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Sulla “ragionevole brevità” degli atti processuali civili - Judicium

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BRUNO CAPPONI

Sulla “ragionevole brevità” degli atti processuali civili

SOMMARIO: 1.- Rilievi generali. 2.- Atti di parte. 3.- Provvedimenti del giudice. 4.- Rimedi possibili quanto agli atti di parte. 5.- I rischi. 6.- Qualche considerazione finale.

1.- Una recente iniziativa del primo presidente della Corte di cassazione ha posto l’accento sul problema dell’eccessiva lunghezza e dispersività degli atti processuali civili, e segnatamente di quelli che vengono indirizzati alla S.C. (1)

Un’iniziativa analoga era stata adottata dal presidente del Consiglio di Stato nel dicembre 2010 (2) dopo l’approvazione, col d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, del codice del processo amministrativo (c.p.a.) il cui art. 3, comma 2, prevede in generale che «Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica», norma replicata dall’art. 120, comma 10 (con riferimento al rito abbreviato comune ex art. 119), secondo cui «Tutti gli atti di parte e i provvedimenti del giudice devono essere sintetici e la sentenza è redatta, ordinariamente, nelle forme di cui all’art. 74», cioè in forma semplificata. (3)

Nel codice di procedura civile non esistono regole corrispondenti; ma va segnalato che l’articolato consegnato al ministro della giustizia nel dicembre 2013 dalla commissione ministeriale presieduta dal prof. Vaccarella, che lo stesso ministro aveva insediato nel giugno-luglio 2013 con l’incarico di

«elaborare proposte di interventi in materia di processo civile e mediazione», prevede l’inserimento

1 http://www.judicium.it/admin/saggi/517/Lettera%20Presidente%20Cassazione.pdf. Si tratta di una nota indirizzata al presidente del C.N.F. per sollecitare la stesura di atti caratterizzati da “chiarezza” e “sinteticità”, in modo da esaltare la

“forza d’impatto” dell’impugnazione; su di essa v. i brevi commenti di Miccolis, nota senza titolo in www.judicium.it dal 27 novembre 2013, e (tra il serio e il faceto) di Capponi, Brevità, concentrazione, non-ripetizione, ivi dal 2 dicembre 2013. Il presidente Santacroce sottolinea l’opportunità che gli atti rivolti alla Corte non superino, di norma, le venti pagine; che gli atti di una certa complessità siano accompagnati da un riassunto di due o tre pagine; che, comunque, quelli complessi siano articolati in un indice-sommario che ne faciliti la lettura; che le memorie ex art. 378 c.p.c. non siano meramente riproduttive degli atti introduttivi, come evidentemente spesso avviene.

2 Lo ricorda Finocchiaro, Il principio di sinteticità nel processo civile, in Riv. dir. proc., 2013, 853 ss., 861. Il presidente De Lise individua un limite di estensione di venti-venticinque pagine, con la raccomandazione per cui, ove l’atto risulti più esteso, dovrebbe essere accompagnato da un abstract al massimo di due pagine.

3 I richiami alla sinteticità degli atti sono, nel c.p.a., molto insistiti. Nell’udienza pubblica, qualora lo chiedano, «le parti possono discutere sinteticamente» (art. 73, comma 2); in sede cautelare, «nella camera di consiglio le parti possono costituirsi e i difensori sono sentiti ove ne facciano richiesta. La trattazione si svolge oralmente e in modo sintetico»

(art. 55, comma 7). Va poi ricordato l’art. 26, comma 1, sulle Spese di giudizio: «Quando emette una decisione, il giudice provvede anche sulle spese del giudizio, secondo gli articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del codice di procedura civile, tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all’articolo 3, comma 2». Cfr. Cirillo, Dovere di motivazione e sinteticità degli atti, in http://www.giustizia-amministrativa.it/documentazione/Art3cpa.htm;

De Nictolis, Processo amministrativo. Formulario commentato, Milano, 2011, 35, che pone la regola di sinteticità in relazione al principio di economia processuale; Chieppa, Il Codice del processo amministrativo, Milano, 2010, 53, che la pone in relazione al principio di ragionevole durata.

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nell’art. 121 c.p.c. di un comma 2 così concepito: «Il giudice e le parti redigono gli atti processuali in maniera sintetica». (4)

Ovviamente il problema della sinteticità, sebbene sia stato sollevato formalmente dai vertici delle giurisdizioni ordinaria ed amministrativa, riguarda in generale tutti gli atti processuali civili; e peraltro, come opportunamente ricorda lo stesso presidente Santacroce, non interessa soltanto le giurisdizioni interne. (5)

Altrettanto ovvio che né il c.p.a., né la proposta della Commissione Vaccarella prevedono sanzioni per il caso di violazione del canone della sinteticità degli atti (fatto salvo l’art. 26, comma 1, c.p.a.).

Si tratta infatti di prescrizioni – sono ancora parole della Commissione – destinate ad incidere sul

“costume”, a suggerire buone pratiche (6), ma che appaiono, allo stato, sfornite di qualsiasi efficacia costrittiva.

2.- Iniziamo col considerare gli atti di parte, che sono appunto finiti sotto la lente.

Il legislatore può essere indicato come il responsabile, forse involontario ma di certo pervicace, dell’attuale insofferenza, che non è soltanto del giudice, per un certo tipo di scrittura applicato ad un processo nel quale sembra definitivamente tramontato il mito storico della “oralità” (7). Basti infatti considerare che:

a) la legge n. 353/1990, intervenendo sugli artt. 163 e 167 c.p.c. ma soprattutto sulla fase preparatoria del giudizio di primo grado, ha affermato il requisito di completezza degli atti introduttivi (8) modificando il consolidato stylus curiae, alimentatosi con la c.d.

controriforma del 1950;

b) la legge n. 80/2005, all’esito di un travaglio durato per oltre due lustri, ha alfine modificato l’art. 183, comma 6, c.p.c. facendone un arcigno esemplare di trattazione scritta, che viene di fatto applicato senza distinzioni a tutte le cause; così come, del resto, alla trattazione

4 http://www.judicium.it/admin/saggi/526/lavori%20commissione%20Vaccarella.pdf. Purtroppo i lavori di questa Commissione non sono stati affatto considerati dal ministro che l’aveva nominata, il quale ha diramato il testo del

«collegato giustizia» alla legge di stabilità per il 2014 pochi giorni prima della formale consegna degli elaborati: sulla curiosa vicenda cfr. Capponi, A prima lettura sulla delega legislativa al governo «per l’efficienza della giustizia civile»

(collegato alla legge di stabilità 2014), in Riv. trim. dir. proc. civ., n. 1/2014.

