• Non ci sono risultati.

Quaderni di Farestoria

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "Quaderni di Farestoria"

Copied!
34
0
0

Testo completo

(1)

Aprile- Giugno 2002

OF

Quaderni di Farestoria

Periodicodell'IstitutoStorico ProvincialedellaResistenzadi Pistoia Direttore responsabile:CristianaBianucci

Presentazione di RobertoBarontini

SezioneSociPistoia Unicoop Firenze Nuova Serie

Anno IV- n. 2

Ricordi

diFranco,

un partigiano

di LorenzoCavicchi

Ardengo Sostegni: tino della "Bozzi"

di Renzo Corsini Inquestonumero:

g ® ® r

! - - ■ - - |

(2)
(3)
(4)

Copyright ©2002 by

C oscitanza Realtà

T est i monta nza Editing a curadi

CinziaPellegrini e Jonathan Frangioni

Editrice C.R.T.

Sn^?V°- 36 -51100 Pistoia Tel..0573/976124 - Fax:0573/366725 li-mail:[email protected]

InInimici-, www.editricecrt it stampa:C.R.T. Il Tempio.PT.

±58^

IstitutoStorico Provincialedella Resistenzadi Pistoia

(5)

QF

Inquestonumero

85

87

107

Ricordi di

Franco,

un

partigiano

di Lorenzo Cavicchi...

Presentazione

diRobertoBarontini

Ardengo Sostegni: uno della "Bozzi"

di Renzo Corsini...

! ■ ;

83

(6)
(7)

Il nostro Istituto è particolarmente attento a tutto quello che nella società civile affiora e si sviluppa sul tema della lotta ad ogni totalitarismo, della difesa delle liber­

tà democratiche e quindi dei valori inalienabili della Resistenza. Appunto per que­

sto abbiamo patrocinato il concorso intitolato alla memoria di Enzo Capecchi, com­

battente partigiano, promosso dalla figlia, che ha visto la partecipazione di molti studenti delle scuole della provincia.

È particolarmente suggestivo ed importante il fatto che molti giovani abbiano cercato di alimentare i ricordi, di studiare le vicende storiche, di respirare l'affasci­

nante atmosfera degli anni della Resistenza-fino alla Liberazione - proprio per­

ché questo ci consente di sperare che la memoria non si affievolirà e che la noncuran­

za, il disinteresse e l'oblio non sotterreranno per sempre gli esempi d'impegno e di sacrificio rappresentati dagli uomini e dalle donne che combatterono nella Resisten­

za.

La Resistenza, almeno quella armata, finì con la Liberazione di cui commemo­

riamo oggi il ricordo. Disse Vittorio Eoa uscendo dal carcere fascista dove aveva passato lunghi anni: «La Resistenza ed in particolare la Liberazione ci fanno spe­

rare e pensare che ora tutto sarà possibile».

Questa speranza scaturiva dal desiderio profondo di ricostruire nel nostro paese un sistema di libertà, un fondamento ed un consolidamento della democrazia, in sostanza una Carta costituzionale che garantisse in maniera inequivocabile i diritti e i doveri dei cittadini in uno stato libero, democratico, solidale ed indipendente.

Ed infatti dalla Liberazione nacque quel grande documento politico - la Costi­

tuzione, appunto - che definisce l’Italia una Repubblica democratica fondata sul lavoro, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali, nella quale tutti i cittadina hanno parti dignità sociale e sono uguali dinanzi alla legge, senza distinzioni di sesso, razza, lingua e religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (vedi le attuali leggi sulle rogatorie internazionali, sul conflitto di interessi, ecc.) che riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivi questi diritti, che promuove le autonomie locali e promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, che sancisce il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (vedi i carri armati di Sharon e terrorismo sanguinario nel conflitto palestinese).

La tutela della libertà e della democrazia, della giustizia sociale e dell'equilibrato sviluppo economico, della libertà d'insegnamento e della lotta a ideologie totalizzan­

ti o ingerenze teocratiche sancita dal più alto documento della nostra Repubblica ha

L.

85

(8)

Roberto Barontini Presidente

dell'IsTiTUTo Storico Provinciale della ResistenzadiPistoia

«[...] Che tuttala sapienza del creato Convergaa benedire levostrementi E vi guidi nellabirinto.

Ma fuorial freddo vi aspetteremonoi, L'esercito dei morti invano,

Noi della Marna edi Montecassino, Di Treblinka, di Dresda edi Hiroschima:

E sarannocon noi Ilebbrosie i tracomatosi, Gli scomparsi di Buenos Aires,

Imorti di Cambogia e i morituri d'Etiopia, Ipatteggiati diPraga,

Gli esanguidi Calcutta,

Gl'innocenti straziati aBologna [...]».

trovato un lento,difficileetalora distorto cammino negli anni che si sono susseguiti dallaLiberazione sino ad oggi e, pertanto,anche oggi,a distanza di tantianni da quell'eventodel 25 aprile 1945, non possiamo abbassarelaguardia difronte a tenta­

tivi,anche recenti, di annullare e conculcare i principi ed ivalorifondamentali che sono allabasedella Carta Costituzionale.

La ricerca scientifica è favorita, libera ed indipendente?Ilmagistero della chiesa invade talora sfere di libera competenzadellasocietà nel suoinsieme? La tutela del lavoro come diritto fondamentale del cittadino è garantitadagliattuali tentativi di liberalizzazione estremizzatadelmercatodellavoro? La scuola è liberamente, gra­

tuitamenteepluralisticamente disponibile per tutti i cittadini?

Queste e tante altre domande si pongono in questo momento solenneincitisi ricordano episodi struggenti in cui donne, uomini egiovani tornarono sulle piazze, aprironolefinestre eguardarono versoilfuturo perché dalle montagne scendevano vittoriosii gruppicombattentipartigiani, perché un esercito,espressione di nazioni e di uomini liberi e nel quale combatterono tantigiovani che volevano riscattare l'ignominia delfascismo, avanzavasullenostre strade dopo aversconfitto una na­

zione che aveva fatto del mito del superuomo e della razza ilfondamento di una politica di invasione, digenocidio ediguerra.

Ma allora seci sono ancora tantecose da fare, se non abbiamo garantitosino in fondo ilgrande compito che ci era stato affidato,ascoltiamoogni giorno, inogni contesto edinogni attivitàpolitica e sociale, nellanostra azione quotidiana di uomi­

ni liberi ed impegnati,quello che Primo Levi haelevato come Canto deimorti invano:

(9)

Lorenzo Cavicchi

Ricordi di Franco, un partigiano

Introduzione

f-’y

Questo ninnerò di QF,che verrà distribuitodurante le manifestazionidel 25 aprile 2002, è dedicato ai giovani, acoloro che oggi maggiormentegodono delle conquiste fattedai padri e dai nonniinqueigiorni ormai lontaninel tempo mache sarebbe un disastro considerare lontani nella memoria. Abbiamo pensato che il racconto di Lorenzo Cavicchi, vincitore del concorso letterario intitolato allame­

moria diEnzo Capecchi, comandante partigiano della formazione Silvano Fedi, avrebbepotuto rappresentare il veicolo idealeper riannodare ifili della memoria fra generazioni. Cavicchiè infatti un giovane nostro concittadino, nato a Pistoiail

20 settembre 1982 risiede aOrsigna; èdiplomatopresso l'istitutotecnicoindu­

striale statale"S. Fedi”della nostra città efrequentaattualmente il primo anno della facoltàdi Ingegneria. Un racconto, quindi, scritto da un giovane,sutemi e tempi che ormai appartengonoallastoria, se si considerano solo gli eventi; che appartengonoinvece al concetto stesso didignitàumana sesi considera a fondo il portato moralediquei fatti lontani.

È proprio verocheci sono delle esperienze che tisegnano, che inevitabilmente ti traumatizzano. Spesso, quando versolafinedell'estate mi ritrovo a ramingare conla bicicletta perle strade di campagna in attesa dellacena, mi capita di attra­

versare nuvole dense di fumo. Èilfumocheprovienedalle sterpaglie dei contadi­

ni che, con meticolosa quanto dispettosa diligenza, quasi per allontanare gli spiriti maligni,brucianosul ciglio della strada. Ebbene, quel fumo, non solo a voltemi costringe a fermarmi, ma mi trasporta all'indietronel tempo, a quando ero più giovane. L'odore acre miricordai tetti dipaglia inceneriti diquelpaesino sulla montagnapistoiese,il rumoresordo deimuri a secco che si sgretolavanoavvilup­

pati dalle fiamme, il ricordo di quelle nubibasse e gonfie che rasentavano con la panciai poggio delle gridache ancora mi riempionole orecchie, le grida delle donnerimastesenzaunforno dove cuocere il pane; o delle mani che i giovani si infilavano nei capelli in segno di disperazione.Sarà ilaccordo dì questescene che ancora oggimi commuove: ogni voltale lacrime cominciano asolcarmi le gote, le rughe si stiranoattorno allamia bocca...

(10)

CapitoloI

Era una mattina della fine di giugno, né caldané fredda, i piedimifacevano male dentro le scarpe di vacchetta. Ormai mancava poco a Pistoia. Firenze era lon­

tana. Duranteil viaggio notturnoavevo trovato il tempodi rievocare tutto quello che mi era successodall'8 settembredel '43: quasi un anno era passato._E pensare cheaquei giorni erouncarabiniere, la gente si levavail cappello quandomivede­ va passare. A malapena, quellanotte ero riuscito adottenere un passaggioda un lattaio che andava a rifornireuna caserma di tedeschi a Tizzana.Nonsi eralevato il cappelloquando mi aveva fatto salire sul camion. Eaddirittura, perottenere il passaggio, avevo dovuto cederglila mezza formadi cacioche avevo nella bisaccia.

