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Discrimen » Corti europee e Corti nazionali fra legalità e prevedibilità

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fra legalità e prevedibilità

di Domenico Pulitanò

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Sulle Corti europee – di Strasburgo e di Lussemburgo – la gior- nata bolognese mi ha insegnato molte cose, e sollecitato a sapere di più sull’origine, le modalità di formazione, le culture di organi di grande e crescente importanza. Sono giudici il cui potere ha caratteristiche peculiari: un potere di jus dicere attraverso senten- ze, senza avere alle spalle un legislatore che possa intervenire sul contesto normativo nei modi e con la continuità con cui operano i legislatori nazionali. È una situazione che presenta aspetti para- dossali.

I dicta di Strasburgo o di Lussemburgo sono importanti, e giustamente valorizzati. Nessun dictum va accolto come fosse la parola definitiva. Quale che ne sia l’autorità formale, la giuri- sprudenza di qualsiasi Corte (più o meno) Suprema non si sot- trae al controllo critico, tanto più necessario quanto maggiore è l’autorità su cui si esercita. Un controllo senza potere, insito nell’esercizio della libertà di pensiero e di manifestazione del pensiero, che è orizzonte costituzionale anche della scienza giu- ridica, come ci ricorda un grande penalista che è stato anche giu- dice costituzionale1.

Oggi, dopo che la giurisprudenza di Strasburgo è entrata nel nostro circuito culturale, vale la pena domandarsi perché è di- venuta importante nel mondo del penale. Costituzione italiana e Convenzione edu sono documenti pressoché coetanei, figli (non gemelli) della medesima cultura dei diritti. Pur con diffe-

1. W. Hassemer , Perché punire è necessario, il Mulino, Bologna 2012, p. 68.

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renze (non marginali) nei contenuti, fra Costituzione e Conven- zione edu vi è una sostanziale omogeneità di valori; gli effetti dovrebbero essere di tendenziale sinergia.

Di fatto, l’ingresso della Convenzione edu e della giurispru- denza di Strasburgo nella cultura penalistica italiana è servito a rimediare a distorsioni applicative, e a far maturare sensibilità nuove.

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Propongo un esempio di fresca data: la sentenza delle Sezioni unite 27 aprile 2017, n. 40076, che, conformandosi alla sentenza De Tommaso della Corte edu, ha affermato il principio di di- ritto secondo cui l’«inosservanza delle prescrizioni generiche di vivere onestamente e di rispettare le leggi, da parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di sog- giorno», non integra violazione dell’art. 75, comma 2°, del c.d.

codice antimafia. La sentenza delle Sezioni unite parla di «su- peramento di una giurisprudenza di legittimità che, fino ad oggi, non mostra di essersi confrontata adeguatamente» con la pro- blematica delle prescrizioni non tassative inserite nella discipli- na delle misure di prevenzione; e si è impegnata nel «prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme», come richiesto dalle sentenze gemelle n. 349 e 348 del 2007.

L’interpretazione adottata è quella della Corte edu, la presa d’atto del difetto di determinatezza delle formule «vivere one- stamente» e «rispettare le leggi». La rilettura tassativizzante del diritto interno riguarda la fattispecie di cui all’art. 75, comma 2°

del codice antimafia, dalla quale vengono escluse le inosservanze delle predette prescrizioni, appunto perché non tassative e non suscettibili di una lettura tassativizzante (che viene esclusa sulla linea della sentenza De Tommaso).

Al di là del caso concreto, è interessante l’autocritica esplicita contenuta nella motivazione delle Sezioni unite. C’è voluto l’im- pulso venuto da Strasburgo per arrivare a una lettura del diritto italiano, sul punto che qui interessa, conforme a Costituzione, al principio di legalità/determinatezza.

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E sì che un impulso nella medesima direzione era già venu- to dalla Corte Costituzionale, in tempo non lontano, in forma meno esplicita: un’ordinanza di manifesta inammissibilità della questione di legittimità sollevata sul «non dar ragione di sospet- ti», con riferimento all’art. 25, comma 2°, della Costituzione.

