieri, meglio è: vengono sterminati senza rimorsi, perché identificati più o meno con le bestie.”31
Le colonie sono senz’altro collegate a tale esercizio arbitrario della violenza:
nell’Italia liberale, ad esempio l’Eritrea venne sottoposta alla giustizia militare
29 Sui diversi registri linguistici che può assumere la fotografia cfr. Mignemi A., Lo sguardo e l'immagine. La fotografia come documento storico, Bollati Boringhieri, Torino 2003 pp.39-54.
30 Fanon ne “i dannati della terra” cita la violenza come l’unica via di uscita per i colonizzati. Cfr. Frantz Fanon, I dannati della terra, 1962
31 Tzevetan Todorov, la conquista dell’america. Il problema dell’altro, Einaudi, 1984.
anche quando era ormai la pacificata. I governatori militari, infatti, applicarono la legge marziale, che prevedeva la condanna a morte, fino alla nomina di un governatore civile.32 Gli altri paesi europei le cose non erano diverse: lo sfruttamento indiscriminato della manodopera indigena in Congo, punita con la morte per colpe lievissime e sottoposta perennemente a soprusi, spinse Re Leopoldo II ad annettere al Belgio lo Stato33, che prima era considerato un possesso personale.
La colonia diviene un luogo di evasione e non solo per i paesaggi:
Al di fuori da ogni frano e da ogni ipocrisia sociali sullo sfondo della vita indigena, il gentleman ed il criminale sentivano non solo la vicinanza di uomini che condividevano lo stesso colore di pelle, ma l’impatto di un mondo di possibilità per crimini da commettere per puro spirito ludico, per la combinazione di orrore e spasso, cioè per la piena realizzazione della loro fantomatica esistenza. La vita indigena dava a questi eventi spettrali un’apparente garanzia contro ogni conseguenza... Il Mondo dei... selvaggi era un ambiente perfetto per uomini che erano evasi dalla realtà della civiltà.34
Nel suo saggio “Sorvegliare e Punire” Michel Foucault divide le pene in due categorie: quelle, come il supplizio che agiscono sul corpo del condannato e quelle, come il carcere, che mirano a “rendere docile” una persona tramite la disciplina.
In alcuni massacri coloniali si possono trovare elementi tipici del supplizio, questo, secondo lo studioso francese, è un’offesa alla persona sacra del re: egli è la legge ed ogni trasgressione è uno sgarbo personale applicato alla sua persona. La punizione, quindi, deve essere spettacolare, atroce e pubblica perché la dignità regia ferita sfoghi la sua potenza e venga ripristinata. Nello stato moderno, invece, la pena viene comminata dallo stato secondo la colpa: non è più un’offesa personale al corpo del re, ma una sanzione applicata in maniera “calcolata” da un soggetto impersonale, lo stato. La pena diventa, quindi, rieducazione, disciplina ed il corpo
32La legislazione del regno d’Italia in Patria non prevedeva la condanna a morte. In Eritrea venne applicata fino alla nomina di un governatore civile nel 1897. Sull’ordinamento giudiziario in colonia vedi Nicola Labanca, In marcia verso Adua, Laterza, Bari, 1993.
33 Lo Stato libero del Congo era prima amministrato da una società umanitaria con a capo Leopoldo II. Nel 1908 venne annesso al Belgio
34Joseph Conrad, Imperialismo, citato in introduzione LI (di Francesco Binni) a Joseph Conrad, Cuore di tenebra, Einaudi, Torino, 1990.
non viene gettato via dopo che la collera regia si è sfogata, ma utilizzato in maniera utile alla società. Il carcere, la fabbrica, l’esercito e l’ospedale creano “corpi docili”
alle esigenze collettive, lo stato si interpone e media la pena che deve essere, anche quando si tratti di supplizio capitale, asettica ed impersonale35.
Foucault parla di pene che colpiscono il corpo e di pene, quelle disciplinari, che conseguono un altro fine e colpiscono l’anima
Il supplizio penale non ricopre indiscriminatamente le punizioni corporali: è una produzione differenziata di sofferenze, un rituale organizzato per il marchio delle vittime e la manifestazione di potere di chi punisce; non è per nulla l’esasperazione di una giustizia che, dimentica dei suoi principi perda ogni ritegno. Negli eccessi dei supplizi, è investita tutta una economia del potere.
Il momento storico delle discipline, è il momento in cui nasce un’arte del corpo umano, che non mira solamente all’accrescersi delle sue abilità, e neppure all’appesantirsi della sua soggezione, ma alla formazione di un rapporto, che nello stesso meccanismo, lo rende tanto più obbediente quanto più è utile, e inversamente. [...]
Il corpo umano entra in un ingranaggio di potere che lo fruga, lo disarticola e lo ricompone.36
Nelle colonie le regole della società disciplinare e quella del potere arbitrario si mescolano. Lo sfruttamento coatto della manodopera indigena mira a renderla docile, e per riuscire in questo scopo si utilizzano anche tecniche di umiliazione pubblica come frustate, punizioni corporali, e nei casi più gravi, la pena di morte. Il saggio di Taussig, citato precedentemente descrive uno stato simile, in cui disciplina e supplizio mostrano i loro lati più perversi, anche si tratta di una specie di colonia all'interno di uno stato indipendente37.