Comunque tutto era andato liscio,nessunapattuglia tedescasi era curata di me:

era tanta la gente chesiallontanavadallegrandicittàincerca di luoghi più tran­ quilli.

Il posto convenutoper il contatto era Piazza Gavinana.Avrei dovutoavvicinar­ mi ad un ragazzo appoggiato conlespalleal caffè sull'angolo.Come fosse fatta la piazza,dove fosse, e cosa si intendesse per angolo lo ignoravo. Mi faceva sorridere però il pensiero che quel giovanotto appoggiato almuro, se soloio avessiritarda­ to, si sarebbe ritrovato con i polmoni sfiniti.Quello eral'unico pensiero allegro che mi venne in mentequella mattina.Delresto cosasarebbesuccesso se miavessero fermato? Non avevomessaggi scritti addosso,né tanto meno documenti che di­

mostrassero chi ero o che cosa facevolì.Ero un bersagliofacile daindividuare, qualche repubblichino puciosoavrebbe potuto benissimo mandare tutto a monte.

Untedesco no, un tedesconon mi avrebbe dato importanza, Questo era quelloche speravo. Maforsefuproprio quella mia convinzione che rovinò tutto: delrestoè nell'attimo incuil'uomo acquistasicurezza cheildestinosiprende il suo.

- Lovediquestodito? Me l'ha mangiatounmontone- Eraquesta lafraseche midiceva il nonno da piccolo quando gli chiedevocosa avesse fattoalla mano.

Avevatrascorsounavita al tornio, ma quel dito cel'avevaperso proprioil giorno prima di lasciare la fabbrica.

Ormai ero arrivato a Pistoia: sotto un ponte dalle spallette di mattoni rossi pote­ voscorgere la ferrovia, poco più inlà, verso sinistra, la stazione, stranamente,de­ serta;in quel mentre una motocicletta con un ufficiale tedesco sollevò una gran nube di polvere, soldati davanti ad una cancellata di ferro infondoaltadiscesa si stiravano sollevando i mitra esbadigliando. Sul sacchi di sabbia c'erano delle taz­ ze fumanti,erano le ottoemezza.Doveva essere una farmacia quella.Sicuramente un bel posto per improvvisareunbivacco. Chissà come avevano conciatola casa, certamente requisita e trasformata inalbergo.Maledetti. Uno di loro, uno sbarba­ tello di nonpiùdi vent'anni,sembrava squadrarmi. 1 raggi ancora debolidel sole non ce lafacevanoa penetrare fin dentro l'elmetto, quindilesue orbite eranoscu­ re, del volto si potevano distingueresoltantogli zigomi, bianchi e pronunciatissi­ mi. Conunrapido gesto mosse ilcarrello del mitra come per caricarlo, ed io balzai quasi sulmuro della casa adiacente. Simisero tutti a ridere, lo scialbo compreso.

i. ■■■

SS

:

(11)

b

89

-Se avessi e fossi è la manna dei fessi - pensai. Era meglio tiraredritto e non fareicaso. Maa questo punto dove andare? Davantiame c'eraunaspecie dì viale pienodi negozi.Su una sogliac'era un tipo chefumava il sigaro. Mi avviai così a diritto conla bisacciavuota chemi ciondolavasu un fianco e colbatticuoreper lo scherzo di poco prima. Mi fermaidinnanziaquellabottega.Sitrattava di un pizzi­

cagnolo. Quel signoremiseguiva con lo sguardo mano amano chemi avvicinavo.

Eppure la via erapiena digente e di soldati che andavano e venivano.Malui niente, mi aveva preso d'occhioenonmi mollava. Ridacchiava sotto i suoibaffoni, con la mano sinistra infilatanella tasca delpanciotto,l'altra, invece, cheavvicina­ va il sigaro alle labbralustre.Sembravache sorreggesse lo stipitedella porta conle suespalline sproporzionatesull'enorme pancia. Era tantochenonvedevo una pancia così. Giuntoin prossimità delnegozio, col sole negli occhi, potevo vedere l'interno della bottega dallo spazio ritagliatodallafiguraenorme di quell'uomo. Il bancoera quasi vuoto; dietro, vicino ad un orologioamuro, c'era un quadretto con la foto del Duce. Poiniente, non potevo distinguere altro.

- Che vói giovanotto? Non tu seidi qui,vero?

- Macché, son diFirenze. Cercavo Piazza Gavinana -Il ciccione speava, sem­ brava quasi non si curassedi quello chegli dicevo. Sembravache mi facesse parla­

re perqualcun altro. - Bisogna che tuvada ancora a diritto e poi tu giri a sinistra appena ti trovi unmurodavanti. Non si scomponeva mentre mi dava queste indi­ cazioni, manon sembrava che mi volesse veramente indirizzare verso la mia meta.

- Quelli giovanicome tenon dovrebbero esserea lavorare nelcampo aque­ st'ora? Che ci vai a fare in piazza?- Quell'impertinenza mi fece gelare il sangue.

Che gliene fregava alciccione? lo erocomeglialtri.

-Olasciatofare.Anzi,se ha bisogno diunlavorogli si trovasubito. Sicarica su un camion e si porta inGermania -. Questa voltale labbra del ciccionenon si erano mosse. Feci un passoin avantieil sole mi si spostòdagliocchi. In basso, alla sini­ stra del grassone, quasisulla soglia, c'era uno stivale. Una nuvolettadifumo uscì dallabottega,accompagnatada un rumorediseggiola,glistivali diventarono due.

Ilciccioneora rideva col sigaro tra lelabbra - io non sapevo cosafare.Cosa gli avrei detto? Un secondo dopoero in fondo al viale. Il repubblichino era uscito dalla bottega, gambe divaricate in mezzo alla strada,aveva sparatoun colpo di moschetto in aria. Davanti a me i passanti si aprivano come il mare di frontea Mosè,tutti si schiacciavano al muro, chiin ginocchio, chisemplicemente in piedi.

Decisidi girarea sinistra e giù a corsa,rasente almuro. Un plotoncinoditedeschi nonmi sparò credendomi forse un passante più impauritodegli altri. Arrivato ad un incrocio polveroso,trovai della gente, unacinquantina in tutto,per lo più don­ ne e bambini.Assieme aloro c'erano dei frati che,appena udito lo sparo,si erano affrettatia fare scudo con ilorocorpia quel gruppodi gente, quasi rappresentasse ciòche di piùprezioso possedessero sulla terra.Non ci pensaiun attimo, oltrepas­ sai lacomitiva e continuailacorsaattraverso il lungo viale. Ero fuori tiro, non avrebbero maiosato spararmi. Non so come,maansantemi ritrovai sui binari dei treno. Ero fuori città, ma non ancora abbastanzalontanodaimiei inseguitori. Trop-

(12)

C

apitolo

II

po giovane, troppo sprovveduto. Avevo voglia di fuggire. Ormai l'incontro era saltato, forsemi avrebbero creduto una spia.Ma poi perché ero scappato? Cosa avrebberopotutoprovare? Avevoforse con me qualcosadi compromettente?No, avevo soltanto paura; al primo imprevisto avevo fallito, Non avevoneppurequal­ cosa da mangiare, né sapevo dove mitrovavo.

Attorno cerano solo spighedi grano mosse da una brezzolina tenuetenue, il sole stava quasi per sparire dietro alle montagne. Mi eroaddormentato. Strano, ma, seppur colcuore in gola, eroriuscitoad abbandonarmi ad unsonnoagitato, il tipicodormivegliache viene quando si sonnecchia al sole,con i vestiti indosso; era una sensazione che nonprovavodai tempi in cui ero ragazzetto,quando andavoa trovareil nonno dal dito mozzoneltempodi vendemmia. Alloraanchequelpalli­ doepiù sfocato solicinod'ottobremi disturbava il sonno e mi faceva risvegliare madidodisudore...

Ma la cosaancorpiù sconcertante era che mi ero addormentatosulle traversine deibinari. Possibile che un treno mifosse passato sopra senza svegliarmi? Stupi­

damente mi rallegravo di nonaverdormitoconle gambe sui binari,ma con l'inte­

ro corpo sulletraversine. Forse lalinea era interrotta, opiùsemplicemente non eranopassati convogliquel giorno. Avevo fame però, esarebbestatomeglio bus­ sare a qualche portaper vederedi rimediare qualcosa da mangiare.Avevo pochi soldi con me, la bisacciaera vuota.Ma dovevo tentare. Attraversaiil campodi spighe lasciandomila cittàallespalle,emi incamminai versolemontagne, verso nord supponevo. Raggiunsicosì ima strada polverosaecongrandegioiascorsi una casacolonica a qualche centinaio di metri. Lì avrei provato a chiedere qualco­ sa, tanto la situazionenon poteva precipitare.Mano a mano che miavvicinavo, potevo scorgere una luce che proveniva da una finestrella accantoallaporta di ingresso. Sicuramente gliabitanti sipreparavano alla cena, avrei dettolorodella miaavventura, li avrei commossi, mi avrebbero ospitato,mi avrebbero accomoda­

to alla meglionel fienile per la notte.Certo,certo, la fantasia correva, ma la realtà era che quella casa, per quanto ne sapessi io, potevaesserediquelrepubblichino che inmattinata aveva tentatodi deportarmi in Germania. Ormai ero nell'aia, i cani sembravano strapparele catene quando mi videroavvicinare all'uscio della casa. Ormaidovevosolobussare. Fatto. Sentivo le seggioleche si muovevano, le posate che cascavano nei piatti. Un rumore di passi svelto chesi avvicinava alla porta. Due persone. Una si ferma, l'altra monta le scale dicorsa. Chiavacci chesi aprono.

