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Il Mieloma Multiplo (MM), anche denominato Mieloma plasmacellulare o plasmocitoma, è una malattia tumorale maligna caratterizzata dalla proliferazione e dall’accumulo di un singolo clone di plasmacellule nel midollo osseo.

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1. INTRODUZIONE

1.1. Caratterizzazione della patologia

Il Mieloma Multiplo (MM), anche denominato Mieloma plasmacellulare o plasmocitoma, è una malattia tumorale maligna caratterizzata dalla proliferazione e dall’accumulo di un singolo clone di plasmacellule nel midollo osseo.

Il Mieloma viene solitamente denominato “multiplo” poiché i plasmociti neoplastici proliferano interessando zone multiple del midollo osseo (plasmocitomi midollari), ma possono essere anche confinati all’osso, o nei tessuti molli (plasmocitomi extramidollari) (Kyle, 1994). Le conseguenze fisiopatologiche dello sviluppo del tumore sono una moltitudine di sintomi e disfunzioni gravi, tra cui dolore osseo associato a lesioni osteolitiche (nel 80% dei casi), anemia, ipercalcemia, suscettibilità ad infezioni, la compromissione della produzione di immunoglobuline normali (IgG, IgA, IgD o IgE) e conseguente insufficienza renale (nel 60%). Pertanto, la prognosi dei pazienti è generalmente severa e il progressivo declino della qualità della vita è associato ad una aspettativa di sopravvivenza media che oscilla da 20 a 60 mesi.

Il MM è relativamente raro, infatti rappresenta l’1% di tutte le malattie maligne e

circa il 10% tra le neoplasie ematologiche. A livello mondiale l’incidenza annua è

approssimativamente lo 0,003% (superiore negli anziani), mentre l’età media alla

diagnosi è di circa 68 anni, con una prevalenza nel sesso maschile. I tassi più

elevati, inoltre, si osservano tra gli Afro-Americani degli Stati Uniti (33% di tutti i

cancri ematologici) mentre i tassi più bassi si registrano tra le popolazioni

dell’Asia e dell’Europa Orientale (Sirohi e Powles, 2004).

(2)

In Italia, l’incidenza registrata è di 2-4 nuovi casi ogni 100.000 abitanti all’anno, con età media di insorgenza oltre i 50 anni. I tassi di mortalità, relativi a tutti i gruppi di età registrati nel 1997, sono pari alla media dell’Unione Europea negli uomini (2,15) e superiori alla media (1,52) nelle donne (1,55).

Le plasmacellule patologiche, generalmente superiori al 20% della cellularità globale, possono arrivare ad una infiltrazione massiva dello stesso spazio midollare con conseguente alterazione della crasi ematica (Fig.1.1).

Fig. 1.1: Plasmacellule Mielomatose

Le cellule mielomatose sono caratterizzate anche da un aumento della loro attività, con produzione di elevate quantità di una immunoglobulina monoclonale (detta proteina M), solitamente di tipo IgG o IgA, oppure di un suo componente/frammento (Fig.1.2).

Fig.1.2: La struttura di immunoglobulina normale

(3)

La proteina M è presente nel siero e/o nell’urina e viene normalmente identificata, all’elettroforesi proteica, da un “picco” in corrispondenza della regione delle gammaglobuline (Fig.1.3).

Fig. 1.3: Picco all’elettroforesi caratteristico del Mieloma Multiplo.

Il MM ha origine dalla trasformazione neoplastica di una cellula della fase differenziativa antigene-dipendente, riconducibile al plasmoblasto o a una cellula B memoria, cioè elementi che sono appena passati per la fase di selezione antigenica a livello del centro germinativo del midollo osseo (Fig. 1.5).

Nella fase in cui le cellule B immature diventano plasmacellule mature, si verifica un processo fisiologico denominato “ricombinazione sito-specifica” dei geni delle immunoglobuline (V, D e J) (Fig. 1.4), che provoca l’associazione combinatoria di differenti segmenti genici con conseguente aumento della diversità del repertorio di anticorpi.

Fig. 1.4: Il diagramma rappresentativo del riarrangiamento dei geni VDJ.

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A causa di queste ricombinazioni, le cellule B sono caratterizzate da instabilità genetica intrinseca che è responsabile, a sua volta, della maggior parte degli eventi oncogenetici che contribuiscono alla patogenesi del MM.

Le alterazioni genetiche sono solitamente traslocazioni cromosomiche che colpiscono i geni codificanti per le catene pesanti delle immunoglobuline, come nel caso della banda 14q32, anormale in circa il 75% dei pazienti di mieloma (Kuehl e Bergsagel, 2002).

Il fatto che nella maggior parte delle traslocazioni a carico della banda l4q32 il punto di rottura cada all’interno della regione di “switching” delle catene pesanti indica che l’evento iniziale dello sviluppo della malattia ha proprio luogo nel centro germinativo, con un probabile coinvolgimento di progenitori plasmacellulari precoci.

In passato, lo scarso indice mitotico delle plasmacellule (e la loro scarsa infiltrazione nel tessuto emopoietico midollare nelle fasi iniziali della malattia) ha reso particolarmente difficile l’identificazione delle alterazioni cromosomiche con i mezzi di citogenetica convenzionale (Fonseca et al., 1999).

La recente introduzione della FISH (Fluorescence in Situ Hybridization), che è in grado di individuare l’alterazione citogenetica non solo in cellule in metafase ma anche in cellule in interfase, ha indicato che l’80-90% dei pazienti con MM può presentare anomalie cromosomiche numeriche o strutturali, indipendentemente dallo stadio della malattia (Ahmann et al., 1998).

Dal punto di vista patogenetico, tali riarrangiamenti, considerati l’evento primario

nella evoluzione della malattia, garantiscono l’immortalità della cellula, senza

però essere da soli sufficienti a determinare la trasformazione maligna. Ad oggi,

sono stati identificati alcuni geni come partner primari della traslocazione quali,

bcl1, prad1, cicline D1 e D3 ed altri (che codificano per proteine coinvolte nelle

regolazione del ciclo cellulare) (fig.1.5). Un’altra alterazione genetica comune è la

delezione a carico del cromosoma 13q che si verifica precocemente nel corso

della malattia ed è osservata nel 43% dei MM alla diagnosi, nel 70% dei pazienti

con MM avanzato o evoluto in leucemia plasmacellulare.

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Analizzando i pazienti con riarrangiamento della banda l4q32 e con l3q- sono state recentemente ipotizzate le tappe patogenetiche del MM (Fig 1.5).

L’evento più precoce nello sviluppo della malattia è rappresentato dalla ricombinazione illegittima dei geni codificanti per la catena pesante delle immunoglobuline che si manifesta con traslocazioni a carico della banda 14q32.

Tale dato è confermato dalla correlazione esistente tra i riarrangiamenti l4q32 e il tipo di immunoglobulina prodotta.

È stato osservato che le traslocazioni della banda 14q32 (con un’incidenza del 75%) sono quasi sempre associate, nel 95% dei pazienti, al cromosoma 13q deleto. In questi pazienti, pertanto, il riarrangiamento della banda q32 del cromosoma 14 rappresenta l’evento oncogenico primario, mentre la delezione 13q l’evento oncogenico secondario.

Il 25% circa dei pazienti non presenta invece traslocazioni a carico della banda 14q32, determinando così una malattia che presenterà un decorso clinico indolente, sino al momento in cui non si presenti la delezione 13q (Avet-Loiseau et al., 2002).

È stato osservato che le anomalie a carico del cromosoma 13 sono associate con una bassa sopravvivenza libera da eventi (EFS) e globale alle chemioterapie (convenzionale e ad alte dosi) e le delezioni sono associate, oltre ad una malattia più aggressiva, anche alla farmaco-resistenza (Sonneveld e Segeren, 2002).

Inoltre, durante la progressione della malattia aumenta l’instabilità del cariotipo e

nelle cellule mielomatose si accumolano mutazioni ed alterazioni nell’espressione

di altri geni importanti per la sopravvivenza cellulare quali cmyc, Nras, Kras e

p53 che si accompagnano ad un decorso clinico sfavorevole (Fig.1.5).

(6)

Un’altra importante caratteristica del Mieloma Multiplo è la completa dipendenza delle plasmacellule neoplastiche dal microambiente del midollo osseo, caratterizzato dalla presenza di proteine della matrice extracellulare, cellule stromali, osteoclasti, osteoblasti ed altre cellule accessorie.