5 V. ancora, anche per riferimenti, Finocchiaro, op. cit., part. 855.

6 Ma Costantino, in Foro it., 2014, I, 247, parla di «assenza di una cultura comune, formatasi già sui banchi di scuola».

7 È quanto si registra anche osservando i Protocolli redatti dagli Osservatori, nei quali, inizialmente, era costante il richiamo alla trattazione orale della causa. Peraltro, proprio l’esame dell’art. 183 c.p.c. nel testo proposto dalla Commissione Vaccarella (loc. cit.) testimonia un timido ritorno al canone della trattazione orale, magari solo quale reazione al cieco automatismo con cui, attualmente, viene chiesto e concesso il triplo termine del comma 6.

8 Vera “bandiera” della riforma del 1990: v., per tutti, Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, 108 ss.

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scritta era stata ispirata la modifica dell’art. 180, comma 2, c.p.c., introdotta nel 1995 a tutela del convenuto e poi abrogata;

c) la legge n. 69/2009, inserendo nel comma 1 dell’art. 115 c.p.c. la disciplina generale della

“non contestazione”, ha esposto le parti, e in prima battuta il convenuto, alle conseguenze della omessa specifica contestazione dei fatti, principali e secondari (9), in un contesto che non chiarisce se e fino a quando sia possibile la contestazione “tardiva”.

È sufficiente la considerazione di questi tre dati, che interessano un ventennio di riforme sul processo, per comprendere come un rito ispirato a preclusioni e che individua luoghi specifici per l’esercizio del contraddittorio in forma scritta non possa non produrre conseguenze sulla tecnica di redazione degli atti. Chiunque può rendersene conto esaminando un atto di citazione redatto prima della riforma del ’90, anche in controversia di rilievo: la laconicità dell’esposizione e la sinteticità delle conclusioni lasceranno interdetti, e spesso l’atto non presenterà neppure una distinzione tra

“fatto” e “diritto”. In una parola, l’atto introduttivo era saldamente ispirato al principio «meno si dice, meglio è», e serviva soprattutto a rendere la situazione sostanziale contestata.

Non è certamente un caso se, a lato delle vicende riformatrici che a ciclo continuo hanno interessato il processo civile dal 1990 ad oggi (e non possiamo certo ritenere la parabola conclusa), abbiano preso sempre più piede gli Osservatori con i loro Protocolli (10). Molti di questi pongono infatti

“regole” – la cui osservanza è sempre di tipo spontaneo e volontaristico – anche sulla tecnica di redazione degli atti, in modo da favorirne brevità e chiarezza (11). Già altrove abbiamo notato che

«la diffusione di Protocolli e Osservatori – vale a dire di occasioni di confronto tra pratici, volte alla migliore organizzazione del processo e alla conforme applicazione delle norme processuali; tale funzione è sovente svolta anche da mailing-list, che operano a livello nazionale quali sistemi di self- help per gli operatori – è sintomo di un altro fenomeno piuttosto preoccupante: le discipline processuali, di fattura sempre più improvvisata e precaria, sono sempre meno comprensibili e determinano fatalmente applicazioni differenziate nel territorio (e, spesso, all’interno dello stesso ufficio). E se da un lato il legislatore, dettando norme sempre più dettagliate, mostra scarsa fiducia nella possibilità che gli operatori hanno di ben applicare una disciplina “aperta”, dall’altro lato quegli stessi operatori – preso atto dell’incapacità del legislatore di far bene il suo mestiere – si

9 Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Le tutele: di merito, sommarie e esecutive, 2 ed., Torino, 2012, 221 ss.

10 Che attirano, dopo i plausi incondizionati, le prime voci critiche: v., ad es., Della Pietra, La second life dei protocolli sul processo civile, in Giusto processo civ., 2012, 895 ss.

11 Esemplare, in tal senso, quello approvato dall’Osservatorio per la giustizia civile di Torino, denominato «Protocollo per la redazione degli atti processuali civili». Si tratta di un documento significativo, anche per l’elementarità delle prescrizioni: si suggerisce infatti che l’atto sia distinto in parti, tra un “fatto” «privo di ogni contaminazione valutativa»

e un “diritto”; che il “fatto” sia distinto in capitoli separati; che il “diritto” sia diviso in paragrafi e sotto-paragrafi con anteposizione, nei casi più complessi, di un indice-sommario; che le citazioni di giurisprudenza siano eseguite in note a piè di pagina; che, ancora nei casi più complessi, l’atto presenti un breve abstract, da ripetere nelle memorie conclusionali. Il fatto stesso che siano dati suggerimenti di tal tipo – utilissimi – la dice molto lunga sul quanto sia slabbrata e confusionale la redazione di molti atti nel settore civile.

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organizzano per condividere letture ragionevoli e pratiche di discipline anodine, o sovente francamente incomprensibili» (12). Possiamo forse aggiungere ora che anche l’esperienza degli Osservatori e dei Protocolli ha finito per dare frutti limitati, specie in relazione al tema che stiamo esaminando che pure è di rilevanza centrale nella “buona pratica” del processo.

In questo contesto sia la Corte di cassazione (13), sia i giudici di merito (14) hanno iniziato a

“sanzionare”, pur in assenza di formali sanzioni, la gratuita prolissità e ripetitività degli atti di parte.

La prima, nel decidere un ricorso con motivazione semplificata (15), ha motivato che «l’utilizzo di tale modello … si giustifica in relazione al fatto che entrambe le impugnazioni, quella in via principale e quella in via incidentale, non richiedono l’esercizio della funzione nomofilattica: esse infatti, quando non deducono vizi di motivazione, sollevano questioni la cui soluzione comporta l’applicazione di principi già affermati in precedenza da questa Corte, e dai quali il Collegio non intende discostarsi. La motivazione semplificata non è preclusa dalla particolare ampiezza degli atti di parte (111 pagine è la lunghezza del ricorso principale, il controricorso e ricorso incidentale raggiungono le 64 cartelle, e la memoria illustrativa, meramente iterativa del ricorso principale, è di 36 pagine), perché detta ampiezza – che certamente, pur non ponendo un problema di formale violazione delle prescrizioni formali dettate dall’art. 366 c.p.c., non giova alla chiarezza di tali atti e concorre ad allontanare l’obiettivo di un processo celere, che esige da parte di tutti atti sintetici, redatti con stile asciutto e sobrio – non è affatto direttamente proporzionale alla complessità giuridica o all'importanza economica delle questioni veicolate, e si risolve soltanto in una inutile e disfunzionale sovrabbondanza, infarcita di continui e ripetuti assemblaggi e trascrizioni degli atti defensionali, delle sentenze dei gradi di merito, delle prove testimoniali, della consulenza tecnica e dei suoi allegati planimetrici». Ciò che la S.C. lascia chiaramente intendere è che, se una violazione formale è difficilmente ravvisabile in atti che risultano frutto di assemblaggi e taglia-incolla dei vari materiali processuali, nondimeno l’inutile ampiezza delle difese scritte finisce per portare attentato a fondamentali valori del processo, deducibili dalle norme costituzionali e in particolare dal più che abusato (16) principio di ragionevole durata.