L’ordinanza n. 354/2003 (rel. Flick), con una motivazione chia- ramente interpretativa, aveva distinto fra prescrizioni relative a specifiche e qualificate condotte, che configurano precisi obbli- ghi, e prescrizioni “di genere” riconducibili al paradigma dell’ho- neste vivere: «anch’esse funzionali alla ratio essendi della sorve- glianza speciale, ma non sono certo qualificabili alla stregua di specifici obblighi penalmente sanzionati».

L’indicazione ermeneutica dell’ordinanza del 2003, velata dal dispositivo di inammissibilità, non è stata accolta dalla giu- risprudenza ordinaria. E quando la questione di costituzionali- tà è stata riproposta, con riferimento al principio di legalità e al principio d’uguaglianza, la Corte Costituzionale l’ha respinta (sentenza n. 282/2010) argomentando che le prescrizioni generiche – tali se isolatamente considerate – nel contesto complessivo delle prescrizioni previste assumono «un contenuto più preciso, risol- vendosi nel dovere di adeguare la propria condotta ad un sistema di vita conforme al complesso delle predette prescrizioni, tramite le quali il dettato di vivere onestamente si concreta e si indivi- dualizza». Questo argomentare è stato presentato come coerente con la giurisprudenza in materia di legalità/determinatezza (sen- tenza n. 327/2008): sarebbe legittima la formulazione legislativa che consenta di «esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fonda- mento ermeneutico controllabile».

Aveva senso richiedere al sorvegliato speciale un tale giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta (l’agire in un certo mo- do) con la fattispecie astratta, cioè il precetto di «vivere onesta- mente» e di «rispettare le leggi»? Non aveva senso, hanno detto la Corte edu e le Sezioni unite. Non c’è un’ermeneutica che pos- sa dare concretezza precettiva, su fondamento controllabile, a for- mule che riecheggiano il “paragrafo del briccone”, esempio classi- co di ciò che non può essere un precetto penale. Il passo indietro della Corte Costituzionale nel 2010, rispetto alla pur non del tut-

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to esplicita ordinanza del 2003, ha riaperto problemi con i quali la giurisprudenza di legittimità non si è confrontata adeguatamen- te, come ora ammette la sentenza delle Sezioni unite.

Ben vengano, dunque, gli impulsi da Strasburgo. Dobbiamo accostarli con apertura (tendenzialmente) autocritica, probabili segnali di un nostro ritardo nel prendere sul serio principi radi- cati anche nella nostra Costituzione. La questione della legalità/

determinatezza è un punto particolarmente dolente.

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La consapevolezza di nostri ritardi e l’attenzione dovuta agli im- pulsi sovranazionali si combinano con l’esigenza di autonomia intellettuale, di non subalternità sempre e comunque. Di ciò è espressione la discussa sentenza n. 49/2015 della Corte Costitu- zionale, che ha additato un approccio verso la giurisprudenza di Strasburgo, del quale i commenti hanno rilevato la complessità e aspetti problematici. Può essere tentata una lettura in positivo, leggere un messaggio culturale non di distacco, ma di maggio- re coinvolgimento nella stessa produzione culturale attorno alla Convenzione e alla Corte edu? Anche la presa di distanza dalla giurisprudenza non consolidata può assumere il senso di apertura di spazi di dialogo, fra le Corti2 e non solo.

