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Simone Sauza Tutto era cenere

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Academic year: 2022

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nottetempo

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Simone Sauza Tutto era cenere

Sull’uccidere seriale

Prefazione di Luciano Funetta nottetempo

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Indice

Prefazione: Ceremony 9

di Luciano Funetta

Tutto era cenere 21

Catabasi prima 23

1. Sonnambuli. Una fenomenologia impossibile 43

dell’esperienza omicida

2. Scopofobia. La questione dello sguardo 81

3. Celebrities. L’estetica del male e la macchina 141

mediatica

4. Pura oscenità. La forma inumana del desiderio 179

Catabasi seconda 221

Ringraziamenti 225

Note 227

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Catabasi prima

Vi sono istanti in cui il nulla delle cose e di noi stessi ci appare con tale lucidità che ci sen- tiamo animati dallo spirito del Distruttore.

Andrea Emo, Supremazia e maledizione The price of existence is eternal warfare.

Aleister Crowley, The Book of Lies

Nell’alveo del nulla è notte dappertutto. Ogni cosa si tocca. Il corpo incorruttibile del santo come il cadavere divorato dai vermi. C’è un pessimismo che nasce dal limite di ciò che può patire un corpo, un’intuizione del nulla che sfolgora quando l’universo insegna soltanto caos e senso dell’assurdo.

Le mani di un padre che scorrono sulla pelle della figlia. Lei ha dodici anni. Accade ogni sera dopo il tele- giornale.

Una donna spegne una sigaretta sul collo di un bam- bino. Lui la chiama zia; con gli occhi gonfi, chiede di non farlo. Almeno questa volta. Si è comportato bene, dice. Nella casa non c’è nessun altro, tutto tace. Ma lei ha appena perso dei soldi per un biglietto della lotteria.

Chi sopravvive, ha imparato qualcosa: quando il cielo cade non c’è più posto per la trascendenza. Le catene di

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senso che costruiscono l’ordine del mondo si spezzano;

il filo delle cose si disfa.

Oltre il delirio si estende la sconfinata pianura di ce- nere della disperazione. È l’intuizione di una disinte- grazione celeste che forse è in atto da tempo, da prima che nascessimo, l’intuizione che da sempre camminia- mo tra le sue rovine. Per chi procede in questo deserto la pelle arde sferzata dal sole, si rigenera la notte per riprendere a bruciare il giorno dopo; dentro di lui, come un ultrasuono, la risata del cosmo scava una nicchia. Ed è in questo vuoto che Giano danza due volte.

20 marzo 2020 A volte immagino di uscire di casa, cammino per strada con gli occhi doloranti, e sparo casualmente alle per- sone che incontro. Alcuni giorni uso una pistola, altri un fucile, mai un’arma automatica. Continuo a cammi- nare e nuovi corpi cadono al mio passaggio; un colpo alla volta, quasi a cercare un ritmo. Avviene tutto nella quiete e nell’indifferenza. Non c’è nessun gusto ma- cabro, né sangue, né urla, né sirene della polizia, solo corpi che cadono nella quiete di un mattino da un cielo che sembra una distesa di polvere, un deserto sospeso nell’atmosfera. Sono pensieri automatici che arrivano tra le lenzuola, quando apro gli occhi e il corpo non risponde, e allora rimango nel letto a lungo, troppo a

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lungo, in una soglia che non è né dormiveglia né tor- pore. Da quando ho cominciato le ricerche per questo libro, ho difficoltà ad alzarmi. Riesco a svegliarmi sen- za problemi ma poi rimango lì. Per iniziare davvero la giornata ho bisogno di indugiare in questi pensieri ossessivi che danno struttura alla mente, che altrimenti se ne starebbe desta in una forma, per così dire, liqui- da. Quando poi sono in piedi, mi ci vuole una buona mezz’ora per far diradare il senso di imbarazzo e orrore verso me stesso che mi rimane nella testa.

Il tempo prima dell’isolamento è una strada. Il tem- po durante l’isolamento è una piazza dove l’assenza di direzione perverte la libertà in agorafobia. Cercare di scrivere un testo sull’omicidio seriale significa lascia- re che i volti dei serial killer, i loro discorsi, le frasi e gli sguardi nelle interviste ai genitori delle vittime en- trino nello spazio domestico senza possibilità di farli uscire, e che alla lunga rimangano attaccati alle pareti e ai tessuti come il fumo delle sigarette accumulate nel posacenere, finendo per contaminare il sonno e l’immaginazione.

21 marzo 2020

“Io sono al di là della vostra esperienza”.

La frase è scritta a matita su una pagina di quaderno strappata. La parola “esperienza” è cerchiata così tante

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volte che alcuni granelli della mina sono ancora sulla carta. La frase appartiene a Richard Ramirez, cono- sciuto anche come Night Stalker, condannato a morte nell’estate del 1985 per l’omicidio di tredici persone.

La pagina di quaderno è tenuta ferma sul tavolo di lavoro da un grosso volume con il simbolo dell’uro- boro in copertina e il volto stilizzato del serial killer britannico Ian Brady. Il titolo del libro, scritto da Brady stesso, è The Gates of Janus: una strana scelta per un testo che analizza l’atto di uccidere. L’accosta- mento è stato casuale, ma da quando li ho visti vicini l’intuizione di un nesso, una sovrapposizione tra l’al di là dell’esperienza della frase di Ramirez e la figura del dio romano bifronte ha cominciato a ronzarmi in testa: ecco qualcosa che può tracciare un filo rosso all’interno di questo lavoro. Intanto, continuare la ri- cerca è diventato complicato. L’isolamento non per- mette nemmeno di effettuare prestiti in biblioteca.

Questa piccola stanza è diventata tutto il mondo, e questa concentrazione di realtà in uno spazio mi- nimo aumenta la pressione sui corpi che lo abitano.

Tutto preme e spinge all’implosione. Piccoli spasmi attraversano la superficie della palpebra. Sul divano del monolocale si accumulano blocchi di fogli spillati;

appunti e frasi spezzate coprono i post-it con le vec- chie liste della spesa. Dovrei mettere ordine. Le bri- ciole sono ovunque. Le vedo e mi blocco: non riesco a lavorare al libro ma non riesco nemmeno a pulire.