Il Trib. Milano, dal canto suo, nel richiamare pedissequamente la “massima” della Cassazione, ha aggiunto il riferimento al recente codice del processo amministrativo e ad un generico «principio comune ad altre codificazione europee»; e non sembra un caso che lo stesso Trib. Milano, con lo

12 Capponi-Tiscini, Introduzione del diritto processuale civile, Torino, 2014, 130.

13 Sez. II civ., sent. 4 luglio 2012, n. 11199, in Foro it., 2014, I, 238.

14 Trib. Milano, sez. IX civ., ord. 1 ottobre 2013, in www.ilcaso.it e in Foro it., 2014, I, 243.

15 Prassi autorizzata dal provvedimento del primo presidente Lupo del 22 marzo 2011 che può leggersi, con la relazione illustrativa, in Foro it., 2011, V, 183. La motivazione semplificata si giustifica allorché il ricorso denunzi soltanto vizi di motivazione, o quando le questioni di diritto siano già state decise dalla Corte con precedenti da cui non sussistono ragioni per discostarsi.

16 Cfr. Verde, Il processo sotto l’incubo della ragionevole durata, in Il difficile rapporto tra giudice e legge, Napoli, 2012, 49 ss.

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stesso estensore, abbia dichiarato inammissibili le “note d’udienza scritte” da allegare al verbale di trattazione (orale), perché esse «costituiscono un’appendice scritta non autorizzata» (17).

Possiamo insomma affermare che serpeggia, tra gli operatori del processo, una crescente insofferenza per la scrittura e per gli eccessi che tale modello sembra destinato a produrre. E verosimilmente proprio con tale insofferenza si spiega la piccola fortuna che ha incontrato il rito della decisione a seguito di trattazione orale dinanzi alle corti d’appello dopo la legge n. 183/2011:

pur di non leggere l’ennesima conclusionale trita e ripetitiva, i giudici sono disposti a decidere immediatamente. A fare, cioè, ciò che meno amano e che forse non farebbero mai, se non in presenza d’una ragionevole contropartita.

Ma non può sottacersi che in Cassazione il problema è stato alimentato dalla giurisprudenza pretoria della autosufficienza, cui la stessa Corte sta ora cercando di porre rimedio in sede sia civile, sia penale (18).

Come vedremo, ad una simile insofferenza è estremamente difficile porre rimedio in un sistema che afferma, per gli atti di parte, la libertà di forme e che non si è munito di strumenti per imporre

“modelli” di redazione, magari differenziandoli a seconda del grado e del giudice da adire. Si aggiunga che, a parte cacofonie e slang involontariamente comici (19), i giuristi neanche parlano un vero linguaggio comune: e sembra al tramonto l’idea di una formazione comune anche di tipo specialistico dei professionisti forensi, essendo troppe e troppo diverse tra loro le sedi in cui si pratica, o si tenta di praticare, la formazione post lauream. Ciò che è prevalsa è una logica corporativa: ognuno forma il suo, per timore che l’altro possa formare tutti.

3.- Dal lato del giudice, le cose sembrano stare diversamente.

Anzitutto, i provvedimenti del giudice sono atti processuali tipici, e il problema dei modelli di motivazione – di questo ormai si può parlare – si pone esclusivamente per la sentenza. Questo rilievo è stato evidentemente tenuto presente dal recente legislatore, il quale, ad esempio, dopo l’introduzione del processo sommario di cognizione ad opera della legge n. 69/2009, che viene non a caso definito con ordinanza, ha individuato con la “semplificazione” un corpo di procedimenti dichiarativi che adottano quelle forme sommarie (20); per altro riflesso, ha stabilito che le decisioni sulla competenza vanno adottate con ordinanza e non più con sentenza, pur essendo rimasto del

17 Trib. Milano, sez. IX civ., ord. 14 marzo 2013, in www.ilcaso.it

18 http://www.cortedicassazione.it/Notizie/Eventi/SchedaEventiPrimaPag.asp?ID=194. Miccolis, op. loc cit. Adde Triola, La resistibile ascesa del c.d. principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, in Foro it., 2012, V, 265 ss.;

Santangeli, Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, in Riv. dir. proc., 2012, 607 ss.; Frasca, Ricorso, controricorso e ricorso incidentale, in La Cassazione civile. Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana, a cura di Acierno-Curzio-Giusti, Bari, 2011, 63 ss.; G.F. Ricci, Il giudizio civile di cassazione, Torino, 2013, 272 ss.

19 Cavallone, Un idioma coriaceo: l’italiano del processo civile, in Riv. dir. proc., 2011, 97 ss.; M. Fabiani, La lingua italiana nella redazione degli atti giudiziari, in Studi in onore di Modestino Acone, Napoli, 2010, 901 ss.

20 V., per tutti ed anche per citazioni, Farina, La semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, in Commentario alle riforme del processo civile. Dalla semplificazione dei riti al decreto sviluppo, a cura di R. Martino e A. Panzarola, Torino, 2013, 19 ss.