- Chi è? Aspetti un attimo! -Intanto laporta si apriva euno spicchio diluce illuminò l'aia grigia. Una signorasulla cinquantina cavò la testafuori dal pertugio formatosi tra la porta e lo stipite,mifissò timorosa, poi spalancò. Alle sue spalle,

(13)

accanto allescale in cucina, una ragazza giovanestava mettendo dei piatti nella buca dell'acquaio.

-Machi siete? -Le sue gote cascanti sembraronoriacquistarecolore, lelabbra non tremavano più.

- Non vi ho mai visto, siete un forestiero? -

- Si, mi chiedevo se avreste potuto offrirmiqualcosa da mangiare, ho anchedei soldi conme -Nonmilasciò finire,mi prese per un braccio emitirò dentro, chiu­ dendo laporta allemie spalle.Il mio aspettodoveva essere proprioindecoroso.

Senz'altro mi aveva scambiato per quello che ero mache non avrei voluto apparire quella maledetta mattina.

- Seiun partigiano, vero? - Esitai pochisecondi. Questa voltaraccontare di essere un partigianoavrebbesenz'altroingigantitola realtà dei fatti. Non ero altro che una porta ordinial suo primo incarico. Ma se non altro,forse quella mia rispo­

sta avrebbe potuto farmi guadagnare un piatto di minestra gratis.

Sì, ma...

- Alloramangiate alla sveltae andatevene. - La donna mi spingeva in cucina con tuttalasua forza,poca per la verità, mentrela giovane che avevo intravisto pocoprima stava prendendo una scodella dalla piattaia. La tavolasembrava appa­

recchiata per due, mac'erano delle briciole di tropposuun lato della tavola. Quei passi frettolosisu per lescaledovevano essere del commensale che mancava al­ l'appello, e quei piatti nell'acquaioerano senz'altro i suoi. Una volta a sederequei passi uditipocoprima ridiscesero velocemente le scale e sulla soglia della cucina si presentò un omone dalla barba lungaenera,con le rugheattorno agli occhiela pelle abbronzata,bruciata.

- Ete chi saresti? Non ticonosco. Sicuro di essereun partigiano? - La giovane stava versandodella sbroscia nellascodella che mi erastata posta davanti.

- Vai, cirisiamo -, pensai ecominciai a dire.

- Sono dellaGaribaldi di Firenze, sono qui in missione - L'interrogatorio finìlì, forse perché nel frattempomi ero già cacciatoin bocca una cucchiaiata dizuppa.

La ragazza si era seduta di fronte ame,ladonna, sua madre presumibilmente, accanto, quasi mi volesse controllare. Avevo fame e non mi interessava di quello che le girava perla testa. Finita la razione,mifermaie chiesi, quasi fossiconvinto diquello che stavo dicendo:

- Come sifa a raggiungere unposto tranquillo?

- Hai trovato chiti ci porta. Stanotte dormi nel campo, fuori da casa mia. Do­ mattinapresto ti sveglioe si parte.

Cosìmi rispose l'omone,e così feci.

;91.

(14)

Capitolo

III

92

Saranno state le cinque di mattina quando le grosse dita dell'omone mi toccaro­

no nella spalla destra.Non era la prima volta chedormivoall'aperto di notte e, anchein quelcaso, non avevo dormito come avrei voluto. Ci incamminammo in silenzio verso lemontagne, a tracolla,fermata conuno spago, avevofissatola pe­

sante coperta di lana che mi aveva regalato la famigliadell'omone. Sembravo uno sfollato(forse ero unpo' meno appariscente).Davantiamecamminavaquell'omone taciturno che tantosembravapronto a rischiare per farmi daguida. Sulle spalle aveva una gerla, molto pesante, a giudicare dalla sua andatura. Proporgli, a metà viaggio,di aiutarloa trasportarla, mi sembròpotesse essereun modo come un altro per ringraziarlo della sua disponibilità. Intanto,spinto dallacuriosità,e forse solo dalla necessità discambiare qualche parola,azzardai:

- Sentite,macomemaiieri sera vi sietenascosto quandoho bussato alla porta?

-Non sitrattava sicuramente della domanda più adatta per convincere afarparla­ re unapersona all'apparenza così riservata e schiva. E, invece,lo fece subito, senza reticenze - disse di chiamarsi Giancarloeche il "voi"potevodarloal miei superio­

ri, non alui. Era un contrabbandieredi grappa, aveva contatti col bolognesee col modenese. Ecco perché non si faceva tanti problemi a scortareuno come me verso un postotranquillo.Tutte le volte che a casasua bussava qualcuno,luicorreva a nascondersi in soffitta. Era famoso per essere un dissidente delregime, un poco di buono. Un comunista, mormorava qualcuno.

Intanto la strada cominciavaasaliree la mia guida mispiegava che già da tem­ po itedeschi avevano cominciatoa fortificare la zona per prepararsi aH'arrivo de­

gliamericani. Già, gli americani! Chissà quando sarebbero arrivati!MaGiancarlo mirassicuravadicendomiche dove eravamo diretti, non ci sarebbero stati proble­

mi. Eraun postotranquillo, la guerra non era nemmeno entrata nella valle dove eravamodiretti. Adire il vero, il mio accompagnatore non avrebbe dovutopassare dall'Orsigna (così si chiamava quel paesino), ma dall'Abetone. Comunqueavreb­

betrovatougualmenteil modo dismerciare i distillati verso Pianaccio oLizzano.

Erano tutti nomi che mi rimbalzavanonelleorecchie,ma che sarebbero quasi dive­

nuti familiarinei mesisuccessivi.Quandoarrivammo a SanMommè di fronte al­

l'imbocco della galleria dei treno,ci fermammo. Saranno state l'una. Giancarlo trasse dalla gerla mezzo pane e conun coltello a serramanico nericavò due grosse fette.

Presequindiuna sacchettogiallo e ne tolse il contenuto -,c'erauna frittata. Panee frittata fuilnostropranzo,buttato giù con acqua egrappa.

- Vai, per far prima passeremo dalla galleria. Tanto il treno non passa, gliame­

ricani hannofatto saltare il ponte ehannoanchetappato l'altra estremità a forza di bombardamenti - Che il ponte fosse saltato mene eroaccorto perché l'avevo visto con i miei occhi mentre salivamo, ma la galleria,se era ostruita dall'altra parte, come poteva essereattraversata?Non mi dovevo preoccupare, si affrettò adag­

giungere, a piedi era ancora possibile passare. Ciaffacciammo:buio completo, non

(15)

CapitoloIV

si poteva nemmenovedere una luce in fondo.La lampada non l'accese, aveva pa­ ura che non gli bastasse ilpetrolio nei giornisuccessivi. Tanto c'erasoloda stare attentialle traversine eseguire il muro, loavevo paura lo stesso. Nonsi vedeva niente,ancora buio completo. Seppi, dopo pochi metri,che non eranemmeno tan­

to corta. Vabbè, tanto avevo Giancarlo. Non so seavreimaicompiutolatraversata da solo. Che codardo!Non c'erotagliato per farecerte imprese. E mi ero persino convinto afare il partigiano! Ognitantolemanitoccavano qualcosa dimollesul muro,come alghe. Sisentivanodei rumori: acqua chegocciolava, topiche squitti­ vano.Era impossibile anche solo immaginare cosa ci fossedavanti al proprio naso.

Se mivoltavoindietro, e lo facevo spesso,vedevo la lucedell'ingresso, e come ruotavo latestaper vedere innanzi,solo buio, buio.Aduncertepunto potei avver­ tire un soffioalla mia destra, una sorta di grande respiro versol'alto.Eral'alito della presad'aria della galleria, una specie dipozzoche bucava il soffitto ricurvo e che comunicava conl'esterno.

Eppureavrei potuto cominciareacorrere versol'ingresso così rassicurante.Del resto,era veramente la cosa più saggia andaresullemontagne? E se non mifossi lasciato prenderedallapaura eavessi provato a compiere la missione?Forse c'era ancoraquelpartigiano appoggiato al muro della piazza... Machi vuoi che ci fosse!

Avevo fallito.Forse mi avevano persino ritenuto un traditore. O forse avevano sentitolosparo edavevano intuito. Sì, dovevaessereandata così, magari mi dava­ no per deportato. Forse avevo fattobella figura... Staiavedereche ora un fallimen­

tosi era trasformatoin una vittoria.Sarebbe stato troppo bello.Ripensandoci an­ dare all'Orsigna era sempremeglio che rifarequel lungo viaggio verso Firenze.

Avreitrovatoospitalità dai partigianisu alpaesino, eavrei aspettatolafine della guerra: anche qui mi illudevo, magari sarebbe durata anni...