Problemi relativi al rapporto fra Corti Supreme sono venu- ti in rilievo nel noto caso Taricco, aperto da una sentenza della Corte ue cui hanno fatto seguito, nel mondo del diritto in Italia, reazioni divaricate fra ricezione e dissenso radicale. Eccezioni di legittimità costituzionale hanno sollevato il problema dei con- trolimiti; la Corte Costituzionale lo ha incanalato (scremando, cioè tacitamente non accogliendo, alcune questioni sollevate dai giudici remittenti) nella formulazione di quesiti interpretativi al- la Corte ue, con l’ordinanza n. 24/2017, che (come intitola uno

2. Riprendo questo spunto da O. Di Giovine, Antiformalismo interpretativo:

il pollo di Russell e la stabilizzazione del precedente giurisprudenziale, in “Diritto penale contemporaneo”, 2, 2015, p. 23: «l’impressione che la Corte Costituziona- le della sentenza n. 49/2015 parli formalmente al giudice rimettente, ma si rivolga sostanzialmente alla Corte edu».

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dei tantissimi commentatori) espone, ma non ancora oppone i con- trolimiti: una forma nella quale alcuni hanno colto un significato dialogico, altri un aspetto di ultimatum. Dopo la risposta della Corte ue, con la sentenza del 5 dicembre 2017, la vicenda può essere vista come un esempio vincente di strategia diplomatica, posta in essere da entrambe le Corti. Quali che siano i problemi lasciati aperti dalla seconda sentenza della Corte ue, il dialogo ha ottenuto risultati importanti, sia per il diritto penale italiano sia per gli equilibri della delicata costruzione europea.

Dietro le questioni del dialogo fra Corti, meritano attenzio- ne gli input provenienti dai giudici ordinari: le loro interpreta- zioni, i problemi sollevati, le culture che esprimono rispetto al campo di tensione fra garanzie liberali e funzionalità del law en- forcement penalistico. Resta presente, oggi come ieri, il rischio di non confrontarsi adeguatamente con principi di garanzia liberale che pongono limiti al ben intenzionato autoritarismo di consi- stenti filoni giurisprudenziali di casa nostra.

Un esempio: l’eccezione di illegittimità costituzionale in malam partem, sollevata dalla Corte di Cassazione in materia di confisca urbanistica, in dissenso dalla sentenza Varvara della Corte edu (dichiarata inammissibile dalla sentenza n. 49/2015).

Tale eccezione poggia sull’idea che la Costituzione italiana pos- sa essere matrice di controlimiti rispetto a principi di garanzia (di delimitazione del penale) della Convenzione edu; adombra con- flitti di principio fra Costituzione e Corte edu, alla luce di inter- pretazioni “autoritarie” di principi costituzionali. Uno scenario inquietante, sul piano non solo giuridico, ma etico-politico.

L’infondatezza dell’approccio della Corte di Cassazione (che non è oggetto di discussione nella sentenza “processuale”

della Consulta) sollecita una riflessione sulle sue premesse cultu- rali. L’autoritarismo ben intenzionato della giurisprudenza pone in luce un intreccio quanto mai delicato fra intenzioni di tutela di per sé apprezzabili e pretese di irrigidimento di istituti di con- tenuto autoritario. Un tale intreccio fa parte (accanto a filoni ga- rantisti) della cultura diffusa nella magistratura penale e rischia di deformare la stessa comprensione (o pre-comprensione erme-

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neutica) dei principi costituzionali: da garanzie nei confronti dell’autorità a controlimiti opponibili a garanzie liberali3.

Hanno cercato uno scudo nella sentenza n. 49/2015 le resi- stenze verso la sentenza De Tommaso, in talune successive deci- sioni di Tribunali italiani. Ma c’è davvero bisogno di un consoli- damento in altre decisioni? È la Grande Chambre che ha parlato, e ha messo in discussione inaccettabili deficit di legalità/determi- natezza nella disciplina delle misure di prevenzione (sia dei pre- supposti che del contenuto). Ciò che ha detto è il minimo che potesse essere detto: le opinioni concorrenti e parzialmente dis- senzienti mostrano la possibilità di ulteriori ragionevoli censure.

Non c’è nessun argomento di merito che possa essere speso per non conformarsi alla sentenza di Strasburgo così come è: le resi- stenze alla sentenza De Tommaso mostrano la vischiosità di ide- ologie e di prassi, quelle che le Sezioni unite hanno cominciato a guardare con occhio autocritico.