Fig. 1.6: complessità delle interazioni tra la cellula mielomatosa e le cellule del microambiente

Infatti, le interazioni delle plasmacellule con questi elementi sono responsabili dell’attivazione e secrezione di fattori di crescita, fattori anti-apoptotici e di varie

Fig.1.5 : Eventi ontogenetici multipli nella patogenesi del mieloma

(7)

segnale intracellulari, promuovono la proliferazione, sopravvivenza, farmaco- resistenza e la progressione della malattia (Bruno et al., 2004). La IL-6 è il principale segnale di crescita e di sopravvivenza per le plasmacellule neoplastiche che la producono, come le cellule stromali del midollo osseo. I livelli sierici di IL- 6 sono aumentati in pazienti con malattia in fase attiva e, senza dubbio, alti livelli sierici risultano associati ad una cattiva prognosi. Oltre a determinare la crescita delle cellule mielomatose, le citochine, in particolare IL-1β e IL-6, mediano anche i fenomeni di distruzione dell’osso, in gran parte dovuti al processo di riassorbimento da parte degli osteoclasti attivati.

La comprensione dei meccanismi molecolari alla base della patogenicità del MM è importante in quanto forniscono potenziali bersagli terapeutici per l’identificazione di nuove terapie in grado di superare la farmaco-resistenza e di indurre l’apoptosi nelle cellule neoplastiche.

1.2. Chemioterapia

Il MM è una malattia progressiva, che ha una prognosi sfavorevole tanto che in passato, per l’assenza di un trattamento specifico la media di sopravvivenza era di circa 17 mesi.

Dopo l’introduzione della chemioterapia la prognosi è migliorata, con una mediana di sopravvivenza globale dalla diagnosi di 2-3 anni (Gado et al.,2001).

Approssimativamente dal 15% al 25% dei pazienti sopravvive più di 5 anni e solo il 3% circa sopravvive più di 10 anni.

Lo scopo delle moderne terapie per i pazienti di MM è di ottenere remissione

completa (CR), sebbene nella sopravvivenza a lungo termine si osservano alcune

tracce della malattia residua, come la presenza di proteina-M nel siero. La

definizione di CR, che è stata più volte modificata negli ultimi 20 anni, in genere

consiste nell’assenza della paraproteina monoclonale nel siero e/o nella urina, in

meno del 5% di plasmacellule nel midollo osseo, in nessun incremento di numero

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e dimensione delle lesioni ossee e nella scomparsa di plasmocitomi nel tessuto molle. La remissione completa è importante perché è un indice della qualità della vita ed è un fattore prognostico per la sopravvivenza.

Circa 40 anni fa, con l’introduzione, da parte di Alexian e colleghi, di una combinazione di melphalan e prednisone (MP) come chemioterapia specifica per il MM, furono ottenute risposte in oltre il 60% dei pazienti, ma nessuno andava incontro a remissione completa e la sopravvivenza era di 12-30 mesi. Tale combinazione è stata per molto tempo il trattamento caratteristico del Mieloma Multiplo, pur avendo numerosi svantaggi, in particolare una elevata tossicità per le cellule staminali del midollo osseo.

A causa di queste limitazioni, sono stati sviluppati vari regimi di chemioterapia combinatoria (CCT), che includevano infusione continua di vincristina e adriamicina, nel tentativo di migliorare la sopravvivenza e il grado di risposta, ma nessuno ha mostrato una differenza significativa nella mortalità rispetto a MP.

Nel 1998, è stato riportato che le sopravvivenze totali con la chemioterapia combinatoria convenzionale e con MP risultavano equivalenti (circa 29 mesi), sebbene il grado di risposta fosse significativamente più alto con la CCT (60% vs 53%, p<0.0001) (Group MTC., 1998).

La chemioterapia convenzionale è in grado di indurre vari gradi di risposta parziale (PR), pertanto è utilizzata per ottenere una buona risposta nell’arco di 6-8 mesi e per raggiungere la cosiddetta fase di plateau, cioè un periodo di stabilità della malattia di almeno 4-6 mesi dal termine della terapia, senza che si manifestino segni di ripresa.

I limiti della chemioterapia convenzionale (incapacità di eradicazione del clone

neoplastico, sviluppo di resistenza ai farmaci e limitata efficacia delle terapie di

recupero nei pazienti refrattari) hanno suggerito l’opportunità di utilizzare altri

protocolli terapeutici. L’introduzione dei fattori di crescita emopoietici e lo

sviluppo di nuove tecniche per la raccolta e reinfusione delle cellule staminali

hanno reso possibile associare la chemioterapia ad alte dosi con l’autotrapianto

nel trattamento e questa strategia innovativa si è rivelata molto migliore della sola

(9)

La combinazioni di vincristina, doxorubicina e desametasone ad alte dosi (DAV) fu per la prima volta usata nel 1984 in pazienti refrattari o in ricaduta e fu osservato un miglioramento della prognosi. Inoltre, DAV induce remissioni nel 32% dei pazienti resistenti primari e nel 65% dei pazienti in ricaduta, sempre se inizialmente trattati con un regime contenente doxorubicina (Lokhorst et al., 1989). Negli studi successivi, DAV è stato usato come terapia di prima linea nei pazienti non trattati, ottenendo un grado di risposta più alto (55-84%) e rapido, ma senza un incisivo prolungamento della vita (circa 36-44 mesi).

Il protocollo DAV è diventato così una valida alternativa al MP o CCT (Alexanian et al., 1990), non in virtù di un miglior risultato globale, piuttosto perché produce una buona risposta (nel 90% dei casi al secondo ciclo), elevate percentuali di risposte globali (60-80%) ed un apprezzabile numero di risposte complete (10-25%), senza danneggiare le cellule staminali sane del midollo osseo.

Una volta che i pazienti hanno ottenuto una risposta massima alla DAV, si rivela necessaria una strategia aggiuntiva per un buon controllo della malattia, poiché si verifica una rapida ricaduta in circa il 90% dei pazienti.

Oggi, grazie alla sua capacità d’azione, il trattamento con DAV è usato come

“terapia di induzione”, prima della terapia ad alte dosi (HDT) con melphalan, nei pazienti candidati ad un approccio trapiantologico

,

preferenzialmente di tipo autologo (ASCT).

In passato, dopo somministrazione di mezza-dose di melphalan (140mg/m^2) e senza recupero di cellule staminali, solo il 30% dei pazienti di nuova diagnosi otteneva remissione completa e vi rimaneva per circa 3 anni.

In seguito, è stato osservato che un risultato migliore poteva essere ottenuto dalla combinazione della terapia di induzione con 200mg/m^2 di melphalan, poiché le cellule staminali del sangue periferico potevano essere recuperate.

Negli ultimi anni, una serie di studi sono stati condotti da vari gruppi di ricerca

per ottenere dati a sostegno di questo trattamento. In uno studio randomizzato

pubblicato dall’Intergroupe Francophone du Myelome (IFM) si è dimostrato

chiaramente la superiorità del trapianto autologo di cellule staminali (ASCT)

(10)

rispetto alla chemioterapia convenzionale, in 200 pazienti con Mieloma non pre- trattati. Con la chemioterapia standard la percentuale di risposta è stata del 57%, 5% di risposte complete e 12% di sopravvivenza a 5 anni, mentre con l’ASCT la percentuale di risposta è stata 81%, 22% di risposte complete, 52% di sopravvivenza a 5 anni (NEJM, 1996).

Se il trapianto di cellule staminali viene ripetuto in successione (trapianto tandem), i risultati migliorano ulteriormente, in quanto aumenta la percentuale di risposte complete al 50% e si prolunga la durata della remissione; la sopravvivenza mediana libera da malattia è di 43 mesi, e la sopravvivenza globale mediana è di 68 mesi (Barlogie et al., 1997). Inoltre, lo stesso gruppo di ricerca francese ha pubblicato nel 2002 i risultati di un trial multicentrico randomizzato (di uno studio iniziato nel 1995) che confrontava due dei più usati regimi di condizionamento, il Melphalan 200 mg/m

2

(regime B) ed il Melphalan 140 mg/m

2

associato a TBI 8Gy (regime A), in pazienti affetti da MM sintomatico alla diagnosi, di età inferiore ai 65 anni. Il trattamento ad alte dosi era preceduto da 4 cicli di terapia di induzione con DAV. Nessuna differenza è stata evidenziata in termini di sopravvivenza libera da eventi (21% vs 20.5%) mentre, sebbene ai limiti della significatività statistica (p=0.05), la sopravvivenza globale a 45 mesi è stata più elevata nei pazienti trattati con Melphalan 200 mg/m

2

(65.8% vs 45.5%).