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Il pensiero di legioni di formiche e di blatte che gru- folano nelle pareti, sotto le piastrelle del pavimento, nello scarico della doccia, pronte a uscire la notte per nutrirsi della mia negligenza, mi paralizza. Sento le piccole antenne e le piccole zampe che si muovono captando quelle briciole, e il movimento produce un rumore che perfora il silenzio del monolocale ed en- tra dalle orecchie agli occhi fino allo stomaco facendo salire la nausea.

23 marzo 2020 Ho trascritto quella frase da un discorso che Rami- rez rivolse improvvisamente alla Corte durante uno dei numerosi processi che seguirono al suo arresto:

un’accusa carica di odio e risentimento, infarcita di espressioni pseudo-nietzschiane, che terminava con l’invocazione di una legione demoniaca.

La ventola aspirafumo ronza nello spazio angusto del monolocale, satura l’aria ed è ormai il suono di questo isolamento. Un rumore simile, forse, a quello dei ventilatori sparati al massimo nelle villette residen- ziali a nord di Los Angeles nell’estate del 1985, men- tre gli studenti preparavano gli esami con un orecchio alle stazioni radio impegnate a pompare nell’etere e nell’immaginario americano Like a Virgin di Madon- na e un orecchio ai notiziari che parlavano di Richard

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Ramirez. All’epoca, quando emersero i primi racconti dei sopravvissuti e i primi identikit, le zone residen- ziali cominciarono a vivere nell’angoscia di questo boogeyman dall’aspetto avvenente sfigurato dai denti marci e dal volto scavato. Forse a spaventare di più non era tanto il pericolo di vita in quanto tale. L’orro- re profondo nasceva dal senso di distruzione improv- visa del proprio status: la proprietà privata, i rapporti di buon vicinato, la tranquillità domestica, un intero orizzonte esistenziale che veniva disintegrato da una minaccia invisibile. Quando Ramirez venne arrestato, parte della città di Los Angeles si riversò per le strade.

L’atmosfera era quella di una festa per celebrare un nuovo inizio.

Ramirez era animato da un odio profondo nei con- fronti dell’America bianca protestante. Spesso voleva che i familiari delle vittime assistessero alle violenze.

Lasciava dei sopravvissuti con lo scopo di marchiarli con una ferita psichica che avrebbe gravato anche sul- le generazioni successive. Per lui, ispanico, di origini umili e affascinato da simbologie pentacolari e dalla figura di Satana, quel gesto aveva il senso di una ma- ledizione demoniaca contro quell’America che aveva costruito nel sangue la sua prosperità; qualcosa di si- mile alle entità spettrali che emergono dalla nebbia di San Antonio Bay in The Fog di John Carpenter per ricordare l’origine oscura del benessere della piccola cittadina.

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“Io sono al di là della vostra esperienza”, dunque.

Un’affermazione che, dietro la sua banale accezione superomistica, mi sembra significare qualcosa di più.

È come se il serial killer si muovesse su una soglia inedita rispetto ai paradigmi della letteratura psico- logico-clinica: biologicamente umano, fenomenolo- gicamente alieno. Abita lo stesso pezzo di realtà di ogni individuo, ma lo attraversa con uno sguardo che viene da un altrove. Affermazioni tutte da chiarire e che rischiano di riportare tutto il discorso al punto di partenza, là dove la feticizzazione per questa figura si confonde con l’eccesso di intellettualizzazione.

Per ora questo double bind, questo doppio volto, rimane una traccia.

Da qualche parte, nella nebbia della rete, esistono forum criptati in cui rifluiscono le deiezioni del mondo in superficie. Spazi nascosti dai tanti nomi che nascono e si disgregano nel tempo reticolare senza storia di in- ternet. Negli ultimi tempi giro spesso su questa piatta- forma chiamata Atrax, a metà tra Reddit e l’estetica di siti cult degli albori del web come Rotten.com. Sul fini- re degli anni ’90, internet aveva cominciato a riempirsi di immagini e video shock: materiale pornografico di ogni tipo, presunti video di possessioni e di fenome- ni paranormali, oltre a fiumi di gore e cattivo gusto.

Rotten.com era uno dei primi siti del genere a ottenere un successo di massa: vi si trovavano immagini senza

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censura di vittime di incidenti autostradali, autopsie, foto di omicidi prese dai dossier della polizia, fetish e deformità. Sarcasmo e ironia tenevano poi insieme il tutto. Era come se il nichilismo più disperato, covato sotto la miscela di lustrini e repressione degli anni ’80, fosse fuoriuscito dai sotterranei e avesse contaminato i giovani di mezzo mondo.

Atrax ha dei contenuti simili. In questi giorni cerco conferme e seguo alcuni thread aperti da un utente chia- mato zslv, nei quali i commenti sono disabilitati. L’ulti- mo risale alla notte scorsa. Si intitola Necromorfosi Divi- na ed è una delirante rilettura dallo stile adolescenziale della mitologia di Giano. Ho trascritto alcuni brani:

Le stanche mitologie occidentali si sono acquietate nel doppio volto del tempo. Giano il bifronte guardiano del passato e del futuro. Così il mistero della sua origine è perduto; il suo simbolismo solstiziale, soltanto sfiora- to da René Guénon. Nel fondo oscuro dell’archeo logia mitica c’è Saturno che fugge le armi di Giove, il tentato parricidio che scatena una genesi demonica. Fu Gia- no ad accogliere il triplice nome di serpente scappato nel territorio del Lazio e a concedergli l’inizio del suo regno saturnino. Secondo le fonti di un culto minore di origine etrusca, il patto venne suggellato dall’unio- ne carnale tra le due divinità, Saturno e Giano, l’astro glaciale che non consente alla vita di riprodursi e il dio della transizione […].

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L’orgasmo di una sodomia cosmica scatena la catastrofe.

La necromorfosi di Giano venne innescata: il suo rivol- gimento, la sua degradazione e il suo divenire l’ombra di un dio. Una piaga si apre; l’inizio del contagio. Giano era diventato un essere dal corpo morente, né propria- mente divino, né propriamente umano: il deicidio era stato iscritto nella sua carne, ogni suo atomo era l’urlo di una materia in decomposizione. Solo il sangue versa- to poteva temporaneamente invertire il processo di de- composizione. Dall’altezza del Gianicolo uno sguardo di morte osserva la città. Ciclicamente era costretto a entrare in un corpo umano e, per sua mano, perdersi nell’uccidere. Ogni vittima attutiva il dolore, fino alla liberazione che lo riportava al suo stato originario, e poi daccapo, in un processo senza fine […].