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Fra i topoi che guidano la giurisprudenza della Corte edu in ma- teria penale spicca l’idea della legalità-prevedibilità, agganciata all’art. 7 della cedu.

La Corte Costituzionale italiana ha osservato (sentenza n.

230 del 2012) che «il principio convenzionale di legalità risulta meno comprensivo di quello accolto nella Costituzione italiana (e, in generale, negli ordinamenti continentali). Ad esso resta, in- fatti, estraneo il principio della riserva di legge, nell’accezione re- cepita dall’art. 25 Cost.».

Tutti gli aspetti del principio di legalità, desumibili dall’art.

25 Cost., per l’ordinamento italiano hanno valenza di principi costituzionali. Anche di eventuali controlimiti, come mostrato dalla vicenda Taricco. L’idea di legalità/prevedibilità non può es-

3. Un esempio limite di capovolgimento di senso (del principio di respon- sabilità personale) è ravvisabile nell’eccezione di illegittimità costituzionale sulla legge ilva, in un punto che la Corte Costituzionale (sentenza n. 185/2013) ha dichiarato inammissibile «perché non se ne comprende il senso».

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sere intesa come alternativa alla riserva di legge, ma come inte- grazione, partendo dalla precomprensione ermeneutica della Con- venzione edu come neutra, ugualmente rispettosa dei diversi tipi d’ordinamento. Mi sembra questo il senso leggibile anche nella complessiva giurisprudenza della Corte edu sul principio di le- galità: la c.d. legalità europea come integrazione garantista, giam- mai come riduzione della legalità incorporata nei principi degli ordinamenti statuali.

«Secondo aspetto del principio di legalità» è stato definito dalla Corte Costituzionale italiana il principio di colpevolezza, nella sentenza sull’art. 5 c.p., n. 364 del 1998. La scusante dell’er- rore inevitabile sull’illiceità, come ritagliata dalla storica senten- za del 1988, funziona come prospective overruling: la sentenza che assolva per tale scusante afferma un’interpretazione che avrebbe dovuto già valere, ma che nel caso sub judice non basta a fondare un’affermazione di responsabilità colpevole; varrà (forse) per il futuro, resa riconoscibile dalla sentenza che l’ha dichiarata.

Sarebbe teoricamente regressivo recepire un linguaggio che ri- duca la legalità a prevedibilità, come fosse una buona concettua- lizzazione o dogmatica del diritto interno. Anche la prevedibilità della decisione va intesa essenzialmente come istanza critica, da in- corporare in un’ermeneutica emancipata da idee mitologiche (in- genuamente illuministiche) dell’onnipotenza delle leggi scritte, e capace di argomentare (di cogliere i significati normativi) anche sulla base di condivise premesse di valore.

Da tempo la dottrina penalistica ha colto il nesso fra coscienza dell’illiceità e formulazione delle fattispecie4: è un problema che interpella in prima battuta il legislatore, ma anche gli applicatori della legge quando si tratti di valutare retrospettivamente un fatto commesso. La realizzazione dolosa di un tipo di fatto costituente delitto, caratterizzato da un riconoscibile carattere offensivo, do- vrebbe essere sufficiente a fondare il rimprovero di colpevolezza, per il quale è necessaria (e sufficiente) la possibilità di coscienza dell’illiceità; in concreto, la volontà del fatto offensivo dovrebbe

4. Riferimenti in D. Pulitanò, L’errore di diritto nella teoria del reato, Giuf- frè, Milano 1976 (cfr. in particolare pp. 529 ss.).

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essere sufficiente a mediare (salvo che in situazioni eccezionali) una effettiva coscienza dell’illiceità.