Finalmentearrivammo alla fine dei tunnel.Quelpiccolissimobarlumediluce eradiventatounpassaggio, una finestradai contorni frastagliatiche segnava la fine dei cammino dentro quel tunnel freddo e umido. Per l'ultima volta mi voltai indietro: laluce all'altraestremitàeraridotta ad un fioco e tremolante lumicino di lucciola. Ci facemmo largo fra i sassi e i pietronicheostruivanola bocca e, distratto dalla presenza di una lucertolaprobabilmente smarritasi e finita chissà perché in quel posto gelido, non mi accorsi immediatamente della folla che stazionavasui binari della piccola stazione di PracchiaEranosfollati, genteche come me aveva deciso di trovare un posto più tranquillo, lontanodalleperquisizioni. Erano per lo più giovani, forse soldati come lo ero stato io, o più semplicemente contrabbandie­

ri. Si potevanodistinguere anche delle ragazze giovani,forse allontanatesi dalla propria casaper seguire ilfidanzato o il fratello. Comunque inmezzo aloroc'era­ no anche parecchi uomini sulla quarantina, di sicuroscappati per timore di essere inviatiin Germania come lavoratori.

93

(16)

1

94

L

- Presto, avviamoci, abbiamo ancoraun po' di stradada fare - Giancarlo aveva ragione, era meglio nonsostarelìa lungo.Percui ci aprimmo unvarco tralafolla e ciritrovammo in unastrada polverosae poco battuta che costeggiava un fiume.

Attraversammovelocemente ilpaese (stranamente nonera presidiato, o per lo meno nonne avevo avuto l'impressione)e ci avviammo super una strada nontanto ripida. Eravamo entrati nella Valle dell'Orsigna. Stupendo eral'odore del sottobo­ scodei faggi, incredibile il senso disollievo cheispirava il delicato fruscio delle chiome deglialberi più alti che si lasciavano accarezzareda un tenue vento di maestrale.Manoa mano che proseguivamo il nostro cammino, potevamovedere le cime altissime delle montagne stagliarsiinnanzi a noi come grandi e superbi muri verdi. Grandi e superbimuri verdi che sembravano in dinnanzi a noi. Ero veramenteaffascinato da quellospettacolo.Misembrava unpostobellissimo,in­ credibile.Eppureera una semplice valle con un torrentelloche vi scorreva inmez­ zo,maio mi sentivo comeacasa, mi sentivo veramente in pace.

Adun certo punto la mia guida si fece largo tra il paleo sul ciglio sinistro della strada e si infilò nelfaggeto. Dovevamo cominciare a salire ed abbandonare la strada rotabile. Avremmo percorso tutta la valle a mezza costa, poi Giancarlomi avrebbeconsegnatoai partigiani a Portafranca. Bisognava però tenere gli occhi aperti, perchépoco sopra le nostretestec'era un appostamento tedesco.Purtroppo laguerra aveva contaminato anche quella valle, la mia spensieratezza avrebbe avuto dei limitidurante la mia permanenza in quel posto incantato.

Attraversammomacchie e prati,mulattiereeviottoli,fossettie torrenti. Verso sera, colsoleche ormai cominciava a nascondersi dietro lemontagne eche proiet­

tavale loro ombre sulle case della valle, arrivammo in una radura quasi pianneg- giante. Ero sfinito, non c'eravamo riposati nemmeno un minuto. Giancarlo aveva evidentemente i suoi motiviper fare in fretta,ma io, a questopunto,non misenti­ voaffatto obbligato a seguirlo. Stupidamente avrei voluto lasciarloandare, magari nascondermi dietro unfaggio per lasciarlo perdere e finalmente rilassarmi. Oscil­

lavo in questo proposito, quando sentii ungrido: non si trattava di una vera e propria intimazione, quantopiuttosto di unaintimazioneautoritaria eferma,di una formula rituale, proferita con timore, ma anche con determinazione.

- Partigiani,chivalà!-Probabilmente era giàda tempoche qualcunocisegui­ vacon lo sguardo. Da dietro un faggio, ad una cinquantinadi metri, un giovanotto si fece avanti conunmoschetto puntato verso dinoi. Avevaunagiacca a quadri e un paiodi pantaloni di velluto.Sembrava fosse stato sradicato dalcentrodi una città e teletrasportato in mezzo alla macchia.Del resto anch'io non avevoun abbi­ gliamentoconsono al combattimento (se neesistevauno sicuramente non era quello che indossavo), ma inquel frangente non poteifare a menodifareuna piccola risata.

- 0 bischero, abbassa quell'aggeggio!

-Bah! Gianca! Che giri?

Sembravanodegliamiconi eper fortuna lo erano. Quelgiovanotto era Faina,un fante dell'Armir chesieraarruolatoneipartigianinon tanto perché mosso da spi-

ì

(17)

C

apitolo

V

Il mattinoseguente vennisvegliato da un gruppo ditrepartigiani che tornava­

no dauna spedizione. Mi accorsi alloradi come il mio arrivo non fossepassato inosservato,anzi,uno di loro in particolare, unragazzo moro ealto,afferròper il bavero della camicia Topo e lo appiccicò ad un faggio.Evidentemente la noncu­

ranzacon laquale mi avevano accettatonel gruppo non eragradita. Effettivamen­

te mi ero stupito lasera avanti della facilità con la quale ero riuscito ad infiltrarmi rito di solidarietànei confronti di coloroche volevanoliberare ilpaese dainazifa­ scisti,ma piuttosto per trovare un'occupazione,un passatempo.Moltiinsinuava­

noche fosseun fascistae altrettanti non riuscivano acapirecomemai non si fosse arruolato nella milizia. Comunque stesserole cose, Faina il suo compito lo svolge­

vacon cura meticolosa e conun senso di responsabilità impressionante. Fu lui ad accompagnarciall'accampamento partigiano. Piùcheun accampamento,sembra­

va un pezzo di macchia cometuttiglialtri;c'erasoltanto una piccola costruzione di pietre epellicce,nonc'erano tende, nonc'eranopentoloni per cuocere le razioni.

Ma in compensoc'erano numerosiuomini sparsi qua e là sulle foglie di faggio:chi dormiva,chi leggeva, chifumava una sigaretta. In alto sulla sinistra appoggiata ad unfaggio, c'era una catasta dicassedì munizioni copertada qualche frasca.All'ar­ rivodi Giancarlo ilcampo sembrò animarsi erisvegliarsidal torporeche lo attana­ gliava. Tutti gli si strinsero attorno ignorandomi.Mentre si toglievalapesante ger­

la dallespalle, tutti cercavano di dargli dellepacche come per rendere più intenso il momento dell'incontro.

Venne poi il mio turno.L'attenzione dei partigianisi spostò sudime. Mentre Cianca illustrava la miastoriaaduntizio con la camicia militare, inmolti misi avvicinarono domandandomi il nome e la miaprovenienza. Mi chiedevano se avessi sigarette o se volessi delle gallette. Mi stringevano la mano calorosamente come se fossi stato unloro amico da sempre.

Dopopochiistanti ormaiera diventatobuio. Venne accese un fuocoe tutti ci riunimmo intorno ad esso.Potevo vedere i visi di tuttiloro al riverbero delle fiam­ me. Uno di loro, Osvaldo, preparava labrace per cuocere un po' dibaccalà. Osval­

do, da quanto ebbi poi mododicapire durante il mio soggiorno ad Orsigna, era un sordomuto del quale nessuno conoscevalaprovenienzae li vero nome. Laragione perla quale venivachiamatocosì era perchéTopo lo aveva sentitoborbottarenel sonno una serie di sillabechesembravano comporre proprio quelnome. Topo, nemmeno a dirlo, eralo zimbello della brigata.Eraunoscioccostudentellodi Fi­ renze,appiccicoso e fifone.Pertuttaladurata della mia permanenzanellabrigata non perse maioccasione per discorrere sulla sua città (cheeraanche lamia):e giù tutto il tempoad elencarmi nomi di vie, locali, ritrovi, ragazze (dubito che nella sua vita ci fossero state delle ragazzecorrispondenti alla sue descrizioni ). Quello fu il mio primo contatto con la brigataequella ful'ultimasera che vidi Giancarlo.

95

f

(18)

i

96

nelgruppo. Non avevanovoluto alcuntipo di spiegazione, non miavevano chie­

sto cosavolessi e cosa andassi cercando. Ormaiil sonno mi aveva abbandonato, preso com'ero daquell'avvenimento.Con la coperta rovesciata sulle ginocchia as­ sistevo impietrito alla scena. Dal tono dellevoci, dalle imprecazioni edal baccano generaleeroarrivato a dueconclusioni. Oi tedeschi erano sordi oppureerano pa­

recchio lontani. Mentre Piero eraintento a rimproverare i ragazzi,alcunipartigiani si avvicinaronoame emi puntarono il mitra contro, intimandomi di mettermi in piedi. Terrorizzato mi scrollai la coperta didosso econ lemani alzate e benein vistacercaidi alzarmi. Ilragazzo moro sembravaaver terminato la sfuriataecon passi lunghie decisi si avvicinò al piccolo plotone chemi aveva accerchiato. Con una mano si fece largo e mi disse:

-Èvero che ti ha portato qui Gianca, Franco?-. limio nome gli uscìdalla labbra tremolante, quasi fosse stata una bestemmia scappata in chiesa. Dopo ilmioassen­ so tutti abbassarono le armi e Piero (quello ora ilnomedelragazzo) cominciò a tranquillizzami.