Alla luce di questi dati, il gruppo francese concluse che il Melphalan 200 mg/m

2

poteva essere indicato come il regime di condizionamento standard per i pazienti con MM da sottoporre ad un programma di autotrapianto (Moreau et al., 2002).

Infine, è stato segnalato che l'esposizione al Melphalan, prima della terapia di mobilizzazione, sembra ridurre il numero delle CS midollari e la loro capacità di espansione, nonché la loro mobilizzazione nel sangue periferico (Knudsen et al., 1999).

Con questo nuovo approccio terapeutico si è ottenuto un miglioramento sia nella velocità di risposta che nella sopravvivenza dei pazienti, ma non può essere considerato curativo in quanto circa il 90% dei pazienti presenterà una ricaduta.

In pratica, il trattamento standard, a cui sono sottoposti i pazienti più giovani di 70

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un successivo trapianto di cellule staminali (autotrapianto singolo o in tandem in cui la prima alta-dose è seguita da un’altra nell’arco di 2-4 mesi). La mortalità relativa al trattamento con un autotrapianto è meno del 3% e questa procedura è stata estesa anche ai pazienti più anziani di 70 anni, con opportuna riduzione del melphalan (100mg/m

2

). Il ruolo delle procedure trapiantologiche allogeniche, seppur teoricamente più indicate all’eradicazione, deve essere valutata con attenzione visto il maggior rischio trapianto correlato.

Riassumendo le fasi del trattamento sono:

1) CHEMIOTERAPIA DI INDUZIONE: DAV che, grazie all’attività citolitica dei farmaci (vincristina, doxorubicina e desametasone) riduce le cellule mielomatose risparmiando il compartimento delle CS, ed, inoltre, produce elevate percentuali di risposte globali (60-80%), un apprezzabile numero di risposte complete (10-25%) e determina risposte precoci (nel 90% dei casi al secondo ciclo).

2) MOBILIZZAZIONE: mette in circolo le cellule staminali nel sangue periferico.

Nei pazienti con MM, i primi tentativi di raccolta delle CS sono stati effettuati

dopo chemioterapia con alte dosi di Ciclofosfamide (Reiffers et al., 1989) o

regimi contenenti Antracicline (Fermand et al., 1993). Successivamente, grazie

all’introduzione dell’utilizzo dei fattori di crescita, dopo la chemioterapia, allo

scopo di incrementare il numero di CS mobilizzate nel sangue periferico, divenne

uno standard l'associazione Ciclofosfamide ad alte dosi con fattori di crescita

diversi (Demunynck et al. 1995). Al di fuori di studi clinici controllati, la

personalizzazione della terapia di mobilizzazione deve tener conto dello stato di

malattia del paziente, dei precedenti trattamenti, dei rischi di tossicità farmaco- e

dose- associata ed, infine, della maggiore probabilità di contaminazione se la

scelta ricade sull'utilizzo di un singolo fattore di crescita. Inoltre, indicazioni di

tempi brevi di attecchimento post-trapianto possono venire dal recupero

piastrinico dopo una terapia di mobilizzazione con Ciclofosfamide. Infine, è stato

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segnalato che l'esposizione al Melphalan, prima della terapia di mobilizzazione, sembra ridurre il numero delle CS midollari e la loro capacità di espansione, nonché la loro mobilizzazione nel sangue periferico (Knudsen et al. 1999).

3) LEUCOAFERESI: prelievo delle cellule staminali dal sangue periferico.

4) CONDIZIONAMENTO: chemioterapia pre-trapianto per distruggere tutte le cellule mielomatose.

I fattori che contribuiscono in maniera determinante all'efficacia del trapianto autologo, devono ancora essere identificati. È verosimile che, tra questi, un fattore importante sia rappresentato dal regime di condizionamento, considerando che l'effetto anti-mielomatoso dipende principalmente dalla terapia mieloablativa. È evidente che il regime di condizionamento ideale dovrebbe combinare un effetto ottimale anti-mielomatoso ed una bassa tossicità. È stato ampiamente esplorata, nel MM, la relazione diretta che esiste tra la dose di Melphalan impiegata e le risposte cliniche ottenute.

Il lavoro pionieristico di McElwain e Powels (1983), che per primi hanno esplorato l'utilizzo del Melphalan ad alte dosi (140 mg/m

2

endovena) in pazienti con MM, resistenti o non trattati, ad alto rischio, pur dimostrando l'efficacia di tale regime terapeutico, ha però dovuto registrare un 16% di mortalità legata alla marcata mielosoppressione. Successivamente, ed in linea con questi risultati, lo stesso gruppo ed altri autori hanno confermato l'effetto dose-risposta che si traduceva in una percentuale di risposte complete di circa il 30% nei pazienti resistenti. Purtroppo, veniva anche confermata una percentuale di mortalità correlata alla terapia molto alta, che dal 10% dei casi di MM non trattati (Harousseau et al. 1992) passava al 20% per i casi che avevano effettuato più linee di trattamento (Barbogie et al., 1988).

Pertanto, rimaneva, come ultima strada da percorrere, l'uso delle CS per il

recupero del danno midollare indotto dal melphalan.

(13)

Nel 1986, Barlogie utilizzando come risorsa il midollo osseo autologo, ha ridotto la tossicità ematologica legata al Melphalan utilizzato a vari dosaggi.

Successivamente, sulla base del suo profilo di tossicità e sulla tipologia della curva dose-risposta, il Melphalan è stato ulteriormente scalato a 200 mg/m

2

(Barlogie et al. 1998), valore che è stato confermato dal successivo lavoro dell’Intergruop Francophone du Myèlome pubblicato nel 2002, secondo i quali il Melphalan 200 mg/m

2

poteva essere utilizzato per i pazienti con MM sottoposti a trapianto di midollo osseo (Moreau, Facon, Attal et al., 2002).

Oggi, infatti, questi dosaggi del farmaco sono utilizzati come terapia di condizionamento in quanto, dal punto di vista della tossicità, sono ben tollerati.

5) RE-INFUSIONE: somministrazione delle cellule staminali.

Dopo la chemioterapia ad alte dosi, le cellule staminali vengono scongelate e attraverso il catetere venoso centrale o una vena periferica vengono restituite al paziente.

1.2.1. Trattamento della malattia in recidiva e/o refrattaria

In una patologia inguaribile, quale è il MM, l'argomento del trattamento della ripresa della malattia è tutt’altro che secondario.

Nei pazienti in recidiva, una nuova remissione può essere ottenuta utilizzando lo stesso regime terapeutico iniziale, ma con percentuali di risposta decisamente più basse. Ciò ha indotto ad utilizzare schemi polichemioterapici, con o senza Antracicline, nei pazienti già trattati con MP.

Uno studio ha dimostrato l'equivalenza tra VBMCP e DAV nei pazienti recidivati

dopo il trattamento di prima linea (Mineur et al., 1998). I pazienti inizialmente

refrattari, o che diventano refrattari agli Alchilanti, hanno possibilità di risposta e

sopravvivenza alquanto limitate (Forgeson et al. 1988). Per i pazienti refrattari

agli Alchilanti, sia il DAV ed i suoi derivati che cicli intermittenti di steroidi ad

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alte dosi rappresentano valide alternative. Comunque la più alta percentuale di risposta è stata ottenuta con il DAV.

Oggi un’importante possibilità terapeutica è rappresentata dalle formulazioni liposomiali delle Antracicline, per pazienti non eleggibili per il trattamento con le normali formulazioni di tali farmaci, come spesso accade in fase di recidiva o resistenza alle precedenti terapie.

Considerata l'efficacia delle Antracicline nel trattamento del MM, il razionale per l’uso dell’Antraciclina liposomiale consiste nella possibilità di incrementare l'intensità della dose, riducendo al minimo sia i meccanismi di resistenza che il rischio di cardiotossicità, grazie alla riduzione dell'uptake del farmaco nei tessuti normali e al suo incremento a livello delle cellule tumorali (Mohrbacher et al.

2002).

1.2.2. Talidomide

Nel 1999 si è scoperto che molti pazienti con MM refrattario alla chemioterapia rispondevano al trattamento con la Talidomide. Questo farmaco era impiegato alcuni decenni fa come sedativo, ma il suo utilizzo era stato abbandonato quando si dimostrò responsabile della comparsa di malformazioni congenite (come la focomelia) se assunto in gravidanza.