Sulla via di Saturno non c’è rigenerazione senza rappor- to con la morte. La ripetizione del sangue è il ritmo con cui il viandante attraversa le porte di Giano.

Il dolore, nella società occidentale, è sempre visto come generatore del male. All’origine dell’atto di uccidere c’è invece una forma di possessione. Le porte di Giano sono aperte.

Il testo si interrompe qui. Di tutta questa roba, dell’unione tra Saturno e Giano, non c’è traccia da nessun’altra parte.

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26 marzo 2020 Nel cuore della notte, l’eco di un cane che abbaia ha la potenza di un’esplosione. L’insonnia è uno stato pertur- bante di spaesamento dal proprio corpo. Sei costretto a essere vigile, ma in quest’atto manca il soggetto. La domanda risuona nel silenzio: chi mi sta costringendo?

La veglia forzata mi appare come l’invasione da parte di un “fuori”, il riconoscere un elemento alieno all’in- terno di noi stessi; in altre parole, c’è una strana consa- pevolezza del fatto che il corpo è da sempre abitato da un pronome neutro. Mi chiedo se la pulsione omicida seriale possa avere qualche analogia con questo. Conti- nuo a ripensare a quella specie di stupido racconto su Giano, all’analogia con la possessione.

Nel riflettere sull’omicidio seriale c’è sempre qual- cosa che sfugge alla chiarificazione. Anni di profiling, descrizioni psicologiche, interviste, tassonomie di ogni tipo, nomi di sindromi accumulati nei manua- li di psicoterapia mi sembrano evaporare di fronte alla questione originaria di questa particolare forma dell’uccidere: la totale gratuità e assenza di ragione causale da parte di individui che spesso conservano un’anomala normalità, che appaiono più o meno inte- grati nella vita pubblica.

Ciò che è difficile accettare è che non esiste una ma- lattia del serial killer. In ambito clinico si accavallano diagnosi di schizofrenia, disturbi borderline, gradi

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diversi di psicosi. Qualcuno sostiene che si tratti di una combinazione tra fattori genetici e acquisiti. Altri, come lo psichiatra Park Dietz, tra i massimi esperti di Jeffrey Dahmer, ritengono la cattiva genitorialità l’elemento decisivo. Ogni modello esplicativo, tutta- via, fallisce di fronte alla casistica e alla complessità della posta in gioco. Si ritrova costantemente sull’orlo della mera proliferazione del linguaggio. I testi degli esami psichiatrici possono essere una lettura grotte- sca a volte. Penso alla perizia effettuata nel 2010 sul serial killer portoghese Francisco Leitão, ribattezzato dai media il Re degli Gnomi. Leitão era cresciuto in una famiglia agiata. Fin da bambino aveva la tenden- za a costruire narrazioni fantasiose sulle sue origini.

Quando i genitori morirono, trasformò la tenuta di famiglia in un castello. Si interessò di esoterismo, ed elaborò una teoria secondo cui ogni essere possiede un doppio negativo, un’ombra che aspetta soltanto il momento giusto per manifestarsi e distruggere la per- sona; attraverso la magia sessuale, però, sarebbe pos- sibile raggiungere un grado di energia tale da evitare di essere divorati da quest’ombra. La dimora di fami- glia diventò un vero e proprio regno. Statue di gnomi erano a guardia della porta d’ingresso. Adolescenti spezzati, persone relegate ai margini della società e freaks si riunivano periodicamente nella tenuta, sog- giogati dalla figura carismatica di Leitão. Una piccola setta coinvolta in vicende di sparizioni.

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Nel 2012 Francisco Leitão viene condannato per l’omicidio di tre adolescenti e per abusi sessuali su al- tri otto. L’esame psichiatrico, nel suo caso, assomiglia più a un generatore automatico di termini clinici che a una diagnosi:

Il soggetto presenta una struttura di personalità border- line con tratti antisociali, narcisistici, isteriformi, com- portamento freddo e distanza affettiva, introversione ri- flessiva, diffidenza, egocentrismo, con una bassa soglia per le frustrazioni e difficoltà a controllare gli impulsi1.

Nel tempo sono proliferate mitologie e narrazioni cristallizzate della figura del serial killer. Nell’immagi- nario comune si tratta per lo più di bianchi, america- ni, maschi; hanno subito abusi nell’infanzia; sono dei solitari. Ma questi non sono altro che meccanismi di difesa collettivi. I serial killer seguono la distribuzione demografica di un paese: sono bianchi, asiatici, ispa- nici, donne. Possono essere persone conosciute nel vicinato oppure misantropi da cameretta.

D’altronde, se davvero lo psicologizzare ci permet- tesse di comprendere senza resti l’esperienza del se- rial killer, il passaggio sarebbe compiuto. La porta di Giano verrebbe attraversata. Noi stessi diventeremmo dei serial killer.

Molti assassini seriali, al di fuori della loro scia di san- gue, conducono un’esistenza che definiremmo normale;

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sono individui capaci di una vita coniugale, di rapporti di amicizia, persino di empatia. Peter Sutcliffe era spo- sato. Aveva una relazione che non presentava particolari anomalie. Ciononostante, ha ucciso tredici donne, in- fierendo ripetutamente sui cadaveri. John Wayne Gacy aveva svolto attività per il Partito Democratico ed era impegnato nel sociale. I rapporti di buon vicinato e la sua affabilità sono dettagli noti della storia; così come i trentatré adolescenti brutalmente uccisi e occultati nella cantina del suo appartamento.

Intorno al nodo dell’esperienza si affastellano una serie di campi che di rado vengono toccati quando ci si occupa di questo tema: che tipo di mondo per- cepisce un serial killer? Cosa sono gli altri all’interno dei suoi schemi percettivi? Che tipo di scarto sancisce con la gente comune?

C’è un sentimento ambivalente intorno ai serial kil- ler. I prodotti culturali sul tema, come serie tv e docu- film, continuano ancora oggi a essere molto seguiti.

Allo stesso tempo, le persone criticano l’eccessiva rappresentazione sui media di queste figure. Fascina- zione e aberrazione, d’altronde, hanno sempre costi- tuito due facce della medaglia della storia culturale umana. Più il male con cui ci si confronta è incom- prensibile, più esso restituisce un’immagine migliore di se stessi. Perché il senso comune, di fronte all’or- rore, è bloccato da una risposta pavloviana: “Io non avrei mai potuto fare ciò che questo mostro ha fatto”.

