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aprile giugno 2014
Dire il vero su se stessi.
Cantiere foucaultiano
MATERIALI 1 3
Alessandro Fontana Una educazione intellettuale 7 Pier Aldo Rovatti Dimmi chi sei. Foucault
e il dilemma della veridizione 35 Massimiliano Nicoli, Luca Paltrinieri
Il management di sé e degli altri 49 Mauro Bertani La fine di un mondo? Foucault
e la veridizione cristiana 75 Philippe Chevallier Michel Foucault e il “sé”
cristiano 101
Laura Cremonesi, Arnold I. Davidson, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini, Martina Tazzioli Da dove viene il sé? La forza del dir-vero e l’origine dell’ermeneutica del sé 119 Tiziano Possamai La pratica filosofica di Michel
Foucault 137
PALESTRA 148
Roberto Bertolini Disobbedire alla verità. A
proposito del corso Del governo dei viventi 149 Eugenio Giacomelli Niente verità senza alterità.
Una nota sull’ultimo corso di Foucault 157 Alessandro Melosso Frammenti di un gesto
filosofico 167
MATERIALI 2 179
Robert Castel L’insicurezza sociale. Rischi e protezioni nella crisi della modernità
organizzata 183
Alessandro Dal Lago Dopo la democrazia globale POST
niente? A proposito di legittimità 193
rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti
redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto,
Deborah Borca (editing, [email protected]), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Pierangelo Di Vittorio,
Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto
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collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: [email protected]
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Finito di stampare nel giugno 2014
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Materiali 1
A lessandro Fontana è scomparso nel feb- braio del 2013. Ci è parso fosse un omag- gio doveroso alla sua memoria e al suo lavoro – e tanto più necessario se commisurato al silenzio della cultura italiana su di lui all’indomani della sua morte – pubblicare alcune sue pagine inedite dedicate soprattutto alla ricostruzione, in forma di autobiografia intellettuale, della sua lunga collabora- zione con Michel Foucault, iniziata in un’epoca in cui farlo poteva ancora comportare un prezzo da pagare, a cominciare da una certa solitudine e marginalità istituzionale.
A partire dalla fine degli anni settanta, Fontana è stato anche una presenza significativa su “aut aut”, collaborando in particolare ai numeri dedicati, direttamente o indirettamente, a Foucault (ri- cordiamo il n. 167-168 del 1978, su “potere/sapere”; il n. 195-196 del 1983, consacrato a “il governo di sé e degli altri”; il n. 205 del 1985; il n. 216 del 1986; o più di recente il n. 323 del 2004, dedi- cato a “Michel Foucault e il potere psichiatrico”). Alcuni di questi contributi sono stati in seguito ripubblicati nella raccolta Il vizio occulto, uscita nel 1989 (Transeuropa, Ancona), che rappresenta uno degli esempi più originali di lavoro “con” e “a partire da”
Michel Foucault. Dal 1969, con la traduzione e introduzione della
Nascita della clinica, Fontana era stato uno dei suoi più profondi e
acuti lettori: a lui generazioni di studiosi e ricercatori italiani deb-
bono di avere cominciato a leggere Foucault a loro volta in modo
nuovo e finalmente affrancato dalla stanca ripetizione di alcuni
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luoghi comuni e di alcune banalità interpretative che fino ad allora ne avevano accompagnato la circolazione in Italia. A Fontana si dovrà in particolare la predisposizione di un testo, Microfisica del potere, uscito nel 1977 per Einaudi, che, oltre a costituire un vero e proprio modello editoriale che verrà replicato un po’ ovunque nel mondo, sarà all’origine di un modo nuovo di leggere e intendere il lavoro di Michel Foucault (e nuovo forse persino per lo stesso Foucault, a cui venivano così rivelati usi e applicazioni politiche possibili delle sue analisi e dei suoi strumenti in contesti e con- giunture a lui sconosciuti): un testo destinato a intersecare alcuni dei movimenti e dei processi politici più rilevanti dell’epoca.
Il lavoro di Fontana sul corpus foucaultiano – che ha inoltre contribuito a prolungare e a far esistere già all’indomani della morte dello stesso Foucault (in un tempo in cui sembrava ormai diventato un “cane morto” per quell’accademia che oggi gli riserva tutti gli onori), dirigendo l’impresa di edizione dei suoi corsi al Collège de France – non appartiene infatti né al genere del commentario né a quello dell’esegesi del suo pensiero. È piuttosto applicazione, pro- lungamento, “lavoro effettivo” di messa alla prova di alcune delle ipotesi elaborate nel quadro del “Séminaire” ristretto al Collège e poi nelle lezioni pubbliche, il tutto fatto reagire a contatto con un autonomo e originale lavoro di ricerca e di insegnamento presso l’École normale supérieure di Fontenay-Saint Cloud prima, e poi di Lione.
Il testo che qui presentiamo è costituito dai capitoli centrali del Rapport redatto da Fontana nel 1993 in vista dell’ottenimento dell’abilitazione a dirigere tesi di dottorato nell’università francese.
Oltre a essere una presentazione davanti a una commissione dei
lavori già svolti e pubblicati, questa habilitation consiste in un’au-
tobiografia intellettuale, nella quale il candidato spiega i propri
orientamenti di ricerca ed evoca il percorso intellettuale compiuto
e quello in atto. Fontana aveva colto questa occasione accademica
per fare qualcosa di più: il ritratto di una generazione, la sua, che
nel corso degli anni sessanta, in un momento in cui le barriere
tradizionali tra le discipline andavano erodendosi, aveva dovuto
costruire i propri percorsi individuali fuori dalle vecchie scuole,
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sotto la guida di nuovi “maestri”, tra cui ovviamente Foucault, che assomigliavano poco ai tradizionali professori di una volta. Il Rapport verrà prossimamente pubblicato, insieme alla totalità dei testi che Fontana ha consacrato a Foucault (e a Deleuze e Guattari, di cui aveva tradotto e introdotto l’Anti-Edipo nel 1975), in una raccolta che sarà edita da La Casa Usher (Firenze) con il titolo Una educazione intellettuale. Saggi su di sé, su Foucault e su altro.
La nostra speranza è che possa in tal modo essere riconosciuta la
funzione di vero e proprio “intercessore” da lui svolta: tra un paese
e un altro, tra una cultura e un’altra, tra una lingua e un’altra, tra
un campo di sapere e un altro, tra un sistema filosofico e un altro,
tra la filosofia e ciò che è altro dalla filosofia. E all’altezza a cui lui
aveva saputo collocarla. [M.B., P.A.R.]
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aut aut, 362, 2014, 7-34
Una educazione intellettuale
ALESSANDRO FONTANA
L’avvicinamento alla storia
Per ogni Lucien de Rubempré fermo al bordo di una strada, c’è sempre un Vautrin pronto a soccorrerlo. L’arrivo nella capitale infatti non mi strappò la celebre esclamazione dei “due normalisti di genio”, Sartre e Nizan, dall’alto di Montmartre: “Eh eh, Rasti- gnac”, ma mi pose piuttosto la questione: “E ora, come venirne fuori?”. Il mio Vautrin fu Ruggiero Romano, l’allievo di Braudel, lo storico dell’economia, che conobbi nel 1964 alla Cité universitaire, dove dirigeva la Maison d’Italie.