Durante la seconda guerra mondiale, divennero delle colonie anche i territori occupati dagli eserciti, soprattutto dell’asse, ma anche quelli alleati.38 Non è un caso se Junger portava con se nella Parigi occupata dai nazisti “Cuore di tenebra”, il
35 E’ dell’inizio del 2006 la notizia dello sciopero di alcuni anestesisti addetti alle esecuzioni capitali perché queste non sono indolori, ma provocano sofferenze al condannato. Nessuna obiezione, quindi, a contribuire all’uccisione di un uomo, ma purché esso non soffra. Anche il fatto che dei medici siano presenti alle esecuzioni può essere esemplificativo della nuova sensibilità di fronte alla morte.
36 Michel Foucault, Sorvegliare e Punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1977 Rispettivamente pagg 38 e 150.
37 Il saggio di Taussig descrive il trattamento degli indigeni in una stazione di raccolta della gomma in Brasile.
Michel Taussig, op cit.
nemico era assimilato ai “selvaggi” delle colonie dove poter dispiegare le più recondite fantasie omicide. Goldahagen usa spesso la metafora della colonia ne “I volenterosi carnefici di Hitler”. Hannah Arendt nel suo saggio sulla violenza distingue tra violenza e potere. Il potere, contrariamente a quanto scrivono Fanon e Sartre, non si esprime con la violenza, ma è il suo opposto. Il potere è un “fine in sé” , con il quale si raggiungono i mezzi ed i fini, ovvero le strutture della comunità.
La violenza, invece, è una forza distruttiva che può minare le strutture del potere, instaurando un dominio basato esclusivamente su di essa; a questo proposito la Arendt cita esplicitamente le colonie come governo della violenza.39 Non c’è dubbio che un funzionario coloniale, con pochi uomini in terra ostile, circondato da uomini di pelle ed usi diversi pensi che la violenza sia il mezzo più idoneo a raggiungere quello che il politico in madrepatria cerca di raggiungere tramite il potere. In misura maggiore lo eserciterà anche un militare in una terra occupata, anche lui circondato da una popolazione ostile.
Questa stessa situazione fu quella in cui si trovarono i militari italiani della misisone
“Restore Hope” in Somalia nel 1993; i comportamenti violenti, soprattutto le bastonature elargite per mantenere l'ordine nelle distribuzioni di aiuti, scaturirono anche dall'impossibilità di mantenere l'ordine con mezzi legali.
Nel 1926 il governatore della Somalia Cesare Maria De Vecchi, spronò personalmente alcuni squadristi che aveva portato dall’Italia ad attaccare una moschea dove si era rifugiato un religioso renitente all’arresto.
Questo atto si colloca fuori dalla legge disciplinare ed in una logica di potere arbitrario poiché un governatore con pretese da monarca assoluto40 incitò i suoi sgherri a colpire con ferocia. Come nelle regole del supplizio descritte da Foucault
38 Vi sono, oltre al famoso episodio di Cassino, dove dei coloniali considerarono “colonia” un paese europeo, e quelli relativi all’avanzata dell’armata rossa in Germania, testimonianze di stupri di militari australiani a danno delle colone italiane in Libia. Cfr Nicola Labanca, Posti al Sole, diari e memorie di vita e di lavoro nelle colonie d’Africa, Museo Storico della Guerra, Rovereto, 2001.
39 Hannah Arendt, Sulla Violenza, Guanda, Parma, 2004.
40 Sull’operato di De Vecchi in Somalia cfr A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. La conquista
dell’Impero, Laterza, Bari. Cesare Maria de Vecchi fu estromesso nel 1928 dall’incarico per la sua megalomania, che aveva creato preoccupanti disavanzi al bilancio della colonia. Per la sua propensione alle spese ed alla vanità autocelebrativa fu soprannominato “Sciupone l’africano”.
la punizione non è proporzionale al delitto, nei tafferugli durante il tentativo di arresto era rimasto ucciso un carabiniere, mentre i somali uccisi furono un centinaio41.
L’arbitrarietà, però, non si trova solo nell’applicazione delle pene, ma anche nell’applicazione della disciplina, infatti, bisognava sfruttare il nativo perché producesse il più possibile. Le colonie, infatti, sono un prodotto della rivoluzione industriale ed erano immensi serbatoi di materie prime per la produzione capitalistica; la disciplina della fabbrica veniva così applicata ad intere popolazioni con metodi coercitivi e, come ha detto Traverso, si fecero i primi passi per applicare quella stessa disciplina alla distruzione. Il legame tra la colonia, la razionalizzazione dei processi produttivi e la violenza nazista è stato sottolineato da un recente saggio di Enzo Traverso che ha esaminato le radici della violenza del regime hitleriano42 e le ha individuate nelle colonie e nella produzione moderna43, secondo lo studioso, infatti, l’inferiorità radicale con cui venivano considerate le popolazioni delle colonie ha portato alla disumanizzazione del nemico nella prima guerra mondiale ed ai totalitarismi, figli del mondo devastato dalla crisi dei valori dovuta alla grande guerra. In Italia, come vedremo in seguito, fu la mistica fascista a far fare un salto di qualità alla politica coloniale, infatti, aumentarono le vessazioni a danno dei nativi e furono utilizzati mezzi coercitivi molto più duri, profittando del controllo dei mezzi di informazione che non inviarono corrispondenze sul volto più brutto dell'avventura africana.