L’esatto meccanismo d’azione della Talidomide è ancora oggi oggetto di studio. Il principale effetto antitumorale attualmente noto è rappresentato dall’inibizione dell’angiogenesi, effetto che si ritiene si realizzi sia direttamente come tossicità sui vasi neoformati, sia indirettamente per inibizione dell’attività dei fattori angiogenetici.

Inoltre, la Talidomide altera l’espressione delle molecole di adesione, riduce l’espressione del TNF-α, incrementa in vivo la produzione di IL-10 ed infine stimola l’immunità cellulo-mediata svolta dalle cellule T e NK (Davies et al.

2001).

(15)

L’efficacia del farmaco, però, non sembra estendersi a masse mielomatose extramidollari.

Uno studio effettuato su 84 pazienti con MM resistente, dimostrò che la Talidomide produceva una remissione completa in circa il 25% dei pazienti pre- trattati con chemioterapia ad alte dosi. Inoltre fu osservata una buona riduzione della componente M (fino al 90% nel 9% dei pazienti), una riduzione della concentrazione della β

2

−Microglobulina ed un miglioramento o stabilizzazione dell’insufficienza renale (Singhal et al., 1999).

Successivi studi hanno dimostrato che la percentuale di risposta sale dal 32% al 50% se la Talidomide viene associata al Desametasone (Palombo et al., 2001), e al 60% se associata a Desametasone e chemioterapia (Garcia-Sanz et al., 2002).

Al momento restano da definire quali siano le indicazioni più vantaggiose della Talidomide nell’ambito di un programma terapeutico volto ad eradicare la malattia ed a mantenere la remissione il più a lungo possibile. Il farmaco non manca di effetti collaterali, fra i quali stipsi, astenia, tremori, alterazioni del tono dell’umore, sonnolenza, neuropatia periferica, eruzioni cutanee, ipotiroidismo subclinico, bradicardia e la già citata teratogenicità.

Il Mieloma Multiplo è dunque una malattia sostanzialmente incurabile.

Come già detto in precedenza, l’introduzione dei fattori di crescita emopoietici e

lo sviluppo di nuove tecniche per la raccolta e re-infusione delle cellule staminali

hanno reso possibile testare l’impiego della chemioterapia ad alte dosi con

autotrapianto dimostrando l’indubbia superiorità di tale strategia innovativa

rispetto alla sola Chemioterapia Convenzionale.

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1.3. Chemioterapici Antineoplastici

La terapia del MM si basa sulla somministrazione di agenti antitumorali (polichemioterapia) con la finalità di ridurre ai minimi termini e possibilmente di eradicare la popolazione mielomatosa, consentendo alle cellule staminali sane trapiantate di ripopolare normalmente il midollo.

La maggior parte dei farmaci antitumorali convenzionali esercitano la loro attività inducendo direttamente la morte delle cellule e per tale motivo vengono detti

“citotossici”, in quanto provocano un danno cellulare interferendo con la sintesi del DNA o interagendo chimicamente con esso, così da alterare il processo di divisione cellulare. Tutte le cellule, normali e neoplastiche, devono passare attraverso una serie precisa di tappe prima della divisione. Il ciclo cellulare parte da G

1

, fase iniziale associata alla sintesi di enzimi necessari per il funzionamento e la produzione di nuovo DNA. Successivamente ha inizio la fase S, in cui avviene la duplicazione del genoma, alla quale segue la fase G

2

di preparazione alla mitosi. Infine, la cellula entra nella fase M durante la quale va incontro a divisione e si formano le due cellule figlie con corredo cromosomico diploide.

Esiste anche la fase G

0

, che rappresenta uno stato di quiescenza delle cellule che, tuttavia, mantengono intatte le loro capacità di replicazione e possono rientrare in ciclo dalla fase G

1

e quindi replicarsi.

Fig. 1.7: Il ciclo cellulare

(17)

Gli agenti chemioterapici vengono detti anche “farmaci antiproliferativi” in quanto sono tossici sulle cellule in divisione ma ciò non vuol dire che siano privi di effetto sulle cellule differenziate o in G

0

.

Tali farmaci sono suddivisi in tre classi principali secondo la proposta di Bruce e coll. che risale all’inizio degli anni ’60:

farmaci “non ciclo-specifici”, che agiscono indipendentemente dal ciclo e hanno azione letale anche sulle cellule in G

0

;

farmaci “fase-specifici” che uccidono le cellule in fasi specifiche del ciclo;

farmaci “non fase-specifici” che uccidono le cellule indipendentemente dalla fase del ciclo purchè siano in replicazione.

Lo svantaggio dei farmaci antitumorali attualmente conosciuti è dovuto, purtroppo, alla loro incapacità di distinguere tra il DNA di una cellula maligna e quello di una normale, anche se le cellule tumorali, avendo più probabilità di essere in divisione cellulare (per la loro intrinseca capacità di crescere in modo incontrollato), possono essere più sensibili all’effetto lesivo dei farmaci in questione. Pertanto queste sostanze, oltre ad avere effetti terapeutici, possono recare danno notevole a organi e tessuti normali, responsabile della loro tossicità e del limite nelle dosi consentite.

Il nostro studio ha considerato in maniera specifica i farmaci che complessano il

DNA come la doxorubicina (non fase-specifico), i farmaci inibitori della mitosi

come la vincristina (fase-specifico) e infine i farmaci ad elevata reattività chimica

ma privi di specificità d’azione come il melfalan e la ciclofosfamide (non ciclo-

specifici), coinvolti nelle diverse fasi del trattamento dei pazienti affetti da

Mieloma Multiplo.

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1.3.1. Farmaci complessanti il DNA

Questo gruppo di farmaci comprende composti appartenenti alla classe degli antibiotici isolati da sorgenti naturali, in grado di interagire direttamente con il DNA ma senza la formazione di legami covalenti.

La doxorubicina (DOX), appartenente a questo gruppo, è una antraciclina citotossica che è stata isolata da colture di Streptomyces peucetius var. caesius.

Grazie alla sua attività antitumorale e al suo dosaggio flessibile, è un componente di molti regimi chemioterapici standard per il trattamento di un’ampia varietà di tumori solidi ed ematologici tra cui il MM.

La doxorubicina è considerata “non fase-specifica”, sebbene il massimo effetto citotossico è evidente sulle cellule in fase-S. Infatti, è stato osservato che le cellule esposte al farmaco in G

1

possono procedere attraverso la fase S ma poi si bloccano e muoiono in fase G

2

.

La formula di struttura (Fig. 1.8) consiste in un nucleo di naftacenechinone legato, attraverso un legame glicosidico con un atomo C7, ad un ammino-zucchero

“daunosamina”.

Fig. 1.8: Formula di struttura della doxorubicina

L’anello di antraciclina è lipofilico, ma l’estremità saturata del sistema policiclico

contiene gruppi idrossilici adiacenti all’ammino-zucchero, formando un centro

idrofilico.

(19)

Inoltre la molecola è anfoterica, con funzioni acide nei gruppi fenolici e funzione basica nell’ammino-zucchero.

L’effetto citotossico sulle cellule tumorali e i suoi effetti tossici su vari organi sono dovuti a meccanismi d’azione diversi, tra i quali:

capacità di legame col DNA per un processo detto “intercalazione”;

interazione con la Topoisomerasi 2;

formazione di radicali liberi, che danneggiano le membrane cellulari;

capacità di legame ai lipidi della membrana cellulare così come alle proteine plasmatiche.

La maggior parte dei dati fa ritenere che il principale meccanismo d’azione del farmaco sia da ricondurre alla sua attività di “intercalante”, infatti, la doxorubicina si lega agli acidi nucleici del DNA, mediante intercalazione specifica del nucleo planare dell’antraciclina tra paia di basi adiacenti perpendicolarmente all’asse maggiore della doppia elica, determinando così un parziale srotolamento dell’elica di DNA. Come conseguenza, questa semplice azione di cambiamento della conformazione va ad interferire con l’azione della RNA polimerasi DNA- dipendente impedendo la trascrizione e quindi la sintesi proteica, provocando così la morte cellulare.

Tuttavia, la maggior parte del DNA è organizzato e compattato all’interno della cromatina, pertanto può essere protetto da questo tipo d’azione del farmaco.

Esiste, però, un secondo meccanismo con il quale la doxorubicina si complessa

con enzimi nucleari, tra i quali la Topoisomerasi 2, inibendo la loro azione (Moro

et al., 2004). La Topoisomerasi 2 è un enzima responsabile del rilassamento della

sequenza di DNA necessario per la sua lettura durante la replicazione e la

trascrizione. Il meccanismo d’azione dell’enzima consiste nella rottura

temporanea del DNA, permettendo a entrambe le estremità di ruotare dentro

l’enzima e consentendo al DNA di srotolarsi. Successivamente, l’enzima

riconnette le due estremità lasciando una sezione di DNA rilassato pronto per il

processamento.