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E mentre il pensiero sorge alla mente, un brivido per- corre la schiena; come nella “Zona” di Tarkovskij, che esaudisce il desiderio più nascosto dalla luce del- la coscienza, si tratta del puro terrore di uno spazio interiore mai pienamente accessibile, quel buco della soggettività che Sant’Agostino descriveva come inte- rior intimo meo.

La possessione nominata in quella mitologia per- versa parla di un’estraneità aliena al fondo di questi individui, di quell’al di là dell’esperienza di cui diceva Richard Ramirez quando egli stesso si presentava alla Corte come un essere abitato da un demone. La nostra incapacità di comprendere pienamente l’esperienza di un serial killer è analoga all’incapacità di questi in- dividui a comprendere se stessi, cioè all’impressione che hanno di essere abitati da una forza sconosciuta e innominabile che li guida, fuori controllo anche lad- dove si tratti di un cosiddetto profilo organizzato.

Sorge poi una forma di riconoscimento. Nell’atto di uccidere, l’omicida cerca di costruire la propria iden- tità mancante, di colmare questo senso di spossessa- mento. Ogni serial killer ha temuto di scomparire, di dissolversi nella massa. Nel suo orizzonte c’è la perdita di un mondo in comune, come se la realtà circostante, inspiegabilmente, per qualcosa che ha una potenza più originaria di un trauma infantile, avesse perso tonalità.

L’atto di uccidere ristabilisce una differenza: la paro- dia macabra di un atto affermativo. Questa identità gli

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viene poi riconosciuta dalla società attraverso l’appa- rato mediatico-culturale che ne fa, come figura socia- le, un serial killer. Prima non era nulla, ora è un mo- stro: è già qualcosa.

L’errore si ripete nel voler conoscere ciò che sembra non appartenere a questo mondo, nel voler gettare una luce nel buio in cui lo spettro visibile collassa e si tocca il limite della rappresentazione. Bisogna chie- dersi piuttosto se questa forma intima e profonda di estraneità, quest’esperienza dell’inumano che risiede nel serial killer, abbia qualcosa da dire al resto della popolazione. In altri termini, bisogna chiedersi se la possessione possa essere intesa come l’emergere di questa alterità, di questo fondo non-soggettivo al cuo- re della soggettività che sostiene l’esperienza umana.

27 marzo 2020 Dalla finestra vedo il giorno indebolirsi. Gli alberi crollati sul cielo come ombre che annunciano il prin- cipio della sera. Nessuna traccia di zslv, nessun nuovo thread aperto. Ho provato a scrivere il nome sui mo- tori di ricerca. Anche Necromorfosi Divina è sparito da Atrax. Lo smartphone continua a illuminarsi nella penombra della stanza come una lucciola artificia- le, i messaggi di parenti e amici si accumulano senza

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risposta, crescono insieme ai pezzi di carta ricoperti di appunti e osservazioni. Ieri notte ho sognato che i fogli arrivavano a saturare il monolocale. Ero som- merso. Incapace di alzarmi dal letto. Cominciavo a scrivermi gli appunti sulla pelle e mi ricoprivo il cor- po con una grafia minuta come una trama di tatuaggi, poi l’inchiostro diventava rosso, simile alla notte che scivola nell’alba, e la penna tra le mani era un coltello, e io non facevo altro che incidere il libro sulla mia carne – questo libro ancora mai iniziato che si genera sotto la pelle dell’isolamento.

Dormo troppo poco; quando dormo il sonno è di- sturbato. Ormai la maggior parte del tempo la pas- so nella vastità spettrale della rete, tra gli articoli più bizzarri e le teorie più strane. Conosco a memoria le biografie della maggior parte dei serial killer: l’in- fanzia di Luigi Chiatti, le poesie di Pietro Pacciani, i gusti musicali di Jeffrey Dahmer. Ecco, Dahmer, per esempio, è stato un fan dei Black Sabbath prima, e del post-industrial poi. Quando venne preso dalla po- lizia stava ascoltando Buried Dreams dei Clock dva. E Ted Bundy? Ted Bundy, abbastanza prevedibile, non ascoltava musica, amava ascoltare talk radiofoni- ci, poiché, immagino, la musica sarebbe stata già una forma di idolatria per qualcuno che non era lui stesso.

In rete continuo a ordinare magazine rari di sotto- culture estreme spendendo tutto quello che ho. Archi- vio accuratamente foto bizzarre in cartelle sul desktop.

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Mi iscrivo a qualsiasi newsletter riguardi fatti inusuali, storie di fantasmi e weird tales. Si tratta forse di trova- re nell’ordine delle cose una fessura attraverso cui far passare una luce, o sarebbe meglio dire un buio, una qualità del buio che, come il negativo di una pellicola fotografica, chiarifichi le ossa del mondo. Quello che la teoria critica chiama weird – ciò che ci disturba perché oltrepassa le coordinate dell’esperienza comune, questa estraneità che irrompe di continuo anche se facciamo finta di non guardare – aiuta a ricordare che la realtà non è un monolite che se ne sta là di fronte a noi, pronto e impacchettato, ma è una potenza senza fine, una trama piena di buchi che diventano portali per mondi riconfi- gurati, dove l’immagine di una Barbie deformata dalle fiamme, intravista per sbaglio su un canale Instagram di notte con gli occhi doloranti dell’insonnia, scombina gli orizzonti di senso e fa risuonare un’eco immane al no- stro interno, in certi spazi vuoti che ci si porta dentro da quando si è bambini o forse proprio da quando si nasce.

29 marzo Il bagliore dello schermo mi cade sul viso come il neon delle metropoli sull’asfalto umido di notte. Quest’in- sonnia per me è ormai un’ostinazione della mente a lavorare sui pensieri, a insistere nella preparazione di questo libro.

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Per ora c’è solo uno scheletro, una struttura a spi- rale che piano piano si inabissa. Quattro parole sono calcate a penna sul foglio di appunti accanto al com- puter, quattro concetti collegati da frecce e commen- ti: trauma, sguardo, narrazione dei media, desiderio.