La biologia evoluzionista offrì argomenti scientifici a sostegno dell’inferiorità razziale: ne “l’origine dell’uomo”44(1871) il naturalista inglese Charles Darwin nonostante provi l’appartenenza di tutte le razze umane della stessa specie, ignora totalmente il ruolo del contesto sociale nella formazione della personalità degli
41 L’episodio è narrato in A del Boca, op. cit. e in Italiani brava gente?, Neri Pozza, Venezia, 2005 dello stesso autore.
42 Enzo Traverso, la violenza nazista. Una genealogia, Il Mulino, Bologna, 2002.
43 Sono oggi molti gli studiosi che applicano alla prima guerra mondiale gli attributi di Taylorismo applicato alla distruzione o morte seriale di massa. Traverso fa risalire le origini di questo processo nelle “small wars”
coloniali in cui vennero usate in grande scala le mitragliatrici. Queste armi si ritenevano efficaci solo con i selvaggi ed erano considerate indegne di una guerra europea.
44 Cherles Darwin, L’origine dell’uomo, editori riuniti, 1966.
individui, fornendo una valutazione di evoluzione progressiva in un quadro di lotta per la supremazia.
Nel capitolo quinto (Sviluppo delle facoltà intellettuali e morali nei tempi primitivi e nei tempi civili) le sue affermazioni possono tranquillamente fungere da corollario scientifico prima dell’imperialismo, poi dell’eliminazionismo nazista. Enzo Traverso in ”La violenza nazista. Una genealogia” ha sottolineato come l’evoluzionismo sia stato utilizzato, prima nell’imperialismo per creare una
“gerarchia” di razze, poi dai movimenti razzisti per trovare un fondamento alle loro affermazioni.
Eccettuato il casi dell’uomo stesso difficilmente qualcuno è tanto ignorante da far riprodurre i suoi animali peggiori45
Il principio di simpatia morale anche per esseri umani meno fortunati è per Darwin una conquista morale a cui siamo pervenuti, quindi esclude procedure eugenetiche radicali, a parte la segregazione dei malfattori perché non possano diffondere i loro geni nella società e dice:
Dobbiamo perciò sopportare gli effetti indubbiamente deleteri della sopravvivenza dei deboli e della propagazione della loro stirpe.46
Quanto ai selvaggi l’unica alternativa che hanno, insieme alle scimmie antropomorfe, è l’estinzione:
Attualmente le nazioni civili soppiantano quelle barbare[...]; e riescono in ciò sopratutto, anche se non esclusivamente per le arti prodotte dal loro ingegno.
E’perciò molto probabile che nel genere umano le facoltà intellettuali si siano perfezionate soprattutto attraverso la selezione naturale; e questa conclusione è sufficiente al nostro intento.47
Anche se Darwin è uno studioso rigoroso che cerca di fondare la sua analisi solo sulle prove scienfiche e non un dawinista sociale che ha voluto trasferire la teoria evoluzionistica in una lotta tra le diverse razze del genere umano nell'età
45 Charles Darwin, op. cit. p 176
46 Charles Darwin, op. cit. p 177
47 Charles Darwin, op. cit. p 170
dell'imperialismo l'inferiorità delle popolazioni africane veniva sancita da scienze moderne come l'antropologia fisica e la frenologia, che molto spesso si avvalevano della prova fotografica per dimostrare con esattezza scientifica le loro teorie.
Il colonizzato non era più lo schiavo naturale del Democrates Alter di Gines de Sepulveda48 creato da Dio inferiore e senza possibilità di elevazione morale, bensì un essere che non si è evoluto abbastanza in fretta da evitare di essere eliminato dalle leggi inderogabili ed imprescinbili della scienza.
La colonia è quindi il ricettacolo naturale per lo sfogo della violenza: è lontana dalla madrepatria e dalla sua giustizia49 ed abitata da mezzi uomini che possono essere uccisi con pochi rimorsi.
48 Retore spagnolo, che durante gli anni successivi alla conquista tentò di dimostrare la legittimità della schiavitù a cui erano asserviti gli indios, come schiavi di natura secondo la visione della “Politica” di Aristotele. A lui si oppose il frate domenicano Bartolomè de Las Casas.
49 Il tenente protagonista del romanzo di Flaiano, “Tempo di uccidere” non viene punito anche se provoca una rivolta indigena, commette un omicidio e due tentati omicidi, di cui uno forse riuscito.