(20)

La doxorubicina, come inibitore, interagisce con la Topo2 (Fig. 1.9) che viene intrappolata sul DNA mediante legame covalente, formando così un complesso ternario stabile farmaco-enzima-DNA, detto “cleavable complex”, che rende più difficile la riunificazione dei filamenti (Fig. 1.10).

Fig. 1.9: Un modello di interazione della DOX con il complesso DNA-TopoII

Fig. 1.10: Il meccanismo d’azione della doxorubicina

(21)

Di conseguenza, molti dei processi necessari nella cellula sono inibiti, tra cui la sintesi del DNA, dell’RNA e delle proteine.

La doxorubicina, somministrata per via endovenosa e distribuita ai tessuti (ad eccezione della barriera encefalica) in circa 5 min, è prevalentemente metabolizzata nel fegato per poi essere eliminata lentamente come glucoronide o coniugato idrossilato nella bile.

Recentemente, numerosi studi hanno messo in luce la relazione esistente tra cardiotossicità indotta dalla doxorubicina e il suo metabolismo, che porta alla formazione di prodotti altamente reattivi.

La DOX è rapidamente metabolizzata dalle aldo-cheto-Reduttasi NADPH- dipendenti, nel citoplasma, ad un alcol secondario “doxorubicinolo” e dalla citocromoP450-Reduttasi NADPH-dipendente a un gruppo di composti idrossi- o deossi-agliconi (Fig. 1.11).

È stato dimostrato che il doxorubicinolo, tra i vari prodotti della doxorubicina, è il metabolita con effetto cardiotossico che aumenta con la dose somministrata (Zhou et al, 2002).

Fig. 1.11: Il metabolismo della doxorubicina

(22)

Inoltre, ci sono molti lavori che evidenziano la formazione di radicali liberi da parte della doxorubicina (Moody e Hassan, 1982; Hsie et al., 1986; Meneghini, 1988).

La riduzione a un elettrone della porzione chinonica dell’antraciclina genera un radicale libero semichinonico che, in presenza di ossigeno molecolare, produce specie altamente reattive, compresi superossidi, perossidi di idrogeno e radicali idrossilici.

Questi composti contribuiscono alla cardiotossicita del farmaco, perché possono danneggiare le membrane mitocondriali mediante perossidazione lipidica.

Questi prodotti metabolici, inoltre, possono indurre rotture del DNA, ossidazione diretta delle purine e delle pirimidine, cambiamenti che innescano l’apoptosi.

Quindi, i diversi effetti pleiotropici hanno reso difficile stabilire l’esatta base molecolare dell’attività antitumorale della DOX, la cui citotossicità probabilmente deriva dalla sovrapposizione dei molteplici meccanismi di danno cellulare.

1.3.2. Alcaloidi vegetali

Un altro gruppo molto importante di farmaci antitumorali è costituito dagli inibitori della mitosi tra i quali gli alcaloidi della Vinca, farmaci di elezione in tutti i tipi di associazioni chemioterapiche antitumorali (Ferguson e Pearson, 1996), a cui appartiene la Vincristina, farmaco utilizzato nella terapia di induzione dei pazienti affetti da MM.

La Vincristina, chimicamente simile agli altri composti di questo gruppo, deriva

da una pianta “Pervinca Rosea” (Catharanthus roseus) e ha struttura multiciclica

(Fig. 1.12).

(23)

Fig. 1.12: La formula di struttura della vincristina

Gli alcaloidi della Vinca sono composti in grado di arrestare il processo mitotico allo stadio della metafase con la perturbazione dell’equilibrio dinamico tubulina- microtubuli e conseguente induzione dell’apoptosi.

I microtubuli sono un componente cruciale del macchinario cellulare per l’organizzazione e divisione dei cromosomi e sono formati dall’aggregazione organizzata dei dimeri di α- e β-tubulina, che hanno una estremità di crescita ed un’estremità che è costantemente depolimerizzata. L’equilibrio tra polimerizzazione e disaggregazione è strettamente controllato nelle cellule per permettere alla cellula di muovere le macromolecole lungo i microtubuli in crescita.

Gli alcaloidi della Vinca si legano ai dimeri di tubulina ad un sito specifico della

proteina inibendone la polimerizzazione e quindi la formazione dei microtubuli

(Chabner e Collins, 1990). Infatti, il complesso farmaco-tubulina è in grado di

formare aggregati paracristallini, riducendo la concentrazione di dimeri e

spostando l’equilibrio tra crescita e accorciamento dei microtubuli a favore della

depolimerizzazione (Fig. 1.13).

(24)

Fig. 1.13: Il meccanismo di azione della vincristina

Le cellule tumorali trattate con vincristina perdono la capacità di progredire correttamente attraverso la mitosi a causa dell’incapacità di formare il fuso mitotico (Wang et al., 2003), di conseguenza le cellule danneggiate, bloccate in metafase mitotica, vanno incontro a morte. La vincristina è spesso parte di terapie combinatorie e i suoi effetti tossici più comuni, la mielosoppressione e la neurotossicità, sono dose-dipendenti e possono anche dipendere dalla modalità di somministrazione e dai chemioterapici concomitanti.

Tale farmaco, che viene somministrata solo per via endovenosa, si distribuisce ed si accumula nei tessuti in breve tempo. La vincristina, come gli altri alcaloidi della vinca, è principalmente escreta attraverso il sistema epatobiliare (più del 60%

della dose totale eliminata) sia come farmaco che come metaboliti, che vengono prodotti nel fegato per azione degli enzimi CYP3A, ma la cui struttura chimica rimane sconosciuta (Zhou et al., 1993). Il metabolismo degli alcaloidi vegetali mostra un’ampia variabilità interindividuale che è correlata con i livelli di CYP3A nei microsomi del fegato umano.

Le cellule tumorali possono diventare refrattarie al trattamento con vincristina

mediante una varietà di meccanismi, tra cui le alterazioni nella struttura delle

(25)

proteine tubulina, o la sovraespressione della proteina della resistenza multipla MDR1 (glicoproteina-P) che media l’efflusso dalla cellula di molti farmaci.

1.3.3. Agenti alchilanti

Sono sostanze che vengono trasformate in composti ionici carichi positivamente altamente reattivi e che possono formare legami covalenti con strutture ricche di elettroni come molte biomolecole, tra le quali gli acidi nucleici, le proteine e gli amminoacidi.

In condizioni fisiologiche, gli agenti alchilanti sono responsabili del processo di alchilazione che consiste nella sostituzione di un atomo di idrogeno con un gruppo alchilico in un composto organico (Fig. 1.14).

Fig. 1.14: Il meccanismo d’azione degli agenti alchilanti

Tale reazione con i nucleotidi si verifica con affinità decrescente tra purine e pirimidine secondo una scala di reattività delle basi azotate (Fig. 1.15):

guanina (N-7, O-6) > adenina (N-3, N-1) > citosina (N-1) >> timida

Fig. 1.15: Struttura degli acidi nucleici

(26)

L’alchilazione delle basi eterocicliche nel DNA è un responsabile della attività antitumorale e citotossica di questi farmaci in quanto può portare alla lettura errata o all’appaiamento anomalo durante la replicazione del DNA.

Il principale evento citotossico per le cellule trattate con questi farmaci è un legame crociato “cross-link” interfilamento, generalmente tra due guanine, che è responsabile di rotture nella doppia elica di DNA (Fig. 1.16).

Fig. 1.16: Effetto dell’azione di cross-link

Per tale azione, gli alchilanti inducono un danno che può non essere riparato e di conseguenza la cellula va incontro ad apoptosi. Inoltre, il cross-linking può impedire la despiralizzazione della catena di DNA bloccando il processo di replicazione.

Ciascuna di queste azioni inibisce la sintesi del DNA, dell’RNA e delle proteine.

Gli agenti alchilanti possono legarsi al DNA durante qualsiasi fase del ciclo

cellulare, ma esercitano il loro effetto citotossico quando la cellula entra in

divisione. Appartengono a questo gruppo di farmaci le mostarde azotate che sono

ottenute dal gas mostarda, che fu utilizzata per la prima volta durante la prima

guerra mondiale ad Ypres e si notò che causava la distruzione del midollo osseo e

dei globuli bianchi. Questa citotossicità acuta ha portato ad un periodo di ricerca

intensa per trovare analoghi più sicuri e farmacologicamente accettabili che

(27)

Le strutture delle mostarde azotate più comunemente usate come farmaci sono il melphalan, la ciclofosfamide che sono utilizzati anche nel trattamento del MM nelle fasi successive al ciclo di DAV prima del trapianto (Fig. 1.17).