L’analisi del trauma è l’inizio di tutto. Perché l’in- sufficienza di questa spiegazione lascia intravedere qualcosa: una ferita “più originaria” sopra cui la vita soggettiva si è formata come una crosta. L’omicidio seriale, caso limite dell’esperienza umana, testimonia la fragilità dell’essere un soggetto e quella dei concet- ti che lo strutturano: dalla nozione di io e identità al concetto di mondo in quanto orizzonte di senso. Nel cercare disperatamente la stabilità di una cittadella interiore che faccia da argine al proprio smarrimento, viene eretta un’ipersoggettività disfunzionale che ha i tratti dell’assuefazione. Il serial killer è anche la forma impazzita di un ego ipertrofico che teme di scompa- rire nella massa e per questo mette in atto processi di mimesi rispetto alla narrazione che il complesso me- diatico fa di lui.

Nelle pieghe di questa ipersoggettività disfunziona- le, l’io emerge al contrario come una tecnica: come mi rappresento, l’identità che metto in atto tramite que- sta rappresentazione a cui cerco di conformarmi, le narrazioni che influenzano questa rappresentazione;

nulla sfugge a un gioco di mediazioni che agiscono in quella terra spettrale che chiamiamo interiorità e che

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fanno scomparire l’idea di una verità originaria dietro ciò che viene rappresentato.

Non credere a se stessi è il primo passo verso la sa- nità. Bisogna bruciare il Tempio di Delfi. Del dolore che ho provato in passato forse nulla di puro è rima- sto davvero; qualche traccia, il tempo fantasmatico di un’eco, la finzione della memoria, un riverbero che ha già da sempre perso la sua chiarezza, contaminato dalle narrazioni che agiscono nella costruzione delle identi- tà. Tramite le vicende dei serial killer, la critica di que- sto interno che penso di possedere si spinge fino alla sessualità e al desiderio. E in questo terreno la figura del serial killer emerge nella sua costitutiva ambiguità:

un doppio volto che sintetizza una società strutturata sulle categorie di shock, trauma e violenza, ma anche un’apertura verso un fuori dell’esperienza umana. Il serial killer, come posseduto dal bifrontismo di un Giano oscuro, manifesta in forma parossistica questa soglia su cui si svolge l’esistenza. Tra le ceneri dell’O- racolo di Delfi una voce urla: ascolta il tuo desiderio.

Non troverai te stesso. Dietro la sessualità affondano radici non sessuali che riportano all’emergere della vita dai processi geologici di evoluzione della Terra, a una follia della materia che forse ha inciso sulla carne la possibilità del collasso. In questo mormorio dell’u- niverso e della terra al cuore delle spinte libidinali si apre una forma di non-sapere su se stessi. La volontà desidera la chiarezza, teme l’oscurità; brama con tutta

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se stessa la luce del cielo. Ma questo stesso desiderio è la piaga da cui l’oscurità si spande.

Nel De Civitate Dei, Sant’Agostino scrive: “Ad Ia- num pertinent initia factorum” (a Giano compete l’inizio di ogni cosa). Nel segno di Giano comincia questo libro.

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1. Sonnambuli. Una fenomenologia impossibile dell’esperienza omicida

Dio mio, io grido di giorno, ma tu non rispondi, e anche di notte, senza interruzione.

Salmo 22 Più profondo è il dolore, meno lingua ha.

Talmud Il mondo è fuggito, io devo portarti.

Paul Celan, Große, glühende Wölbung

Nel cortile della scuola dove ho fatto le elementari, in un momento imprecisato dell’anno, una stagione sbiadita nella memoria che poteva corrispondere ai primi soffi d’autunno, gli alberi si riempivano di resi- na. Avrò avuto all’incirca otto anni. Insieme ad alcuni miei compagni di scuola tagliavo e incidevo la cor- teccia con dei coltelli rubati dalla sala mensa. Stacca- vamo la resina e la mettevamo dentro a dei cestini di plastica. Dicevamo che era il sangue degli alberi. Di- cevamo che il giardino della scuola sanguinava. Sul- le nostre labbra queste frasi non avevano il peso che avrebbero avuto in un’altra stagione della vita. In quel momento non usavamo la parola “dolore”; la parola

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“dolore” sarebbe venuta molto tempo dopo. In quel momento il giardino sanguinava e basta. Era soltanto un gioco. Eppure, tramite la lama che incideva il cor- po vivo dell’arbusto, in qualche modo stavamo crean- do un mondo daccapo. Nel tempo della ricreazione i significati quotidiani venivano meno. Scomparivano i compiti, le gerarchie del mondo fuori andavano in polvere, svaniva la frattura con gli adulti, si attenuava quel particolare tipo di solitudine che ogni bambino si porta dentro. La resina-sangue era la testimonian- za numinosa della nostra capacità di donare la morte alla realtà che ci circondava; quella rea ltà che, come qualcuno di noi avrebbe scoperto più avanti nel cor- so dell’esistenza, non cessa mai di sanguinare. Nella Bibbia il sacrificio di Isacco ci ricorda che l’atto di dare la morte appartiene propriamente solo a Dio, a colui che è formatore di mondi. Ogni ricreazione cor- rispondeva alla nascita di una piccola nuova era: una genesi di volta in volta interrotta dal richiamo degli insegnanti e da una campanella che per noi aveva lo stesso suono delle trombe nell’Apocalisse di Giovan- ni. Di ogni era, dunque, eravamo costretti a conosce- re solo l’inizio.

Un mondo è sempre capace di crollare in un istante.

Esistono ricordi di bambino che sono un’anticipa- zione della vita adulta; o meglio, di una tonalità emoti- va che andrà a permeare la vita adulta. Forse l’infanzia

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rimane sempre lì, a irridere ciò che crediamo di essere diventati.

La prima volta che il ricordo degli alberi mi è torna- to alla mente è stato quando ho visto Antichrist di Lars von Trier, nel momento in cui Charlotte Gainsbourg si affaccia alla finestra e sente il pianto insistente di un bambino. Non riesce a capire da dove proviene quel lamento. Per lo spettatore, invece, è tutto chia- ro. È l’intera realtà che circonda la casa a produrre un pianto inarrestabile. Dopo aver visto quella scena, iperbolica al limite del ridicolo come spesso accade nei film di von Trier, il mio ricordo di bambino ha acquisito uno strato ulteriore di senso: il sangue e la resina si sono tramutati in dolore, in coscienza del dolore, e questa coscienza si è unita ad altre parole, ad altre nozioni e concetti ereditati dai libri e dalla letteratura, sfiorando, di tanto in tanto, quelle costel- lazioni di senso che prendono il nome di pessimismo e nichilismo.