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tutto invariato il regime anche impugnatorio del provvedimento (21). Ne risulta chiaro che una prima possibilità di “semplificazione” del modello decisorio nasce appunto dalla sostituzione d’un atto tipico con l’altro, la sentenza con l’ordinanza; ciò avviene in un contesto, delineatosi progressivamente dal 1990 in poi, nel quale sono venuti meno – basti considerare il fenomeno delle ordinanze anticipatorie – i caratteri differenziali tra i due tipi, e ciò proprio sotto il caratterizzante profilo della decisione del merito o parte di esso, olim prerogativa esclusiva della sentenza. (22) Solo per i provvedimenti decisori, comunque denominati, è la garanzia dell’obbligo di motivazione, di cui all’art. 111, comma 6, Cost. (23); ma la presenza di tale garanzia – ovviamente ignota agli atti di parte, che pure debbono essere “motivati” – non ha impedito di procedere, ancora negli ultimi anni, ad un’attenta revisione del modello che si stima adeguato anche alla luce di altri canoni di rilievo costituzionale, dal buon andamento del servizio giustizia al giusto processo col suo termine ragionevole di durata. (24)

Il tema della semplificazione dei provvedimenti, e in particolare delle sentenze, ha infatti già conosciuto importanti riscontri in sede legislativa ed è stato oggetto di analisi dettagliate in sede culturale. (25)

Allo stato – ma si tratta della tappa intermedia d’un percorso ancora in atto (26) – la sentenza non presenta più lo “svolgimento del processo”, ma soltanto «la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione» (27) e l’art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c., anch’esso modificato dalla legge n. 69/2009, specifica che «la motivazione della sentenza di cui all’articolo 132, secondo comma, numero 4), del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi». Di qui il

21 Sassani-Tiscini, Commento all’art. 39 c.p.c., in Commentario alla riforma del c.p.c. (Legge 18 giugno 2009, n. 69), a cura di A. Saletti e B. Sassani, Torino, 2009, 15 ss.

22 Capponi-Tiscini, Introduzione, cit., 21 ss.

23 Cfr., ancora, Capponi-Tiscini, Introduzione, loc. ult. cit.

24 V. ad es. l’approccio di Porreca, La cosiddetta motivazione a richiesta nei giudizi civili, in Corr. giur., 2011, 705 ss.

25 V., anche per riferimenti, Acierno, La motivazione della sentenza tra esigenze di celerità e giusto processo, in Riv.

trim. dir. proc. civ., 2012, 437 ss.; Santangeli, La motivazione della sentenza civile su richiesta e i recenti tentativi di introduzione dell’istituto della «motivazione breve» in Italia, in www.judicium.it dal 18 settembre 2011.

26 E che potrebbe riservarci sorprese addirittura grottesche: l’8 marzo 2014 sono stati postati sulla mailing-list civilnet (civilnet@yahoogroups.com) una serie di allarmati messaggi che riferiscono di ipotesi allo studio del ministero della giustizia, secondo cui la motivazione dei dispositivi “corredati” (v. infra nel testo) potrebbe essere appaltata, all’esterno del tribunale, coinvolgendo avvocati selezionati dai consigli dell’ordine. L’auspicio è che l’idea non abbia alcun seguito, ma il solo fatto che sia stata concepita è indice preoccupante del carattere emergenziale dei possibili nuovi interventi in argomento.

27 In questi termini la legge n. 69/2009 ha redatto il n. 4) del comma 2 dell’art. 132 c.p.c., che originariamente recitava:

« 4) la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto della decisione ». Una lettura molto cauta, se non proprio apertamente riduttiva, di queste novità normative si riscontra in Rordorf, Nuove norme in tema di motivazione delle sentenze e di ricorso per cassazione, in Riv. dir. proc., 2010, 134 ss.

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pieno riconoscimento della legittimità della motivazione c.d. per relationem, peraltro già invalsa da tempo, ma che dovrebbe riferirsi alla sola parte in diritto della decisione. (28)

Le proposte del governo annesse alla legge di stabilità per il 2014 parlano poi, per la sentenza di primo grado, della possibilità d’una motivazione ridotta a dispositivo corredato da riferimenti essenziali per la riconoscibilità stessa della tutela accordata, con la possibilità per la parte soccombente di richiedere, a pagamento, la motivazione completa (uso impugnazione); per la sentenza di appello, della possibilità di richiamare in toto la motivazione del giudice di primo grado.

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Ci sembra quindi di poter affermare che, ora e in prospettiva, quello della motivazione della sentenza non è né sarà più un problema unitario. Le sentenze di merito, e particolarmente quelle di primo grado, potranno tradursi in uno scheletrico atto assertivo, che dobbiamo immaginare vocato soprattutto alla tutela condannatoria, e quelle d’appello, se confermative, in una secca replica della sentenza di primo grado. Le sentenze di legittimità, a loro volta, saranno distinte (30) a seconda che la Corte si ritenga chiamata ad esercitare funzioni nomofilattiche oppur no, e pertanto le motivazioni non semplificate saranno riservate a quelle sole sentenze suscettibili di porsi come

“precedente” (31), trascendendo il rilievo del caso deciso.

La modificazione della tecnica di redazione delle sentenze – di merito come di legittimità – ci consente un’osservazione ulteriore, circa l’identificazione dei possibili destinatari. Sia il giudice di merito – che sarà sempre libero di adottare, oppur no, lo schema semplificato – sia la Corte di cassazione potranno distinguere le decisioni tra quelle che saranno destinate al pubblico generale (così potendo dibattersi nelle consuete sedi culturali) e quelle che, per il concreto decisum e le conseguenti modalità di confezionamento, non potranno che riguardare le sole parti in causa per la fondamentale ragione che esse non innovano, per nessun aspetto, gli orientamenti consolidati. Ci sembra questo e soltanto questo il dato effettivamente rilevante, perché collegare in modo automatico decisione semplificata e n. 5) – come sembra fare il provvedimento Lupo – trascura

28 Sul punto, ampiamente, Acierno, La motivazione della sentenza, cit., part. 448 ss., la quale sottolinea che la motivazione per relationem potrà riguardare qualsiasi atto interno del giudizio (provvedimenti endoprocessuali, relazione di CTU, dichiarazioni testimoniali, etc.), oltre che sentenze, dello stesso Ufficio o di altri, purché esattamente identificati. I problemi emergono prepotenti allorché si tratti di individuare il contenuto condannatorio della sentenza ai fini della sua esecuzione forzata: v. Cass., SS.UU., 2 luglio 2012, n. 11067, in Corr. giur., 2012, 1166, con nostra nota Autonomia, astrattezza, certezza del titolo esecutivo: requisiti in via di dissolvenza?, e poi, con opportune precisazioni, Cass., sez. III, 17 gennaio 2013, n. 1027, in Riv. esec. forz., 2013, 141, con nota di Vaccarella, Eterointegrazione del titolo esecutivo e ragionevole durata del processo.