Pieroerailcapo della brigata. Era originariodi quella vallecome dei restogli altriche,comelui,erano andati in missionelasera avanti. Mi spiegò che spesso i repubblichini tentavano diinfiltrarsi nelle bande partigianeper poterle rendere inoffensive e perscoprire i loro nascondigli,Madato che ioero stato scortatoda Gianca, quella eventualità era pressoché impossibile. Mentremi parlava, il campo sembravarinato.Sipercepivaimmediatamenteche quegliuomini, natie vissuti in quellavalle, sapevanodove mettere le mani e come comportarsi in mezzoalla macchia. Dopo chesi furono rifocillaticon un po'digrappa offerta da Giancae con qualche galletta,iniziò una speciediattesa ritmata dagli sputi di Piero chesi tra­ stullava morsicando un ramettoraccolto per terra. Stavanotutti aspettando il ri­ fornimento di viveri. Dopo circa mezz'ora, infatti, si cominciò a sentire un crepitio per il bosco, più in basso, sotto un balzo. Era un ciuchino sardo chelentamente arrancava su peril pendiocon in groppa unragazzetto dagli stinchi secchi. Due giovani sialzaronoe glisi precipitarono incontro aiutandolo a scendere e a scarica­

re le pesanti bisacce. Erano isuoi fratelli, due militari come me chesierano dati alla macchiadal'43. Ilragazzetto sul ciucosichiamava Dumas e ogni tanto, d'ac­ cordocon ipartigiani, veniva mandatodalla madrea portare pane e sottaceti fin versoil loronascondiglio. Lui sì cheera coraggioso, mica io! Vedere quegli uomini col fucile chesalutavanoe riempivanodipacchequelgiovincello mi scosse:prova­ vouna specie diinvidia nei suoi confronti. Non erano le stesse pacche che avevo ricevuto io il giorno prima: questa volta erano isuoi paesani che lo coccolavano e loincoraggiavano a ripercorrerela stradadei ritorno.Piero loaccarezzava come un genitore eloaiutavaasalirein sellaal somaro, lo ero un virus, ima bocca in più da sfamareche in fin deiconti non se ne fregava più di tanto di liberare l'Italia...

Ero un po' come un ospite piovuto lì per caso, senza preavviso,forse disturbando.

0 no? Basta, in quel preciso istante presi una decisione: avrei affrontato qualsiasi difficoltà, mi sarei impegnato attivamente e avrei aiutato queiragazzia qualunque costo. Fino ad allora ero riuscitosoltanto a scappare, ad evitarei rastrellamenti.

(19)

Fuggivoe basta. Altri, nonio,avevanoda temere realmente per la loro incolumità.

Il mioeraun atteggiamento egoista e gretto. Un giorno sareitornato a casa, mi ripromettevo, eavrei potuto raccontarea tuttile mie imprese, i miei atti di corag­

gio; enon lamia viltào lamia paura. Sì,sarebbe andata così.

E forse così è andata veramente. Il pomeriggio stessomi affidarono uno sten e mi misero di pattuglia poco sopra, sulcrino, con uno dei duefratellidi Dumas, Giovanni.Gli somigliava un po', tracagnotto, sulla ventina, con un paio di panta­

lonidi fustagno logori e ripiegati infondoeunacamicia divelluto consumata sulle spalle. Avevo bisognodi ambientarmi, mi diceva, per cuiil postomigliore per rendersi conto dell'aspetto dellavalleeraproprioposizionarsisulcrino.E devo direche lassù, da Portafranca, si poteva vedere unospettacoloveramentesuccessi­ vo.La valle apparivacome una ciotola, anzi, come unpiatto fondo da minestra sbreccato. Eradalla sbreccaturain fondo alla valleche ioero passatoper entrarvi, equelle montagne che avevo fissato affascinatomentre salivocon Gianca ora era­ nosotto i miei piedi. La borgata dellaChiesa si trovava quasi in mezzo alla conca, nonsul fondo ma suuna specie dipromontoriochetagliava la valle di traverso. Il paeseera quindi rivoltoverso di noi, sembrava posto suun leggio messo apposta per reggere quella manciata di casette daitetti rossi. Spostando lo sguardo verso sinistrasipotevano vedere altre casettecoi tettiscuri, capanne di pastori,gialli campi di grano, uomini e donne chelavoravano all'aperto. Macchie scure qua e là offrivano riparo ai pastori e aicontadini che cercavano riparo dalla calura.Quasi sottodinoi, invece, c'era una specie di tappetomaculato, unfalsopiano dove i faggi sembravano volerrosicchiare i contorni deiprati. Verso destra il poggio del Malandrino, con i suoiscogliependìi scoscesi chearrivavano fino al fondo valle;e procedendoconlo sguardo semprepiùverso la sbreccatura si potevano vederedei poggi più dolci e semprepiù bassi che sembravano annichiliti dallasupremazia indiscussa delle Ignude edel monteGennaioalle mie spalle.Al di sopra del Pian della Trave (uno di questi poggi) sipotevanointravedere delle case,tra le quali sicuramente anche la mia: Firenze, infatti, appariva intuttoil suo splendoree sem­

bravaquasisbirciare nella vallechiedendocortesemente ai poggi di abbassarsi per meglio vedere uno dei suoi figli. Nelmezzo,quasiadividereicontendenti,c'erail torrente,unasinuosa strisciata bianca che sembravail sorriso compiaciuto dima­

drenatura, che tanto siera data da fare percreare unsimili spettacolo.

Delpaesesi poteva distinguere il campanile, la piazzetta, ilcampanile, il forno, la strisciata dello strabello cheportava verso ilmolino e verso di noi. In particolare, mispiegòGiovanni, bisognava prestare attenzione allasiepe di bossolo vicinoalla piazza:sopra quest'ultima,infatti, unadonnadel posto,in caso di allarme, avreb­ besteso un lenzuolobianco.Ma quale pericolo poteva incombere su quellospic­

chio di paradiso? Ovviamente il mio sguardo era rimasto accecato dallo spettacolo che avevo davanti edallelacrimechecominciavanoa tremolare daibordi dei miei occhi dopo avervistolamiacittà.Infatti,vicinoal fondovalle, sulla destra, poco sopralastrada cheavevo percorso con Giancailgiornoprima,c'erano degli strani bagliori. Erano iriflessidialcuni mezziparcheggiativicino al nido dimitraglia

(20)

C

apitoloVI

98

Ma la quietemisticadiquellavalle non durò ineterno. Un mattino, sarà statoil cinque o il sei diluglio, Topo, di pattuglia con me sul crino,fu costretto ainterrom­ pere uno deisuoi noiosissimi monologhi(quasi comizi a dire ilvero) a proposito di non so quale mitica ragazzafiorentina.

Purtropponon ero stato io a zittirlo, ma i crepitìi sordi e lontani diraffiche di mitra. Eppurelavalleeracalma, apparentemente eravamo solo noi ad averudito glispari. Sembravano provenire da dietrodi noi, anzi, no.Dalmonte Orsigna. Per capireda qualedirezioneprovenissero gli spari ci alzammo in piedi. Cercammo di non fare alcun rumore. Il cuorecominciò a rimbalzarminel petto. Non riusdvo nemmeno apercepire altro suono cheil ronzio dei tafani. Davanti a me Topo cerca­

va di fare conca con le manidietro le orecchie: speravain quel modo di poter cap­ tare qualche suono, qualche altro sparo.Dopoaltrisecondiancoracolpi.Colpi di fucile.

-Sonoi nostri, Franco, sono i nostri! - Perché, dove sono andatiPieroe Faina?

0nondovevano andare arecuperare i lanci? -Effettivamente era qualche giorno che Piero borbottavae scuoteva il capoaproposito deilanci. Disicuro, nella mac­

chia, verso il bolognese, c'erano degliaiutiamericaniparacadutati ma non ancora recuperati: il posto precisonon si conosceva,né si sapeva l'entità dei lancio. Faina eraandato con lui mentregli altri eranorimasti al campo o erano scesi a Case Corrieria fare provviste, guidati da Giovanni.

-Sì,devono essere loro! -, gridò, quasidisperato, con le maniancoradietro le orecchie, congli occhi fuor dalle orbite.

- Dai. andiamo, nonbisogna perdere tempo! - Questasua risoluzione non era la migliore.Noinon potevamoabbandonare la nostra postazione,avremmo dovuto prima avvertireglialtri. E poi gli spariprovenivano veramente da quella direzio­ ne? Ma se invece fossimo andatia chiamaregli altri, li avremmo trovati all'accam­ pamento?Forse, per una volta, Topoavevaragione.E poi eral'occasione cheaspet­

tavo: potevo finalmente dimostrare checosa sapevo fare. Con le armi avevo dime- approntato dai tedeschi a difesa della valle. A direilvero erapropriodellaloro presenza che la valleavrebbe dovuto difendersi.Addiritturasulcampanile, come mi aveva fatto notare Giovanni, c'era un altro segnodella loro presenza: una mi­ tragliatrice.

Ci acquattammo in cima al laghetto (così si chiamava quel laghettosopra Porta­

franca per via diun vecchiolaghetto, forse un cratere)per non essere notatie, versosera,sentiiscampanellareallenostre spalle. È straordinario come in monta­

gna i suoni giungano soltanto quando chi li genera è vicinissimo o lontanissimo.

Oppuresetirao nontira vento. O se tira dauna parte piuttosto che da un'altra.

Magari quel gregge era stato a pochi metrida noi tuttoil pomeriggio enoinon ce ne eravamo accorti perché "addoppati"...

(21)

99

stichezza,con la guerra no. Grazie alleconoscenze dì mio padre e a circostanze fortuite ero sempre riuscito ad evitare di partire peril fronte.