In entrambi gli episodi – la resina degli alberi e il pianto di Antichrist – irrompe un cambio nella tonali- tà emotiva che ci lega alle cose del mondo. Il mondo, per così dire, si rivela nella sua violenta e sofferente gratuità, privo di una trascendenza in cui proiettare un universo di valori stabili.

Questi episodi hanno formato una slavina che ha au- mentato la propria massa nel corso del tempo, in ma- niera invisibile, e che mi ha travolto quando ho comin-

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ciato a riflettere sull’esperienza dell’omicida seriale, su cosa significhi l’atto di uccidere al di fuori dello sguardo clinico della psicologia. Ho ripensato inten- samente a questi episodi rileggendo il brano con cui si apre questo libro, dove si fa riferimento a un pes- simismo del corpo, “un’intuizione del nulla che sfol- gora quando l’universo insegna soltanto caos e senso dell’assurdo”. Quando il patire del corpo supera una certa soglia, qualcosa sembra fratturarsi.

L’estremità deserta delle cose

La psicologia descrive il trauma come l’evento che irrompe lacerando il soggetto, un peso radicalmente non integrabile nella sua struttura psichica. Spesso i serial killer sono sopravvissuti ad abusi e traumi in età infantile, e provengono da famiglie disfunzionali.

Questo ha generato la convinzione, eretta ormai a sa- pere comune, di un nesso causale forte tra trauma e omicidio seriale. In questo radicale determinismo che la psicologia criminale ha assolutizzato per decenni, tuttavia, si nascondono numerose zone d’ombra.

Le persone che sviluppano tendenze omicide a se- guito di un trauma rimangono una piccola percentua- le. Sullo sfondo resta sempre la domanda su chi quel trauma l’ha elaborato in maniera diversa. Inoltre, non tutti i casi presentano lo stesso grado traumatico. Ted

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Bundy uccise una quindicina di ragazze a fine anni

’70, praticando anche atti di necrofilia sui corpi. Aveva studiato Legge e Psicologia. Si interessava di politica, voleva persino prendere la tessera del Partito Repub- blicano. Grazie alla sua formazione, all’intelligenza e allo stesso fascino con cui circuiva le vittime, manipo- lava giurie e forze dell’ordine. Ted Bundy era un figlio illegittimo. Era cresciuto con i nonni. Gli avevano fat- to credere che fossero i suoi genitori biologici, mentre la vera madre era stata spacciata per sorella maggiore.

L’intento era quello di proteggerlo dallo stigma sociale che gravava sui figli illegittimi. Un ambiente familia- re disfunzionale, certo, ma ben diverso dai maltratta- menti e dalle violenze a cui, per esempio, fu esposto costantemente durante la sua infanzia Charles Man- son, il “mostro” che a differenza di Bundy non è mai stato capace di uccidere con le sue stesse mani.

Come spesso accade, a uno sguardo più profondo nelle biografie dei serial killer la pulsione a uccidere è qualcosa che comincia da ben prima dei cosiddetti eventi traumatici. La criminologa Ann Rule, nel suo Un estraneo al mio fianco1, racconta un episodio inte- ressante a riguardo. Rule fu amica di Ted Bundy negli anni ’70, prima cioè di sapere degli omicidi. Rule e Bundy si erano conosciuti all’università di Washing- ton, durante gli studi di Psicologia, e avevano lavorato insieme in un centralino che si occupava di fornire supporto a persone intenzionate a suicidarsi. Nel suo

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libro Rule raccoglie una testimonianza della sorella minore della madre di Ted Bundy, Julia Cowell. La donna racconta che un mattino si svegliò nel letto cir- condata da coltelli. Ai piedi del letto, Ted Bundy, che all’epoca aveva solo tre anni, la guardava sorridendo.

Il contesto sociale e familiare di Bundy ha un rilievo psicologico importante, per esempio nello sviluppo del suo narcisismo patologico che lo portò in uno degli ultimi processi a rifiutare la difesa del suo avvocato e a volersi difendere da solo; ma, allo stesso tempo, è un contesto parentale non così raro, che nella gran parte dei casi non porta l’individuo a diventare né un criminale né tanto meno un serial killer. Ciò che sembra accadere nella vita dei serial killer è un qualcosa che, per ora, come ipotesi di lavoro, chiameremo perdita del mondo: un crollo della realtà circostante che, inspiegabilmente, gratuitamente, a un certo punto rivela la sua fragilità. Questo venir meno dell’orizzonte di senso che chiamiamo mondo è una pos- sibilità sempre latente in ognuno, ma che l’evento trauma- tico può accelerare e far emergere. L’idea di un cosmo che insegna soltanto caos e senso dell’assurdo non va limitato solamente ai casi di esperienze traumatiche che distrug- gono l’orizzonte di senso di un individuo. Questo crollo del mondo, a volte, si verifica come un evento imprevedi- bile e fuori dall’ordinario, come l’irrompere di qualcosa di impossibile e di trascendente, allo stesso modo di una possessione o di quella che Georges Bataille nell’Esperien- za interiore chiama “l’imitazione dell’agonia di un Dio”:

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Secondo San Giovanni della Croce dobbiamo imitare di Dio (Gesù) la decadenza, l’agonia, il momento di “non sa- pere”, del “lama sabachtani”; bevuto fino alla feccia, il cri- stianesimo è assenza di salvezza, disperazione di Dio […].

L’agonia di Dio nella persona dell’uomo è fatale, è l’abisso in cui la vertigine lo sollecitava a cadere. L’agonia di un Dio non sa che farsene della spiegazione del peccato. Essa non giustifica soltanto il cielo (la cupa incandescenza del cuore), ma l’inferno (la puerilità, i fiori, Afrodite, il riso)2.

Nel racconto biblico, c’è un attimo, un breve fram- mento di tempo, in cui Gesù sulla Croce è al cospetto del puro nulla. “Mio Dio, perché mi hai abbando- nato? (Eloì eloì lamà sabactàni)”. Il mondo, nella di- sperazione di quel momento, mentre ogni centimetro della carne sta gridando, appare come un deserto in cui si stagliano le rovine del cielo. Il mondo, per Gesù, diventa una distesa di alberi sanguinanti e il pianto senza origine di un bambino. Il Salmo 22 termina con la consapevolezza, ispirata dall’anima divina presente in Cristo, che al sofferente non verrà “nascosto il suo volto”, che, insomma, la salvezza arriverà. Eppure, per il corpo legato unicamente alla condizione uma- na, inchiodato all’esistenza materiale, tutto il dolore del mondo, quando irrompe, rimane sulla pelle.