29 Rimandiamo alle considerazioni svolte in A prima lettura, cit.; e vedi anche Porreca, op. loc. cit.

30 Cfr. retro, la nota n. 15.

31 Mentre nel c.p.a. la forma semplificata è riservata alle decisioni di manifesta fondatezza o manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso (art. 74 c.p.a.). Si può dunque consentire con Rordorf, op.

cit., 136, che parla di «un clima … in cui l’importanza del precedente giudiziale va sempre più crescendo», soltanto con riferimento alle decisioni effettivamente destinate a creare “precedenti”. In argomento v. i giusti rilievi di Verde, Jus litigatoris e jus constitutionis, in Il difficile rapporto, cit., 11 ss.

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l’imponente realtà che proprio giudicando dei vizi di motivazione la Corte è stata in grado di affermare, in tanti settori, principi di interesse generale. (32)

Ovviamente ciò propone un ripensamento della garanzia ex comma 6 dell’art. 111 Cost., perché la motivazione della sentenza potrà valere, a discrezione delle corti, per le parti (e per il giudice dell’impugnazione) ovvero per la generalità degli osservatori. Le decisioni per le parti saranno contratte e risolveranno lo jus litigatoris; quelle per la generalità saranno argomentate ed edificheranno lo jus constitutionis.

Si giunge così ad una conclusione che potrebbe apparire paradossale: nonostante l’obbligo di motivazione attinga il livello della garanzia costituzionale, mentre una parallela garanzia non è neppure concepibile con riferimento agli atti di parte, la semplificazione per scomposizione del modello decisorio, tanto dinanzi al giudice di merito quanto dinanzi alla Corte di legittimità (che peraltro conosce anch’essa ordinanze decisorie e riti semplificati) (33), si trova ad aver già percorso un cammino molto importante; e dobbiamo attenderci ancora rilevanti novità nell’esercizio di poteri che, è inutile nasconderselo, risulteranno soprattutto rimessi alla discrezionalità del giudice.

Sarà il giudice a decidere se parlare soltanto alle parti o alla generalità dei professionisti del diritto, e calibrerà le sue decisioni in relazione a tale discrezionale scelta.

C’è però da aggiungere che, nonostante il percorso che abbiamo descritto, tuttora è dato imbattersi – parlo delle sentenze di legittimità – in decisioni particolarmente argomentate, con ampio corredo di note a piè di pagina (34), e addirittura in decisioni che, dopo aver dichiarato inammissibile il ricorso, lo esaminano lungamente nel merito, denunziando vizi di impostazione del gravame e affermando principi di diritto dei quali il giudizio di cassazione finisce per diventare soltanto la gradita occasione.

Nonostante le indicazioni del legislatore, è evidente che lo “stile” della sentenza non è soltanto il risultato di prescrizioni formali, più o meno rigorose.

4.- Ancorché della brevità degli atti processuali civili si parli indistintamente, come d’altra parte indistinte sono le norme vigenti (nel c.p.a.) o quelle oggetto di proposta (Commissione Vaccarella), i provvedimenti del giudice e gli atti di parte sono dati tra loro non confondibili; così come, dal lato del giudice, il modello “sentenza” non è confondibile con gli altri modelli tipici predisposti dal legislatore per l’esercizio della giurisdizione. Il percorso normativo della motivazione della sentenza civile – omettiamo deliberatamente ogni riferimento a riforme rapidamente abortite, quale

32 V., ampiamente ed anche per riferimenti, Panzarola, in Commentario, cit., 693 ss.; Sassani, Riflessioni sulla motivazione della sentenza e sulla sua (in)controllabilità in cassazione, in Corr. giur., 2013, 849 ss.

33 Cfr., per consistenti applicazioni, la monografia di Damiani, Il procedimento camerale in cassazione, Napoli, 2011.

34 Un recente esempio è dato dalla SS.UU., 7 gennaio 2014, n. 61, che peraltro ha risolto una questione di massima di particolare importanza (la sopravvivenza dell’esecuzione in caso di caducazione del titolo del creditore procedente, in caso di intervento di creditori titolati).

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il processo societario in cui il modello era ancor più semplificato (35) – dimostra che, nonostante gli stringenti condizionamenti della Costituzione (36), è più semplice affermare e diffondere modelli semplificati allorché si abbia a che fare con provvedimenti tipici.

Per gli atti di parte il discorso è molto diverso, perché le norme processuali non garantiscono alcun contributo nel senso della semplificazione. Al contrario.

Nel processo di primo grado, è vero che sono identificati con norme ad hoc i requisiti di contenuto- forma degli atti introduttivi, ma ciò non avviene certo con l’obbiettivo di contenerne l’estensione, di fatto rimessa al personale stile del redattore e a più o meno ragionevoli “strategie” (37); nella successiva fase di trattazione, che decisamente privilegia il modello scritto, lo scambio di tre memorie (art. 183, comma 6, c.p.c.) moltiplica di per sé i rischi della stratificazione. Ogni operatore ha modo di verificare che assai spesso il contenuto di questi scritti è frutto di travaso dal precedente al successivo quasi nel timore che il giudice, nel momento in cui finalmente esaminerà il fascicolo, sarà portato a leggere solo l’ultimo scritto, e non tutti gli atti in successione. Spesso, la comparsa conclusionale non è altro che l’assemblaggio degli scritti anteriori (anche se lo svolgimento del processo ne abbia in parte soppresso l’utilità), e la tendenza alla ripetizione del già scritto è tale che addirittura le conclusioni, sia pure precisate in udienza in foglio separato come suggerito da molti Protocolli (ancora scrittura!), vengono puntigliosamente ritrascritte.

Nelle fasi di gravame la situazione peggiora, ancora una volta per esclusiva responsabilità del legislatore. Nell’appello, dopo la riforma dell’art. 342 c.p.c. e la coeva introduzione del “filtro” da ragionevole probabilità di accoglimento, molti avvocati hanno adottato modelli che dissezionano la sentenza impugnata e lo stesso atto introduttivo del gravame, aggiungendo, spesso a mo’ di premessa, una specifica trattazione – a volte molto ampia – la cui sola finalità è quella di superare il vaglio di ammissibilità. Il timore, nell’attuale clima di chiaro sfavore per le impugnazioni (38), di non riuscire ad ottenere una pronuncia di merito ha portato i più a redigere atti estesi e ripetitivi, magari sul presupposto che le prescrizioni sanzionate da inammissibilità potranno risultare non solo dai riferimenti ad hoc, ma anche dal contesto generale dell’atto.