Adottando il linguaggio strasburghese della legalità/preve- dibilità, diremmo che la prevedibilità del rimprovero dovrebbe essere un vincolo per la ricostruzione ermeneutica del precetto, innanzi tutto da parte dei suoi destinatari: criterio di selezione ermeneutica di tipi di fatto aventi caratteristiche che, se rifles- se nel dolo, fonderebbero in via normale una effettiva coscienza dell’illiceità. Il problema di una corretta informazione giuridica (e dell’eventuale errore indotto da fonte autorevole, che renda imprevedibile un giudizio di illiceità) verrebbe in rilievo con ri- guardo a fattispecie artificiali, di contenuto meno pregnante.

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Nella giurisprudenza della Corte edu su questioni italiane, il pro- blema della legalità-prevedibilità è stato portato in primo piano dal caso Contrada. Sul piano tecnico, è un caso che riguarda un pro- blema (il c.d. “concorso esterno” in reato associativo) al confine fra parte speciale e parte generale. Questo profilo merita di essere sot- tolineato: hanno a che fare con la parte generale molti fra i più de- licati problemi di interpretazione e applicazione della legge penale

La parte generale è piena di clausole generali, enunciazione di principi che devono essere tradotti in regole. I testi legislativi re- cepiscono importanti approdi della nostra civiltà del diritto, e ri- specchiano limiti di elaborazione su punti delicati. Tutti gli istituti fondamentali di parte generale hanno a che fare con presupposti e confini generali della responsabilità penale: talora ne restringono il campo (gli istituti della colpevolezza), talora lo allargano rispetto alle tipizzazioni di parte speciale. Le questioni del concorso di per- sone (non solo del concorso esterno) si collocano in questo campo, insieme (talora in intreccio) con problemi relativi ad altre c.d. “for- me di manifestazione” del reato (responsabilità di soggetti garanti;

tentativo punibile).

Stanno qui i punti più sensibili per la tenuta della legalità:

problemi relativi ai confini del dolo, della colpa, del concorso di persone in genere, del tentativo punibile, della responsabilità per

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omissione. Questioni di interpretazione concettuale, intrecciate con questioni di fatto e probatorie. La tenuta della legalità riguar- da non solo l’interpretazione del diritto, ma anche la prova del fat- to (la verifica materiale) e l’ermeneutica del fatto, cioè la ricogni- zione di significati socioculturali di fatti ben individuati nella loro materialità. Quest’ultimo campo di problemi è decisivo nelle aule giudiziarie, e chiama in causa saperi e culture non riducibili alla di- mensione giuridica.

Negli anni lontani in cui sono entrato in magistratura (fine anni Sessanta), si cominciava a ragionare sulle ideologie della ma- gistratura, sui valori socio-culturali espressi dalla giurisprudenza.

Una riflessione (in modo talora ingenuo) sul delicato crinale fra diritto positivo, morale, politica. Credo importante essere consa- pevoli di questo campo di problemi, e della sua irriducibile auto- nomia (la sua preesistenza) rispetto alle qualificazioni giuridiche.

Anche le questioni relative alle Corti sovranazionali hanno a che fare con questo sfondo.

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In uno degli interventi nella tavola rotonda bolognese è sta- to evocato Shylock, l’ambiguo personaggio shakespeariano che chiede il rispetto di una pattuizione immorale ed è a sua volta vit- tima di un giudizio tutt’altro che imparziale. Nell’aureo libretto di Jhering sulla lotta per il diritto è accostato a una figura assai più problematica, Michael Kohlhaas, che per avere giustizia sul danneggiamento di due cavalli diventa assassino e brigante. Spin- gendo all’estremo, con esempi paradossali, il tema della difesa del diritto, Jhering ne sottolinea l’importanza fondamentale: diritto – e dovere – di difesa anche di fronte alle autorità e alle prevari- cazioni delle autorità.

Ovviamente il fine non è una sufficiente giustificazione dei mezzi. La legalità penale ha a che fare con la tenuta di delicati equilibri: fra autorità e diritti, e fra più diritti, in situazioni di conflitto. Non è solo questione di politica criminale, come ci sia- mo abituati a dire. Sono in gioco le politiche della (eguale) liber- tà di tutti i consociati.

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