L’ambiente cosmopolita della Cité, se posso dirlo in una parola, i facili incontri, i numerosi contatti, finirono di guarirmi da quel resto di “provincialismo” che ancora mi trascinavo appresso dai miei anni italiani. Vi feci inoltre l’apprendistato di una militanza attiva nelle azioni di sostegno al Vietnam, insieme con i compagni di rue d’Ulm che si erano raccolti attorno ad Althusser e che pub- blicavano i “Cahiers pour l’analyse”. A queste attività più nobili si affiancava quella, più modesta ma più vicina, della riforma dei regolamenti un poco superati che disciplinavano ancora le varie Maisons. Eravamo immersi in un clima febbrile di scambi, di di- battiti, di riunioni. Andavamo per tutto il giorno da una Maison all’altra, per cercare delle alleanze e diffondere i volantini redatti nella notte contro i “nemici” del momento. Ci curavamo poco degli studi e frequentavamo i seminari alla moda, soprattutto quelli di Lacan e di Althusser. Il primo aveva da poco pubblicato la raccolta dei suoi Scritti, il secondo le sue analisi su Marx in Leggere il Capitale. Questi due libri furono l’oggetto di tutte le Un balzo di tigre
Michel Foucault L’emergenza delle prigioni Interventi su carcere, diritto, controllo
pp. 304; euro 24,50 Aihwa Ong
Neoliberalismo come eccezione Cittadinanza e sovranità in mutazione
pp. 256; euro 22,00
Mauro Bertani - Paolo Curci - Cesare Secchi L’illusione dell’ultima parola
Alcuni casi di coscienza in psichiatria e psicoanalisi Storie e dialoghi
pp. 272; euro 22,50
I libri di Omar
Omar Calabrese Il Neobarocco
Forma e dinamiche della cultura contemporanea Presentazione di Umberto Eco
pp. 464; euro 29,00 Daniele Guastini
Genealogia dell’immagine cristiana Studi sul cristianesimo antico e le sue raffigurazioni
pp. 256; euro 25,00
Marxismi
David Harvey Introduzione al Capitale
12 lezioni sul primo libro e sull’attualità di Marx pp. 328; euro 18,50; seconda edizione
VoLo publisher srl – Via della Zecca 55, 55100 Lucca Tel. 0583/494820 – Distribuzione PDE
www.lacasausher.it
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nostre discussioni e rappresentarono per me, e per molti di noi, una ventata d’aria fresca, che ci liberava dall’atmosfera un poco angusta delle opere di Lévi-Strauss. Lo spirito di amicizia e di so- lidarietà, che ci univa alla Cité, fu per me l’esperienza di un lavoro comune verso il quale non ho cessato di nutrire un sentimento più forte della nostalgia, e che più tardi ho ritrovato nel seminario di François Furet, in quello di Michel Foucault, in quello di Adelin Fiorato e in quello che io stesso animo alla Scuola normale con Jean-Claude Zancarini. Devo aggiungere che a quell’epoca, nel 1964, portai alla redazione della rivista “Les Temps Modernes”
un lungo articolo dal titolo ambizioso, Esperienza, manipolazione e discorso. Fu accettato e subito tradotto. Alla fine, Simone de Beauvoir ne bloccò la pubblicazione, per ragioni che ignoro. Fu una delusione dalla quale impiegai molto tempo per riprendermi.
Queste attività “politiche” e questo clima di contestazione
interna non piacevano affatto a Ruggiero Romano, tutt’altro; egli
condivideva con Carlo Diano, se non le idee politiche, almeno un
carattere che l’antica medicina degli umori avrebbe definito “atra-
biliare”. Sembrava infatti aver trascorso la vita impiegando tutto il
suo genio nel battibecco, e solo il suo talento, che pure era grande,
nei suoi libri. Ci era riuscito, e praticava, come pochi sanno fare, ciò
che il pittore Whistler ha definito, in un piccolo libro, “the gentle
art of making enemies”. Dopo aver letto la mia tesi (che avrebbe
voluto pubblicare, se avessi acconsentito ad apportarvi delle modifi-
che), decise che ero troppo “filosofo” e che bisognava dunque, per
usare le sue stesse parole, “spezzarmi le reni”. Mi indirizzò dunque
da due storici dell’École des hautes études, François Furet, l’astro
nascente, che aveva appena pubblicato, con Denis Richet, un libro
sulla Rivoluzione francese, e Alphonse Dupront, l’autore di una tesi
monumentale sull’idea di crociata, che non cessava di proseguire,
da anni, le sue inchieste sui pellegrinaggi in Francia. Rappresen-
tavano la vecchia e la nuova scuola. Dupront, le cui movenze as-
somigliavano a quelle di un grande prelato romano (si sussurrava
che avesse dei contatti in Vaticano), era circondato da una cerchia
di devoti, di curati e di zitelle che frugavano instancabilmente gli
archivi dipartimentali degli antichi “baliaggi” per l’inchiesta sulle
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devozioni popolari delle quali voleva, come l’abate Jean Rousselot aveva fatto per i patois, tracciare la mappa. Attorno a Furet, inve- ce, si riuniva un gruppo di giovani storici destinati a un brillante avvenire: Le Roy Ladurie, che voleva delineare un’“antropologia”
della Francia dell’Ancien régime, Daniel Roche che si occupava delle Accademie di provincia, André Burguière che si era lanciato nella “demografia storica”, Mona Ozouf che preparava un libro sulle feste rivoluzionarie, e molti altri. A quell’epoca, probabilmen- te a causa dell’influenza dello strutturalismo, molti storici cercava- no di “riciclarsi”, e flirtavano volentieri con i nuovi metodi. Furet e Dupront avevano pertanto intrapreso dei lavori che chiamavano di “semantica storica”, dedicati soprattutto all’analisi dei cahiers de doléances del 1789. Il progetto di Dupront era più modesto, ma più concreto: si trattava di stilare una sorta di indice analitico dei grandi temi e delle occorrenze più frequenti dei cahiers (l’inventario, insomma, di parole come “re”, “nazione”, “nobiltà” ecc., all’interno del loro contesto discorsivo). Le intenzioni di Furet erano invece più ambiziose. Sapendo che mi interessavo di linguistica, cominciò col propormi di tenere, per un anno, un seminario all’École, proposta che accettai con una leggerezza che, oggi, mi fa un po’ rabbrividire.
Fui ascoltato con cortesia, non senza una punta d’ironia condiscen- dente. Oltre a quello dei cahiers, vi era poi un altro progetto allo studio. Ci si chiedeva, infatti, come si potesse “sfruttare” il catalogo dei titoli della libreria francese nel XVIII secolo, quello che Bernard Quemada aveva costituito, con procedimento meccanografico, nel Centro studi del vocabolario francese di Besançon. Sostenuto e incoraggiato da Julien Greimas, col quale avevo discusso del progetto, proposi dunque un tentativo di applicare i metodi della disciplina che gli antropologi americani chiamavano “etnoscienza”.
Sono stato il primo a parlarne in Francia. Si trattava, in sostanza, di studiare dei campi semantici strutturati, come quello dei colori, o dei termini di parentela; ci si poneva la questione di sapere se era possibile tentarne un’applicazione al “corpus” dei titoli.