La guerra: chièchepuò dirsi abituato alla guerra? Che vuoi dire essere "abitua­

to"?Forsecon "abituato", "avvezzo", si indicalacondizionedi coloro chesubisco­ no passivamente gli eventi, loro malgrado. Oppuregli "avvezzi"sono i giovani che vengono strappatidalle famigliee mandati a combattere in fronti lontani,per una guerrachenonè la loro.Anche qui, "guerrache nonè laloro". Edichidovreb­ be essere? Per qualeragione persone di ogni estrazione sociale, provenienti da un qualsivoglia paese,devono essere costrette ad odiare? Odiare intensamente. Di più.Odiare perché indotti daaltri.Odiareil nemico perché si ha paura. Èsemplice- mente mostruoso.Persone che magariavresti incontrato nell'arco della tua esi­ stenza e non avresti degnato di uno sguardo, diventanoin unconflitto dei poten­ zialibersagli. E nonè finita. Immaginate che questibersagli magari parlino lavo­

stra lingua, abbianofino a qualche mese primaindossato la vostra stessa divisa...

Topo aveva preso la corsa giùper il viottolo e io dietro. Nella corsa losten mi sbatteva sul groppone, ipassierano pesanti emi veniva da correreagambe "strin- te". Così iocorrevoquando sapevodi avereappressoqualcosa di delicato,o qual­

cosa, comeuno zaino, cheavrebbe potuto rimbalzare sul mio corpo nella corsa:

gambe "strinte"e passi più corti. E via.Ma il fiatosi faceva semprepiùcorto,la strada nonera sempre in piano, a volte salivaea volte scendeva. 1 faggifacevano posto a piccoli prati dipaleo. E ancora macchie, e ancoraprati con degli scogli affioranti come in un mare verde.Corremmo all'incirca per altriventiminuti, poi procedemmo di passo,passo svelto. Ad un certo punto, lostradello si fece sempre più scosceso, ilpendio era ormaialla nostra destra, non più a sinistra:avevamo cambiatoversante. Magicamente ripiombammoinquella condizione di trance nella quale eravamo caduti qualcheattimoprimain cima allaghetto. Il posto doveva essere presumibilmentequello. Continuammo acamminarecauti,prestando par­ ticolare attenzione a non schiacciare le frasche secche dei faggi che ricoprivanoil sottobosco. Quei faggi ritorti dovevano aver sopportato la forzadi tonnellate di neve; i rami più alti, ad appena due metrisoprale nostre teste, erano noderosie robusti: sembravano poter vivereanche senzail tronco tanto erano rigogliosi. Le barbe, infine, sembravano stringere la terra come perdomarla al proprio volere:

erano delle enormi mani callose dai polsi nerboruti che stringevanoil suolo non tanto per farrimanere in piedi lapianta, ma perferire e dimostrare la propria po­ tenza.

Ad un tratto uncolpo. Proveniva da un fossetto proprio davanti anoi. Correm­

mo.Ilpendioera piuttosto scosceso,percui ci affacciano sul bordo deifosso,uno soprae uno sotto, tenendoil fianco appoggiato al suolo, quasi stesi. Piero eradal­

l'altra partecon il baverodella camicia di Faina nella mano sinistra e lo sten nella destra. Fainaera riverso aterra,noi nonpotevamovederlo, ma il suo collo era trafittodauna pallottola. Morto sul colpo. Piero aveva gli occhi sgranati, appena sentì dei rumori allepropriespalle si voltò e sparòuncolpo alla cieca per aria. Era sconvolto.Topoebbel'intuizione di andargli incontro, percui scavalcammo le pel-

(22)

CapitoloVII

100

4$'

Ucce sul ciglio e entrammo nelfosso, entroil quale scorreva untorrentellosassoso con qualche bozzo qua e là.Risalimmo velocemente l'altro versantee ciritrovam­

mo a fianco diPiero.Lentamente venimmo allo scoperto e constupore ci accor­ gemmochenon c'eranessuno. Piero era semplicemente rimasto lì, a fare la guar­

dia a quel corpo senza vita,come un ebete. Lamanosinistra era lorda disangue.

Topo glistrappò di mano il baverodella camicia del compagno morto e con calma gli prese il mitra e me lo affidò. Latesta diquel poveraccio cadde rovinosamente su un sasso. Isuoi occhi polverosi ci interrogavano, lasuagola squarciata ci dimo­ strava tutta la cattiveria el'orroredel mondo.Cominciò a girarmi la testa.Misen­ tivo freddoe debole. Ormai la vista mi si era annebbiata. Sentivo soltanto Topo che mi diceva di sedermi,manonpotevo vedere dove. Mi appoggiaiconle mani e le gambedivaricate(almeno così credetti) ad un faggio. La corteccia dura e fredda mi dette sollievo, riacquistaicolore. Era passata.

Dopo un'oretta eravamo di nuovo alcampo,avevamoportato con noi solo gli oggettipersonali di Faina, lasuaarma e le munizioni. La notte stessasaremmo andatiaseppellirlo per non dare tempo agli animali di fare scempio dei suocorpo.

Piero aveva riacquistato la lucidità di sempre, i suoi occhi neri noneranopiùquelli sconvolti e abbacinati del pomeriggio. Meditavavendetta, ela vendetta,ahimè, non arrivò che dopo pochi giorni.

Era il 15luglio. Erosceso con Topo, ormaimio inseparabile compagno, verso il fondovalle.Dovevamoandare a raggiungere dei nostri compagni a Case Corrieri peraiutarlia trasportare delle derrate da portare al rifugio. Iltempo era abbastan­

za bello, la discesael'aria tiepida invogliavano acamminare. Non ero mai sceso allecase, gliabitanti di Orsigna,quelli veri, li avevo visti solo da lontano: gli uomi­

ni coni lunghi falcioni sullespalle,le donne con le ceste sulla testa, con queilunghi gonnoni.I nostri piedi stavano attraversandoun piccolo torrenteinun fosso angu­

sto e oscurato dalla fittavegetazione. Topo davanti a me fischiettava: una volta tanto stava zitto. La suaera un'andaturablanda, scomposta. Lelunghebraccia le tenevapenzoloni, appenaincontrava una salita piegava il lungobusto come per osservarepiù da vicino la terra;naturalmentele braccia continuava a tenerle sem­

preattaccateaifianchi, come incollate.Chissàcosapensava...

Dopo pochissimi minuti arrivammoin prossimità di alcune capanne, unpaesi­ no di stalle.Eranodelle vere e proprie costruzioni a due pianisimilia piccole ca­

settesenon fosse stata perquella scia di cacarelli sparsi sulla soglia che continua­ vano verso unviottolopocosopra. Non c'era nessuno, sisentivano soltantodei campanipoco sopra,

-Vedi?Il paese è questo qua sotto.Ora, primadi andare da Remo aprendere il pane, ci fermiamo dall'Assunta, unbel pezzo di figliola,cosìte la presento-Non mi importava tanto divedere quella ragazza,di sicuro unapastorellascialbae

(23)

battuta,mamifaceva uno strano effetto ritornare alla civiltà.Eppure nonera pas­

sato tanto tempo da quando miero rifugiato sui monti, ma le giornate passate a fare la sentinellanonscorrevano mai e quindi misembrava un'eternità. C'era un largo viottolo in discesa che conduceva alpaese. Dalle parti c'erano patate e orti, campi e alberi da frutto, tutto su terrazze pari come biliardi. Ormai i tetti erano sempre più grandi e si potevano sentire le vocidella gente. Finalmentearrivammo davantialla casa diquellabenedetta Assunta, proprio laprima della borgata. Topo bussò colcalcio del fucile alla porta con uno stranorisolino sulle labbra. Dopo alcuni secondi gli venne aperto. Effettivamenteera una ragazza discreta, alta (in­ solitoforseper quelleparti)e nera come untizzo. 1duesi scambiarono abbraccie baci eio,per la verità, mi sentii uno spettatore guardone einvadente.Finalmente si staccarono e quando Topo me la presentò,nonfeci a tempo a prenderlela mano cheentrambi stringemmo la testa fra le spalle istintivamente.Si udì infatti un grande fragore provenire dal fondo delpaesee poiuna sparatoria. Ci voltammo verso la fine della borgata mentretutti gliabitanti o, per lo meno, coloro cheerano ancora nelle loro case, si affacciarono. Tra tutti sipotevadistinguere Giovanni, col mitra in mano, prontoafar fuoco. Da quel momento tutto successe infretta, O meglio, così mi sembra sia accaduto:lamia memoria, anche a distanza di molti anni, sembra volerrimuoverequeifrangenti. Nonostante faccia sforzi, non riesco afocalizzarea pieno l'esatta sequenzadegli avvenimenti probabilmenteperché col sennodi poi mi sono reso conto delpericolocheho corsoe che, malgrado i miei reali propositi, horischiato di far correre aglialtri.

Inrealtà l'esplosione non era avvenuta in quella borgata, ma poco distante, a CaseSantini.Correvo come accecato verso il pericolo, dietro agli altri due partigia­

ni.Di sicuro c'erano tutti glialtri in quella borgata e disicuro c'erabisogno del nostro aiuto. Gli spari continuavanoesembravano sempre più vicini.Giungemmo con circospezione versole case, con il dito puntato sulgrilletto.Una sagomafuori da un uscio. Pam. Secco. Era unrepubblichino,era andatabene.

Eraandatabene perché era l'unico rimasto nellacasa ed era l'unico presente nel paese che non fosse dei nostrio che non fosseun civile. Io erosconvolto, non riu­

scivo acapire.Tuttisichetarono e si avvicinaronoalcorpo. Lodisarmarono e lo trasportarono giù, su un balzo per seppellirlo. Eroimpietrito.Avevo ucciso. Alme­ no avevo ucciso "quello giusto": ma esiste uno giusto da uccidere? Questa era la peggioredellescusechemipotesse venire inmenteinquel momento. Non ricordo altro. Ricordo solo che dopo una mezzoraarrivò ilfratello diGiovanni con una cattivanotizia: il terzo repubblichinonon sitrovava, era scappato. Piano piano cominciai a comprendere.