Fig. 1.17: Le formule di struttura delle mostarde azotate

L’efficacia di questi farmaci è spesso limitata dalla comparsa della resistenza acquisita (ADR), in cui dosi ripetute del farmaco si concludono in una insufficiente citotossicità nei confronti della cellula bersaglio e perciò in una ridotta efficacia terapeutica.

La ciclofosfamide (CPA) è un pro-farmaco antitumorale che deve essere attivato metabolicamente e il suo meccanismo d’azione e la sua tossicità sono stati associati all’attivazione epatica da parte del sistema Citocromo P450, attraverso due vie principali che sono rispettivamente reazioni di attivazione e di inattivazione del farmaco.

Dalla prima via si formano metaboliti attivi coinvolti nel cross-link del DNA,

mentre la via alternativa forma metaboliti inattivi ed è secondaria, interessando

meno del 10% della dose (Pass et al., 2005).

(28)

1.4. Metabolismo dei farmaci

Nel nostro organismo è presente un sistema di detossificazione naturale che permette di eliminare le sostanze estranee introdotte, dette xenobiotici, rendendole più facilmente escreibili (Nerbert, 1997).

Se la grande quantità di sostanze esogene, compresi i farmaci, può essere trasformata in metaboliti meno attivi e facilmente eliminabili, una parte può invece essere trasformata in composti più reattivi e tossici dell’elemento di partenza. La risposta di un determinato individuo dipende, quindi, dal delicato bilancio che si instaura tra attivazione e detossificazione metabolica durante l’esposizione alla sostanza.

Il sistema di detossificazione è costituito da enzimi implicati nei normali processi metabolici e la risposta dell’organismo è in parte data dalle varianti alleliche (polimorfismi) dei geni che codificano per quegli enzimi. Per polimorfismo si intende l’esistenza, nella popolazione, di uno o più alleli di un gene con frequenza superiore all’1%.

Il metabolismo degli xenobiotici è suddiviso in due fasi principali, catalizzate da diverse classi di enzimi (Fig. 1.18).

La fase 1, detta fase di “funzionalizzazione”, consiste in reazioni di ossidazione

da parte soprattutto di enzimi appartenenti alla famiglia dei citocromi P450 ma

anche da parte degli enzimi NQO1, capaci di metabolizzare un ampio range di

sostanze. Attraverso l’inserimento di un atomo di ossigeno molecolare in un

determinato punto della struttura della molecola si creano centri reattivi elettrofili

(-OH, -NH2, -COOH). Poiché può capitare che l’intermedio metabolico formato

risulta essere più reattivo del composto di partenza, con il risultato di causare

notevoli danni al DNA, questo processo è anche detto “attivazione metabolica”.

(29)

Fig. 1.18: Il metabolismo degli xenobiotici

Normalmente i centri elettrofili dei substrati, derivati dalla prima parte del metabolismo, vengono attaccati dagli enzimi della fase 2, detta di “coniugazione”, che catalizzano l’introduzione di un gruppo idrofilico (glutatione, acetile etc.) su di essi o direttamente sulla sostanza esogena.

Il risultato finale sarà un composto prevalentemente innocuo, dotato di una certa lipofilicità, in grado di attraversare le membrane ed essere facilmente escreto per via renale o biliare (Smith et al., 1995). Tra i numerosi enzimi che intervengono nella fase 2 del metabolismo, particolarmente interessante è la famiglia delle glutatione S-transferasi (GST), enzimi che hanno la funzione di catalizzare la coniugazione del glutatione con composti elettrofili, quali il farmaco stesso o molti metaboliti formati durante la fase 1.

Poichè i geni che codificano per questi enzimi sono altamente polimorfici, ad ogni

variante allelica può corrispondere un’attività enzimatica diversa. Esiste una

correlazione tra la variabilità genetica di questi enzimi e la risposta individuale

agli effetti tossici degli xenobiotici, in quanto diverse combinazioni delle varianti

alleliche possono essere connesse a diverse capacità metaboliche e possono

(30)

comportare importanti differenze interindividuali nella risposta al danno al DNA, ad esempio, in seguito al trattamento con chemioterapici.

Infatti, un farmaco, quando entra nell’organismo, si distribuisce al suo interno e può essere metabolizzato, attivato, coniugato (cioè legato ad altre molecole) ed infine escreto.

Quindi, la variabilità di risposta, per quanto riguarda l’efficacia terapeutica e la tossicità del farmaco, sarà determinata dalle diverse interazioni delle varianti di questi enzimi.

1.5. Farmaco-resistenza

Una discreta percentuale di pazienti affetti da Mieloma Multiplo, come molti tipi di neoplasie che colpiscono l’uomo, risulta “refrattaria” alla terapia standard con farmaci antitumorali che possono avere anche effetti collaterali molto gravosi.

La presenza di soggetti “non rispondenti” alle terapie farmacologiche può essere spiegata dal fenomeno della resistenza, che rende la cellula tumorale resistente ad un ampio spettro di farmaci. L’efficacia della chemioterapia e la sensibilità alla tossicità del farmaco è condizionata da una serie di fattori, quali l’età, il sesso, l’interazione tra farmaci e dall’alterazione nel metabolismo della sostanza nell’organismo, nell’interazione con il suo sito bersaglio e nella riparazione del danno cellulare.

Anche se le cellule farmaco-resistenti all’inizio sono poco numerose (per es., una cellula su 10

5

cellule farmaco-sensibili), il vantaggio selettivo durante il trattamento farmacologico fa sì che esse diventino rapidamente la popolazione cellulare dominante.

Tra le cause della farmaco-resistenza, le alterazioni geniche possono conferire questa caratteristica alle cellule tumorali e sono almeno di due tipi:

l’amplificazione genetica e le mutazioni puntiformi (SNPs), in grado di

(31)

meccanismo d’azione del farmaco o nella sua biotrasformazione. I meccanismi di farmaco-resistenza dovuti ad amplificazione genetica avvengono mediante un processo a tappe e le cellule farmaco-resistenti si selezionano più rapidamente attraverso dosi crescenti del farmaco, un esempio è l’amplificazione dei geni mdr che codificano la glicoproteina-P. Contrariamente, le mutazioni puntiformi avvengono in una singola fase che non dipende in modo critico dalla concentrazione del farmaco impiegato.

Le cellule tumorali presentano due tipi di resistenza:

la resistenza acquisita che, come dice la parola stessa, viene acquisita dalla cellula con il tempo in seguito ad una continua esposizione ad agenti chemioterapici, e la si osserva dopo i primi cicli di trattamento;

la resistenza intrinseca dovuta a caratteristiche proprie della cellula tumorale.

La resistenza intrinseca, che viene osservata in vitro, si distingue in semplice, quando le cellule neoplastiche sono resistenti a una sola sostanza e multipla, quando si osserva resistenza ad un insieme di farmaci chemioterapici.

Questo secondo tipo di resistenza, che è osservato principalmente in vivo, è dovuto a diversi meccanismi (Padro et al., 2000) e viene comunemente indicato con il termine Multidrug Resistance (MDR).

Quindi, la resistenza ai farmaci è uno dei maggiori ostacoli all’eradicazione del tumore mediante chemioterapia e vede implicati diversi meccanismi cellulari (Fig.

1.19).

(32)

Fig. 1.19: Meccanismi cellulari di resistenza

a) Alterazioni nei “sistemi di trasporto” di membrana, intracellulare ed extracellulare, sono responsabili delle variazioni di concentrazione del farmaco nella cellula che, non potendosi accumulare, non è in grado di danneggiare il DNA e di conseguenza la cellula tumorale può continuare a proliferare normalmente.

L’aumentato “trasporto extracellulare” del farmaco è il meccanismo di resistenza più studiato ed è stato descritto per vari farmaci.

L’aumentato efflusso è dovuto all’incrementata attività di proteine di membrana quali la glicoproteina-P (gp-P) e la MRP (Multidrug Resistance.associated Protein) responsabili del trasporto attivo dei farmaci dal citosol verso lo spazio extracellulare.