Il primo risultato di questo lavoro fu un articolo che Jean Sumpf
mi aveva chiesto per un numero della rivista “Langages”, dedicato
alla “sociolinguistica”, e che apparve nel 1968 con il titolo: Histoire
35
aut aut, 362, 2014, 35-47
Dimmi chi sei. Foucault e il dilemma della veridizione
PIER ALDO ROVATTI
1. Caratterizzazione del problema
La “veridizione” – come ce la propone Michel Foucault soprattutto in alcuni lavori del 1980-1981, e segnatamente nelle lezioni parigine sul governo dei viventi e nei seminari di Lovanio dedicati proprio ai modi di dire il vero
1– è un insieme articolato di questioni stori- che e teoriche che attraversano molti ambiti, dalla psichiatria alle pratiche della giustizia penale, e che fanno centro sullo sviluppo della confessione religiosa, a partire dal primo cristianesimo fino alle istituzioni del dopo-Riforma.
Foucault rielabora nel grandioso laboratorio di ricerca degli ulti- mi anni tutte queste questioni dopo aver lanciato, nelle pagine della Volontà di sapere del 1976, il pesante sasso della sessualità, un sasso che agitò parecchio le acque della cosiddetta cultura della liberazione di allora. Non mi soffermo sulla questione, abbastanza conosciuta anche se non sufficientemente chiarita: ricordo solo che essa gettò un ponte tra l’obbligo confessionale di dire la verità su se stessi e l’epoca della psicoanalisi, interpretando la “rivoluzione” freudiana in un senso completamente inabituale, cioè come elaborazione dell’e- redità della prescrizione (che risale fino agli antichi, come preciserà Foucault stesso) di scandagliare in profondità il proprio animo e di esplicitare questo esercizio in una forma di discorso che assumesse il carattere di racconto veridico di ogni singola soggettività.
1. Cfr. M. Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France, 1979-1980 (2012), trad. di D. Borca e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 2014; Id., Mal fare, dir vero.
Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio, 1981 (2012), trad. di V. Zini,
Einaudi, Torino 2013.
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Con Freud il dire la verità su se stessi diventerebbe decisa- mente centrale, caratterizzandosi come il racconto della sessualità individuale di ciascuno, una narrazione libera e insieme guidata dall’analista (in cui rivive la figura tradizionale del direttore di co- scienza), dotata di una carica antirepressiva e dunque liberatoria.
La genealogia foucaultiana metteva in dubbio tale carica liberato- ria, e non c’è davvero da stupirsi che abbia prodotto tante reazioni.
Dunque la veridizione apre una quantità di domande. Se però leggiamo i materiali di Lovanio, ora disponibili, a partire dalla luci- dissima conferenza inaugurale del 2 aprile 1981 e senza trascurare le significative interviste che Foucault rilasciò in quelle settimane, non può sfuggirci che le varie questioni tendono a concentrarsi su un fuoco problematico che riguarda il recente passato ma che ha a che fare soprattutto con la nostra attualità. È un problema irrisolto e che Foucault sembra ritenere non risolvibile. È anche una questione rilanciata al discorso penale (e quindi alle orecchie interessate che stanno ascoltandolo): consiste in una sorta di contraddizione, in uno stallo aporetico in cui va a cacciarsi la giustizia quando esige che la confessione dell’accusato di un grave crimine non possa limitarsi alla descrizione di ciò che ha fatto, cioè all’ammissione precisa ed esauriente della colpa di cui è accusato, ma debba rad- doppiarsi in un’ulteriore confessione relativa alla natura criminale che egli impersona. Non è più sufficiente che l’accusato dichiari:
“Ecco quello che ho fatto”. Deve anche dire la verità su se stesso, confessare – attraverso la sua esperienza – “chi è” un criminale, chi è lui in quanto criminale.
È come se la volontà di sapere si trasformasse in una “necessità”
di sapere. La società attuale ha bisogno di sapere dalla bocca del reo confesso che cosa è un crimine, perché lo si commette, e soprattutto quale è l’identità, la “vera” identità di un criminale. Il discorso penale ammette di non saperlo (e dunque di non sapere, per esempio, che cosa è un individuo “socialmente pericoloso”) e chiede a chi è supposto saperlo di produrre questa verità mancante.
Quello che normalmente accade è che tale richiesta non ottenga
alcuna risposta, ed ecco lo scacco. Il silenzio del criminale può
avere molteplici motivazioni di ordine soggettivo: non vuole o non
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riesce a dirne nulla, non lo sa neppure lui. Ma l’assenza di questo raddoppiamento della confessione vanifica il tentativo del potere giudiziario di far emergere il discorso di veridizione, senza di cui la verità appare inesorabilmente monca, o meglio: insignificante.
Prima di discutere alcune importanti implicazioni di pensiero contenute nello scenario che ho appena evocato, è bene indicarne la contestualizzazione puntuale nelle pagine di Foucault. Quello che ho chiamato il problema emerge in modo documentato soprattutto nell’ultima delle lezioni di Lovanio, quella del 30 maggio 1981, dove la cornice – storicamente – si sposta dalla responsabilità in- dividuale al rischio sociale. Il giudice chiede al pregiudicato “che individuo sei?” nel quadro di un’antropologia criminale imposta dalle esigenze dell’igiene pubblica, quando verso la metà dell’Otto- cento – dice Foucault – l’attenzione si sposta dai “grandi crimini”
alla sorveglianza complessiva dello spazio urbano e al tentativo di controllare i conflitti sociali. I fenomeni di “degenerescenza” ven- gono allora studiati attraverso nuove categorie differenziali (come l’esibizionismo, la cleptomania, il sadismo ecc.) e nella prospettiva di una molteplicità di pericoli virtuali ai danni del “corpo” collet- tivo. Insomma, questo interesse per le caratteristiche individuali, sia del folle sia del delinquente, questa indagine rivolta sempre di più ai “segreti” nascosti del soggetto impone una sovversione dell’idea tradizionale di confessione, una diversa “ermeneutica del soggetto” e quindi una diversa “tecnica” di decifrazione: da atto semplicemente imputabile, il crimine diventa un atto significativo per la profilassi e la cura di un corpo sociale potenzialmente malato.
Non c’è bisogno di evidenziare, tanto è manifesta, la continuità che di qui porta alla scena del nostro presente, nel quale, ormai, la cultura è esplicitamente terapeutica e la parola “medicalizzazione”
si disloca dalla medicina in senso stretto alla società nel suo para-
digma complessivo, omnes et singulatim, come aveva preconizzato
Foucault nella sua diagnosi del neoliberalismo. Una significazione
che da allora viene accanitamente perseguita (si pensi solo allo
sviluppo imponente delle scienze del cervello), ma che, quando
poi viene messa alla prova, genera oscillazioni, contraddizioni e
paradossi. Foucault adopera una serie di termini (“scheggia”, “pia-
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aut aut, 362, 2014, 49-74
Il management di sé e degli altri
MASSIMILIANO NICOLI LUCA PALTRINIERI
L economista premio Nobel Herbert Simon era solito ironizzare sul mito dell’econo- mia di mercato attraverso un esperimento mentale: se un extraterrestre sorvolasse la terra e fosse dotato della capacità di vedere i mercati colorati di rosso e le imprese colorate di verde, vedrebbe delle immense distese di verde e delle piccole macchie rosse. Soffermiamoci su questa considerazione: se da una parte il pensiero neoliberale celebra il mercato come la perfetta incarnazione del laissez-faire e dall’altra i suoi critici ne sottoli- neano gli aspetti alienanti per cui tutto, comprese le nostre vite, può essere messo in vendita, entrambi sostengono che le società neocapitaliste sono caratterizzate dal trionfo del mercato. Eppure è innegabile che la maggior parte degli esseri umani in Europa e in tutti i cosiddetti paesi avanzati passa la maggior parte della propria vita all’interno di un’organizzazione molto particolare: l’azienda capitalista. Uno degli aspetti peculiari dell’organizzazione azien- dale è proprio il fatto che la produzione sembra qui sfuggire ai dogmi del libero mercato per fare posto a un modello gerarchico e disciplinare che lascia ben poco spazio alla “libertà” dei singoli.1
A un primo sguardo, lo stesso dell’extraterrestre di Simon, la promessa di libertà del liberalismo politico moderno sembra essere
1. Su questo punto si veda per esempio D. Courpasson, L’action contrainte. Organisations liberales et domination,
PUF, Paris 2000, passim; P.-Y. Gomez, H. Korine, L’entreprise dans la démocratie. Une théorie politique du gouvernement des entreprises, De Boeck, Bruxelles 2009.