Lo stesso è a dirsi per la Cassazione; perché se è vero, come denunzia il presidente Santacroce, che spesso si assiste ad una “parcellizzazione” del “cuore” della censura «mediante una ripetizione di concetti che nuoce all’assetto complessivo del ragionamento», è anche vero che di simile risultato è stato quantomeno concausa il sistema dei “quesiti di diritto”, nato per tutt’altra finalità ed ora abbandonato (ma non per i ricorsi pendenti alla data di entrata in vigore della legge n. 69/2009), e

35 Cfr. l’art. 16, comma 5, d. lgs. 5/2003 (abrogato con legge n. 69/2009), secondo cui «La sentenza può essere sempre motivata in forma abbreviata, mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e la concisa esposizione delle ragioni di diritto, anche in riferimento a precedenti conformi».

36 Ricordiamo che secondo autorevole dottrina (Tarzia-Fontana, voce Decreto (dir. proc. civ.), in Enc. Giur. Treccani, X, Roma, 1988) l’art. 111 Cost., comma 1 (ora 6) avrebbe implicitamente abrogato il comma 4 dell’art. 135 c.p.c., circa la non necessità di motivazione del decreto.

37 Interessanti, al riguardo, le considerazioni di G. Conte, Il linguaggio della difesa civile, in Lingua e diritto. Scritto e parlato nelle professioni legali, a cura di A. Mariani Marini e F. Bambi, Pisa, 2013, 35 ss.

38 Si consenta il rinvio a Il diritto processuale civile “non sostenibile”, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2013, 855 ss.

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altra prevedibile concausa si rivelerà la recente riforma del n. 5) dell’art. 360 c.p.c. attuata dalla legge n. 134/2012 (39). La conversione del vecchio vizio di motivazione in altro, imbastito soprattutto attorno al n. 4), ci farà assistere a esposizioni sempre più acrobatiche, iterative,

“parcellizzate” appunto, e di certo non se ne avvantaggerà la brevità degli atti. (40)

D’altra parte, proprio in Cassazione si assiste spesso al fenomeno per cui l’impugnante, ripercorrendo meticolosamente i gradi del giudizio (per sottrarsi alla lama della autosufficienza), sembra dimenticare che oggetto delle sue doglianze dev’essere la sentenza di appello (o, comunque, la sentenza gravata), non anche quella di primo grado o addirittura l’intero processo. Credo che, molto spesso, lo sforzo maggiore cui sono chiamati i collegi è appunto quello di selezionare le critiche rivolte avverso la sentenza impugnata da quelle, magari più dettagliate, che addirittura prescindono dalle statuizioni della sentenza. (41)

Un dato va tuttavia sottolineato: mentre la tendenza legislativa nei confronti della sentenza è stata ed è nel senso della semplificazione, quella che interessa gli atti di parte va di certo nella direzione opposta. Per un complesso di ragioni che riguardano sia il giudizio di primo grado, sia i giudizi di impugnazione, la redazione degli atti riflette la costante preoccupazione dell’avvocato, divenuta dal 1990 in poi una vera e propria “sindrome”: quella di incorrere in preclusioni e decadenze, di non riuscire ad ottenere una decisione di merito, di compiere errori di omissione (mentre le sovrabbondanze non potranno, almeno allo stato, configurare errori).

È possibile immaginare qualche soluzione?

Un interessante spunto viene proprio dalle proposte (ignorate, per il momento) della Commissione Vaccarella, che significativamente inserisce nell’art. 121 c.p.c., dopo il comma 2 sulla regola di sinteticità degli atti (retro, § 1), un comma 3 del seguente tenore: «Il giudice può dare indicazioni relativamente ai punti di fatto e di diritto di cui ritiene opportuna la trattazione». In ciò, intendiamoci, non c’è proprio nulla di nuovo (cfr. l’attuale art. 183, comma 4, c.p.c., che recepisce a sua volta precedenti lezioni) (42), e tuttavia sembra da salutare positivamente la consecutio, che viene stabilita (43), tra l’affermazione della regola sulla trattazione scritta “sintetica” e l’indicazione,

39 V. ancora i fondati rilievi di Sassani, Riflessioni sulla motivazione della sentenza e sulla sua (in)controllabilità in cassazione, cit.

40 Cfr. di nuovo Panzarola, op. loc. cit.

41 Significativo il caso deciso dalla Cass., sez. III, ord. 8 novembre 2012, n. 19357, in Nuova giur. civ. comm., 2013, 381 ss., con nota di Russo, Sull’“esposizione sommaria dei fatti della causa” nel ricorso per cassazione, in cui è stata enunciata la seguente massima: «In tema di ricorso per cassazione, ai fini del requisito di cui all’art. 366, n. 3, c.p.c., la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali è per un verso del tutto superflua, non essendo richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata, mentre per altro verso è inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso».

42 Cfr., per tutti, Tarzia, Le istruzioni del giudice alle parti nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1981, 637 ss.

43 Sul punto la relazione illustrativa è sintetica ma significativa, limitandosi essa a segnalare che «i due commi introdotti nell’art. 121 mirano a dare indicazioni, sia al giudice che alle parti, volte a favorire un costume attento non solo alla sobrietà dei rispettivi atti, ma anche alla collaborazione nella individuazione delle questioni meritevoli di trattazione scritta».

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da parte del giudice, delle questioni da trattare. Se, quantomeno per gli scritti in corso di giudizio, si riuscisse ad imporre una buona pratica secondo cui sarà il giudice ad indicare alle parti le questioni meritevoli di trattazione scritta, una piccola parte del problema già sarebbe avviata a soluzione. Non vedo controindicazioni alla possibilità che il giudice, nell’autorizzare lo scambio delle memorie ex art. 183, comma 6, c.p.c., prescriva anche un limite di estensione perché tale potere può ritenersi derivato da quello generale di direzione del processo. Allo stesso modo il giudice, all’udienza di conclusioni, potrebbe invitare le parti a rinunciare ai termini per lo scambio di conclusionali e repliche, dichiarando sufficienti ai fini del decidere le difese scritte sino a quel momento scambiate.

Il giudice, cioè, potrebbe rendersi interprete e assertore di regole non scritte, la cui osservanza faciliterebbe il rispetto delle vere e proprie norme processuali.