In mattinata erano arrivati trerepubblichini in borghese,riconosciutiperò da un paesano. Avevano dettodivolersi arruolare nei partigianied erano riusciti ad arrivare fino a Case Santini, nonostante fosse già scattato l'allarme nella brigata.

Era stato Tonio, un partigiano sempredi sentinellaal Poggio di Baldino, ad avver­

tire Piero, e quindi erano riusciti acircondare la casa mentre i tre gozzovigliavano ospiti di una signorina di Case Santini, appunto. Accortosidell'accerchiamento,

101

(24)

C

apitoloVili

102

Ormai era evidente che prima opoisarebberoarrivatedelle pattuglie tedesche a compiere una rappresaglia nellavalle. Il repubblichino scampato all'imboscata avrebbedatol'allarme. Così Piero decise che sarebbe stato opportuno recarci al Goraio, di là dal fiume,per poter meglio controllare lasituazione eper potereven­ tualmente compiere un'offensiva controchiunqueavessetentato di penetrare nel­

la valle. Perarrivarci, dovemmo attraversare alcune borgate.La gente ci guardava incredulacoifucile a tracolla, cosìespostialla luce del giorno. Mala valle doveva essere difesa,ormai siera compromessa. L'uccisione di quei soldati avrebbe com­ portato il massacro di almeno una trentina di personeper rappresaglia. Mentre transitavamo dalleparti di Lavacchini, ci venne incontro unasagoma scuraeansi­ mante su per il viottolo. Era DonGiocondo, il parrocodi Orsigna. Dietro aluialtra gente, la voce sierasparsa. Fummoletteralmente accerchiati.

-Quellocheavetefatto èterribile!Ma vi rendete conto?— gridòilparroco stra­

lunato conun po' di bavetta biancaailati della bocca.

-Sentitopadre. Noi abbiamofattociòche dovevamo. Sono stati loro ad aprire il fuoco per primi. E poi l'Italia deve essere liberata ono?Eh?Sio no? O si deve continuarea viverenel terrore? Eh?- fu la risposta di Pieroche sì era unitoal nostro gruppo per coordinare ladifesa della valle. - Ah,perché ora che ti pare d'aver fatto? Vaglielo a spiegarete che hanno cominciato loro!Ora verrannoqua a fare rastrellamenti, losaiono? Cisarà della gente innocente appoggiata almuro, lovuoi capireono? - e mentre si sbottonava la tonaca chiamò a sé un uomoBec­

chetto e grinzoso, ilsacrestano. - Preparami ilcappello da viaggio evieni con me, si va da Arturo a vedere se ci porta a Campotizzoro.

uno di loroera uscito di corsa e aveva lanciato una bomba amano nell'aia creando il panico generaledeimieicompagni. Gli altri duesi erano invece barricati in casa.

Ma per poco.Unodei due, protetto dal fuoco dell'altro, era fuggito dauna finestra laterale maerastato freddato poco distante da Alfio, un grasso e taciturnoparti­

gianodella valle. El'ultimol'avevoucciso io. Mentre tutti eranoal riparo dietro la rimessadavantialcortile della casa, io mi ero fatto avanticome ipnotizzatoverso lasoglia della casa. Questoperchénon ero aconoscenza del pericolo a cuiandavo incontroe perché non avevovisto ì compagni che mi facevano cenno,di mettermi alriparo insieme a loro. Ormaiera andata. Chissà,forse quelfascista sì voleva arrendere, forse avrebbe voluto tirare un'altrabomba per scappare:ancoraoggi non lo so e non lo vogliosapere. Ilfatto era che imodi loro era scappato e che prestoall'ingressodella valle sarebbero comparsicamionpieni di tedeschi.

- Te vieni conme, tiratore. -Tonio miprese per lamanica della camicia emi invitò aseguirlo. Forse mi aveva chiamato tiratore per il fatto cheavevo centrato il repubblichino nella fronte. Ma io,in realtà, non avrei voluto.

(25)

103

- Che volete fare? Nessunopuòabbandonarela valle. Prestoverranno itede­

schi. Ci saremonoi aimpedirgli di toccare il paese!

Ma Don Giocondo aveva già ricominciato a ripercorrere ipropri passiversola borgatadella chiesa ed era scomparso tra la folla. Durante ladiscussioneipaesani chesieranoriuniti attorno a noi erano rimastiammutoliti, maora c'era chidiceva

"era meglio se stavifermi!", oppure chigridava"allamacchia, alla macchia". Quella fu una giornata freneticaper gli abitanti dellavalle.Oltrea nascondere i loro averi dovettero nascondere anche loro stessiper sfuggire alla possibile rappresaglia te­

desca.

Non c'era tempo per discutere e già verso leduedelpomeriggio tutti eravamo prontial peggio.Perarrivareal Goraio avevamo preso un viottolo che portava al fondovalle, avevamo attraversatoil fiume e quindiproseguito per una mezz'ora verso l'imboccatura della valle, a mezza costa.Io assieme aTopo, i due fratelli di Dumas, Tonio ealtritreragazzic'eravamoasserragliati su un piccolo promontorio calvo, dal quale si riuscivaa dominare la strada che, dall'altra parte, si arrampica­

va verso le borgate. Non avevamomoltissime munizioni enon potevamo disporre nemmeno di una mitragliatrice fissa per poter ostacolare,l'eventuale controffensi­

va tedesca. Piero, invece, con altri quattro partigiani, era andato in avanscoperta, verso ilfondovalle, a qualche centinaio di metriinlinead'aria, per meglio control­ lare lasituazione.Dovevamo stare attentissimi: pocopiùinlà,sempredallanostra parte, c'era l'appostamento tedesco.Eravamosì fuori tiro, ma comunque conve­

nimmoche, nonappena Piero avesse avvistato un'eventualeautocolonna tedesca, lui e i suoi sisarebberoasserragliati poco piùinlà, inmodo dapoter tenere sotto controllo la postazione fissa alla Menta: questo perevitareaccerchiamenti e per proteggereun'eventuale ritirata.

Mentre aspettavamo panciaa terra, fui costretto apensare. Masarebbero vera­

mente arrivati?Magariil repubblichino superstite eramorto, oppuresiera perso nellaselva. Morto per cosa, poi?Erano delle vanosperanze.Ma come avevo potu­ to freddare l'altroa quel modo poche oreprima?Ancora non riuscivoacapacitar­ mene. Tentavo didimenticare;anzi, nonce n'era bisogno perché ero compieta- mente stordito, ammutolito. Gli altri sembravanonon curarsi dellamia condizio­ ne. Forsesolo Topo se neera "ammoscato". Mentre distribuiva lemunizioniedi­

sponeva le restanti in un posto alriparo,mi guardava fisso. Io facevo fintadinien­ tema era impossibile negarel'evidenza.

La calura era insopportabile,Sciamidi tafani sembravano rannuvolare il cielo poco sopra le nostre teste. Mentrecon un rametto di faggio mi scacciavo le mosche e mentre stringevo i dentiper cercare di sopportare ilmal di stomaco (forse era la fame, forse la tensione oppure la posizione scomoda), cacciai uno sguardo verso La sponda oppostadella valle. Davantia noi c'era ilPoggio diBaldino. Praticamente, in quel punto, la stradafacevagomito,dentro a un fosso;poco sopra lastrada,in corrispondenzadell'ultima curvache la"riaddirizzava" fino al più vicinotornan­

te, c'era unacasa.Una casa su un piccolo promontorio a piombo sulla rotabile. E c'erafermento attorno ad essa.Isuoi abitanti cercavanosicuramente di nasconde-

(26)

1

104

re i loro averi inqualche buca, o sotto II monte delconcio,oppure in mezzo a del fieno. Chissà come brulicavano le macchie di gente sfollata per pauradiun rastrel­

lamento.L'avevamofattagrossa, c'erapoco da dire. E iovi avevo preso parte. Ma nessuno mi aveva rimproverato,perché avevo fatto il mio dovere; fare ilpartigia­ no, del resto, comportava soprattutto una certaesposizione ai rischi eal pubblico giudizio, che forse era il lato peggiore della questione. Di lì a poco duecavalli transitarono sulla strada lentamente. Un cavaliere era di sicuro Don Giocondo.

Avevadelfegatoapresentarsidal "kaiser" in persona. Avrebbe messoinpericolo lasuastessavita elasua stessa credibilità per il benedegliabitanti dellavalle. E ancheper il mio bene.Pianpiano iduesparironodal mio campo visivo sulla sini­ stra, e così mi appisolai conlatestatra le braccia e ilrespiroche miaccarezzava le gote.