Questo meccanismo è alla base del fenomeno di resistenza pleiotropica detto

MDR, perché rende la cellula tumorale resistente ad un ampio spettro di farmaci

diversi per struttura e meccanismo d’azione. Al momento della sua prima

descrizione nel 1979 (Goldie e Coldman, 1979), questo fenomeno sembrava

legato unicamente all’aumentata espressione di una pompa ATPasica di

membrana nota come glicoproteina-P e codificata dal gene MDR1 (ABCB1).

(33)

di MDR, come la MRP, la proteina LRP ( Lung Resistance Protein) ed il fenomeno della MDR atipica per alterazioni della topoisomerasi 2.

b) Alterazioni nella attivazione/inattivazione del farmaco sono associati ad alterazioni negli enzimi metabolici.

La diminuzione dell’attivazione è un meccanismo di resistenza utilizzato nei confronti di farmaci che sono somministrati come dei pro-farmaci che devono essere convertiti in una forma attiva a livello intracellulare.

L’aumentata inattivazione del farmaco gioca un ruolo importante nella resistenza ai chemioterapici e si instaura poiché le cellule aumentano la concentrazione o la funzionalità dei sistemi deputati al controllo delle attività ossidative in genere o che danno origine alla formazione di radicali liberi e di perossidi. Tutte le cellule possiedono un sistema enzimatico complesso che fa capo ad una piccola molecola chiamata glutatione (GSH), un tripeptide glutammato-cisteina-glicina, che viene coniugato ai composti da inattivare (ai perossidi e radicali liberi prodotti da farmaci oppure a molecole elettrofile cariche positivamente) attraverso le Glutatione-S-Transferasi (GST) citosoliche rendendoli meno tossici e più facilmente eliminabili. Quello legato al GST è un meccanismo di resistenza associato al fenotipo MDR (Multidrug Resistance) perchè riguarda un ampio spettro di farmaci diversi. Ad esempio, lo sviluppo della resistenza agli agenti alchilanti, come il melfalan, è spesso associato all’induzione di sistemi enzimatici per la detossificazione dei farmaci, tra i quali la Glutatione-S-Transferasi.

c) Le cellule tumorali possono diventare resistenti ad un dato farmaco antitumorale anche quando insorgono alterazioni quantitative o qualitative del suo bersaglio.

Le cellule tumorali hanno gli stessi polimorfismi delle cellule normali, ma la loro instabilità genetica conduce ad una frequenza più alta di mutazioni aggiuntive che possono essere a carico dei siti di azione del farmaco.

Le topoisomerasi 2, che sono necessarie per la replicazione del DNA e la loro

attività è massima durante la fase S del ciclo cellulare, consentono la creazione di

siti di rottura in entrambe i filamenti dell’elica di DNA, la ricombinazione di un

(34)

secondo segmento nel sito di clivaggio (cioè la rotazione dei due filamenti) e la richiusura dell’elica.

Per gli inibitori della topoisomerasi 2, la cui citotossicità è dovuta alla formazione di un complesso con l’enzima bersaglio, le cellule tumorali diventano resistenti riducendo i livelli di enzima oppure esprimendo una versione mutata della topoisomerasi 2, che abbia un minore affinità con il farmaco.

Questo ultimo meccanismo di resistenza è responsabile di un fenotipo di farmaco- resistenza rivolto verso farmaci strutturalmente diversi che hanno come bersaglio comune la topoisomerasi 2. Quindi fa parte dei meccanismi di MDR, anche detto

“MDR atipica” per distinguerlo dalla resistenza dovuta ad un aumentato trasporto extracellulare. Un esempio di chemioterapici che sembrano dipendere dall’attività della topoisomerasi 2 per l’induzione del danno letale nel DNA sono gli agenti intercalanti, come l’adriblastina (anche detta doxorubicina).

Le cellule che si sono selezionate per la resistenza all’adriblastina possono esprimere la glicoproteina-P e presentare resistenza crociata agli alcaloidi della vinca.

In alternativa, esse possono mostrare una resistenza simultanea atipica a diverse classi di farmaci presentando una resistenza crociata all’adriblastina ed altri farmaci, ma non alla vincristina. Questo tipo di cellule non esprimono aumentati livelli di gl-P.

Questa resistenza simultanea atipica a diverse classi di farmaci è stata associata con una ridotta attività della topoisomerasi 2 (Morrow e Cowan, 1990) e/o con la presenza di forme varianti dell’enzima la cui attività non facilita il danneggiamento del DNA farmaco-indotto (Zwelling et al., 1989).

d) Un’altro meccanismo responsabile della farmaco-resistenza è rappresentato dall’aumentata capacità delle cellule danneggiate di riparare il DNA.

La maggior parte dei farmaci antitumorali convenzionali, infatti, ha come bersaglio comune il DNA.

Per questo motivo, meccanismi in grado di aumentare la capacità di riparazione

del DNA possono essere potenzialmente molto importanti nell’indurre un

(35)

1.6. Farmacogenetica ed efficacia terapeutica

Il genoma delle cellule cancerogene differisce in modo sottile, ma significativo, dal tessuto da cui derivano, così molti bersagli dei chemioterapici sono presenti anche nelle cellule normali. Molte terapie antitumorali odierne sono in grado di eradicare i tumori, ma di queste molte hanno una modesta specificità per il tumore rispetto ai tessuti normali e, così, provocano un danno collaterale alle cellule non cancerogene.

Pertanto, si dice che questi farmaci hanno un ristretto “range terapeutico”, in cui la proporzione tra la dose che è associata alla efficacia terapeutica e la dose associata alla tossicità è relativamente piccola (Fig. 1.20).

Fig. 1.20: La relazione tra dose, efficacia antitumorale e tossicità

La probabilità di migliorare l’efficacia aumenta con la dose del farmaco, ma

anche la probabilità di eventi svantaggiosi. Se sarà possibile separare ancora di

più le curve dose-efficacia e dose-tossicità, anche il range terapeutico potrà essere

allargato.

(36)

Per esempio, sebbene le antracicline siano efficaci nel trattamento di certi tumori, le dosi terapeutiche sono spesso limitate a causa degli effetti cardiotossici. Se si potessero identificare i pazienti con assetto genetico associato con una più bassa probabilità di cardiotossicità, si potrebbero somministrare dosi più alte e più efficaci e quindi incrementare il range terapeutico per quel gruppo di individui (Relling e Dervieux, 2001).

Mentre è ormai noto che alcuni fattori individuali (età, sesso, dieta, funzioni organiche, biologia del tumore) contribuiscono significativamente alla variabilità nella risposta ai farmaci, sembra che anche i fattori genetici (quali gli SNPs dei bersagli, degli enzimi metabolizzanti gli xenobiotici e/o dei trasportatori di membrana) abbiano un impatto rilevante sulla risposta e distribuzione del farmaco. Ad esempio varianti alleliche che aumentano l’espressione del trasportatore glicoproteina-P possono contribuire alla farmaco-resistenza intrinseca.

Lo studio di come la variabilità genetica dell’individuo influenza la risposta ai farmaci appartiene a quel campo della moderna ricerca che è definita

“Farmacogenetica”, termine coniato per la prima volta nel 1959. La prova di una base ereditaria per i fenotipi di risposta ai farmaci risale agli inizi degli anni ’50, quando si dimostrò che alcuni agenti antimalarici causavano emolisi nei pazienti con deficienza della glucosio-6-fosfato deidrogenasi. Alcuni studi riguardanti gli effetti collaterali del farmaco isoniazide durante il trattamento della tubercolosi dimostrarono che l’incidenza di neuropatia variava tra i diversi gruppi etnici. Le differenze etniche nella frequenza degli effetti collaterali fornirono una maggiore evidenza del fatto che le caratteristiche differenze nella risposta possono essere ereditarie. Così, le risposte ai farmaci “ereditabili” furono determinate tramite lo studio degli alberi genealogici, in cui diversi membri della famiglia ricevettero diverse sostanze e furono analizzati per le differenze nei fenotipi rispetto al farmaco. Ovviamente la tossicità dei composti testati e la complessità del fenotipo hanno limitato l’utilità di questo approccio.

La scoperta del primo difetto molecolare, di interesse per la farmacogenetica, ha

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alla fine degli anni ‘70, proposero che il meccanismo alla base della risposta al farmaco anti-ipertensione debrisochina fosse causata da un difetto ereditario nell’enzima CYP2D6 responsabile nel metabolismo del farmaco (Relling e Dervieux, 2001). Fino ad oggi è stata dimostrata la base molecolare di molti polimorfismi farmacogenetici ed, inoltre, è stato trovato che difetti genetici si verificano nelle regioni codificanti e non codificanti, alterando la qualità o la quantità della proteina. La migliore comprensione di questi determinanti genetici della risposta ha la potenzialità di rivoluzionare l’uso di molti farmaci, in particolare quelli usati nel campo dell’oncologia. Aumentando la capacità di identificare i pazienti a rischio di grave tossicità, o quelli adatti a beneficiare di un particolare trattamento, la farmacogenetica può permettere il raggiungimento di una chemioterapia personalizzata sulla base di un profilo genetico del paziente.