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in contraddizione non solo con l’organizzazione taylorfordista del lavoro ma anche con le sue successive trasformazioni, che tolgo- no con una mano la libertà che sembrano concedere con l’altra.
Così, per esempio, è stato notato a più riprese che il bisogno di empowerment, o il bisogno di accrescere la responsabilità dei di- pendenti espresso dalle organizzazioni postfordiste, si accompagna a un’ipertrofia dei meccanismi di controllo che sembra paradossal- mente incidere in maniera negativa sui reali margini di azione degli individui. In questo senso, il profilo del lavoro dipendente sembra essere sempre più caratterizzato da una forma di responsabilità senza autonomia. La letteratura critica del “managerialismo”, in particolare quella che si è sviluppata intorno alla storia della con- tabilità, ha insistito su questa contraddizione, mostrando come l’individuo disciplinato nell’ambito del lavoro rappresenti il lato oscuro del libero agente che scambia le sue merci sul mercato.
2Il problema di tali letture, che certo dipingono degli stati di fatto, è che spesso presuppongono la coincidenza tra stato di natura e libertà degli individui, libertà che sarebbe in un secondo tempo limitata sulla base degli imperativi organizzativi, come se i meccanismi di controllo della produzione “soffocassero” il naturale anelito creativo di ciascuno, limitandone la spontanea iniziativa, frustrandone lo spirito d’impresa e di innovazione.
In questo modo si rimprovera al moderno management ciò che si rinfacciava al vecchio taylorismo: il fatto di non prendere ab- bastanza sul serio le potenzialità creative delle “risorse umane”.
Ma soprattutto, contrapponendo la libertà dell’individuo ai fini alienanti dell’impresa, si perde di vista il fatto che l’integrazione dell’azione dei singoli ai fini dell’organizzazione aziendale si è fatta e si fa principalmente attraverso la generalizzazione e l’estensione del modello dell’impresa agli individui stessi.
32. Cfr. tra i numerosi articoli in questo senso, P. Miller, Accounting and the Construction of the Governable Person, “Accounting, Organization and Society”, 3, 1987, pp. 235-266; È.
Chiapello, Accounting and the Birth of the Notion of Capitalism, “Critical Perspectives on Accounting”, 3, 2007, pp. 263-296; P. Labardin, M. Nikitin, Accounting and the Words to Tell It, “Accounting Business and Financial History”, 2, 2009, pp. 149-166.
3. Cfr. M. Nicoli, Io sono un’impresa. Biopolitica e capitale umano, “aut aut”, 356, 2012,
pp. 85-99.
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L’individuo-impresa
Diventare “imprenditori di sé”: questo slogan riassume la tecnolo- gia principale attraverso la quale il management, dagli anni novanta a oggi, ha cercato di migliorare le performance dei singoli. Non a caso, il tema dell’“imprenditore di se stesso” ricorre come un mantra nella letteratura non solo manageriale dalla fine degli anni ottanta ai nostri giorni. Se da una parte le imprese hanno sollecitato dei programmi di formazione e di sviluppo personale all’insegna dell’autoimprenditorialità, dall’altra non si contano gli appelli di sedicenti coach, psicologi, esperti di carriera a diventare “manager di se stessi” e “a reinventare la propria carriera come un’impresa individuale”.
4La formulazione classica, in questo senso, è quella data da Bob Aubrey, un consulente americano trasferitosi in Fran- cia negli anni settanta, nel suo bestseller Le travail après la crise:
Nel vocabolario classico del lavoro (disoccupazione, impiego, carriera, ferie, salario, pensione e altri termini di questo tipo) il salariato è in una relazione di dipendenza nei confronti dell’impresa che lo impiega. Ma se l’individuo prende su di sé la responsabilità del suo lavoro, inverte automaticamente i ruoli di individui e imprese. In questo senso diventa più pertinente utilizzare il vocabolario dell’impresa per descrivere come l’in- dividuo debba vendere e gestire il suo lavoro su un mercato.
Ogni lavoratore deve cercare un cliente, posizionarsi su un mercato, stabilire un prezzo, gestire dei costi, investire nello sviluppo di sé e formarsi. Insomma, ritengo che dal punto di vista dell’individuo il lavoro è la sua impresa, e il suo sviluppo si definisce come un’impresa di sé.
5L’individuo al lavoro è invitato a descriversi come un’impresa che vende le sue merci su un mercato: non a caso questa forma di “la- voro su di sé” nella forma dell’autoimprenditoria coincide con la
4. W. Bridges, Creating You & Co. Learn to Think Like the
CEOof Your Own Career, Da Capo Press, Cambridge (Mass.) 1998, pp.
IX-
XX.
5. B. Aubrey, Le travail après la crise. Ce que chacun doit savoir pour gagner sa vie au 21
esiècle, InterÉd., Paris 1994, p. 85.
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aut aut, 362, 2014, 75-100
La fine di un mondo?
Foucault e la veridizione cristiana
MAURO BERTANI
I n molti, e persino tra i suoi lettori e commen- tatori più acuti e perspicaci, hanno faticato allorché hanno tentato di individuare le ra- gioni – teoretiche, storiografiche, metodologiche e addirittura biografiche – plausibili di quello che è parso un improvviso scarto e un vertiginoso salto: quello che sarebbe stato compiuto da Mi- chel Foucault tra il 1979 e il 1980-1981. Dopo essersi dedicato all’analisi della ratio dell’ars gubernatoria legata al liberalismo classico prima, e alla pratica governamentale neoliberale poi (a cui, secondo taluni critici, sarebbe stato condotto da una certa consonanza e simpatia), dopo avere ripercorso nel dettaglio la Gesellschaftspolitik e i fondamenti della politica economica dell’ordoliberalismo tedesco e dopo avere ricostruito la “genera- lizzazione” del modello dell’Homo oeconomicus in ogni ambito e forma di comportamento umano da parte del neoliberalismo della Scuola di Chicago, tutto sarebbe improvvisamente mutato. Con il corso al Collège sul Governo dei viventi e con quello a Lovanio dell’anno successivo su Mal fare, dir vero, infatti, Foucault sareb- be, misteriosamente e incomprensibilmente, sprofondato in una vasta e remota plaga, rappresentata dal cristianesimo dei primi secoli (attratto, secondo altri critici, da un’antica fascinazione su di lui – che si era formato, come ha detto una volta, dai “buoni vecchi padri” – esercitata da quell’unicum storico che è una re- ligione, la sola, trasformatasi in istituzione: la chiesa cattolica), per poi da qui muovere verso una falda ulteriore, costituita dal
Gv., 14, 3
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mondo antico e tardo antico, aprendo così un ciclo di indagine che solo la morte avrebbe alla fine interrotto.