Verso le cinque unfischio ci avvertìche qualcosasi stava muovendo.Piero e gli altrisiavviarono in frettaalla loro postazione;ioe i miei compagnicaricammo le armi. Maqualcosaandò storto. Lapostazione tedesca della Menta(così si chiama­

va il posto)apri ilfuocoverso Piero e gli altri.Noi non potevamo coprire le spalle ai nostricompagni perché ancora nonsi vedeva niente e perché la postazione era fuori tiro. Un ragazzo fu ferito e fu abbandonato fino a buio.Finalmente apparvero due camion scoperti tedeschi zeppi di soldati. Eranopropriodirimpetto a noi. Co­

minciammo aesploderedei colpi. Eravamo così impegnati su due fronti e quindi la nostra potenza difuoco erainferiore alle aspettative. I camion sifermarono pro­

prio sotto lacasa, poco prima dellacurvache li avrebbe portatisu unpiccolotratto di strada sinuosa. I soldati, appena avvertironogli spari, sceseroesi assieparono dietroi mezzi. Niente, nonc'eraverso. Era inutile sparare, eranotroppolontani e troppo protetti dal metallo dei camion. Non cadevano.Al contrariole pallottole fischiavano a pochi centimetri dallenostre teste. Il crepitare dei fucili faceva trema­ re la valle. Più volte mi girai pervederecosastesse succedendo attorno. Tutto pare­

va congelato dal terrore; anche lefoglie degli alberi sembravano impietrite.Ma non dovevo smettere disparare. Ilterrorenostro era che sei tedeschi fosseroriu­ sciti a proteggere le spalle a qualche uomo,avrebbero potuto scenderefin dentroil greto deifiumee compromettere perfinolanostra ritirata, qualorace ne fosse stato bisogno. La battaglia si protrasse fino all'imbrunire. 1colpi si fecero sempre più deboli e isolati. Lecanne dei fucilieranoincandescenti.Nessunoera caduto, era stato tutto inutile. Lasciammo loro il tempo di rimontare sui mezzi e di tornarsene in caserma.Avrebbero cosìavutoil tempodi rifocillarsi e sarebbero tornati più cattiviche mai. E noiniente avremmo potutofare.

(27)

Capitolo IX

105

Ma qualcuno aveva fattoqualcosa. DonGiocondo, il mattino successivo, si pre­ sentòal nostro accampamentodibuon'ora su un ciuco, forse lostesso cheusavail piccolo Dumas per portarci i sottaceti. Era riuscito ad avere un contatto con il kai- ser di Campotizzoro attraversoil pievano dìPracchia.L'unica soluzione perevita­ re rappresaglie eraquella di consegnare aitedeschi gli esecutorimateriali dei due omicidi del giorno prima. Ilsanguenelle vene mi sibloccò. Misentiicome quel giorno che vidiil collo sanguinante di Faina. Mi girai dall'altra parteignorando l'animata discussione fraPieroeDonGiocondo.Nonpotevo crederci! Mi ero al­

lontanato, ero scappato dalla pianurapertrovare un po'dipacee ora mi ritrovavo più morto che vivo. No! Non potevafinirecosì,non poteva essere! Riportailosguar­ do versoDonGiocondo.Il ragazzo che reggeva per lacavezza il ciucofece per venirmi incontro, quasi asorreggermi. Ma il parroco, forse intuendo il mio stato d'animo, cambiò repentinamenteespressione. Si feceprotervo, il tonodella sua vocenon sembravapiù lo stesso; per un attimodistolse lo sguardo daPiero che, invece, continuava a parlare emi disse:

- Non ti preoccupare figliolo, troveremouna soluzione. Nonsarai tu a pagare con la tuavita per questo spiacevole episodio. E volgendosi verso ilciucotrasse dalla bisacciaun libelloeuna matita. Lì Pieroavrebbe espressole proprieragioni chesarebbero state inoltrate al kaiserin persona. In quella specie di attestato Piero attribuivala colpa dell'accadutoai repubblichini.Dei resto erano statiloro a lan­ ciare perprimi la bomba amano e noi avevamosemplicementerisposto in modo legittimo al fuoco. Si davapiena collaborazione affinchéi corpi fossero restituiti alle famiglie e con ciò sisperava dì poterscongiurare una rappresaglia in termini di vite umane,cheavrebbe,sicuramente scossola valle enonavrebbe messoin buona luce l'operato dei partigiani.

Mi sentivocolpevole. Sicuramente qualcosa sarebbe successo. Magarinonavreb­ bero ucciso nessuno: del restoavevamo ucciso degli italiani, si poteva ben chiude­

reunocchio.Pertutto il giornome ne stetti in silenzio appoggiato conlaschiena adun faggio. Le formiche miscorrazzavanolibere fin dentro ai pantaloni,maaltre e ben più subdole mirosicavano ilcervello. Ogni tanto Piero si avvicinava, piega­ va le ginocchia e cercava discrutarmi gli occhi. Addirittura parlammo per un'oret- ta delpiù e del meno cercando di dimenticare.Ma quei suoi occhi scuri erano compassionevoli. Del restolui era responsabilequanto me. Tutti eravamo respon­

sabili. Nessuno avrebbemai acconsentitoalla mia consegna alle autorità.O tuttio nessuno.Piuttosto saremmo andatia farcimassacrare difendendo lavalle dall'en­

nesima invasione dei camiontedeschi.

Due giornidopo tornarono, più cattivi che mai. Dall'alto, in cima laghetto,po­

temmoassisterealla distruzionediCaseCorrieri. Arrivarono a piedi nella borgata.

Non volevano uccidere però. Volevanodistruggere; rifacendosi dall'ultima borga­ ta, quelladoveerasuccesso il fattaccio. Agitavano delle fraschesecche edei mazzi

(28)

di paglia inaria, comedei trofei.Poigiravanocomepazzi, coimitra spianati, in mezzo alle case, accendevanoquelletorceimprovvisate e le issavano ai "bracciali"

delleporte, dentro le case. Dopopochi minutilefiammeavvilupparonodue, tre, cinque case. Bruciavanocomesterpaglie. Le donne si strappavanoicapelli e pian­

gevano. I soldati davano calci e pedate agliuomini che coi forconi cercavano di opporreresistenza. Io guardavo atterrito lecolonne di fumo. Non ce lafacevo a sostenere il terribilespettacolochegeneravaquelle nubi. Abbassai losguardo chiu­

dendo gliocchi. Accantoa me un pastorello di poco più di dieci anni piangeva in silenzio. Cominciaronoavenire le gocce, il fumosimescolòallepesanti nubi piene d'acqua. Tutti ci avviammo impotenti verso la nostra baraccaquando già le gocce cominciavanoacadere. Almeno noi, quella notte, avremmo potuto dormiresotto un tetto.

106.

(29)

A rdengo S ostegni

(

Ardengo Sostegni

107

«Partimmo da Lamporecchio in tre per rag­

giungere Pistoia dove, sul ponte dell'Arca,do­ vevamo incontrareuno (forse era il Collini...) che leggeva il giornale. Aveva avuto il con­ tatto,questocompagnoci disse di seguirlo a cinquanta metri didistanza.A piedi, natural­

mente. Fùcosìche giungemmo ad Agliana, da Magnino Magni, punto di incontro e di rac­ coltadegliantifascisti della zona». Così harac­

contato Ardengo Sostegni il suoapprodo alla Formazione "Bozzi". Secondo il Verni ("La BrigataBozzi"), queste giovanissime reclute del movimento partigiano, si unirono nel mesedi febbraio del 1944, al vecchio nucleo dellaFormazione creata da Gino Bozzie dopo la sua morte, guidata dal leggendario Fernando Borghesi ("Nando").La "Bozzi" era allora stanziata nella cannicciaia della Bollona, sulle colline a nord di Montale.

Ardengo seguì, da allora, tutte le vicende della formazione:dal "battesimo del fuoco", avvenuto con l'attacco alla formazione in spo­

stamento,subitosui crinali di Collina di Treppio, fino al trasferimento in Emilia,a Montefiorino.

«ACollina di Treppio - ricordava Ardengo - cisalvarono l'eroica resistenzadi Magnino Magni, immolatosisullasuamitragliatriceper difendere la nostra ritirata ed un provvidenziale banco di nebbiacheconfuseinostriassalitori fascisti etede­ schi, consentendocidi raggiungere Ponte dellaVenturina da dove riprendemmo, provatima salvi, ilnostro cammino».

Poi Ardengo condivise l'epopea della Repubblicadi Montefiorino, nelpieno del­ l'estatedel '44, l'attacco della "Goering", il ripiegamento verso le vette dell'AppenninoPistoiese, fino altrasferimentonellalucchesiaaCoreglia, luogo di scioglimento della formazione.

Ma, come molti partigiani pistoiesi, Ardengo Sostegni non si sentì appagato.

Raccolse la sollecitazione, soprattuttodel Partito Comunista,a continuare la lotta contro il tedesco invasore ei suoi servifascisti ancorasaldamente insediati al di là

uno della “Bozzi”

Riferimenti

Documenti correlati

Costituzione della Repubblica Italiana – Principi fondamentali Articolo 2 – La Repubblica riconosce e garantisce i diritti. inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia

Vittorino Chizzolini è un autentico maestro e testimone della pedagogia dello sviluppo come emerge dall’articolo « Vittorino Chizzolini: un uomo controcorrente; un’eredità da

DECRETO DEL SEGRETARIO DI STATO ALLA GIUSTIZIA, AFFARI RELIGIOSI E LAVORO 22 Luglio 1971, n, 190.. Licienziamento dal servizio dell’Ufficiale Giudiziario Mohamed

1. Le controversie sull’interpretazione o sull’applicazione del- la presente Convenzione tra uno Stato membro, più Stati membri o la Comunità, da una parte, ed uno o più

− la Costituzione prevede all’art. 2 che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove

2 della Costituzione italiana che “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali (aziende o Enti) ove si

Nell’ottobre 2020, i vescovi della Repubblica Democratica del Congo hanno denunciato «lo stallo nel Paese dovu- to alla crisi politica e alle conseguenze di questa», così come

Ciascuno degli interlocutori è libero di adottare cautele ed accorgimenti, quali la registrazione, per acquisire, nella forma più opportuna, una prova di ciò che, nel corso