Il problema è nello stabilire se le regole di comportamento suggerite dal giudice – e non potrà essere che il giudice a sollecitare, caso per caso, le parti alla sinteticità – possano ricevere lo stesso trattamento delle norme processuali; se, cioè, l’omesso rispetto del canone di brevità possa essere assimilato, ad es., al difetto dell’editio actionis, al mancato rispetto di un termine decadenziale o al compimento dell’atto processuale in violazione d’una prescrizione di nullità. Ma se, come crediamo, norme processuali e regole di comportamento debbono ricevere trattamenti diversi, è giocoforza pensare che qualora le parti non raccolgano l’invito alla sinteticità ben difficilmente il giudice potrà imporre loro il rispetto di un “modello” che non trova precisi riscontri in alcuna norma processuale. E men che mai comminare sanzioni, pensate per vizi diversi e tipici.

La prevenzione, con gli strumenti attualmente disponibili, non può andare molto oltre gli strumenti di persuasione. Va da sé che essa potrà essere amministrata soltanto da chi – il giudice – ha per compito quello di dirigere il procedimento; che però al tempo stesso, per essere “giusto”, dev’essere anche “regolato dalla legge”, e non lasciato alle iniziative creative di chi pure ha la responsabilità di dirigerlo. (44)

Il canone di sinteticità, per come esposto nell’art. 3 c.p.a. o nelle proposte della Commissione Vaccarella, non è una vera “regola di legge”; è un principio tendenziale che deve poter ispirare comportamenti, condotte “virtuose” che appartengono al “buon vivere” nel processo; non anche doveri presidiati da autonome sanzioni.

Non è infatti facile dettare una regola generale, in un contesto che per sua natura non potrà che seguire la logica del “caso per caso”; siamo in un passaggio delicatissimo in cui vari potranno risultare i principi costituzionali in potenziale conflitto, come dimostra la stessa recente giurisprudenza della S.C. sulla ragionevole durata che – ricordiamo per la sua emblematicità la decisione sul mancato differimento della prima udienza per la chiamata del terzo invocata dal convenuto (45) – ha prodotto clamorosi conflitti con norme chiare del c.p.c. e, in generale, col rispetto dei diritti di difesa.

E la regola di sinteticità non può entrare in conflitto con gli artt. 24, comma 2 e 111 Cost.

44 Cfr., ancora, Capponi-Tiscini, Introduzione, cit., 25 ss.

45 Cass., SS.UU., 23 febbraio 2010, n. 4309, in Foro it., 2010, I, 1775, con nota di Caponi, Dalfino, Proto Pisani, significativamente intitolata In difesa delle norme processuali.

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5.- Dopo, residuano le misure repressive. Che tuttavia debbono trovare fondamento in regole chiare, che specifichino nei dettagli quei generali doveri di lealtà e probità che, solennemente affermati nel c.p.c. così come in norme deontologiche, hanno sempre conosciuto l’infausto destino del telum imbelle. In questa prospettiva il problema si articola; e mentre riesce più difficile immaginare una

“sanzione” per chi, avendo ragione, argomenta la sua posizione con costruzioni eccessive, ripetitive, divagatorie, gravatorie anche alla luce degli orientamenti consolidati che si tratta di riaffermare senza significative aggiunte; una reazione sarebbe opportuna allorché il difetto di sinteticità sia la riconoscibile espressione del tentativo di confondere, di spostare l’attenzione dal fatto decisivo, di proporre interpretazioni strumentali e inesigibili. Occorrerebbe insomma distinguere i casi nei quali l’eccesso di scrittura è sintomo dell’imperizia di chi scrive dai casi, altrettanto frequenti, in cui l’obbiettivo manifesto è appunto solo quello di indurre confusione, di nascondere l’informazione decisiva tra mille altre che non hanno rilevanza ai fini del decidere. In questa prospettiva, prende corpo l’idea degli atti del processo come possibile manifestazione di “abuso”. (46)

Allo stato, la leva da utilizzare resta quella del regolamento delle spese (47) e della responsabilità processuale aggravata che, specie con riferimento al comma 3 dell’art. 96 c.p.c. introdotto dalla legge n. 69/2009, potrebbe autorizzare “sanzioni” adeguate ove i giudici siano disposti a superare le tradizionali timidezze e incertezze nell’applicazione dell’istituto. (48)

È evidente, però, la sovrapposizione dei temi. Vi sono casi nei quali l’abuso della difesa non coincide con l’abuso del canone di brevità, che magari può integrarne solo un aspetto; e potrebbe apparire ingiusto sanzionare soltanto la seconda violazione, o sanzionarla esclusivamente in caso di esito negativo della lite. D’altra parte, gli abusi della difesa potrebbero essere sanzionati prescindendo dalla violazione del canone di brevità: che dunque, in sé considerato, testimonia della difficoltà di identificare una regola la cui concreta applicazione elimini i rischi immanenti della discrezionalità, dei conflitti tra norme che attingono tutte il livello costituzionale, del rapporto tra giudice e difensore che dovrebbe essere ispirato a “collaborazione”. (49)

46 Si tratta di un’idea che si va diffondendo, ma non senza posizioni decisamente critiche: v. infatti Scarselli, Sul c.d.

abuso del processo, in Riv. dir. proc., 2012, 1450 ss. (il quale però non considera il tema che si sta trattando), ma v.

anche Taruffo, L’abuso del processo: profili generali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 117 ss., entrambi anche per riferimenti.

47 Si tratta di una scelta che, come abbiamo già rilevato, è stata espressamente operata nel c.p.a. (art. 26, comma 1).

48 Anche questa idea si va diffondendo: v. Trib. Reggio Emilia, 25 settembre 2012, in Corr. giur., 2013, 992 ss., con nota di Lupano, Il terzo comma dell’art. 96 c.p.c. a tre anni dall’introduzione: orientamenti giurisprudenziali ed incertezze sistematiche; Trib. Milano, 12 gennaio 2012, in Giur. it., 2013, 1885, con nota di Brenda, L’art. 96, comma 3, c.p.c. ed i punitive damages. Considerazioni in margine ad un caso giudiziario. V. anche Cass., sez. VI, ord. 30 novembre 2012, n. 21570, in Danno e responsabilità, 2013, 299 ss., con nota di Vanacore, Mala fede processuale rilevante ai fini della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c.

49 Anche per tali ragioni giudichiamo culturalmente sbagliata la proposta contenuta nel Collegato Giustizia 2014, laddove si prevede, con impressionante genericità, che l’avvocato possa essere condannato in solido col cliente per responsabilità processuale aggravata: si consenta il rinvio a A prima lettura, cit., nonché a Merone, Responsabilità aggravata e solidale del difensore: una nuova idea di difesa tecnica?, in www.judicium.it dal 22.1.2014.