E tuttavia credo che lo sconcerto o lo stupore possano venire dissipati rammentando che Foucault si collocava deliberatamente ai margini delle discipline costituite e delle tradizioni consolidate, con le loro geografie e i loro calendari, le loro ripartizioni e le loro successioni, per rimettere in discussione le pretese e il valore di verità da esse rivendicati. Ciò comporta che il significato (e l’eventuale valore) delle indagini da lui compiute non andrebbe ricercato in altro se non nella specificità delle problematizzazioni effettuate. E che i vari campi e oggetti indagati non lo siano a titolo di supposti universali invarianti di cui solo una philosophia perennis saprebbe dar conto in termini di totalità, scienza e così via. Foucault ne parlava piuttosto (nell’Archeologia del sapere) come di “referenziali”, punti di vista definiti da veri e propri “re- gimi”, ogni volta differenti, che ci indicano come si stabiliscono storicamente le posizioni, le forme e gli orizzonti del sapere e delle formazioni discorsive che lo tramano, per rendere evidente che viviamo immersi in un universo di discorsi – rappresentati dagli enunciati, dalle “cose dette”, dall’“effettivamente detto” o suscet- tibile di esserlo – che delimita il quadro in cui pensiamo, agiamo, viviamo, escludendo alcune possibilità e privilegiandone altre, determinando un certo modo di conoscere gli oggetti e fissando alcune delle modalità in base alle quali ci situiamo come soggetti nei confronti di tali oggetti. Per Foucault si trattava, insomma, di mettere in atto una forma di radicale nominalismo storico desti- nato a dissolvere, insieme, l’identità dei concetti che la filosofia e i vari saperi utilizzano e la pretesa perennità degli oggetti che vi vengono fatti corrispondere.
Lo ha fatto nella forma di una pura descrizione archeologica,
la quale si riferisce all’archivio, ovvero all’insieme di tracce docu-
mentarie che si sono sistematicamente e metodicamente costituite
nel corso del tempo, che si sono organizzate in forma di discorsi
che si distribuiscono in base a un regime di rarità, dispersione,
eterogeneità. E tra gli archivi da lui delimitati e indagati, uno in
particolare ha accompagnato il lavoro di Foucault dall’inizio alla
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fine, come lui stesso ha sovente ripetuto, ovvero quello relativo ai “rapporti tra soggetto e verità”. Lo ha affrontato descrivendo i diversi modi di soggettivazione definiti dai vari giochi di verità succedutisi nella storia. Oggi noi possiamo disporre, retroattiva- mente, di uno schema generale che va dal soggetto etico antico a quello che già nella Storia della follia aveva chiamato l’Homo psychologicus formato nel corso del tempo da tutta una pletora di saperi che vanno dalla nobile Psychologia rationalis elaborata nelle università luterane, alla fisiologia e alla medicina mentale ottocentesca, a saperi frusti come l’antropologia e la criminologia tra Ottocento e Novecento, per giungere fino alla psicoanalisi. La ricostruzione genealogica organizzata di tale storia, che Foucault ha incessantemente perseguito nei suoi libri e nei suoi corsi, ci mostra così che alla fine, forse, le scienze della psiche, e con esse, dunque, la stessa psiche, non saranno state che un episodio nella plurimillenaria storia della costituzione di sé del soggetto umano in Occidente, nella storia dei modi, delle procedure, delle tecniche, dei regimi, per mezzo dei quali gli uomini hanno organizzato una riflessione su di sé e il governo di sé (e degli altri).
Una delle lezioni fondamentali che Foucault ci ha lasciato, infatti, è quella relativa alla necessità di iscrivere le vicende dei saperi della psiche e delle istituzioni che vi si correlano nella storia delle tecniche di governo di sé. Al termine della quale, aveva mostrato nel corso del 1979, discutendo in particolare la teoria del “capitale umano”
e le analisi di Gary Becker, la “psicologia” finisce con l’entrare
“nella definizione dell’economia”, poiché lì incontriamo, infine, quella forma di razionalità politica specificamente moderna che è costituita dalle nuove modalità di presa in carico della soggettività rappresentata dalle “tecniche comportamentali”. Di queste parlava nel corso sulla “nuova ragione governamentale” liberale, destinata a fungere da vero e proprio “quadro generale della biopolitica”
(ma avrebbe potuto aggiungervi senza difficoltà gli stessi sviluppi
delle neuroscienze), sostenendo che erano queste ad aver consen-
tito di incorporare il vecchio Homo psychologicus all’interno del
contemporaneo Homo oeconomicus, quell’uomo “eminentemente
governabile”, come lo aveva chiamato, la cui anima è diventata
101
aut aut, 362, 2014, 101-117
Michel Foucault e il “sé” cristiano
PHILIPPE CHEVALLIER
Michel Foucault e il cristianesimo:
un appuntamento mancato?
Il 6 maggio 1980 Michel Foucault si trova presso la comunità gesuita, al 42 di rue de Grenelle a Parigi, per discutere con sei in- tellettuali cattolici: due americani, un messicano, due francesi e un colombiano. Ha terminato da qualche mese il suo corso al Collège de France, in cui, per la prima volta, affronta di petto gli scritti dei Padri cristiani del II - V secolo (Erma, Tertulliano, Cassiano ecc.). Di questo incontro con un gruppo composto per la maggior parte da preti gesuiti
1non resta alcuna traccia nelle biografie di Foucault.
Sappiamo che è avvenuto grazie al suo organizzatore, padre James Bernauer, oggi professore al Dipartimento di filosofia del Boston College,
2che all’epoca seguiva i corsi di Foucault al Collège de France. Questo seminario misterioso assomiglia in effetti a un appuntamento mancato, segno della difficoltà, per i foucaultiani così come per i teologi, di congiungere, in un discorso ponderato e non solamente biografico o dossografico, Foucault e il cristiane- simo. Difficoltà paradossale, se ricordiamo che il cristianesimo è l’epoca culturale esplorata con più costanza dal filosofo francese,
Fonte originale: Michel Foucault et le “soi” chrétien, “Astérion”, 11, 2013.
1. A eccezione di Alfonso Alfaro, dottorando messicano che lavorava all’epoca con Roland Barthes.
2. La sua testimonianza è riportata in J.R. Carrette, “Prologue to a confession of the
flesh”, in M. Foucault, Religion and Culture, a cura di J.R. Carrette, Manchester University
Press, Manchester 1999, p. 3. Ringraziamo calorosamente James Bernauer, non solo
per le informazioni supplementari che ha voluto darci, ma anche per i suoi consigli e
incoraggiamenti.
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da Storia della follia (1961) all’ultimo corso al Collège de France, Il coraggio della verità (1984).
Partecipano al “seminario” del 6 maggio 1980, tra gli altri, padre Gustave Martelet, ispiratore dell’enciclica Humanae vitae
3e con- sultore della Commissione teologica internazionale, padre Charles Kannengiesser, specialista di Attanasio e professore all’Istituto cattolico di Parigi, padre William Richardson, grande figura della fi- losofia americana, nella quale ha contribuito a introdurre il pensiero di Heidegger, padre Mario Calderón, sociologo che sarà in seguito molto impegnato nella teologia della liberazione in Colombia.