“L’agonia di un Dio non sa che farsene della spiega- zione del peccato”.

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Mentre scrivo queste parole, davanti a me, attaccata con una graffetta su un foglio di appunti, c’è la foto in bianco e nero di Carl Panzram. Raramente ho vi- sto uno sguardo così carico di odio totale e profondo.

Panzram era nato nel 1891 da genitori tedeschi immi- grati in Minnesota in cerca di fortuna. Quarto di otto fratelli. Un padre anaffettivo e cupo, che aveva abban- donato la famiglia all’improvviso, con lo stesso silenzio indecifrabile di cui riempiva la casa quando era di ri- torno dalle dure giornate di lavoro. La vita di Panzram è stata un lento apprendistato di odio, violenza e ane- lito alla distruzione, un percorso che lo porterà a ucci- dere almeno ventidue persone (ma si sospetta un cen- tinaio) e a commettere atti di violenza e sodomia su un migliaio di ragazzi e uomini. Il suo carattere violento era emerso già all’età di sei anni. A otto anni era stato trovato ubriaco e mandato di fronte a un tribunale mi- norile. Nella sua autobiografia, Butchering Humanity, Panzram ha dichiarato che in quegli anni sentiva cre- scere in lui una cattiveria sempre più grande. Poi arrivò il riformatorio. Arrivarono le botte da parte delle guar- die. Arrivarono gli abusi. Un copione che si sarebbe ripetuto molte volte lungo tutta la sua vita. Come scrive Ian Brady, tracciandone un profilo:

Commisero l’errore fatale di provare a spezzare il suo spi- rito picchiandolo e frustandolo per la minima infrazione delle loro regole insignificanti. Era come provare a domare

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un fuoco con il petrolio. Il giorno in cui Carl avrebbe co- minciato a stabilire le proprie regole non era lontano. Se le autorità pensavano che la crudeltà fosse una virtù, lui avrebbe dato loro un assaggio di quel rimedio3.

Cominciarono allora gli incendi lungo il Midwest, le rapine, gli stupri degli uomini che derubava. Era diventato un vagabondo. Si spostava da una parte all’altra del paese; arrivò in Perù, in Cile, e poi ancora in Europa tra Londra e Parigi, fino all’Angola france- se, disegnando un’ampia geografia del caos che uni- va i continenti. Più volte subì violenze sessuali, come quando in un treno fu stuprato dai compagni di viag- gio. Carl Panzram sviluppò presto una misantropia totale. L’universo gli aveva insegnato soltanto caos e senso dell’assurdo. Il suo nemico “era diventato l’u- manità intera”4. Panzram cominciò a usare la violenza come unico rapporto di relazione verso l’altro, diventò una macchina ossessionata dall’annientare il prossimo.

Era un uomo grosso, forte fisicamente, fin da piccolo abituato ai lavori manuali. Ma la sequenza di omicidi ebbe inizio solo quando rubò una pistola dopo essere entrato in una delle proprietà del giudice che lo ave- va mandato, da ragazzo, nella prigione di Fort Leav- enworth; un luogo che nei suoi ricordi ricorrerà spesso con accenti di odio. All’epoca non esisteva ancora il concetto di serialità nell’omicidio; il profiling sareb- be arrivato molto dopo. Nessuno cercava qualcosa

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come un serial killer, con le sue specificità e i suoi sche- mi; di conseguenza, gli omicidi spesso rimanevano non collegati tra loro. Nel caso di Panzram fu lui stesso a parlare apertamente di alcuni ragazzi che aveva ucci- so in precedenza; lo fece in un interrogatorio che subì per il furto di una radio. In un articolo del l’Evening Star del 1928 viene specificato che, in un primo mo- mento, le confessioni degli omicidi furono ritenute un tentativo di sviare il processo. Alcune descrizioni com- baciavano con i dettagli dei casi delle vittime, però, senza un vero e proprio processo, era difficile stabilire se Panzram avesse appreso dei particolari da artico- li di giornale o da passaparola, come spesso facevano certi mitomani sui casi di omicidio. Panzram fece al- lusione ad altre vittime, ma smise di fornire ulteriori informazioni a meno che non fosse stato processato per gli omicidi già confessati. Nel frattempo, essendo già noto alle autorità per la sua lunga fedina penale di rapinatore e individuo violento, venne comunque con- dannato a venticinque anni. La condanna si tramutò in sentenza di morte dopo che – una volta mandato nel penitenziario di Leavenworth in Kansas – uccise il caposquadra della lavanderia, un personaggio noto nel carcere per molestie e angherie sui detenuti, a cui Panzram aveva più volte intimato di lasciarlo in pace.

Alcuni serial killer vivono il tribunale come un pal- coscenico. Nelle parole rivolte alla Corte spesso emer- gono frasi e discorsi in bilico tra il delirio e l’estrema

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lucidità. Nel processo per il furto della radio, Panzram non volle essere difeso da nessun avvocato. Ammise subito il reato. Poi si rivolse così alla Corte:

Mentre mi stavate processando, io stavo processando voi a mia volta. E vi ho giudicato colpevoli. Alcuni di voi li ho già giustiziati. Se dovessi continuare a vivere, ne giusti- zierò altri. Ritengo che l’intera razza umana debba essere sterminata. Farò del mio meglio per farlo in ogni occasio- ne possibile. Io ho fatto il mio dovere. Ora fate il vostro5.

Nella lingua inglese, il concetto di caos può esse- re espresso in due modi diversi: chaos e mayhem. Il secondo termine indica uno stato di confusione, di disordine totale e violento: etimologicamente ha ori- gine dal francese antico mahaigner, che indicava l’atto di infliggere un danno gratuito, inutile. Più letteral- mente, la parola è composta dai termini mal e ganher:

“ottenere il male”. Dai suoi racconti, Panzram sogna- va continuamente di far deragliare treni, appiccare il fuoco in grand hotel, versare fusti di cianuro nei bacini idrici che riforniscono le città di acqua potabi- le. Sono tantissime le testimonianze di distruzione in- controllata, reale o immaginata, nella vita di Panzram.