Le più comuni tecniche di genotipizzazione hanno coinvolto i saggi diretti verso la mutazione del gene studiato basati sulla PCR, con i primer allele-specifici o enzimi di restrizione mutazione-sensibili. Ogni gene contiene un certo livello di polimorfismo, con polimorfismi a singolo nucleotide (SNPs) che ricorrono ogni 1000-3000bp in tutto il genoma umano, la cui scoperta nei singoli individui (genotipizzazione) può essere usata per predire la riuscita di una terapia. Quindi, la genotipizzazione dei pazienti può essere eseguita, utilizzando DNA estratto da campioni di sangue intero, mediante tecniche basate sulle reazioni a catena della polimerasi (PCR), in cui viene amplificata l’area polimorfica di interesse. I polimorfismi sono poi determinati attraverso analisi delle bande su gel di agarosio, mediante temperature di annealing o mediante sequenziamento diretto del DNA. Quindi, il test genetico potrebbe essere usato per guidare la selezione di appropiate terapie, e per stabilire quale dosaggio aumenta l’efficacia e diminuisce la tossicità.

Per esempio, studi come quelli di Rolling et al. (1999) hanno reso possibile

identificare i pazienti che necessitano la riduzione del dosaggio per abbassare la

possibilità di grave tossicità. Comunque, per ora, molti esempi di farmacogenetica

che sono associazioni tra polimorfismo e riuscita terapeutica, sono al limite della

significatività statistica.

(38)

Allo scopo di ottenere misure quantitative più rilevanti del rischio di tossicità o del beneficio clinico, gli studi di farmacogenetica devono essere inclusi in saggi clinici in cui sono coinvolti molti pazienti e che considerano i dati sulle cause non genetiche della variabilità interindividuale per poter produrre risultati statisticamente significativi (Watters e McLeod, 2003). La figura 1.21 illustra le tappe degli studi di farmacogenetica per l’identificazione dei markers genetici predittivi delle risposte del paziente o della tossicità alla chemioterapia.

Fig. 1.21: Schema di uno studio di farmacogenetica

(39)

1.7. Efficacia terapeutica e polimorfismi

L’obbiettivo degli studi di farmacogenetica è l’identificazione di quei fattori genetici che, influenzando la risposta ai farmaci, possono avere valore predittivo dell’effetto del trattamento farmacologico nel singolo paziente.

Quando una sostanza entra nell’organismo viene distribuita nei tessuti dove può essere metabolizzata, attivata, coniugata ed infine escreta. Pertanto alterazioni a livello di una di queste vie possono portare all’acquisizione della resistenza multipla in quanto la cellula diventa resistente a molti composti, fenomeno che è particolarmente gravoso per il trattamento dei tumori con i regimi chemioterapici.

Infatti, i pazienti che sono “non rispondenti” alla chemioterapia, cioè acquisiscono fenotipo MDR (Multidrug Resistance), spesso sono caratterizzati da variazioni genetiche, tra cui le mutazioni puntiformi (SNPs), che determinano alterazioni nell’attività di enzimi coinvolti nel trasporto e nel metabolismo che vanno a compromettere l’efficacia terapeutica e ad aumentare il rischio di tossicità di quei trattamenti i cui farmaci sono substrato delle proteine polimorfiche.

1.7.1. Polimorfismi nel gene MDR1

L’attività di molti farmaci dipende dalla loro capacità di attraversare le barriere per raggiungere il loro bersaglio. I farmaci lipofilici sono in grado di farlo in assenza di sistemi di trasporto specializzati mediante diffusione passiva attraverso le membrane plasmatiche.

Al contrario, i composti idrofilici necessitano di meccanismi di trasporto specifici

per facilitare il loro trasporto. Comunque il tasso con cui un farmaco si accumula

in un tessuto è limitata non tanto dalla sua capacità di entrare nella cellula ma

dalla sua tendenza a lasciarla, che dipenderebbe da meccanismi di efflusso attivi

presenti nelle membrane plasmatiche.

(40)

Questi meccanismi di efflusso giocano un ruolo critico nella limitazione dell’assorbimento e accumulo di sostanze esogene e possono effettivamente conferire resistenza a diversi farmaci nelle cellule tumorali.

I trasportatori che hanno un ruolo nella MDR sono proteine di 170kDa codificate dai geni ABC (ATP-binding cassette), di cui almeno sei sono associate al trasporto di chemioterapici.

Questi geni rappresentano la più ampia famiglia di proteine transmembrana che legano ATP e usano l’energia per guidare il trasporto di diverse molecole attraverso tutte le membrane (Chan et al., 2003). Le pompe ABC sono unidirezionali e muovono i composti dal citoplasma allo spazio extracellulare o in un compartimento intracellulare (reticolo endoplasmatico, mitocondri e perossisomi). Inoltre, è ormai noto che il più importante ruolo fisiologico delle proteine trasportatrici è nella detossificazione dell’organismo e nella protezione da sostanze xenobiotiche, mediante il trasporto dei composti idrofobici dentro le cellule come parte di un processo metabolico o fuori la cellula per la eliminazione dal corpo con l’urina e la bile (Lin e Yamazaki, 2003).

I geni ABC sono ampiamente dispersi nel genoma eucariotico e sono altamente conservati tra le specie, indicando che molti esistono sin dall’inizio dell’evoluzione degli eucarioti.

I recenti sequenziamenti dei vari trasportatori ABC hanno rivelato un numero di varianti alleliche che alterano l’attività dei geni in vivo (Fromm, 2002).

Queste variazioni possono potenzialmente modulare il fenotipo dei pazienti e

condizionare la loro predisposizione alla tossicità e la risposta ai trattamenti

chemioterapici. Recenti esperimenti che hanno utilizzato inibitori ad alta affinità e

specificità per il gene ABCB1, hanno mostrato che il gene è espresso in molti

tumori primari. Il gene ABCB1 (Fig. 1.22), anche noto come MDR1, mappa sul

cromosoma 7q21.1 ed è il trasportatore clonato e meglio caratterizzato attraverso

la sua capacità di conferire un fenotipo MDR alle cellule tumorali che hanno

sviluppato resistenza ai farmaci.

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Fig. 1.22: Localizzazione del gene ABCB1

Il prodotto genico è la glicoproteina-P che è definita “promiscua” in quanto trasporta un vasto numero di substrati idrofobici, compresi antracicline, vinca alcaloidi, ormoni (Ambudkar et al., 1999).

Il gene è espresso in molti organi, quali intestino, fegato, reni dove gioca un ruolo importante nell’assorbimento e rimozione di steroidi e metaboliti tossici.

Hoffmeyer et al. (2000) furono i primi a identificare importanti SNPs di MDR1 in 188 volontari Caucasici. La sequenza genica originale, definita “wild-type”, costituita da 28 esoni, è stata completamente sequenziata, comprese le regioni del promotore e dei confini esone-introne. In questo studio, il sequenziamento dei geni ABCB1 dai volontari ha rivelato 15 polimorfismi (8 negli esoni e 7 negli introni) a cui in seguito se ne sono aggiunti altri tanto che ora sono noti complessivamente 50 SNPs e 3 polimorfismi inserzione/delezione nel gene ABCB1 con frequenze che differiscono in base all’etnicità e al tipo di cancro (Sparreboom et al., 2003).

Un polimorfismo ampiamente studiato è la mutazione “sinonima” C/T in posizione 3435 (3435C>T) che ha un frequenza del 73%-84% negli individui di origine Africana e frequenze del 34%-59% in individui Europei e Asiatici.

Secondo i dati riportati in letteratura questo polimorfismo coinvolge l’esone 26 ed è responsabile della mutazione silente Ile1142Ile, mentre da quanto riportato sul database del Cancer Genome Anatomy Project l’SNP è localizzato sull’esone 27, è associato alla transizione Ile1144Met ed le sue frequenze genotipiche sono 34.3% CC, 48.5% CT e 17.2%TT.

In ogni caso questo SNP è la sola variante che potrebbe essere associata con una

funzione proteica alterata in diversi tessuti, poichè altera i livelli di espressione di

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