L’incontro ha luogo su iniziativa di Foucault, che aveva mani- festato a James Bernauer il desiderio di discutere del suo lavoro con dei teologi. L’incontro tuttavia non approda a nulla, stando a quanto dice lo stesso organizzatore, probabilmente a causa della composizione dell’assemblea: nel piccolo gruppo sono presenti solo due docenti di teologia,
4cioè solamente due persone in grado di illuminare il filosofo sui vari punti di erudizione storica che lo interessavano in quel periodo. Foucault è probabilmente deluso da quest’assemblea troppo moderna di cristiani sociologi, linguisti, heideggeriani, lacaniani, più preoccupati del ruolo della chiesa nella società contemporanea che della sua storia. Soprattutto, Fou- cault, quel giorno, non incontra nessun membro del corpo docente delle facoltà gesuite di Parigi, il Centro Sèvres, luogo importante per la riflessione teologica, a cinquecento metri da lì.
5Anche se vicina geograficamente, la comunità di rue de Grenelle alla quale appartiene la maggior parte dei gesuiti presenti, è relativamente decentrata rispetto alla vita intellettuale del Centro Sèvres. È una
3. J.E. Smith, Humanae Vitae. A Generation Later, The Catholic University of America Press, Washington 1991. Questa enciclica sulla morale sessuale coniugale, che condanna la contraccezione, non poteva non interessare Foucault.
4. Padre Gustave Martelet e padre Charles Kannengiesser.
5. A quell’epoca, al Centro Sèvres, insegnavano alcune delle grandi figure della teolo- gia e dell’esegesi francese, tra cui il teologo Bernard Sesboüe, i biblisti Paul Beauchamp, Jacques Guillet e Xavier Léon-Dufour. Anche padre Joseph Goetz, antropologo e storico delle religioni di fama mondiale, era iscritto quell’anno alla comunità del Centro Sèvres.
Quanto a padre Gustave Martelet, non era un professore titolare del Centro Sèvres, ma un
collaboratore (Catalogus Provinciae Galliae Societatis Jesu, Ineunte Anno, 1980). Come già
ricordato, padre Kannengiesser insegnava presso l’Istituto cattolico di Parigi.
103
comunità che accoglie innanzitutto molti missionari di passaggio – con un’importante attività di foresteria – così come gesuiti stranieri impegnati in “studi speciali”, che hanno cioè terminato gli studi teologici e continuano la loro formazione in altre materie, spesso per un terzo ciclo. Se l’assemblea che si riunisce intorno a Fou- cault testimonia la vitalità intellettuale della Compagnia di Gesù in quell’epoca, essa colpisce per il suo eclettismo. Lo scambio andò a vuoto, soprattutto per l’imprecisione iniziale della richiesta.
6Sembra che un tale appuntamento mancato si sia prodotto an- che nell’ambito degli studi foucaultiani, visto quanto poco trattata continua a essere la questione cristiana in Foucault, spesso ridotta alla sua espressione più semplice, quella di un’esacerbazione del controllo degli individui, la cui base sarebbe la triade del potere pastorale: soggettività, sessualità, verità. Unica eccezione in lingua francese fu la relazione di Michel Senellart a un convegno all’Uni- versità di Parigi XII nel 2001,
7occasione per una delle prime analisi di un corso di Foucault allora sconosciuto, Del governo dei viventi (1980).
8Sconosciuto poiché ancora inedito, beninteso. Salvo che alcuni corsi inediti erano circolati sottobanco molto prima della loro pubblicazione ufficiale, attraverso testimonianze, edizioni straniere o estratti pubblicati qua e là, come nel caso di “Bisogna difendere la società” (1976) o di Nascita della biopolitica (1979).
L’interesse per i trattati cristiani dei primi secoli sul battesimo e la penitenza fu minimo (per usare un eufemismo), sebbene allo studio di questi testi Foucault avesse assegnato una posizione centrale nel 1980, nella forma lenta e meticolosa del commento, che diventerà lo stile degli ultimi corsi.
E tuttavia le lezioni che compongono Del governo dei viventi lasciano intendere qualcosa di assolutamente sorprendente e
6. “[Foucault] mi aveva chiesto di invitare persone con le quali potesse parlare del suo lavoro. La direzione che il suo lavoro sul cristianesimo stava prendendo non era chiara. Ho quindi invitato un gruppo variegato” (testimonianza di James Bernauer raccolta dall’autore, 28 marzo 2012).
7. M. Senellart, La pratique de la direction de conscience, in F. Gros, C. Levy (a cura di), Foucault et la philosophie antique, Kimé, Paris 2003.
8. M. Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France, 1979-1980 (2012), a
cura di M. Senellart, trad. di D. Borca e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 2014.
119
aut aut, 362, 2014, 119-136
Da dove viene il sé?
La forza del dir-vero e l’origine dell’ermeneutica del sé
LAURA CREMONESI, ARNOLD I. DAVIDSON, ORAZIO IRRERA, DANIELE LORENZINI, MARTINA TAZZIOLI
1. La politica di noi stessi
Per molto tempo, e a tratti ancora oggi, il pensiero del cosiddetto
“ultimo” Foucault è stato presentato più o meno esplicitamente come una rottura radicale nei confronti delle sue analisi degli anni settanta sul potere e sulla governamentalità, e come un modo di pren- dere congedo dalla politica. La pubblicazione dei corsi al Collège de France degli anni ottanta, e di una serie di altri testi e conferenze dello stesso periodo, ha però definitivamente smentito questa linea interpretativa, mostrando come, pur restando sostanzialmente impermeabili alla scena politica immediata, le analisi foucaultiane delle arti di vivere greco-romane non rappresentino affatto uno smarcamento, quanto piuttosto un prolungamento dello studio della governamentalità inaugurato nel 1978.
1Conclusione evidente se si pensa agli ultimi due corsi sul Governo di sé e degli altri
2e alle conferenze pronunciate a Berkeley nell’autunno del 1983,
3incen- trati come noto sulla parrhesia politica, platonico-socratica e cinica;
conclusione al contrario ben più ostica da giustificare, e ancora largamente misconosciuta, se applicata alle analisi foucaultiane del cristianesimo dei primi secoli, dell’esperienza antica degli aphro-
1. Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France, 1977- 1978 (2004), a cura di M. Senellart, trad. di P. Napoli, Feltrinelli, Milano 2005, p. 88 sgg.
2. Cfr. Id., Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France, 1982-1983 (2008), a cura di F. Gros, trad. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2009 e Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri
II. Corso al Collège de France, 1984 (2009), a cura di F. Gros, trad.
di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2011.
3. Cfr. Id., Discorso e verità nella Grecia antica (1983), a cura di J. Pearson, trad. di A.
Galeotti, Donzelli, Roma 1996.
120
disia e delle nozioni di “cura di sé” e di “estetica dell’esistenza”, sviluppate nei corsi al Collège de France tra il 1980 e il 1982 e negli ultimi due volumi della Storia della sessualità.
4Ebbene, proprio ri- spetto a quest’ultimo problema, due conferenze tenute da Foucault nell’autunno del 1980, e recentemente pubblicate in italiano con il titolo Sull’origine dell’ermeneutica del sé,
5forniscono la chiave di lettura più preziosa e gli spunti di riflessione più interessanti al fine di cogliere la sostanziale coerenza del progetto filosofico-politico dell’“ultimo” Foucault, nonché la sua opera di radicale rielabora- zione delle idee tradizionali di politica ed etica.