Era uno di quei serial killer dall’elevato quoziente intellettivo. Nonostante la vita indigente, aveva letto scritti di Kant, Schopenhauer e Nietzsche; nei suoi te- sti emerge una precisa filosofia radicale ultranichilista

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di annientamento totale del prossimo e di se stesso.

Come il Cristo decadente di Bataille, Panzram ha sen- tito l’assenza di salvezza, il momento del non-sapere che si tramuta in disperazione. Invece di credere nella redenzione e nella possibilità della trascendenza, ha sublimato questo non-sapere in una forma di vendet- ta totale. Il sentimento che emerge da alcune pagine autobiografiche è quello di perdita del mondo come orizzonte di senso della propria esistenza, cioè di un mondo in comune con gli altri. Una perdita che, però, entra nella sua vita gradualmente, e inizia da un tem- po immemore, da prima ancora delle esperienze bru- tali che lo segneranno nel suo percorso.

Il sentire che il mondo che abitiamo è un mondo condiviso è un tratto fondamentale dell’esperienza degli altri e di ciò che chiamiamo empatia. Il mondo non è un qualcosa che sta davanti a noi, un palcosce- nico pronto in cui noi agiamo, ma è la rete di senso in cui siamo dal momento in cui possiamo dire “io”; rete che, allo stesso tempo, ci struttura e viene struttura- ta dall’interazione. Quando Richard Ramirez dice di essere “al di là dell’esperienza” cerca di ammantare di una patina intellettuale uno smarrimento profon- do, ontologico, che nemmeno lui può comprendere in pieno. A un certo punto della sua vita, il mondo è crollato, è venuto meno come struttura d’esperienza condivisa. Quando questo accade si continua a vivere,

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ma come sonnambuli, in una soglia tra due mondi, tra la realtà concreta e l’altrove del sonno, abitati da una forza impersonale. L’atto di uccidere in maniera se- riale diventa allora la ricostruzione del mondo e, allo stesso tempo, il tentativo di darsi un’identità.

Nel corso della storia della filosofia della mente e della psicologia cognitiva sono state elaborate molte teorie dell’empatia. Alcune trattano il comprendere l’altro come un’operazione teorica di inferenze. Que- sto significa che lo stato mentale dell’altro viene visto come un’entità a cui non abbiamo accesso diretto, ma che possiamo postulare dalle informazioni che os- serviamo nel comportamento; da queste informazio- ni traiamo possibili ragioni per cui le persone fanno quello che fanno. Semplificando, facciamo congettu- re sulle azioni e i comportamenti degli altri simili ai nostri; congetture che nel corso della vita aggiustiamo fino ad avere dei modelli teorici efficaci sulla realtà vivente che ci circonda. Secondo un altro filone, la comprensione delle menti degli altri si fonda sull’a- bilità di proiettarci con l’immaginazione nella situa- zione di un’altra persona: si tratta di una simulazione delle credenze, dei desideri e delle emozioni altrui.

Il primo approccio, inferenziale, è intellettuale e teo- rico; il secondo, immaginativo, fa appello alle nostre risorse emotive e motivazionali6. In entrambi i casi, l’esperienza intersoggettiva viene fraintesa come una sorta di incontro tra individui che cercano di cogliere

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tematicamente le emozioni e le esperienze degli altri, cioè di riviverle. Eppure, nell’esperienza dell’altro, ra- ramente avviene il tentativo di afferrare l’interiorità del prossimo.

Come scrivono il filosofo Dan Zahavi e lo scienziato cognitivo Shaun Gallagher, “in circostanze normali, ci comprendiamo vicendevolmente abbastanza bene at- traverso l’impegno condiviso in un mondo comune”7. Ciascuno percepisce, cioè, il mondo come qualcosa di esperibile da altri, fosse anche solo da un se stesso del futuro. In questo modo la presenza d’altri è già antici- pata nel carattere intersoggettivo del mondo. L’idea del mondo in comune è inscritta già nel cuore e nella carne della nostra esperienza personale, prima ancora di in- contrare effettivamente altri viventi. Comincia anzi dal- la nostra stessa corporeità: se mi svegliassi all’improvvi- so in un mondo in cui l’umanità fosse scomparsa, in cui io fossi l’unico uomo sulla faccia della terra, come nel celebre Dissipatio H.G. di Guido Morselli, l’esperienza degli altri non verrebbe meno; persisterebbe nella cor- poreità mia e del mondo in forma di anticipazione di un’alterità quantomeno possibile.

Maurice Merleau-Ponty, per spiegare questo pun- to, sottolinea come la stessa esperienza del sé non sia mai un fatto puramente introspettivo e mentale. Lo sguardo interiore è sempre situato in un corpo, cioè in una soggettività che, per definizione, implica l’a- gire e il vivere nel mondo. La mia stessa corporeità

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anticipa quindi la presenza d’altri. Le mani che tocca- no la tastiera in questo momento, il dito che gratta in un punto della testa dietro l’orecchio sono al tempo stesso esperienza di me ed esperienza di come il mio essere possa essere visto e toccato da altri. Scoprir- si nel mondo significa scoprirsi immersi anche nella vita d’altri. Insomma, il mondo percettivo in comune è il fondamento estetico dell’esperienza del prossimo.

“Se non ho un’esteriorità, gli altri non hanno un’in- teriorità”8, scrive Merleau-Ponty in Fenomenologia della percezione. Se il rapporto con noi stessi fosse puramente mentale, alla maniera cartesiana del cogi- to, non avrei mai modo di riconoscere gli altri corpi come soggetti incarnati. In altre parole, come potrei mai operare questo strano trasferimento del cogito da me stesso a un altro corpo, se di me stesso coglies- si solamente qualcosa che considero puro pensiero?

L’intersoggettività è possibile se e solo se il soggetto si considera in quanto incarnato in un mondo, mondo definito come un comune campo di esperienza.

Per quanto riguarda l’empatia, io vedo poi nell’al- tro, in questa possibile alterità che il mio esistere anti- cipa e che adesso si manifesta di fronte a me, un corpo che agisce e che ha comportamenti espressivi. A par- tire da questa riflessione sull’espressività del corpo, colgo immediatamente i significati, senza bisogno di inferenze di stati mentali nascosti.

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