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Più si approfondisce il tema, più riesce evidente la difficoltà stessa di ravvisare un vizio del processo nella violazione (soltanto) del canone di brevità; al più, si potrà affermare che quella violazione è sintomatica della presenza di altri vizi, che forse potrebbero essere autonomamente sanzionati perché da essi deriva l’abuso del processo (per chi ritenga predicabile la figura quanto alle manifestazioni della difesa).

Ove si accantoni, giudicandola un’extrema ratio, l’idea della “sanzione” emerge una possibilità assai pericolosa, ma che potrebbe in prima battuta apparire più neutra: combinando l’art. 121 e l’art.

156, comma 2, c.p.c., il giudice potrebbe dichiarare la nullità di un atto processuale per inidoneità allo scopo quando, per le modalità di redazione e per la violazione del canone di brevità, esso non consenta, o consenta violando i canoni del “giusto processo”, il compimento dell’atto conseguente (50).

Si tratta di una prospettiva “autoritaristica” – lo diciamo senza ambiguità – che non ci sembra foriera di utili risultati. E ciò non soltanto perché riesce difficile immaginare che un atto, per quanto prolisso o perplesso, possa non raggiungere il proprio scopo istituzionale (mentre per i vizi tipici già esistono precise sanzioni di nullità), quanto perché la possibilità stessa di eccepire o rilevare una nullità così (de)strutturata finirebbe per rendere più difficoltosa, piuttosto che semplificare, la gestione del processo. Basti pensare a ciò che sono diventate le impugnazioni dopo le recenti riforme che senza controllo hanno introdotto nuove fattispecie di inammissibilità: non c’è difesa, ormai, che non debba occuparsi di questioni preliminari quasi sempre stucchevoli, che danno la stura a contenziosi nel contenzioso, a processi sul processo, a odiose perdite di tempo tanto nella stesura quanto nella lettura degli atti.

Un sistema processuale moderno dovrebbe ispirarsi a regole di fair play, piuttosto che puntare su istituti o applicazioni di norme – magari deformate da forzate letture di principi costituzionali, scelti à la carte senza valutare i contrappesi – che finirebbero per esaltare la conflittualità sul processo stesso, a creare nuove liti nella lite: a detrimento, in primo luogo, della posizione delle parti.

Parafrasando la famosa battuta di Virgilio Andrioli: il processo serve a stabilire chi ha torto e chi ha ragione, non a celebrare stucchevoli rituali sulla validità degli atti, specie allorché non sia chiaro il modello legale di riferimento.

6.- Come si vede, il tema cui abbiamo dedicato le nostre brevi riflessioni presenta difficoltà impreviste. Non è facile, sulla base delle norme vigenti, dare precise indicazioni sulle conseguenze del mancato rispetto del canone di brevità, perché la cura rischia di essere, e di gran lunga, peggiore del male. E non è neppure facile immaginare soluzioni de jure condendo, posto che le suggestioni che vengono dal c.p.a. col suo art. 26, comma 1, lasciano ampi margini di perplessità. La violazione del canone di sinteticità può interessare infatti entrambe le parti, ma nella norma sulle spese processuali quella violazione finirà per aggravare la sola posizione del soccombente: siamo dinanzi a una versione giudiziale dell’antico “guai ai vinti”, mentre per l’altra parte continuerà ad applicarsi l’altrettanto vecchia regola del generale vittorioso, che non deve rendere il conto delle pallottole sparate.

50 È, più o meno, l’idea recepita dalla Cass. n. 19357/2012, cit., sebbene nel caso la sanzione specifica fosse l’inammissibilità per mancato rispetto del requisito di cui all’art. 366, n. 3, c.p.c.

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È inoltre evidente che la violazione del canone di brevità è assai difficile da definire sia in termini generali (si considerino le formule, che infatti costituiscono mere esortazioni, recepite nelle note del presidente Santacroce e del presidente De Lise) (51), sia nell’applicazione caso per caso, posto che l’estensione delle difese deve adattarsi alla complessità della causa, tenuto conto del suo intero svolgimento e non soltanto della decisione finale.

Ci sembra anche evidente che la violazione di quel canone spesso non rileva di per sé, ma come sintomo o conseguenza di altre violazioni, di regole processuali e soprattutto deontologiche. (52) La verità è che occorre sforzarsi di alimentare una cultura in cui regole non scritte, o esortazioni non sanzionate (perché ben difficilmente sanzionabili), dovranno fondarsi soprattutto sul consenso, sulla dignità della professione, sull’utilità concreta del proprio contributo nel processo. Che è quanto dire sul contrario del principio di autorità, specie nel rapporto tra giudice e avvocato, perché quel principio, specie in quel rapporto, è foriero di inutile conflittualità, che è quanto dire di nuove complicazioni che finiranno per gravare sui tempi di definizione del processo.

Anche gli strumenti informatici – siamo a pochi mesi dall’entrata in funzione del PCT – dovranno essere utilizzati non per improbabili assemblaggi, ma per semplificare il lavoro proprio e quello degli altri. È triste constatare come, troppo spesso, l’informatica sia stata utilizzata per redigere atti più lunghi e complessi ma meno ragionati, e, quanto ai giudici, per guadagnarsi sanzioni disciplinari per l’abuso del taglia-incolla. Ma queste degenerazioni, al tempo stesso, nulla attestano contro l’utilità dello strumento.

Siamo, come si vede bene, sempre più all’interno di un dominio vasto e importante che merita senz’altro di essere analizzato, ma che travalica i confini delle norme processuali civili perché non si parla qui dello strumento, quanto dei soggetti che quello strumento sono chiamati a utilizzare. Un dominio che, non a caso, ha sinora ispirato, più che trattazioni manualistiche, gustose pagine di letteratura sui limiti umani e sui vizi culturali della gens de justice. (53)

51 Retro, note n. 1 e 2. Entrambi individuano un limite di ragionevolezza nelle venti-venticinque pagine; in un contesto nel quale, dopo l’avvento del contributo unificato, non tutti continuano a utilizzare il formato bollo!

52 Lo sottolinea Finocchiaro, op. cit., part. 868-869.

53 Viene in mente il Pitigrilli de L’esperimento di Pott, e l’irriverente storia dell’avvocato “parolaio di Marsiglia” che, per un eccesso di inutili chiacchiere nella discussione orale, riesce ad ottenere la condanna della sua cliente, che pure la Corte l’appello avrebbe voluto assolvere: cfr. il nostro La giustizia di Pitigrilli, in Riv. dir. proc., 2012, 975 ss.

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