Le conferenze Sull’origine dell’ermeneutica del sé sono state pro- nunciate per la prima volta da Foucault il 20 e il 21 ottobre 1980 all’Università della California, Berkeley, e nuovamente il 17 e il 24 novembre 1980 al Dartmouth College, nel New Hampshire, con alcune lievi ma significative variazioni. Le tematiche che Foucault vi affronta e il materiale storico-filosofico che vi discute sono so- stanzialmente gli stessi che avevano costituito il nucleo delle lezioni del corso al Collège de France Del governo dei viventi, tenuto tra il gennaio e il marzo di quello stesso anno. E tuttavia, come spesso accade, le conferenze e i seminari oltreoceano sono, per Foucault, un’occasione preziosa per riorganizzare e ripensare le analisi con- dotte nei propri corsi francesi, e talvolta per svilupparle, anticipando così linee di evoluzione inattese. Per Foucault, del resto, il lavoro intellettuale non si configura mai come la ripetizione del medesimo.
Veri e propri laboratori di sperimentazione filosofica, le conferenze e gli interventi tenuti da Foucault negli Stati Uniti, e in molti altri paesi in tutto il mondo, meritano quindi un’attenzione speciale e non vanno semplicemente “appiattiti” sui corsi al Collège de
4. Cfr. M. Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France, 1979-1980 (2012), a cura di M. Senellart, trad. di D. Borca e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 2014; Id., Subjectivité et vérité. Cours au Collège de France, 1980-1981 (di prossima pubblicazione); Id., L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France, 1981-1982 (2001), a cura di F. Gros, trad. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003; Id., L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2 (1984), trad. di L. Guarino, Feltrinelli, Milano 1984; Id., La cura di sé. Storia della sessualità 3 (1984), trad. di L. Guarino, Feltrinelli, Milano 1985.
5. Cfr. Id., Sull’origine dell’ermeneutica del sé. Due conferenze al Dartmouth College
(1980), a cura di mf / materiali foucaultiani, Cronopio, Napoli 2012.
121
France o sui libri pubblicati da Foucault stesso. Nelle conferenze Sull’origine dell’ermeneutica del sé, in particolare, Foucault procede a una selettiva riorganizzazione dei temi trattati in Del governo dei viventi, introducendoli tuttavia all’interno di una cornice teorica caratterizzata da tre “novità” cruciali, delle quali sarebbe impossibile sottostimare l’importanza e le conseguenze teorico-politiche.
Innanzitutto, Foucault inscrive esplicitamente le proprie analisi – quelle di Berkeley e del Dartmouth College e, da un certo punto di vista (retrospettivamente), tutta la propria produzione degli anni ottanta – nel quadro di un progetto più generale: la “genealogia del soggetto moderno”.
6Per oltrepassare la filosofia del soggetto, infatti, Foucault afferma di non aver seguito (e di non voler seguire) né la strada del positivismo logico, né quella dello strutturalismo, ma – sulla scorta di Nietzsche – di voler porre “la questione della storicità del soggetto”, studiando “la costituzione del soggetto attraverso la storia che ci ha portato fino al concetto moderno del sé”.
7Se lo scopo delle analisi di Foucault è quello di ricostruire una genealogia del soggetto (occidentale) moderno, e se il metodo che egli intende utilizzare è quello di “un’archeologia del sapere”, o meglio, come aveva affermato in Del governo dei viventi, di un’“(an)archeologia del sapere”,
8l’oggetto di tali analisi è definito da Foucault nei termini di una serie di “tecnologie” intese come “l’articolazione di certe tecniche e di certi tipi di discorso sul soggetto”.
9È a Berkeley, nell’ottobre del 1980, che Foucault parla per la prima volta, a questo proposito, di “tecniche”
10o “tecnologie del sé” – si tratta del secondo elemento di novità –, definendole (ac-
6. Ivi, p. 33. In Del governo dei viventi, al contrario, il quadro teorico nel quale Foucault inscrive le proprie analisi è quello di uno studio del “governo degli uomini attraverso la manifestazione della verità nella forma della soggettività”, M. Foucault, Del governo dei viventi, cit., p. 88.
7. Id., Sull’origine dell’ermeneutica del sé, cit., p. 35.
8. Id., Del governo dei viventi, cit., p. 107.
9. Id., Sull’origine dell’ermeneutica del sé, cit., p. 37.
10. Durante la lezione del 25 marzo 1981 del corso al Collège de France Subjectivité et
vérité, Foucault definisce le “tecniche” come “procedure regolate, modi di fare che sono
il prodotto di una riflessione e che sono destinati a operare, su un oggetto determinato, un
certo numero di trasformazioni. Queste trasformazioni sono ordinate a certi fini che si tratta
di realizzare attraverso di esse”.
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aut aut, 362, 2014, 137-147
La pratica filosofica di Michel Foucault
TIZIANO POSSAMAI
1. Rinascite
1Pur avendo lavorato nei suoi ultimi anni di vita sul tema delle tecniche e della cura di sé, Michel Foucault non ha mai preso posizione, che io sappia, sul fenomeno delle pratiche filosofiche come andava emergendo in quegli stessi anni in Europa a partire, non a caso, dalla Germania. Qui la rinascita della filosofia pratica, di cui quel fenomeno si può considerare un’estrema avanguardia, ha una lunga e onorata tradizione, ricostruita dettagliatamente da Franco Volpi in un saggio del 1980, per molti aspetti premonitore.
2Chissà cosa avrebbe pensato e scritto Foucault, se ne avesse avuto l’occasione e il tempo, di quell’estrema avanguardia. Me lo immagino molto ironico, ma di un’ironia non immune da una certa dose di blochiana speranza. Chissà se avrebbe intravisto tra le sue pieghe una qualche corrispondenza con ciò che stava rimuginando in quegli anni. E qui il pensiero va non tanto alla sua idea di estetica dell’esistenza, ma soprattutto a quelle esperienze
“fuori programma”, al di là dei consueti schemi istituzionali, di cui Foucault non ha mai smesso di sostenere la necessità e di auspicare
1. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), trad. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2005, p. 578.
2. F. Volpi, La rinascita della filosofia pratica in Germania, in C. Pacchiani (a cura di), Filosofia pratica e scienza politica, Francisci, Abano Terme 1980. In questo saggio Volpi indica nelle acute analisi di Hannah Arendt (Vita activa, 1958, trad. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1964) e nell’ermeneutica di Hans-Georg Gadamer (Verità e metodo, 1960, trad. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983) i contributi più autorevoli a quella rinascita, grazie alla riscoperta da parte di entrambi, e in particolare di Gadamer, “dell’attualità della filosofia pratica di Aristotele”.
Che cos’è dunque la libertà? Nascere è nascere dal mondo e al tempo
stesso nascere al mondo. Il mondo è già costituito, ma non è mai
completamente costituito. Sotto il primo rapporto noi siamo sollecitati,
sotto il secondo siamo aperti a una infinità di possibili.
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l’avvento. Credo che proprio il tentativo di sperimentare nuovi spazi del possibile, di sondare ciò che Heidegger chiamerebbe l’impensato, nel senso più letterale e meno oscuro del termine, sia l’aspetto che può maggiormente porre la ricerca di Foucault in dialogo fecondo con le pratiche filosofiche attuali, nelle loro più diverse declinazioni. E soprattutto queste pratiche con la sua ricerca, anche se, o proprio perché, la direzione di quest’ultima non si può certo dire sulla stessa linea delle prime.
Eppure, come ricordano Luther H. Martin, Huck Gutman e Patrick H. Hutton, curatori del seminario sulle “tecnologie del sé” tenuto da Foucault nel 1982 all’Università del Vermont, ciò che lo muoveva in quegli anni, alla pari di molti pionieri delle pra- tiche filosofiche, primo fra tutti Gerd Achenbach, era la volontà di prendere le distanze da una certa filosofia tradizionale: “Nella sua conferenza conclusiva Foucault disse che il suo interesse per il sé andava visto come un’alternativa alle tradizionali questioni filosofiche del tipo: ‘Che cos’è il mondo?’, ‘Che cos’è l’uomo?’,
‘Che cos’è la verità?’, ‘Che cos’è la conoscenza?’, ‘Come possiamo conoscere?’ ecc.”.
3Se questa presa di distanza, tuttavia, sembra poter avvicinare Foucault al mondo delle pratiche filosofiche come lo conosciamo noi oggi, in realtà il suo approdo, o se si preferisce il suo punto di ripartenza, è di tutt’altra natura. Sem- pre con le parole di Martin, Gutman e Hutton: “Nella tradizione di Fichte, Hegel, Nietzsche, Weber, Husserl, Heidegger e della Scuola di Francoforte, Foucault era interessato al problema che sapeva essere stato posto alla fine del Settecento da Kant: ‘Che cosa siamo noi nella nostra realtà attuale?’, ‘Che cosa siamo oggi?’;
si trattava cioè di affrontare ‘il campo della riflessione storica su noi stessi’”.
4Da questi interrogativi muovono le ricerche sul sé dell’ultimo Foucault, quella che è stata definita da molti la sua svolta soggettiva, e che Foucault a un certo punto chiama “ontologia storica di noi
3. L.H. Martin, H. Gutman, P.H. Hutton, “Introduzione”, in M. Foucault, Tecnologie del sé (1988), trad. di S. Marchignoli, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p.
X.
4. Ivi, pp.
X-
XI.
139
stessi” o “ontologia del presente”,
5modificando il senso di uno dei concetti cardine della nostra filosofia, quello appunto di ontolo- gia, che nel suo significato tradizionale non ha mai fatto parte del suo orizzonte di interessi e di studi.
6Con ontologia storica di noi stessi e del presente, infatti, Foucault non intende certo uno studio metafisico dell’ente o dell’essere in quanto tale, delle sue strutture universali e immutabili, bensì una riflessione su ciò che noi siamo, e su ciò che è il nostro presente, in quanto frutto di un percorso storico di emersione che, proprio per questo, potrebbe sempre essere qualcosa di diverso da ciò che è; uno studio, in breve, che assomiglia piuttosto a una genealogia.
In questa luce può risultare significativo che il passaggio agli studi sul sé da parte di Foucault, vissuto da non pochi come una sospetta inversione di rotta rispetto alle sue ricerche precedenti, sia avvenuto in concomitanza – siamo agli inizi degli anni ottan- ta – con l’apertura del primo studio privato di filosofia, ovvero con un’altra inversione o passaggio, vissuto anche questo non da pochi come sospetto: dalla rinata filosofia pratica tedesca alla neonata pratica filosofica di Achenbach. Entrambi i passaggi, a ben guardare, hanno a che fare con un cambio di rotta fino a un certo punto. Siamo al tempo stesso di fronte a due movimenti di pensiero di cui entrambi portano alle estreme conseguenze i presupposti. E bisognerebbe rendere conto di questa convergen- za, come pure delle divergenze che la caratterizzano. Provare a farlo significherebbe provare a dare voce anche al silenzio da cui siamo partiti.
5. “Mi sembra che la scelta filosofica con cui, oggi, dobbiamo confrontarci sia la seguente:
optare per una filosofia critica che si presenterà come una filosofia analitica della verità in generale, oppure optare per un pensiero critico che avrà la forma di un’ontologia di noi stessi, di un’ontologia dell’attualità: è questa la forma di filosofia che, da Hegel alla Scuola di Francoforte, passando per Nietzsche e Max Weber, ha fondato una forma di riflessione all’interno della quale ho cercato di lavorare” (M. Foucault, “Che cos’è l’Illuminismo?”, 1984, in Archivio Foucault 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, trad. di S.
Loriga, Feltrinelli, Milano 1998, p. 261).
6. Proprio perché, come egli stesso riconosce: “Non mi pare davvero necessario sapere
esattamente cosa sono. La cosa più importante nella vita e nel lavoro è diventare qualcosa
di diverso da quello che si era all’inizio” (M. Foucault, “Verità, potere, sé”, in Tecnologie
del sé, cit., p. 3).
140
È innanzitutto una questione di condizioni di possibilità, senza le quali evidentemente non ci può essere alcuna emergenza, né alcuna convergenza – o divergenza – in questa emergenza. Il che è già di per sé indicativo. Soprattutto se si considera che il tracciato di entrambi i percorsi, al di là di ogni micro o macro differenza, successo o fallimento, profondità e modalità di approccio, acquisi- sce il suo significato più proprio nella misura in cui si muove verso una possibile trasformazione di quelle condizioni. È inoltre una questione di vicinanza e insieme soprattutto di distanza tra due modi di intendere la filosofia rispetto a una posta in gioco comune:
lo spazio della nostra libertà. Il suo possibile restringimento, la sua possibile apertura.
È precisamente di questo spazio in relazione alla pratica filoso- fica di Foucault ciò su cui ora vorrei provare a riflettere.
2. Trame
Per certi aspetti, nell’affrontare il campo degli studi sul sé l’ultimo
Foucault non fa che continuare ad approfondire l’ordito della sua
riflessione storica su come (non) viene al mondo un soggetto. Una
riflessione cominciata negli anni sessanta con Storia della follia e
Le parole e le cose e proseguita negli anni settanta con Sorvegliare e
punire e La volontà di sapere. Ciò che cambia, ciò che inverte ora la
sua rotta è semmai la trama di quell’ordito. Con uno spostamento
all’indietro e laterale (il suo “famoso” passo di granchio), Foucault
cerca di far luce sul nostro presente ancora una volta allontanan-
dosene, guardando al passato (coerenza dell’ordito). Alla storia
si erano rivolte anche le sue prime ricerche sulla dipendenza del
soggetto da sistemi di potere e di sapere che, nella misura in cui
contribuivano a costituirlo in quanto tale, lo facevano anche venire
meno in quanto tale: innanzitutto in quanto agente attivo della
propria stessa emergenza e produzione. Nelle sue ultime ricerche,
tuttavia, la storia non viene indagata da Foucault per mettere in
luce tale dipendenza, ma per rintracciare gli spazi di possibile
autonomia del soggetto rispetto a quei sistemi. Di conseguenza è
sul primo, e non sui secondi, che concentra la sua indagine micro-
fisica (inversione della trama). Il che non deve trarre in inganno,
Palestra
In questo spazio vogliamo dare ai lettori una te- stimonianza dell’interesse che ha suscitato il can- tiere foucaultiano presso gli studenti di filosofia di Trieste. Roberto Bertolini si è laureato nel febbraio 2014 con una tesi intitolata “Atti riflessi di verità.
Michel Foucault e la genealogia della confessione”.
Eugenio Giacomelli ha discusso nell’ottobre 2013
una tesi su “Critica e illuminismo nel pensiero di
Michel Foucault”. Alessandro Melosso ha presen-
tato nel febbraio 2014 un lavoro intitolato “Il pri-
sma riflessivo e lo specchio infranto. Sul gesto di
pensiero di Michel Foucault”.
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aut aut, 362, 2014, 149-155